Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
martedì, 30 gennaio 2007
Le arti visive sono fritte
Alla Galleria Aus 18 Mirko Credito, artista nato a Genova, espone una serie di lavori in cui oggetti comuni sono trattati secondo una singolare tecnica: impanati e fritti. Come, ad esempio, la pistola che vedete nella fotina. La curatrice della mostra è Cecilia Antolini una giovane critica d’arte il cui lavoro va connotandosi per una ricerca sugli effetti della dislocazione e la dislocazione degli effetti; per saperne di più sulla sua bio e il suo lavoro, cliccate QUI. Gli oggetti di Mirko Credito Si stagliano su fondi neri, come antiche icone di invisibili misteri, ritagliati quasi astratti, ben mascherati dietro il finto oro che la frittura sembra dare. A proposito di questa mostra, Cecilia Antolini così scrive: Ci sono un rumore e un odore dietro il lavoro di Mirko Credito. Ed è lì, tra lo sfrigolante e l’acre, che prendono vita i rimandi di sensi che rimbalzeranno su ogni sua opera. Quando Mirko, come un alchimista, butta in padella i suoi prodotti scatta il primo cortocircuito. Ludico, ironico, semplice nella sua potenziale quotidianità, eppure inflessibile. Ogni cosa, scelta per la sua assoluta semplicità, è immolata al più pop dei fuochi sacrificali. Resta una forma da intuire, una crosta, letteralmente, che confonde piani senza disperdere però del tutto la possibilità del riconoscimento. Il secondo cortocircuito si innesca quando scorre la luce dello scanner. Di quegli oggetti, cui è concessa nuova vita o forse solo decorosa morte, solo un’impronta può restare. E la fotografia non fa al caso. È la superficie, pura e semplice, a dover essere fermata. Della frittura, unta, friabile, velocemente portata a perdere sapore, resta il riflesso dell’oro. Quell’oro su fondo nero, flat come solo lo scanner permette, che ricorda ingenuamente icone sacre. Icone fritte, infine, risultato degenerato se fuori controllo in quei vortici di aria fritta che sono perdita di senso. Eppure icone, che continuano a rimandare a processi di digestione mentale, salvifici se ben nutriti.
Galleria Aus18 Via Ausonio 18, Milano 02 – 83 75 436 e 339 – 47 39 699 info@aus18.it press@aus18.it fino al 23 Febbraio 2007 lunedì - venerdì 10.00 - 13.00 / 15.00 - 19.00
lunedì, 29 gennaio 2007
Collateral
“Il più bel film che mai sarà fatto, è stato già fatto!”, lo dice Ryan O’ Neal a Burt Reynolds in “Vecchia America” (1976), ma potrebbero dirlo anche gli artisti che partecipano a Collateral: Quando l’arte guarda il cinema, attenti come sono a decostruire il tradizionale racconto filmico per ridisporre i materiali audiovisivi su di un altro, nuovo, orizzonte espressivo. Dalla volontà d’esplorare l’intersezione dei linguaggi fra arti visive e cinema, nasce questo interessante festival che vede la parte la partecipazione di molti artisti (per i loro nomi, cliccate QUI) provenienti da vari paesi, mentre la presenza italiana è rappresentata da Carola Spadoni. Il merito di questa rassegna va all’Hangar Bicocca uno spazio milanese che partendo dai territori delle arti visive propone ricognizioni dei nuovi statuti linguistici in aree pluridisciplinari Adelina von Fürstenberg così scrive nel catalogo:
La collocazione degli artisti presenti nella mostra all’Hangar Bicocca è di difficile definizione perché si pongono in una zona di confine tra due sistemi, partecipando, per le modalità di esposizione, a quello delle arti figurative e, per il linguaggio impiegato, a quello dell’arte cinematografica. Bisogna tuttavia dire che questo carattere di indecisione fa parte della loro essenza postmoderna che li porta a citare interpretando, più che a creare ex novo. Ed è ben indicato nel titolo della mostra, ‘Collateral’, che indica insieme la non collocazione precisa dei lavori presentati, sempre a lato tra cinema e arte e, nello stesso tempo, è la citazione di un film di Michael Mann (2004), esempio di grande cinema. […] Il cinema si presta per sua natura a essere frantumato. Un film consiste nel montaggio delle singole immagini che, accostate in sequenze, danno un senso al racconto. Procedendo al contrario, le sequenze possono essere smontate e riassemblate in un altro contesto. Effetto della decontestualizzazione è l’isolamento di un frammento e la sua sottrazione da una storia o dalle storie cui appartiene, ossia dai condizionamenti e dai significati che lo legano a una situazione. Si dà allora un effetto di estraniazione che sussiste anche quando esso è giustapposto ad altri frammenti nel collage, perché ha acquistato una sua autonomia che deriva dalla sospensione in uno spazio vuoto. Due delle opere esposte mi sembrano illustrare, per la loro relazione con la solitudine, questa sorta di grado zero della scrittura cinematografica. La prima, “Silberhöhe” di Clemens von Wedemeyer, è composta da una serie d’inquadrature notturne di un quartiere della Germania dell’Est (Halle – Silberhöhe) che sarà abbattuto. È un chiaro omaggio a Michelangiolo Antonioni, pioniere della destrutturazione del linguaggio filmico prima di Warhol. Il secondo è “Invisible Film” di Melik Ohanian, in cui ‘Punishment Park’ di Peter Watkins, censurato per 25 anni negli Stati Uniti, viene proiettato nel deserto El Mirage della California – luogo dove fu girato nel 1971 – senza alcuno schermo a trattenere l’immagine, e nell’istallazione si sente solo il sonoro, vox clamans in deserto. Vi è chiaramente un’intenzione politica, ma è in secondo piano rispetto alla metafora della visione che si perde nel nulla, e che sta a significare l’indifferenza per la denuncia contenuta nel film. L’inquadratura del proiettore che invia le proprie immagini a disperdersi nel vuoto diventa allora anche il segno di una fine e di un nuovo inizio. Ed ecco perchè è stata scelta per fare da copertina a ‘Collateral’.
Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’ufficio stampa è guidato da Lucia Crespi: 02 – 739 50 962; arte@mavico.it “Collateral” Hangar Bicocca Via Chiese (traversa viale Sarca) Info: 02 – 85 35 31 764 dal 2 febbraio al 15 marzo 2007
Voci per Toti
Un mese fa ci ha lasciato Gianni Toti. E’ stato tra i primi videopoeti in Italia; poeta (o meglio “poetronico”, come preferiva definirsi da quando scelse il video come mezzo d'espressione), e anche saggista, traduttore, scopritore di testi e d'autori underground scovati ai quattro angoli del pianeta Terra. Dalla sua complessa biografia si ricava l'immagine di un intellettuale che spendeva con generosa dissipazione riflessioni teoriche, creatività, attività editoriale ed impegno politico; militante Gianni Toti lo è stato, infatti, fin da quando, giovanissimo, s'arruolò nella Resistenza. Dai primi anni '80, affascinato dalle prospettive dell'elettronica applicata all'arte, ha realizzato opere che, agendo sull'intercodice fra musica parole ed immagini, si sono imposte all'attenzione internazionale. Questo personaggio sognante e icastico, lo conobbi venticinque fa in occasione della lavorazione di una sua performance radiofonica intitolata "La danzerina di Majakovskij" realizzata con uno dei primi audiocomputer allora in circolazione alla Rai. Il profilo umano e poetico di Gianni Toti è ricordato assai bene da Mario Lunetta in un suo intervento che potete leggere su Le reti di Dedalus. Altre ragionate e pregevoli parole le hanno dette Sandra Lischi e Caterina Davinio alla radio di Exibart. Per ascoltarle, cliccate QUI.
venerdì, 26 gennaio 2007
Officine Abso
La creatura che nasce domani non è quella della foto, ma un florido centro pluridisciplinare: Officine Abso. Pesa parecchio, oltre 150 metri quadrati, con laboratorio, sala esposizione e lounge bar. La sede è a Napoli. Il nome, Abso, lo si deve alle iniziali dei cognomi dei due giovani artisti fondatori Marco Abbamondi e Attilio Sommella. Hanno già esposto in varie località italiane (la più recente, Palazzo Coveri a Firenze), ottenuto premi e riconoscimenti critici. In occasione dell’apertura – l’avvenimento è stato chiamato Incontro Zero – ci sarà l’esposizione dei più recenti lavori del tandem Abso, quadri, sculture, installazioni video. Il progetto è tanto impegnativo quanto precisato nelle sue linee d’impianto. Ecco come lo presentano.
Abbiamo ideato un’officina multimediale che, operando prevalentemente sulle arti visive, progetta e realizza, produce ed espone opere – sia di noi due, sia di altri artisti ospitati – improntate al lavoro sull’interlinguaggio, l’ibridazione dei generi, il multicodice. Lavoriamo sulle pratiche dei nuovi statuti linguistici e le loro direttrici di intervento estetico, mediale, politico: il fumetto, la fanzine, la fotografia, il rock, la videoarte, la performance, il clip musicale, la nuova scena teatrale, la game art e la net art. E questo perché osserviamo che su ognuno di quei cursori scorra, ancor più di quanto sia avvenuto in altre epoche, non soltanto una cifra estetica ma anche complessità sociale nella quale agiscono, combinandosi, nuovi fattori: pluralismo etnico, velocità delle comunicazioni, molteplicità degli stimoli percettivi, un benvenuto ritorno (ci mancava dal Rinascimento) dell’unione fra umanesimo e scienza. Il procedere nell’arte è oggi, quindi, sempre più fondato sullo scambio dei codici, sulla sinestesia, sulle derive magnetiche della sensorialità. In un tempo forse meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli. Ecco, noi vogliamo lavorare, e con quanti vorranno, proprio su questi stimoli. E speriamo che lungo la via che percorreremo intervengano anche deviazioni, scarti, spiazzamenti – nostri, o di altri da noi condivisi – perché come dice Frank Herbert in Dune: “Qualsiasi strada se seguìta fino alla fine non conduce da nessuna parte”. Mi pare importante che questo progetto tanto stimolante nasca a Napoli, città la cui realtà sociale necessita d’interventi culturali che le diano respiro disintossicandola dai veleni che l’affliggono; voglio augurarmi che gli amministratori locali sappiano cogliere e incoraggiare questi impulsi che partono di frequente da artisti e intellettuali napoletani che non sempre trovano l’ascolto che meritano. Per una visita virtuale alle Officine, cliccate sul sito web www.abso.it Officine Abso Salita Betlemme, 18 Napoli Inaugurazione: sabato 27, ore 19:00
giovedì, 25 gennaio 2007
Stevenson rivisitato
Quando lo scrittore inglese Robert Louis Stevenson (1850–1894), scrisse nel 1886 “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde” non poteva certo immaginare che un giorno la sua opera sarebbe stata assunta come metafora dell’arte moderna. E’ avvenuto. A farlo è stato il saggista Alessandro Masi in un libro intitolato Jekyll, Hyde e lo strano caso dell’arte contemporanea che sarà presentato a Roma, martedì 30 gennaio, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Il volume è stampato dalla casa editrice Luca Sossella che da tempo ci vizia con raffinate pubblicazioni. Così Alessandro Masi presenta il suo lavoro ai lettori.
Cercherò di far indossare i panni del dottor Jekyll e del signor Hyde anche a chi legge, chiedendo indirettamente al lettore quante volte abbia avvertito, come l’artista, la necessità di rivivere improvvisamente con altro volto e in altro luogo per dar sfogo a quell’ansia di rivolta che segretamente cova nei confronti del mondo. Farò ricorso a uno dei miti più antichi, quello di Perseo e Medusa, che più di ogni altro si adatta a chiarire il concetto di questo principio di dualità. Perseo, con passo alato e grazie al suo scudo usato come specchio riflesso negli occhi della Medusa, riuscì a sconfiggere il mostro e riportarne via la testa mozza quale macabro trofeo. Perseo come Hyde, stanco e combattuto dalla crudele realtà – Medusa nel mito come Jekyll nel romanzo – sfida e vince il duello con essa grazie a un inganno: lo scudo che rispecchia gli occhi della Gorgone pietrificandola e la pozione chimica che trasforma la noiosa vita del dottore. Alessandro Masi “Jekyll, Hyde e lo strano caso dell’arte contemporanea” Pagine 85, Euro 12:00 Luca Sossella Editore
La profondità della superficie
E’ in corso alla Colossi Arte una mostra dedicata a Paolo Scheggi, artista scomparso poco più che trentenne nel 1971. Nato nel 1940 a Settignano, attorno al 1960 i precoci interessi di Scheggi sul linguaggio plastico si traducono nelle prime sperimentazioni progettuali, confluite l'anno successivo nella sua prima mostra personale, realizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze, dal titolo “Itinerario plastico prestabilto”. Da allora, Scheggi entra a far parte dell'avanguardia artistica lombarda, stringendo un fertile sodalizio con il gruppo degli “Artisti Oggettuali” di Milano, come Gillo Dorfles definiva nel 1964 quell’indirizzo della pittura astratta degli anni Sessanta cui avrebbero fatto parte, insieme a Scheggi, Castellani, Bonalumi, Manzoni, Fontana, accomunati nel costruire quadri-oggetto, dove tela, telaio e sagomatura costituiscono un tutto unitario, quasi sempre monocromo, e del tutto privo di riferimenti figurativi. Le sue opere vengono via via esposte all'Expo 67 di Montreal, alla Biennale di Parigi, al Museum of Modern Art di Copenaghen. Gli anni a seguire, fino al 1971, lo vedono impegnato in esposizioni sempre più provocatorie, dove alla presentazione delle opere viene ad associarsi la ricerca in ambito performativo. Nel ‘70 Scheggi riceve la cattedra in Psicologia della Forma all'Accademia di Belle Arti dell'Aquila, mentre nel ‘71, poco prima della morte, espone alla Galleria del Naviglio di Milano “Seiprofetiperseigeometrie”. Queste ultime opere, saranno esposte, l'anno successivo, alla XXXVI Biennale di Venezia. Scrive Ilaria Bignotti nel saggio in catalogo:
Se, per destino, egli fu uno dei figli lontani del Rinascimento, per volontà e comune sentire ebbe come padre lo Spazialismo: quel movimento sorto alla fine degli anni Quaranta, la cui prima urgenza, al di là dei differenti approdi cui giunsero i suoi esponenti, fu quella di mutare il rapporto tra l’uomo e lo spazio fisico che lo circonda […] Al bivio fra questi due poli, certo uno più ideale, quasi geneticamente connaturato, l’altro più reale, vissuto sul campo, si giocò il periodo della formazione, quello fiorentino, di Paolo Scheggi. Geometria, aritmetica, musica: scienze esatte chiamate a partecipare all'imprevedibile gesto della creazione artistica. Spazio, tempo: concetti universali coinvolti nell'istante dell'opera. Luce e colore, misura e visione: ogni aspetto doveva confluire nell'elaborazione di una nuova regola aurea, alla ricerca di una divina proporzione del XX secolo. Posto il problema, si trattava di trovarne la soluzione. Allora il giovane artista, dal seminterrato della casa paterna di Settignano, lavorava alle sue prime opere, quelle carte che, presentate nel 1961 alla sua prima mostra personale presso la Galleria della Vigna Nuova di Firenze, sono oggi eccezionalmente presenti in questa esposizione. È qui che si consuma l’analisi del primo Scheggi sui modi e sui materiali della pittura, sul rapporto fra il segno e il gesto, sul problema della misura e del calcolo rispetto alla libertà della visione. Emergono anche alcuni colori che accompagneranno poi l'intero suo percorso creativo: il bianco, il nero, l'azzurro e il blu, il rosso, qui ridotti a simboli strumentali con i quali misurare gli spazi, e insieme segni approdati sulla tela da un’altra realtà – già metafisica. “Paolo Scheggi, la profondità della superficie” Galleria Colossi Arte Contemporanea Piazza delle Erbe 48, via Rangoni 4, Chiari (Brescia) Info: tel.: 030 7002000; e-mail: info@colossiarte.it. Fino all’8 marzo 2007
Una voce poco fa
Fra i grandi scrittori del secolo scorso, figura senza dubbio Osip Emil'evic Mandel'stam. Nacque a Varsavia nel 1891. Dopo il 1917 la sua estraneità alla politica culturale imposta dal regime gli procurò parecchi guai. Fu ferocemente attaccato dalla Pravda e nel 1934, subì il primo arresto per attività antisovietica. Fu nuovamente arrestato nel maggio 1938 e deportato in un gulag presso Vladivostok dove morì. Per una più estesa biografia, cliccate QUI. Ho ancora un felicissimo ricordo della lettura del suo libro più noto “Il rumore del Tempo” e pochi mesi fa sono tornato ad occuparmi di Mandel'stam in occasione di uno spettacolo, tratto da un suo romanzo, che gli ha dedicato Silvio Castiglioni: Viaggio in Armenia. Ora, grazie alla rivista “Anterem” diretta da Flavio Ermini, è possibile sentire la voce di Mandel'stam, in rare registrazioni dei primi del '900. Per ascoltare, cliccare su Anterem. Sul sito anche una bibliografia delle pubblicazioni in italiano dello scrittore.
mercoledì, 24 gennaio 2007
Viva il vino spumeggiante
Così cantano Turiddu e coro nella “Cavalleria rusticana”. E mai ho capito tanta enfasi nel bere un vinaccio come quello di Francofonte dove nell’opera apprendiamo va a comprarlo Turiddu. Doveva intendersene poco poco. E il coro pure. Si capisce che poi va a finire come finisce! Meglio forse avrebbe fatto il protagonista di Mascagni a frequentare un corso di degustazione vini. Oggi ne abbondano e vi confesso più di una diffidenza. Un po’ come m’accade con le scuole cosiddette di “scrittura creativa”. Che succede? Uno entra ch’è Previti e n’esce come Leopardi? Permettetemi di dubitarne. Anche perché può anche succedere il contrario, come teme il mio amico Pino Caruso. Sia come sia, talvolta dei buoni corsi di degustazione esistono. Ho sfogliato il programma varato da Cristiano Rizzuto – patron dell’enoteca romana In vino veritas (Via Teresa Gnoli 58, zona Monte Mario, tel - fax: 06 – 338 38 95) – che mi è sembrato molto bene articolato. A lui ho chiesto: qual è, secondo te, la prima cosa da fare nel pianificare un corso di degustazione vini? Preferisco risponderti su come mi comporto io perché non voglio proclamare leggi universali. Il mio corso di degustazione sul vino, o meglio d’introduzione alla riscoperta sensoriale umana, è una ludica didattica d’apprendimento e tende a stimolare il confronto tra persone e le loro memorie olfattive. E sopratutto si prefigge di dare massima dignità alla varietà e al profondo significato culturale della nostra bevanda mediterranea.
Puoi dirmi una cosa che è assolutamente da non fare? Rispondo come il melvillliano scrivano Bartleby: preferisco di no. Ti rispondo ancora una volta dicendoti come agisco io. Non pretendo e non voglio istruire sommelier, o peggio ancora, fanatici delle etichette. Il buon gusto lo si deve possedere dalla nascita, può solo essere indirizzato. Non rilascio attestati di cui far mostra agli amici: spero solo di suscitare una commossa curiosità. Le mia modesta provocazione resta inevasa, ma, nell’eleganza delle parche risposte, una ne traspare, e chiarissima: è bene non illudere chi s’iscrive a quei corsi di diventare un grande esperto, un superman capace di contendere il ruolo ad un enologo, meglio istradarlo sulla conoscenza culturale della materia e fornirgli i “fondamentali”, come si dice nel calcio, che gli permettano un corretto approccio ai contenuti dei bicchieri. Così impostando la cosa, forse, ci sarà anche qualche risultato in più, ma se si promettono (come mi càpita di vedere in giro) esiti strabilianti dopo una decina di lezioni c’è da essere guardinghi. Perciò mi fido di quanto ci dice il saggio Cristiano che vi ho presentato, mi fido nonostante il nome che indossa mi ricordi i credenti che, a me ateo, di solito a sentirli m’ispirano ragionati dubbi e forti sospetti.
martedì, 23 gennaio 2007
Il fascino del buco
Il titolo di questa nota non si riferisce al corpo, né allude a droghe, e neppure ai buchi neri studiati dagli astronomi. Più semplicemente ai buchi del re dei formaggi svizzeri, l’Emmentaler Dop, conosciuto in tutto il mondo come “quello con i buchi”. Emmentaler promuove il Concorso fotografico Buchi Dop, offrendo l’occasione a giovani promesse del mondo della fotografia, oppure a persone curiose dotate di una spiccata vena creativa, di misurarsi con quella sfuggente entità del buco, non una mancanza, bensì un’opportunità: quella di vedere l’insolito in ciò che sembra comune e privo di ispirazione. Del resto, nelle arti visive la cosa ha una tradizione. Basti pensare al “Ciclo dei Buchi” di Lucio Fontana, ai fori su tela di Paolo Scheggi (nella foto), oppure ai “Pensatori di buchi” di Diego Perrone, ai tanti artisti d’arte estrema che praticano la body art. E mi piace ricordare anche, in letteratura, il poemetto di Ernesto Ragazzoni – “Faccio buchi nella sabbia” – reso famoso dall’interpretazione di Vittorio Gassman. Il buco, proprio per la sua ingannevole forma di vuoto ha visto riflettere anche un maestro zen che dice ‘L’unico buco vuoto è quello pieno’. Insomma, il buco è un varco magico capace di far vedere le cose di tutti i giorni da un altro punto di vista, lo spioncino di una porta, il foro in una palizzata, l’occhiello di una giacca o di una ciambella. Tra le fotografie pervenute, un’apposita Giuria ne selezionerà una, giudicata a maggioranza la più rappresentativa del concetto di buco, che verrà esposta, durante il mese di aprile per due fine settimana consecutivi, in una mostra allestita a Milano nella prestigiosa cornice di Forma, Centro Internazionale di Fotografia, costituito da Fondazione Corriere della Sera e Contrasto. In mostra, oltre allo scatto vincitore, altre immagini selezionate da Contrasto, realtà unica nel mondo della fotografia, nata in Italia negli anni ‘80 che mantiene ormai da anni un ruolo di primo piano nel campo della fotografia d'autore e di qualità. I partecipanti al concorso fotografico “Buchi Dop” devono fare pervenire i loro lavori entro il 30 marzo 2007. Il regolamento del concorso è scaricabile dal sito internet www.switzerland-cheese.it.
Ufficio Stampa: Eidos: Costanza Zanolini, czanolini@eidos-pr.it , Tel. 02 - 8900870; Fax 02 – 8900852
lunedì, 22 gennaio 2007
Fibocomponimenti
In questo sito – com’è detto anche nella scritta in cima alla sezione che state visitando – non mi occupo di poesia lineare (solo talvolta di rockpoetry o poesia verbovisiva oppure prodotta con tecnologia elettronica). Poeti su carta, no. Troppi poeti in giro, troppi. E tutti convinti che basta sollevare gli occhi al cielo, ispirarsi e scrivere. Niente di più falso. Da vecchio oulipiano quale sono, ho il convincimento che la scrittura ha a che fare con leggi di linguaggio che ci governano aldilà della nostra stessa volontà. E una parte delle neuroscienze contemporanee sembra dare ragione a questo orientamento. Scrive Brunella Eruli richiamandosi a Queneau “... il tragico greco che scrive i suoi versi obbedendo a regole che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa e che è schiavo di regole che ignora”. Crediamo di parlare e veniamo parlati. Noi facciamo karaoke, macchina simbolo di quanto vi sto dicendo. Insomma ai tanti i quali imbrattano fogli con versi e romanzi, preferisco i matematici de l’Oulipo, il Queneau dei Cent mille milliards de poèmes, dieci sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso di ciascun sonetto è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione, generando centomila miliardi di poesie. La matematica come la più grande delle arti perché tutte le contiene. Oggi vi segnalo un sito che usa la serie di Fibonacci per produrre letteratura. Leonardo Fibonacci (Pisa, ca. 1170 – Pisa, ca. 1250) fu un grandissimo matematico noto soprattutto per la sequenza dei numeri – 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89… - in cui ogni termine, a parte il primo, è la somma dei precedenti due. Per sapere tutto su Fibonacci, cliccate QUI. Fibonacci è stato usato esplicitamente nelle arti visive da Mario Merz (e implicitamente da altri), e in musica esistono cospicui esempi da Debussy a Bartók, da Stockausen a Xenakis, fino a gruppi rock quali i Genesis e i Deep Purple. A farne uso letterario di Fibonacci è Sebastiano Vianello. E’ nato a Venezia nel 1964 e s’è diplomato al Liceo Artistico di quella città. Ha avuto esperienze teatrali, come attore e scenografo, per poi approdare alla computer grafica e all’animazione 3D. Successivamente ha lavorato per anni come producer in strutture di post-produzione video per la tv e la pubblicità, prima a Milano e Torino e successivamente a Roma. Da circa un anno ha abbandonato l’ambiente televisivo pubblicitario per dedicarsi ad un suo antico sogno: aprire un ristorante. Per conoscere composizioni sue e di altri, cioè Fibocomposizioni: QUI . Gli ho chiesto di dire com’è nata l’idea e quale profilo gli attribuisce.
L’idea del Fibo nasce quasi per caso, un giorno che gironzolavo in internet senza una meta precisa. Seguendo non so quale percorso in rete mi sono imbattuto in un sito in cui era riprodotta la serie numerica di Fibonacci 1,1,2,3,5,8,13,ecc… Mentre leggevo i numeri mi sono accorto che stavo cercando di associare ad ogni numero delle parole con il corrispondente numero di lettere. Ho cominciato a ragionare su quale potesse essere la formula giusta per legare numeri e parole e da li alla stesura delle poche regole per la composizione di un Fibo il passo è stato molto breve. Cimentandomi con la scrittura dei Fibi mi sono poi reso conto di quanto la costrizione entro regole matematiche mi portasse a cercare e combinare tra loro, per esprimere concetti che avevo ben chiari nella testa, parole diverse da quelle che avrei voluto o potuto utilizzare normalmente, e quanto questo mi facesse adoperare in maniera più conscia l’italiano. Per questo considero il Fibo un tipo di componimento divertente e stimolante, applicabile a qualsiasi genere letterario, dalla lista della spesa alla poesia.
sabato, 20 gennaio 2007
Montparnasse Déporté
S’avvicina la data del 27 gennaio – Giornata della Memoria – e crescono le notizie di manifestazioni, spettacoli, mostre che ricorderanno il giorno della liberazione del lager di Auschwitz. Nella nota di sabato 20, troverete un mio commento, se vi va di leggerlo, a questo benvenuto fervore che ha con sé il rischio di una ritualità. Fra le mostre – mi sono arrivate parecchie segnalazioni – scelgo di segnalare la torinese Montparnasse Déporté curata dalla conservatrice del Museo di Montparnasse Sylvie Buisson e da Paolo Levi;mercoledì prossimo sarà aperta al pubblico al Museo di Corso Valdocco E’ un omaggio agli artisti che furono deportati nei campi di sterminio nazisti tra il 1940 e il 1945 perché ebrei o oppositori politici. La mostra è organizzata dalla Regione Piemonte – Assessorato alla Cultura, in collaborazione con il museo parigino e con il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino. Molto prima che la parola Europa prendesse l’attuale dimensione politica, gli artisti di Montparnasse l’avevano già inventata all’inizio del secolo scorso: venivano dalla Germania, dalla Pomerania, dall’Austria, dalla Galizia, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Bielorussia, dalla Crimea, dalla Lettonia, dalla Lituania, dalla Siberia e persino dalla Grecia. La maggior parte di loro erano ebrei, che avevano lasciato i loro paesi di origine, per approfondire le loro conoscenze artistiche e anche per sfuggire alle persecuzioni e ai pogrom. Tutti gli artisti di Montparnasse contribuirono alla fama di Parigi come capitale internazionale dell’arte e della cultura. Le opere esposte, circa sessanta, di questi artisti vittime della deportazione provengono da musei e da collezioni private, e furono raccolte grazie alle ricerche di Hersch Fenster, un intellettuale parigino che aveva frequentato l’ambiente artistico di Montparnasse negli anni Trenta e Quaranta. Dopo la guerra Fenster iniziò il suo lavoro di ricerca attraverso notizie e documenti trovati negli archivi della polizia e grazie alle testimonianze di parenti, amici e conoscenti degli artisti scomparsi. Le notizie raccolte da Fenster vennero raccolte in un volume, intitolato Nos artistes martyrs, pubblicato nel 1951 e introdotto da uno scritto poetico in yiddish di Marc Chagall. Catalogo: Elede srl, Torino
Per i redattori della carta stampata delle radiotv, del web, Ufficio Stampa “Stilema”: Roberta Canevari: tel. 011 – 56 24 259 int. 203 – e-mail: roberta.canevari@stilema-to.it Paola Congia: tel. 011 – 56 24 259 int. 205 – e-mail: info@stilema-to.it “Montparnasse Déporté “ Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà. Palazzo dei Quartieri Militari - Corso Valdocco, 4/A – Torino dal 24 gennaio al 9 aprile 2007 Ingresso gratuito Info: 011 – 43 61 433
giovedì, 18 gennaio 2007
Giornata della Memoria
Il 27 gennaio del 1945, venne liberato dalle truppe alleate il lager di Auschwitz ed è quella data l’occasione per ricordare la Shoah. Shoah – in ebraico significa annientamento – è termine da preferire a “olocausto” per eliminare qualunque idea di sacrificio religioso insita in quest’ultimo. Per saperne di più: libri, film, testimonianze e anche una sitografia essenziale sulla Shoah, consiglio questo ottimo sito. Ben vengano le numerose manifestazioni indette per la vicina data che però rischia di diventare una Giornata, appunto, solo una Giornata. Consegnandosi così a ritualità che, come tutte le ritualità, svuotano di significato ciò che si ricorda. Preferirei che invece di una Giornata con tante cose in cartello, la Shoah fosse ricordata, attraverso piccole, quotidiane cose. Perché tutti i giorni avvengono misfatti (anche in Italia) che sono estremamente allarmanti e, spesso, trattati dalle cronache con spazi inadeguati. Inoltre quest’anno – ma già avvisaglie s’erano notate l’anno scorso – ai cortei pare parteciperanno anche personaggi che smesso temporaneamente il fez durante la manifestazione, calzeranno la kippah. Peggio mi sento, come si dice a Roma. Tra gli avvenimenti che meritano d’essere segnalati. Ne cito due.
Con l’ideazione di Angela Teichner Accardi e Vittorio Pavoncello, le Associazioni Altromodo, Opera Nomadi ed E.t.i.c.a presenteranno a Roma, giovedì 25 gennaio, all’Ara Pacis La memoria degli altri. Dalle ore 9 fino a tarda serata una serie di spettacoli, conferenze, documentari e concerti. Il programma, sul sito di Giovanna Pipari che guida l’Uffico Stampa. Cliccare QUI. Venerdì 19 gennaio, alle 20:30, al teatro Careni di Pieve di Soligo debutta lo spettacolo teatrale Il tempo sospeso che racconta la storia degli ebrei stranieri internati in Provincia di Treviso fino all’8 settembre 1943. Questo spettacolo – spiega la regista Eleonora Fuser – è il frutto di un intenso lavoro effettuato su una storia inedita avvenuta localmente in provincia di Treviso, ma che assume un’importanza mondiale per i temi trattati. Vogliamo raccontare attraverso le immagini, le parole, la musica e la poesia un pezzo di storia drammatica per non dimenticare e per restituire il giusto valore alla memoria della Shoah, delle persecuzioni inflitte agli ebrei nei campi di sterminio, delle leggi razziali, della persecuzione italiana dei cittadini ebrei. Il dramma in scena s’ispira alla ricerca in corso dello storico Daniele Ceschin, iniziata circa due anni fa con il sostegno dell’Istresco, e con la collaborazione di Renato Mannheimer, ch’ebbe i genitori internati in provincia di Treviso. Per informazioni sulle repliche e su incontri di studio che le accompagneranno, c’è l’Uffico Stampa guidato da Micaela Scapin: Tel-Fax 041 - 51 03 742, micaelasca@alice.it
mercoledì, 17 gennaio 2007
Radiopop
La radio nel panorama dei media non ha perso colpi, anzi vede crescere il numero degli ascoltatori e quello degli investimenti pubblicitari. La cosa non riguarda Radiorai che, invece, è fra le poche emittenti a conoscere da alcuni anni un declino diventata com’è un incrocio fra Radio Caciotta e Radio Maria; dai suoi microfoni non pochi i ragli come potete notare (divertimento garantito) cliccando QUI. Il mezzo radiofonico, ha conosciuto trasformazioni non solo sul piano tecnologico, fino al Dab al Web, ma anche su quello del linguaggio e ciò, in Italia, si deve anche a una parte delle radio che nacquero alla metà degli anni ’70, definite ”libere” con euforia ingiustificata perché presto quelle antenne divennero commerciali. E’ accaduto, infatti, che molte radio cosiddette libere abbiano preso ad imitare la sussiegosità della Rai mentre questa s’è data al goffo inseguimento del nuovo modello radiofonico giovanilistico. Fra le radio che hanno, invece, segnato un’autentica svolta nella gestione dell’informazione, della cultura letteraria e musicale, c’è stata senz’altro Radio Popolare, nata nel giugno ’76 ereditando le frequenze di ‘Milano Centrale’. Bene ha fatto, quindi, la casa editrice Garzanti a dare alle stampe un libro che di Radiopop traccia la storia attraverso i personaggi e i programmi che l’hanno resa famosa. Il volume s’intitola Vedi alla voce Radio Popolare ed è stato curato da uno che di quella radio è stato per sedici anni – dall’81 al ’96 – un protagonista: Sergio Ferrentino il quale s’è avvalso nel suo certosino lavoro della collaborazione di Luca Gattuso e Tiziano Bonini. Il libro s’articola attraverso un’accuratissima composizione di schede (ma meglio, forse, è dire racconti) redatte da chi a quei microfoni dedicò energie e, in parecchi casi, deve la prima formazione professionale; i nomi diventati noti sono tanti, giusto per citarne alcuni: Gad Lerner, Claudio Bisio, la Gialappa’s, Marco Paolini, Gino e Michele, e tanti tanti altri. C’è qualcosa in più della semplice, anche se appassionante, storia di una radio in Vedi alla voce Radio Popolare, perché le pagine narrano un pezzo della recente storia del nostro paese: le speranze, le rabbie, le ingenuità, gli entusiasmi, le prime delusioni di una generazione che si misurava nelle strade, nelle scuole, nelle fabbriche con un mondo che sembrava potesse essere cambiato. E numerose da Radiopop erano anche le giovani voci femminili mentre alla Rai, fatte poche eccezioni, ai microfoni andavano acciaccate zie dell’etere. Nelle testimonianze che gli autori hanno raccolto, non manca qualche ingenuità, ma questo accresce il valore del libro perché riflette fedelmente gli slanci di un’epoca che è appena ieri e sembra lontanissima. E’, quindi, un libro che oltre ad interessare gli operatori del settore radiofonico, può giovarsene anche chi è interessato a sapere com’eravamo ieri. Ancora una cosa, a differenza di tante imprese di cui si parla quando sono tramontate, qui si traccia la storia di qualcosa che ancora esiste, e in onda va.
Sergio Ferrentino con Luca Gattuso e Tiziano Bonini “Vedi alla voce Radio Popolare” Pagine 350; Euro 22:50 Garzanti
martedì, 16 gennaio 2007
Libreria degli inediti
A Napoli, Annamaria Russo e Ciro Sabatino gestiscono un teatro situato in un’antica rimessa di carrozze nel cuore del Centro Storico: Il pozzo e il pendolo. Il nome che rimanda al famoso racconto dello scrittore americano Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849), svolge un’attività che punta sul rapporto teatro-letteratura e, prevalentemente, sulla letteratura gialla, genere sul quale disse un giorno Borges: "Tutta la grande letteratura ha un debito con il giallo"; e Sciascia, anni dopo: "Il giallo è la forma più onesta di letteratura, perché lettore e scrittore sono su un piano di parità. Al lettore si richiede un esercizio intellettuale pari a quello di chi ha scritto la storia". All’interno di quel teatro, i due fondatori hanno creato la prima Libreria degli Inediti. Le motivazioni di quest’idea (e le modalità per inviare testi) sono esposte sul loro sito web.
A Ciro Sabatino ho chiesto: qual è il vostro progetto, quali fini espressivi e di mercato si propone? La nostra è semplicemente una provocazione. Da anni combattiamo contro l'editoria a pagamento, e una catena di librerie alternative potrebbe essere una bella risposta a quel fenomeno. Per il resto, è ovvio che un teatro che si interessa di "racconti" non poteva non puntare ad una libreria. Meglio se di libri inediti, quindi "puliti", freschi, appassionati. Il mercato di riferimento, per ora, rimane quello degli appassionati di letteratura, alla ricerca di curiosità, cose nuove, ancora poco conosciute. Dai testi che vi sono pervenuti finora, è possibile rintracciare una tendenza prevalente da parte degli scrittori inediti? L’interesse maggiore verso quali generi s’orienta? La narrativa, soprattutto. Ma anche il teatro. I libri presentati sono in molti casi opere prime, con molti riferimenti autobiografici, amori, ricordi, passioni. Quasi a voler fermare sulla pagina scritta il proprio vissuto. Molti sono estremamente interessanti. Libreria degli inediti Piazza San Domenico Maggiore 3, Napoli Per informazioni info@ilpozzoeilpendolo.it Tel. 081 – 54 22 088
lunedì, 15 gennaio 2007
E-Art
Sto per dirvi di un libro ch’è d’indispensabile lettura sia per quanti si occupano di arte digitale e sia per quanti avversano tale tipo di creatività. I primi vi troveranno preziosi contributi che stimoleranno nuove ricerche, ed i secondi – i quali assai spesso parlano male di cose che non conoscono – potranno, forse, capire perché delirano nella loro decrepita ottusità. Il libro – stampato da Editori Riuniti – si chiama e-Art, è a cura dell’artista multimediale Franz Fischnaller che presenta nel volume circa 40 saggi di autori di diversa provenienza e specializzazione: teorici, scrittori, artisti, giornalisti, produttori, poeti, visionari e rivoluzionari, i quali studiano il presente e prospettano il futuro di questo tipo di arte basata sull'interazione tra web, telepresenza, biogenetica, robotica, realtà virtuale, media digitali e interfacce umane-virtuali. Presenti nel volume anche interventi di professionisti che operano nel campo scientifico, elettronico, ecologico, industriale e sociale perché il tema delle nuove creazioni tecnologiche è trattato, infatti, anche studiando le ricadute ch’esse hanno sulla società e la democrazia nell’era della Rete. Pensieri e spunti che animano da sempre il lavoro di Fischnaller come potete vedere cliccando sul sito di F.a.b.r.i.cators. Il volume s’avvale della prefazione di Giuliano Bianchi del quale qui trascrivo un passaggio: Questo libro offre un vasto (…) panorama della corrente produzione di e-Art. Aldilà dei diversi approcci tecnologici e dei diversi contenuti tematici, gli e-artisti condividono due caratteristiche comuni: la ricerca di un contenuto da esprimere mediante specifici linguaggi estetici (che implicano talento tecnico) e un impegno sociale. A Franz Fischnaller ho rivolto la domanda che segue. Kevin Warwick studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo i futurologi in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli… a tuo avviso, quale nuovo profilo, quali nuove caratteristiche avrà l'arte da queste acquisizioni?
Oggi le nuove tecnologie hanno permesso ad un cieco di “vedere”… E’ un momento particolare, rivoluzionario e di intenso cambiamento strutturale. Con lo sviluppo della tecnologia elettronica e l’avanzato design delle interfacce uomo-macchina, le possibilità di accrescimento delle potenzialità del corpo umano attraverso la tecnologia elettronica si sono notevolmente ampliate. Questo si evince nelle protesi bioniche, nei bio-impianti, nei chips neuronali, nelle interfacce virtuali e nell’inserzione di impianti in rete e tecnologie elettroniche nel corpo umano. Le possibilità di vivere l’’intangibile si estende stimolando nuovi canali di percezione, portando ad altri stati, sentieri e atti di creazione. Questi nuovi elementi sono parte integrante dell’evoluzione che avviene all’interno della rivoluzione dei media: un’evoluzione intellettuale, non in riferimento all’elaborazione teorica ma in relazione all’intelletto dell’idea e all’essenza del pensiero umano. L’arte subirà senz’altro una profonda mutazione. La trasformazione della percezione spazio-temporale richiede un nuovo modo di elaborazione del pensiero, più astratto e interpretativo, più essenziale e trascendentale, nuove forme artistiche inizieranno a svilupparsi come codici visionari e nei prossimi anni la quantum physics e la string theory ci daranno molte sorprese. Per ciò che si riferisce alla nostra coscienza-mente-identità c’è una vasta possibilità di esplorazione…In ogni modo non penso che inserire chips a livello cerebrale basta per scoprire segreti al di là della natura… Sono vicino al pensiero di Roger Penrose, matematico e fisico Inglese, ricercatore nel campo della quantum fisica e teorie della coscienza umana. Penrose arguisce che le note leggi della fisica sono inadeguate a spiegare il fenomeno della coscienza umana. Ipotizza che la consapevolezza umana potrebbe essere il risultato di fenomeni quantistici ancora ignoti che avrebbero luogo nei microtubuli e che rientrerebbero in una nuova teoria capace di unificare la teoria della relatività di Einstein con la meccanica quantistica. E’ in contrapposizione con il principio che sostiene che il processo razionale della mente umana è completamente algoritimico e in conseguenza può essere duplicato da un computer altamente sofisticato. Questo è in contrasto al principio del Naturalismo Biologico secondo il quale il comportamento può essere simulato ma non la coscienza. Il volume contiene estese biografie di tutti gli intervenuti e un utile glossario. Per contatti con F.a.b.r.i.cators, a coordinarne l’attività è Daniela Voto: daniela@fabricat.com A cura di Franz Fischnaller “e-Art” Prefazione di Giuliano Bianchi Pagine 374 con Cd-Rom, Euro 40:00 Editori Riuniti
giovedì, 11 gennaio 2007
Suono il clacson scendi giù
Credo che Italo Svevo fu forse il primo italiano a morire per colpa di un’automobile, ma, se non detiene quel poco invidiabile record, fu certamente tra i primi. Morì, infatti, il 13 settembre 1928 a Motta di Livenza, per un incidente automobilistico accaduto due giorni prima. Da allora ad oggi… una strage! Circa 8mila morti (quasi uno ogni ora, 6 volte più dei caduti sul lavoro, 3 volte le vittime delle torri gemelle a New York), 20.000 disabili gravi (invalidi dal 33 al 100%) e 300mila feriti che la strada “produce” ogni anno (stime ospedaliere Istituto superiore di Sanità), il costo economico è calcolato oltre i 30 milioni di euro all’anno (stima Cnel). Ma oltre ciò, che cosa significa l’automobile oggi? La bella mostra al Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto - nel proporre Mitomacchina s’interroga anche su questo e va oltre chiedendosi quali visioni anticipano le trasformazioni del Mito e della Macchina nel Ventunesimo secolo. La mostra, prodotta dal Mart con la direzione di Gabriella Belli, è curata da un comitato di designer ed esperti del settore, storici del costume e storici dell'arte composto da Gian Piero Brunetta, Pierluigi Cerri, Emilio Deleidi, Giampaolo Fabris, Giorgetto Giugiaro, Tomás Maldonado, Giuliano Molineri, Adolfo Orsi, Sergio Pininfarina, Mauro Tedeschini e la rivista Quattroruote. L'esposizione – come dice la curatrice Gabriella Belli – segna per la nostra istituzione un punto importante di svolta nella sua definizione museologica, che oggi più che mai vuole ricondursi a un universo culturale dove i riferimenti alla società contemporanea, alla sua comprensione e, in senso lato, alla messa a fuoco della sua complessità non rimangano residuali rispetto all’estetica dell’arte, cui, per missione, anche il Mart è opportunamente chiamato. In "Mitomacchina" anche i prototipi che nel Ventunesimo secolo stanno per rivoluzionare ancora una volta le forme, l’uso e la carica di significati dell’automobile. L’ottica dei curatori è duplice: da un lato presentare una vasta selezione di modelli di auto scelti per il loro ruolo di propulsori del cambiamento, sia in chiave sociologica sia estetica; dall'altra compiere una ricognizione sui progetti, i processi industriali e le sperimentazioni che hanno accompagnato, grazie a geni della creatività internazionale, questo straordinario oggetto – oltre il veicolo e dentro la psiche – del Ventesimo secolo. Molte le automobili di grandi case produttrici europee ed americane provenienti da musei e collezioni private di tutto il mondo, alcuni di questi modelli sono esposti per la prima volta al pubblico. Non è necessaria la patente per visitare la mostra, ma le squisite hostess del Mart… a proposito… che bella accoglienza a differenza di tanti altri musei!... sembrano chiedere d’ammirare il design delle auto in mostra senza dimenticare la prudenza nel guidare.
Mitomacchina Fino al primo maggio 2007 Al Mart di Trento
Rubber Car
La scultura "Rubber Car" (nella foto) è un’opera di Paolo Canevari esposta sulla piazza centrale del Mart di Trento in occasione di “Mitomacchina” di cui ho parlato prima. E’ un progetto speciale voluto dal Mart che rende omaggio all’automobile attraverso l’occhio di un artista contemporaneo. Paolo Canevari interpreta il mito del movimento e della velocità usando il materiale della gomma del pneumatico che possiede esso stesso la traccia, l’impronta di un passaggio. L’opera, come un’ombra, accoglie i visitatori della grande mostra “Mitomacchina. Storia, futuro, tecnologia e design dell’automobile”. Se la chiave interpretativa di “Mitomacchina” è il design, e quindi in mostra sono presenti circa 70 automobili, il lavoro di Canevari usa invece la forza di un linguaggio diverso, quello dell’arte contemporanea, per rimandare proprio a quelle tematiche – la libertà, il viaggio, le trasformazioni, i segni del tempo – che sono associate con il mito dell’automobile. Paolo Canevari ha cominciato a lavorare con la gomme delle camere d’aria e dei pneumatici all’inizio degli anni Novanta. Questo materiale lo ha sempre affascinato per la sua difficoltà e al tempo stesso per la sua immediata riconoscibilità. La sua produzione artistica si è concentrata sulle diverse possibilità formali e concettuali che le gomme rappresentano nella società contemporanea. Ho usato pneumatici sia nuovi che usati – ha detto Canevari durante la creazione di ‘Rubber Car’, avvenuta a Rovereto – per mettere in rilievo i diversi gradi di usura dei battistrada. Questi sono materiali che stimolano l’immaginazione, la fantasia del viaggio e del percorso come idea spirituale dello spostamento. L’opera d’arte diventa, così un veicolo per la transizione da uno stato mentale passivo ad uno attivo. ‘Rubber Car’ è stata realizzata appositamente per il Mart in occasione della mostra “Mitomacchina”, con il contributo dell’azienda Marangoni.
mercoledì, 10 gennaio 2007
Una vita interiore
Grande successo ha avuto ieri sera la prima di “Alberto Moravia” al Teatro Vascello, testo di Roberto Lerici e Giancarlo Nanni che ne firma la regìa. Lo spettacolo – con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma – va in scena in occasione del centenario della nascita del famoso scrittore. Alberto Moravia – per l’anagrafe Alberto Pincherle, il cognome Moravia è quello della nonna paterna – nacque il 28 novembre 1907 a Roma, in via Sgambati, da un’agiata famiglia borghese. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, era di origine veneziana, mentre la madre, Gina de Marsanich, di Ancona. Terzo di quattro figli, all’età di nove anni s’ammalò di tubercolosi ossea, malattia dolorosissima che lo terrà a letto per cinque anni. Guarirà diciassettenne, ma il male lo lascerà zoppicante per tutta la vita. Verrà trovato morto nel bagno del suo appartamento romano in Lungotevere della Vittoria il 26 settembre 1990. Ottimo protagonista del lavoro è Paolo Lorimer che del personaggio Moravia restituisce puntualmente razionalità ed emotività; i ruoli femminili sono felicemente interpretati da Sara Borsarelli e Astra Lanz. Scriveva Roberto Lerici: Alberto Moravia: intorno a questo nome si è esclusa la biografia, l’agiografia o la commemorazione. Abbiamo voluto creare un clima, una serie di emozioni, un invito alla contemplazione, attraverso l’apparizione di schegge e frammenti della sua esistenza, ma tutto trasfigurato da immagini e parole a lui ispirate, ma non dalla sua storia personale. Attorno al suo letto di malato, dove si formò il suo carattere ed esplose la sua vocazione di scrittore, nascono le immagini della sua iniziazione alla vita di uomo e di scrittore sedicenne. Non meraviglierà che accanto al suo letto, sotto forme diverse, appaiono l’Uomo del sottosuolo, ovvero Dostoevskij, o Rimbaud, autori prediletti della sua prima formazione, insieme alla prostituta, ex maestra di scuola, che lo inizia al sesso, come una maestria appunto, con “Le vocali” di Rimbaud, o al primo amore Franziska, o la strana moglie dell’ufficiale che gli viene offerta dal marito stesso. E dice Giancarlo Nanni: Moravia per me ha rappresentato la contraddizione multiforme dell’intellettuale italiano. La sua staticità ha creato un modello esemplare che è stato probabilmente imitato e da cui ne è, forse discesa una stirpe di non interventisti, che ancora oggi rende il panorama intellettuale italiano Piatto e Neutro da ormai cinquant’anni. Eppure Moravia non era e non voleva essere così. Amava il Teatro, i Sogni, le Rappresentazioni. Ma scriveva “La Noia”. Credo che mettere in scena Moravia serva a far ripensare una linea culturale, rendendola di respiro europeo, a rompere con una certa retorica, a superare un attuale regionalismo deteriore, a superare il disgusto per la squallida situazione sociale e politica che stiamo vivendo. Penso che mettere in scena Moravia significhi anche produrre un ‘Corto Circuito’ dell’Immaginario Collettivo in cui la sua presenza si è fatto Mito e Storia.
Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio Stampa è guidato da Marina Raffanini: 06 – 58 98 031. “Alberto Moravia” di Roberto Lerici e Giancarlo Nanni Regìa di Giancarlo Nanni Teatro Vascello Via Carini 78, Roma Info: 06 – 588 10 21 Fino al 28 gennaio
Di quinta in quinta
Ve ne ho parlato ad ottobre e torno ad occuparmene oggi. Dopo un'anteprima, torna a Roma, al Teatro Vascello Sala 2, sua prima piazza italiana della tournée, Quinte armate il nuovo spettacolo di Marco Solari. Per saperne di più cliccate QUI.
lunedì, 8 gennaio 2007
Il Cerchio e la Cupola
Lo storico dell’arte e accademico francese Louis Hautecoeur nacque a Parigi l’11 giugno del 1884 e nella stessa città morì il 23 novembre 1973. Tra i suoi tanti i suoi contributi alla storia dell’arte, spicca un volume che finora non era ancora stato tradotto in italiano: Mistica e Architettura. Il simbolismo del cerchio e della cupola. L’Editrice Bollati Boringhieri, grazie al solito intuito felice del suo direttore editoriale Francesco M. Cataluccio, l’ha mandato da pochi giorni in libreria. Il volume s’avvale della traduzione di Guglielmo Bilancioni – docente di Storia dell’Architettura all’Università di Genova – che nella luminosa prefazione da lui firmata procede attraverso feste della pagina offrendoci rimandi al fantastico e al noumenico che vanno anche oltre l’universo simbolico osservato da Hautecoeur. E proprio a Guglielmo Bilancioni, ho chiesto: tra gli storici dell’architettura qual è la caratteristica che rende importante Hautecouur?
La profonda capacità di Hautecoeur di unire filologia e interpretazione lo rende grande fra i grandi storici dell'architettura. Quel che trasmette, sia nelle sue opere monumentali che nei numerosi saggi sparsi, è una scienza d'arte che si fonde con la Sapienza e la Visione. Vi sono molti storici che si occupano di storia con l'intento - scriveva Canetti - di sottrarla all'umanità: Hautecoeur, invece, trasforma la storia dell'architettura in storia delle idee, e studia i nessi fra arte e simbolo, fra apparato e figure, e, soprattutto, fra forma e significato. Grande disegno il suo, sorprendente per profondità e densità di idee, ed entusiasmante per la ricchezza di nessi e ibridazioni che è in grado di documentare. Come Wittkower e Krautheimer, Hautecoeur è di certo consapevole, con Leibniz, che “attribuire troppa importanza ai fatti è spesso indice di mancanza di idee”; così, mentre presenta i fatti - lunghi elenchi di fatti - presenta, insieme, anche il loro significato. Questa capacità è un gran dono, raro, per un filologo; come Maeterlinck con le termiti, Hautecoeur opera fra le rigorose tassonomie di elenchi che anelano alla completezza nel significato, con grande effetto euristico. Poi sottopone il risultato ad una costante verifica, facendo quadrato il cerchio dell’interpretazione con fenomenologia, ermeneutica, semantica e ontologia. La storiografia di Hautecoeur ha radici nel mito e rende ragione della vita delle forme nel tempo. Il sottotitolo di Mistica e Architettura è: ‘il simbolismo del Cerchio e della Cupola’. Perché il libro accentra su quei due simboli lo svolgimento delle pagine? Questo libro pone a proprio fondamento il simbolismo del Centro, e studia la storia della cupola, fiore di loto dell’architettura e Gioiello perfetto, sacro proprio in quanto realizzato. La cupola, tensione all’Uno, elaborato emblema del lusso spirituale, è la sede sferica, unica e unitaria, della confluenza fra mistica e architettura. Vivono, nel cerchio magico, e nella sfera sacra, appoggiata per via tecnica sul corpo di fabbrica, la isodomia, il Principio di analogia e le leggi di simmetria e stereometria: causa ed effetto, nel rito, si scambiano per analogia, e nella equidistanza spaziale di una geometria perfetta si supera l’ancestrale determinismo retributivo del sacrificio. Così, il cielo del tempo, la bocca del vulcano, la buca nei ghiacci iperborei, tutte le urgenze degli elementi, con la loro potenza ctonia, sono racchiuse nell’edificio simbolico: così per “tholos, bothros, mundus, skìas, heroon, martyrium, ciborium”, tabernacolo, padiglione e baldacchino, “tugurium, kubba”, e per il “kutagara”, dimora di gioiello; così è per lo Stupa dei Buddhisti, tutto-pieno che non ha un interno, bolla eterna che simboleggia l’impermanenza, e per la cupola, pagana e cristiana, che è in egual misura concava e convessa. Effigiata all’interno e all’esterno, contenente e contenuta, radiante dispositivo mistico e mitico, nella cupola risuonano la perfezione della geometria, l’archetipo della sfera cosmica, il Logos, che è nell’Arké, e l’Epos della storia del mondo. Abside, chiostro e ninfeo, sono elementi pagani, e cristiani, di pietas, di devozione, e di estasi, della gioia per l’unione con il superiore sconosciuto e del mistero; sono custodia dell’ammonimento e del riconoscimento del sè, luoghi del segreto e del perfetto, dell'estasi e della perfezione, del conosciuto perchè consueto e delle tracce perdute da tempo immemorabile. La cupola, in questo libro mirabile, è studiata come simbolo e come tipologia, prototipo che genera evoluzione, riflesso di riti solenni che si ripetono traversando i secoli. Lo studio di Hautecoeur muove dalle forme arcane del Paganesimo antico, ove già si assiste ai trionfi nei quali si fondono estetico e politico; fra continue migrazioni delle forme architettoniche, la trasformazione degli emblemi e le lente mutazioni dei decori. Così si tracciano, in modo magistrale, le relazioni fra Cupola e sole, cupola e impero, cupola e kubba islamica, vengono rivelati i significati dell'antro dei primordi, e si svelano i nessi fra le Religioni antiche e la scienza del costruire: costruzione cerimoniale e trionfale per eccellenza, l’apparato trionfale della cupola è incubazione della sfera, impianto rituale, e perimetro sacro della potenza dell’Intenzione. Per una scheda sul libro, cliccate QUI Louis Hautcoeur “Mistica e Architettura” Traduzione e cura di Guglielmo Bilancioni Pagine 444, Euro 55:00 Bollati Boringhieri
giovedì, 4 gennaio 2007
Un tris di nottetempo
La casa editrice nottetempo (la ‘enne’ minuscola è voluta dalle fondatrici Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi) ha chiuso il 2006 con un bel tris, tre titoli di cui mi occuperò nella nota di oggi. Comincio con La tregua dello scrittore uruguayano Mario Benedetti considerato uno dei massimi narratori viventi. Con questo romanzo, scritto a 39 anni nel 1959, si rivelò al pubblico e ai critici; il libro ha avuto più di 100 edizioni, è stato tradotto in 19 lingue, adattato per il teatro, la radio, la tv e il cinema. Colgo l’occasione per ricordare che è stato appena pubblicato in Italia dagli Editori Riuniti un suo romanzo della maturità – “Andamios” – nella nuova collana ‘Bookever’ diretta da Paolo Valentini. La tregua, scritto in forma diaristica, narra di un amore che nasce nella vita di un uomo avviato alla pensione e che pensa d’avere chiuso con le emozioni della vita… a proposito, il protagonista Santomé annota un 13 settembre che avendo cinquant’anni potrebbe andare da quel giorno in pensione, roba da far venire un infarto al direttore generale dell’Inps se leggendo distrattamente crede che quella storia si svolga in Italia. Uomo rassegnato, Santomé trova all’improvviso nella giovane Avellaneda assunta in azienda un rifiorire di palpiti e speranze, ricomincia a credere in un suo futuro. In un modo che qui non dico, Santomé sarà tradito dalla vita (non da Avellaneda) e capirà che quello che dio (fare brutti tiri agli umani è il suo mestiere) gli aveva fatto vivere “… non era la felicità, era solo una tregua. Adesso, sono confitto nel mio destino. Ed è più oscuro di prima, assai più oscuro”. “La tregua”: uno dei romanzi imperdibili scritti nel secolo scorso. Mario Benedetti “La tregua” Traduzione di Francesco Saba Sardi Pagine 251, Euro 12:00 edizioni nottetempo
La vita coniugale
Ed eccomi al secondo dei libri di nottetempo di cui mi occupo oggi. L’amore e l’odio sono due grandi motori del mondo, ma, piaccia o non, è il secondo che spesso appare il più potente. Più complicato stabilire se è più facile passare dall’amore all’odio o viceversa. Ragionamenti questi che si possono applicare non solo a popoli, gruppi, tribù e condomini ma anche alla coppia fatta di un marito e di una moglie. Coppia enigmatica (e drammatica fino alla gag) è quella formata da Nicolàs Lobato e Jacqueline Cascorro nel romanzo La vita coniugale dello scrittore messicano Sergio Pitol (ha ricevuto nel 2005 il massimo riconoscimento letterario spagnolo, il Premio Cervantes alla carriera) che nottetempo ha mandato in libreria. Commedia nera, corrosivo ritratto sociale, riflessione sull’atrocità del vivere, La vita coniugale scorre con maestosità funebre sui binari di uno dei più frequentati desideri: uccidere il coniuge. Non sappiamo se Jacqueline, che le studia tutte per attuare il suo progetto omicida, abbia letto quel capolavoro di De Quincey ch’è “L’assassinio come una delle belle arti”, né se abbia scorso le pagine di “Delitti esemplari” del grande Max Aub, forse ignora quelle lezioni e s’ispira piuttosto a qualche fotoromanzo, ma sta di fatto che ce la mette tutta per spedire all’altro mondo Nicolàs. Compone una serie di fallimenti che stanno tra Woody Allen e gatto Silvestro, ma negli occhi le brilla l’autentica luce sinistra di Bette Davis in ‘Chi giace nella mia bara?”, storia orrifica ma da non dimenticare che fu tratta da una commedia di Curtis Bernhardt, ‘L’anima e il volto’; a significare quanto un genere possa riversarsi in un altro che s’immagina opposto. Sergio Pitol è un maestro nel mischiare le carte, crea suspence irridendo alla suspence, ritrae eroismi praticati da una coppia meschina. Gran bel libro, sul quale dice Antonio Tabucchi in postfazione: Il romanzo di Pitol ha un quoziente sovversivo nel senso più nobile e più alto: perché coagula nei suoi personaggi dei caratteri categoriali sui quali poi i personaggi reali possono essere catalogati creando la specie.
Sergio Pitol “La vita coniugale” Traduzione di Lia Ogno Postfazione di Antonio Tabucchi Pagine 153 , Euro 13:00 edizioni nottetempo
Vetri rosa
Non sono occhiali rosa quelli che usa Ornela Vorpsi nel guardare alla sua infanzia e adolescenza, ai turbamenti sessuali e sentimentali (nell’ordine) che ne fanno un insieme di Justine e Juliette, insomma una Justiliette come – scusate l’autocitazione – chiamai un mio personaggio in un libro di tempo fa. Ornela Vorpsi, scrittrice e fotografa, è nata in Albania e lì cresciuta (… cresciuta benissimo, posso ben dirlo avendone ammirato l’aspetto fascinoso incontrandola a Roma), ha studiato a Milano e vive a Parigi; è vincitrice del premio Vigevano e del premio opera prima al Premio letterario nazionale "Rapallo Carige" per il romanzo “Il paese dove non si muore mai” (Einaudi, 2006). Vetri rosa è racconto di formazione e disfacimento, di voglie e disincanti, è tracciato con una scrittura essenziale, da cronaca dolente recitato con voce bambina. I vetri rosa del caleidoscopio – gioco infantile preferito dalla giovanissima protagonista – fanno da sipario a episodi che nulla hanno d’ottimismo, che fanno presagire la cognizione del dolore che verrà in anni maturi, messaggi sensuali di una Sibilla senza speranze. Il librino si conclude con una serie di foto in b/n scattate dall’autrice in nude look che, nel frattempo, non gioca più coi vetri rosa avendo intuito da tempo le illusioni e gli inganni di questa vida loca.
Ornela Vorpsi “Vetri rosa” Pagine 43, Euro 3:00 Edizioni Nottetempo
mercoledì, 3 gennaio 2007
Anno nuovo, Casa nuova
La nota di oggi è in due parti: nella prima m’occuperò di una casa editrice e nella seconda di un suo interessante volume da poco in libreria. Un uomo che si chiami Francesco Bevivino ha già un cognome dal suono per me caro, che sia il benvenuto su Cosmotaxi. I suoi meriti non stanno soltanto in quell’invitante cognome perché di meriti ne ha altri: dal 2002 guida l’omonima casa editrice che sul finire del 2006 s’è ristrutturata e rilanciata sullo scenario editoriale. Anche il sito web s’è rinnovato in grafica e meccanica di navigazione e questo 2007 vedrà l’Editrice impegnata a realizzare i nuovi programmi che s’è data. A Francesco Bevivino, ho chiesto: qual è oggi il profilo della tua Casa e quali gli obiettivi espressivi e di mercato dell'Editrice? La Bevivino editore è nata quattro anni fa a Milano e fin dal suo esordio si è subito caratterizzata per l’assoluta ‘opposizione’ alla logica della nicchia tipica della piccola editoria. Proprio per questo, oggi contiamo 10 collane con oltre 80 titoli pubblicati, la realizzazione di due importanti mostre e il primo master in Italia sulla figura del ‘cool hunter’ il cacciatore di tendenze, sviluppato in collaborazione con aziende e università. In questi quattro anni abbiamo sviluppato collaborazioni molto interessanti con l’Università di Roma, la Rai, con l’Isimm e il Comico. Inoltre, una delle nostre collane, ‘I Cattivi’, ormai vicina ai 30 titoli, è stata considerata nel 2004 uno dei migliori progetti editoriali dell’anno, tanto che alcuni di quei titoli sono stati venduti anche all’estero. In questo senso, e anche grazie all’esperienza maturata, abbiamo deciso di realizzare libri che siano sempre più da catalogo: sappiamo che significa combattere con i mulini a vento visto che ormai le librerie e la promozione stessa lavorano solo sulle novità, ma il nostro obiettivo è quello di premere l’acceleratore sui prodotti di qualità e sugli autori che, almeno a nostro giudizio, hanno ancora qualcosa da dire. Abbiamo avuto il piacere di collaborare con importanti nomi: da Alberto Abruzzese a Ugo Ronfani, da Francesco Saba Sardi a Giandomenico Amendola, da Enzo Cheli a Claudio Petruccioli, da Niccolò Ammaniti ad Andrea G. Pinketts. Tutto ciò come si può coniugare con un mercato saturo e sempre più legato alla logica del profitto? Sembrerà forse utopico, ma al contrario di Franco Tatò e delle sue (pessime!) idee espresse nel suo libro dal titolo emblematico “A scopo di lucro”, credo che chi fa cultura non possa vedere il proprio progetto misurato solo dal risultato economico, in quest’ottica, infatti, un editore come Giulio Einaudi (fallito e poi entrato nell’orbita Mondadori) avrebbe fatto meglio a occuparsi di altro, ma il valore del progetto culturale della casa editrice Einaudi è stato certamente vincente e utile all’Italia intera.
Quale metodo usi per selezionare le proposte che t’arrivano e che rientrano nella linea editoriale che hai esposto prima? Cerco di selezionarle facendo riferimento per prima cosa al rapporto personale, mi piace cioè conoscere personalmente chi collabora con noi; poi leggo i testi e li faccio leggere a persone di fiducia. Per ciò che riguarda la narrativa, specie degli esordienti, valuto la disponibilità a mettersi in gioco: ognuno di noi è in potenza uno scrittore, il problema è che nell’atto non sempre questo corrisponde al vero, chi non accetta di discutere e rivedere il proprio testo considerandolo ‘inviolabile immodificabile’ è il primo a non essere pubblicato. Infine, devo ammettere, c’è poi una questione di puro gusto: mi capita di innamorarmi di alcuni libri e sulla base di questo innamoramento decido di dare alle stampe anche testi non sempre ‘in linea’ col nostro piano editoriale.
Delitti eccellenti
Un tempo quando veniva ucciso un uomo celebre, l’assassino non poteva aspirare alla notorietà che le nuove tecnologie di comunicazione conferiscono oggi al suo gesto. Difatti, di epoche lontane si ricordano con difficoltà oggi i nomi degli omicidi di personaggi famosi; è quasi un eroismo da quiz sapere che fu il monaco Jacques Clément a pugnalare il re Enrico III o ricordare che fu John Felton a mettere fine ai giorni del Duca di Buckingam, oppure Balthazar Gérard a stendere Guglielmo I d’Orange. Insomma, di quei secoli lontani ricordiamo gli uccisi e non gli uccisori. Dal telegrafo alla radio, dalla tv a internet, la velocità di trasmissione e il risalto che hanno acquistato le cronache rendono planetarie le notizie, specie se riguardano fatti clamorosi. Immagino siano state queste le ragioni che hanno fatto decidere Fabio Alcini a occuparsi di famosi assassini (dall’epoca del telegrafo in poi) di grandi personaggi. 15 minuti: ballate per assassini, s’intitola il ghiotto volume dal titolo d’eco warholiana di Alcini mandato in libreria dall’editore Bevivino. Biografie, e dettagliate descrizioni del delitto, di 15 personaggi i quali, diversamente da quanto accadeva un tempo, sono stati noti all’epoca dell’attentato tanto quanto le loro vittime, e non è proprio da quiz troppo carogna ricordarne i nomi adesso perché i media ancora ne parlano. Da John Booth (Lincoln) a David Chapman (Lennon), da Lee Oswald (Kennedy) a Jack Ruby (Lee Oswald), da Pino Pelosi (Pasolini), a Nathuram Godse (Gandhi), ad altri ancora. In qualche caso, si tratta d’assassini indiziati per i quali l’autore s’è avvalso del giudizio di commissioni d’inchiesta o tribunali, pur mostrando al lettore i lati tuttora oscuri che avvolgono quelle vicende. A Fabio Alcini, giornalista, autore di programmi radiotelevisivi e, prima di questo libro già in catalogo con altri titoli presso Bevivino, ho chiesto: aldilà della folgorante riflessione di Warhol sui quindici minuti di celebrità, hai trovato studiando le biografie degli assassini un'altra motivazione che possa accomunare le loro storie personali?
Si tratta di quindici personaggi accomunati da un’estrema voglia di emergere. In qualche caso, come con Chapman o con Charles Manson, siamo di fronte a effettivi disturbi della personalità, mentre in altri casi (come con Bresci, uccisore di Umberto I, o con Mercader che uccise Trotskij) le motivazioni sono politiche e quindi molto più ragionate. Ma c’è un desiderio comune di lasciare un segno, di imporre la propria personalità. Anche quando ci troviamo di fronte al caso di un padre (Marvin Gay Senior) che uccide un figlio (Marvin Gay Junior): uccidere avvia, per personaggi di questo tipo, non necessariamente dotati di qualche talento particolare, una trasformazione in qualcosa di più grande. È come se gli assassini in questione tentassero un processo di cannibalismo nei confronti della personalità della vittima, che di solito è una persona più famosa, più celebrata e, nel complesso, migliore di loro. Fabio Alcini “15 Minuti: ballate per assassini” Pagine 290, Euro 15:00 Bevivino editore
martedì, 2 gennaio 2007
I ragazzi di Teheran
Allorché si pensa all’Iran (ma anche all’Iraq, all’Afghanistan) l’ultima immagine che si forma è quella dei giovani locali. Potrebbero anche non esserci tanto quelle immagini sono fatte di mantelli neri, cappi di forca, donne lapidate, libri sacri portati in processione. Non è così, naturalmente. Specie in Iran abitato per due terzi da under 30; su una popolazione totale di circa 69 milioni, i giovani, infatti, sono 42 milioni. Sono donne e uomini che non hanno partecipato alla cosiddetta rivoluzione che ha dato origine alla Repubblica Islamica e con essa a tante nuove disgrazie. Sicché non deve meravigliare che ci siano fermenti e gruppi che non vogliono saperne di barbe maomettane, chador e altre allucinazioni politico-religiose. E questo ci fa capire meglio come sia nata, e venuta alla ribalta internazionale, la clamorosa contestazione di giorni fa ad Ahmadinejad fatta proprio da un gruppo studentesco che sembra sparito nel nulla; dei componenti di quel gruppo, difatti, nulla si sa e, purtroppo, parecchio lo s’intuisce. Del resto, se ignoriamo tante cose dei giovani di quel paese è anche perché non abbondano pubblicazioni sul tema e, quindi, è benvenuto un volume mandato in libreria dalle Edizioni Infinito intitolato I ragazzi di Teheran: I giovani in Iran e la crisi del regime. N’è autore Antonello Sacchetti, giornalista, fondatore della rivista telematica Il Cassetto, che la realtà iraniana la conosce da vicino. Il libro – s’avvale della prefazione di Siavush Randjabar-Daemi (manco a dirlo, ha 27 anni) – è un utilissimo strumento per chi lavora nell’informazione e per chi ha curiosità politiche e culturali su paesi di cui ci giungono solo notizie di repressioni e guerre. Le pagine, fornendo dati e riportando articolate riflessioni, percorrono i vari campi nei quali vivono, e come li vivono, i giovani iraniani: dall’università al servizio militare, dal web alla condizione femminile, dal cinema alla musica, dalla letteratura al teatro. Com’è stato realizzato tutto questo lo spiega l’autore in quest'intervista. Il libro contiene una ricca appendice con una sintetica storia recente dell’Iran, un profilo della maggioranza religiosa iraniana ch’è sciita, un glossario che spiega le parole che più ricorrono nelle cronache su quel paese.
Antonello Sacchetti “I ragazzi di Teheran” Pagine 91, Euro 10:00 Infinito Edizioni
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