Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
mercoledì, 28 febbraio 2007
La perfidia delle donne
E’ possibile scrivere un libro di storia senza che il lettore già ronfi a pagina 3? Sì, se è scritto come ha fatto Valeria Palumbo nel suo La perfidia delle donne, venti profili di astuzie e crudeltà femminili dall’antichità al ‘900. Libro che tracciando con scrittura scattante, mai sussiegosa gli scenari di varie epoche ne fa spiccare figure note e meno note con ricchezza d’aneddoti frutto di un’attenta documentazione. Il libro si legge d’un fiato, perché in modo avvincente narra di trame e lame, congiure riuscite e sventate, amori insinceri e passioni sfrenate. Per la biografia dell’autrice, l’introduzione al volume, un forum sulle pagine della Palumbo, interviste, foto e ritratti di donne perfide e, talvolta, perfidissime, cliccate QUI A Valeria Palumbo (nella foto), ho chiesto: che cosa principalmente ti ha spinto a scrivere questo libro?
Mi occupo di storia delle donne soprattutto in rapporto al potere e, quindi, alla libertà. "La perfidia delle donne", apparentemente, esplora il tema dei personaggi femminili che, adoperando sistemi e sentimenti tradizionalmente attribuiti agli uomini, ovvero la prepotenza e la sete di potere (sia pure in una "declinazione femminile" che fa prevalere la strategia sulla violenza), sono riuscite a farsi largo nella storia. In realtà, il libro, affronta proprio il tema del racconto della storia e del potere che hanno gli storiografici (e oggi i giornalisti): si esiste, nella storia, in quanto qualcuno ci racconta. E poiché sono stati gli uomini a detenere il monopolio del racconto le donne appaiono molto più assenti e molto più emarginate, e piene di difetti, di quanto siano realmente state. Le regine, le scienziate e le rivoluzionarie, per intenderci, non sono mai mancate ma, anche quando i cronisti hanno deciso di dar spazio alle loro imprese hanno quasi sempre espresso un giudizio negativo, basato sul pregiudizio, inamovibile e diffuso in tutte le culture, che le donne sono esseri inferiori, che devono restare entro confini (matrimonio e maternità) ben definiti, che se provano il desiderio di essere libere e potenti sono abnormi. Questa certezza della "mostruosità" delle donne di genio ha resistito in Occidente fino a tempi recenti. Il femminismo incide con lentezza su alcuni settori della società. Il desiderio di alcune ragazze di pilotare aerei di linea, entrare nell'esercito o dirigere banche è stato avvertito, complici i media, come "anomalo" fino a ieri. Questo è anche il tema del mio prossimo libro, “Svestite da uomo” (maggio 2007, Bur) che racconta delle tantissime donne, che, nel corso dei secoli, si sono vestite da uomo per fare ciò che era loro vietato (posso assicurare: in pratica tutto) . Perché la scrittura della Storia – aldilà della storia delle donne esplosa con il femminismo – vede pochi nomi femminili nel corso dei secoli? Mentre nelle arti, nella scienza e in altri campi la presenza delle donne, sia pur spesso oscurata, è stata notevole? In Italia, la Società Italiana delle Storiche, ad esempio, è nata solo nel 1989… Quanto alla mancanza di una storiografia femminile è vero in parte. Innanzi tutto alle donne è quasi sempre stato vietato pubblicare, esiste però una vastissima produzione di diari, lettere, scritture private che oggi si sta enormemente rivalutando: le memorialiste francesi del Seicento e del Settecento sono spesso più sincere, più attente, più caustiche e più interessanti dei loro ingessati colleghi uomini. Paradossalmente proprio la coscienza che non sarebbero state pubblicate, le ha rese più libere e quindi più fededegne. Un paio di anni fa parlavo di Primo Levi con una sopravvissuta di Auschwitz e lei, con un'acutezza non esente da perfidia, mi diceva che il limite di Levi era che, come spesso accade agli uomini, era entrato nel campo già pensando che sarebbe diventato un testimone, che, una volta uscito, avrebbe raccontato al mondo che cosa succedeva là dentro. Mentre lui osservava, le donne tentavano di capire che fine avevano fatto figli e genitori anziani. Il giudizio può apparire crudele, ma certo è che in gran parte delle cultura la scrittura ufficiale femminile era addirittura vietata. Eppure, è esistita perfino una scrittura segreta delle donne cinesi su tessuto. In gran parte delle culture (ancora oggi in molti Paesi musulmani) la testimonianza femminile vale la metà di quella maschile. E allora, come e perché testimoniare? Per secoli, poi, i monasteri sono stati l'equivalente della redazioni dei grandi giornali d'oggi: era lì che si produceva la cronaca. E sulla misoginia dei monaci è inutile insistere. Valeria Palumbo “La perfidia delle donne” Pagine 376, Euro 17:00 Sonzogno Editore
martedì, 27 febbraio 2007
Un antropologo nel pallone
“Come? Lei crede ancora al tifo e agli idoli?... Ma dove vive, Don Domeq? … Non esiste punteggio, né formazioni, né partite. Oggi le cose succedono solo alla televisione e alla radio. La falsa eccitazione dei locutori non le ha mai fatto sospettare che è tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio è stata giocata tanto tempo fa… Da allora il calcio, come tutta la vasta gamma degli sports, è un genere drammatico, interpretato da un solo uomo in una cabina e da attori in maglietta davanti al cameraman” (Borges, da Esse est percipi, 1967). Queste le profetiche parole scritte, quarant’anni fa, dal grande scrittore argentino. Manca solo il sangue che è stato versato intorno ai campi da allora ad oggi. Non entro in uno stadio da vent’anni – ed era uno dei miei luoghi pubblici preferiti insieme ai bar (che ancora lo sono) – né credo ci andrò più. Visto, come anche gli scandali italiani recenti hanno dimostrato, che il calcio è una manfrina tv, tanto vale vederlo sul teleschermo, come una fiction; e, talvolta, purtroppo, anche con le emozioni della morte in diretta. Un libro che studia quel gioco, da pochi giorni mandato in libreria da Meltemi (una mia intervista a Luisa Capelli che dirige l'Editrice l'ho pubblicata questo mese nella Sez. Enterprise), è Un antropologo nel pallone, di Bruno Barba, ricercatore di Antropologia presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere di Genova. Da una quindicina di anni si occupa di sincretismo religioso e di meticciati culturali in Brasile e Sudamerica. Le sue pubblicazioni più recenti: “Brasil meticcio”; “Bahia, la Roma Negra di Jorge Amado”; “B. I. Exu e Pombagira”. A Bruno Barba ho chiesto: il calcio diventerà come Rollerball?
Sono arciconvinto che il calcio conservi tutta la forza per resistere alle tentazioni e pulsioni negative. Insegna il rispetto delle regole, simula la realtà e allo stesso tempo la supera, incanala la forza fisica, ci aiuta ad apprendere che la sconfitta, nel gioco come nella vita, è non solo possibile, ma necessaria. Altrimenti non ci potrebbe mai essere un vincitore. No, non è utopia: è la certezza che questo sport impreciso e imperfetto, perché giocato con i piedi e non con le mani, abbia in sé, geneticamente, la possibilità di vincere. Basta soltanto che tutti noi, ognuno di noi faccia uno sforzo, piccolo e quotidiano contro la debolezza e la convenzione, la violenza e l'intolleranza. Come? Basta pensare ai bambini, osservare la loro gioia quando vedono per la prima volta rotolare il pallone. Imitarli, e basta. Illusione? Forse, ma come diceva Garcia Marquez, "l'illusione non si mangia, ma alimenta". Puntando su questo il calcio non diventerà mai Rollerball e non si renderà mai schiavo della violenza. Bruno Barba: “Un antropologo nel pallone” Pagine 167, Euro 16:00 Edizioni Meltemi
domenica, 25 febbraio 2007
Special su Love is contemporary
Cosmotaxi Special per Love is contemporary
Terni, 21 febbraio – 3 marzo 2007
Aforisma
“Molte persone sono sgomente di fronte al nuovo, a me sgomenta il vecchio”
John Cage (Los Angeles, 1912 – New York, 1992).
Amori contemporanei e temporanei
Con un sapiente, e malizioso, effetto grafico, nel nome di questa rassegna, cui Cosmotaxi dedica questo special, l’amore – oggetto di riflessione del Festival – v’appare scritto in modo che possa essere letto, come contemporaneo e provvisorio al tempo stesso. E mi ha fatto pensare a certi versi di Auden: “Amore che t’appare sceso da chiare nubi e monti / che poi t’abbandona fuggendo per campi, fiumi e valli…” E rimanda all’effimero cui si consegna e si celebra tanto nuovo agire artistico. Mi piace aprire questo Special ricordando quanto mi disse un giorno la Zarina patafisica Brunella Eruli: Quando vedo lunghe code per entrare ad una mostra, sono assalita da due opposte reazioni: una che dice, beh, tutto sommato il gusto del pubblico é cambiato; ma l'altra mi dice: perché queste persone fanno la coda per vedere Picasso, ma non s'interessano ai Picasso di oggi, non sanno riconoscerli, non gliene importa niente. Vogliono il marchio di fabbrica, il bollo dei critici, il prezzo del mercato. La sicurezza dell'investimento del loro tempo. Ho fatto questa citazione perché mi pare proietti bene un discorso su come il nuovo venga – e meglio: non venga – visto da molti. A Terni, invece, tutto ciò è stato felicemente smentito per quanto riguarda il Festival Love is contemporary che, pur presentando artisti nuovi e nuovissimi, ha visto una partecipazione di pubblico imponente per numero e competenza. Festival alla sua I edizione e che, realizzato da Indisciplin@rte (ve ne parlerò fra breve) nasce con il patrocinio e il contributo dell’Unione Europea, della Regione Umbria, della Provincia e del Comune di Terni. E’ un Festival internazionale che ha meritato l’attenzione del pubblico e dei media sia per la qualità di quanto proposto e sia per la perfetta organizzazione di cui s’è giovato. La sua attenzione è centrata sulle arti elettroniche e la performance, sui nuovi linguaggi, sul rapporto fra schermo, monitor, scena e suono. Sonorità e immagini si sono mescolate nelle numerose e ampie sale del complesso ex Siri, uno spazio capace di ospitare un insieme di eventi rispondenti a molteplici pratiche estetiche contemporanee: live-media, concerti, azioni performative, installazioni audiovisive; una felice occasione ambientale per verificare lo stato dell’ibridazione fra le arti, dell’interlinguaggio. Un ragionato incontro che punta a lanciare lo sguardo nella nuova ottica dell’arte oggi mossa da motivazioni e tecniche che sono vissute, e vanno fruite dal pubblico, con nuove modalità concettuali e nuovi traguardi espressivi. Ho aperto questa nota con una citazione, la chiudo con un’altra. E’ di Marcel Duchamp e va anche oltre le arti visive: “Da quando i generali non muoiono più a cavallo, non vedo perché i pittori debbano morire davanti a un cavalletto”. Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, efficientissimo l’ufficio stampa guidato da Luca Dentini: stampa@indisciplinarte.it Ancora una cosa, prima di guardare più da vicino il programma. Non c’è contraddizione fra quanto afferma il logo che pone la data del 25 febbraio come ultima della rassegna e il mio indicare il 3 marzo. Fino al 25, infatti, ci sono stati gli spettacoli dal vivo, ma le installazioni sono fruibili fino al 3 marzo, siete ancora in tempo, quindi, per una gita a Terni.
Indocili e ribelli
Love is contemporary, come già detto, è stato realizzato da Indisciplinarte, Associazione condotta da Chiara Organtini - Linda Di Pietro - Marco Austeri - Massimo Mancini con la collaborazione di uno stuolo di giovani, i nomi tanti e mi perdoneranno se non li trascrivo tutti sennò facciamo notte. Il loro lavoro – di cui questo Festival è solo uno dei momenti del nutrito programma che agiranno – è concretamente sostenuto da Sonia Berrettini, Assessore alla Cultura del Comune Terni, che ha avviato una intelligente politica di rinnovamento tesa a valorizzare le energie artistiche del territorio integrandole con presenze internazionali. Da notare anche da parte di quell’Assessorato un’attenzione al cinema e alle sue possibilità produttive locali. La banda dei quattro i cui nomi ho fatto prima, si dimostrano competentemente indisciplinati e l’occasione degli Eventi Valentiniani (S. Valentino è il santo protettore di Terni, città di cui s’occupa quando gli innamorati gli lasciano tempo libero) ha suggerito loro una riflessione su Amore e Creazione, che - come afferma Chiara Organtini, aria da bambinaccia, in perenne, mercuriale movimento tra le sale del Festival – “rivelano dinamiche parallele, si sfidano sui confini della comunicazione e della provocazione, in un continuo gioco di specchi e di sdoppiamenti, di gioie e annichilimenti”. E Linda Di Pietro – aria angelicata e odor di zolfo – alla mia richiesta di precisare in che cosa questa rassegna si distingua nello scenario dei Festival consimili, ha risposto: “Non solo nella trasversalità dei generi proposta, ma nel mettere fianco a fianco origini e filiazioni con artisti capostipiti e nuovi nomi, nel lanciare un ponte fra esperienze storicizzate e l’emergere di nuovi territori espressivi”. Scambiando opinioni con Marco Austeri e Massimo Mancini, ho raccolto dal primo l’attenzione che il Festival dedica alla nuova scena teatrale e dal secondo la necessità di dimostrare quanto anche lontano dalle grandi città sia possibile produrre eventi internazionali se si è capaci di credere nel proprio lavoro intellettuale (e fisico) fino in fondo. Amore e Creazione, dunque, percorsi, com’è scritto in catalogo, “mai rettilinei, tesi al superamento del limite”. Da parte mia, aggiungo che questo Festival con i suoi propositi e il suo cartellone, forse evita quel grave inconveniente raffigurato in un aforisma di Marcello Marchesi: “Due rette parallele s’incontrano all’infinito quando non gliene fotte più niente”.
Metafore e carnalità
Charlotte Rist, più nota come Pipilotti Rist, artista svizzera giustamente considerata come una delle grandi autrici d’arte contemporanea, ha presentato il video Pickelporno.
“Il modo in cui i nostri corpi sentono” – dice la Rist – dipende da moltissimi elementi come la temperatura, il tatto… Se siamo toccati sentiamo come se il nostro dito diventasse lungo dieci metri, o se abbiamo piedi freddi diventano molto piccoli. Il motivo per cui ho fatto questo video era mostrare tali sottili percezioni tattili”. C’è riuscita perfettamente. Da un semplice bacio ad un viaggio attraverso fantasie erotiche. Tra metafore e carnalità. Poche metafore, molta carnalità.
Ricordi Debhorah?
Se la ricorda perfettamente Debhorah Antonio Rezza insieme con Flavia Mastrella. In un gioco di sdoppiamenti, d’intervista improbabile, di gioco a rimpiattino con sé stesso, Rezza (un grande!) con la sua sublime maschera comicamente disperata racconta ricordi e sensazioni, minute memorie e massicci sussulti. 6’00” appena, un piccolo gioiello. Dimostrazione di quanto in una manciata di minuti si possa costruire un piccolo capolavoro. E divertendo. Quanto qui sto scrivendo mi torna buono per quanto sto per dire nella prossima nota.
L'arte come noia
Per fortuna in questo Festival ce n’è stata pochissima. Ma qualche occasione, è fatale, non poteva mancare. Non farò nomi. Solo cognomi.
Ad esempio i pur famosi Fanny e Alexander con il loro criptico Rebus per Ada. Ispirato liberamente (mooolto liberamente, aggiungo io) al romanzo dello scrittore russo naturalizzato statunitense Nabokov (1899-1977) intitolato “Ada or Ardor: A Family Chronicle” scritto in inglese nel 1969. Un vero rebus. Ma che abbiamo fatto di male per affidarne la decifrazione a noi? Altro esempio: Lutto privato di Stefania Bonatelli. Sette minuti come quelli interminabili di una dolorosa seduta odontoiatrica. Per fortuna, a risollevare le sorti del video ci pensa il nude look della brava attrice Ambra Senatore nel ruolo (pare) di una vedova. Se tutte le vedove fossero così, i funerali dei loro mariti sarebbero tutti affollatissimi. La tedesca di Hannover Dorte Strehlow nella sua performance dal vivo (… vivo, si fa per dire) dal non breve tutolo 1,6 HZ (hz = Hertz = herz = heart = cuore), tira col fucile su di un muro, solo un quarto d’ora dopo si scoprirà che le pallottole hanno disegnato un cuore. La Strehlow, alla fine, va via tenendo stretto fra le braccia l’arma. Prudente decisione, se qualcuno le strappasse il fucile dalle mani, lei, correrebbe più di un rischio.
Bum!
Tutt’altro discorso per la catanese Loredana Longo con Explosion, un’installazione con filmato. Durata: un minuto. Ma quante cose in quel minuto! Una stanza. Due abiti da cerimonia. Uno femminile, l’altro maschile. Una fragorosa esplosione.Gli abiti s’incendiano. Poi le fiamme d’incanto spariscono. La scena torna alla sua normalità ora devastata. Uno dei momenti più alti del Festival. E tutto in un solo minuto.
“Normalmente” – dice la Longo – “un’esplosione è inaspettata, comunque violenta, e porta inevitabilmente alla distruzione di qualcosa. Per me, concettualmente, l’esplosione rappresenta il mezzo per una ricostruzione”. Bravissima ‘sta Longo!
Il tempo della farfalla
Diceva S. Agostino “Che cos’è il Tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Non è che mi sono convertito, resto ateo come sono da sempre, ma mi serve quest’aforisma di S. Agostino per introdurre quanto segue. Spettacolo dal vivo, ma fruibile anche come sola installazione audiovisiva è D’Istanti di Sabina Proietti, Antonio Scrittore, Olimpio Mazzorana. Tre artisti che si sono associati in questo riuscitissimo lavoro che riflette sul tempo della vita di una crisalide. Che è breve. Intenso. Bruciante. I movimenti della Proietti, le foto di Mazzorana, una stanza (uno spettatore per volta vi può entrare) ideata da Scrittore con un’infinità di ticchettii prodotti da tantissimi orologi… ops!... pare che si dispiaccia sentire definire orologio quei suoi misuratori di Cronos, e allora chiamiamo quel congegno ‘orologos’ che, forse, è più giusto. Il tempo (t maiuscola o minuscola, fate voi) è protagonista di questa installazione-performance che è assai fascinosa.
Ho chiesto a Scrittore: si può essere in guerra contro il Tempo? Ha risposto: E’ una guerra al contrario, quella contro il tempo: vince chi si arrende. Chi invece lo affronta, chi ci lotta contro è destinato a perdere nel più squallido dei modi. Io non lo combatto, il tempo. Io cerco solo una via diversa, più lenta, per scandire il suo inesorabile passare. A Sabina Proietti fondatrice dell’Associazione Culturale ‘Fringe’, attrice e regista, ho chiesto che cos’è per te lo spazio scenico? La sua risposta: Per me è un laboratorio dove sperimentare concretamente nuove possibilità di relazioni profonde tra gli individui e l’uso dei linguaggi che vanno oltre quelli del quotidiano. Singole diversità in equilibrio precario tra realtà e rappresentazione, tra sospensione e forza di gravità, tra presenza fisica e poetica, illusione e disincanto… Ho aperto questa nota con S. Agostino e il Tempo, la chiudo con lo stesso personaggio. Pare dicesse anche: “Signore, dammi castità e continenza, ma aspetta un momento”. E, stavolta, dava al tempo un significato che molto gli conveniva.
Il calore del frigo
Ricordate la figura mitologica di Sisifo? Zeus per punire una birichinata di Sisifo decise che avrebbe dovuto far rotolare un masso dalla base alla cima di un monte. Tuttavia, ogni volta che Sisifo stava per raggiungere la cima, il masso rotolava nuovamente alla base del monte, per cui il birichino castigato dovette per l'eternità ricominciare la sua scalata. Pure Stanllio e Ollio fecero in un film una fatica simile alle prese con un pianoforte che portato su faticosamente lungo una scala, per loro goffaggine se lo perdono all’ultimo scalino (più volte accade loro questa disgrazia) e devono ricominciare tutto da capo. Vengono dalla Turchia Mustafa Kaplan e Filiz Sizanli che hanno presentato Doplap. Scena di teatro-danza che vede i due trasportare un frigorifero da un punto all’altro del palcoscenico, senza l’assistenza tecnica di Sisifo né la consulenza in disastri dei due comici. Il frigo stesso nello svolgersi del lavoro diventa un corpo vivo, un terzo danzatore e ne dà di grattacapi e (autentici) rischi ai due, il robusto Mustafa e la bella Filiz che lo muovono senza prezzo e senza pace fra equilibri precari. Un gran bel lavoro. E una gran bella fatica per i due. A Mustafa - grazie all’assistenza in traduzione della già ricordata bambinaccia Chiara Organtini - ho chiesto di dirmi in estrema sintesi la situazione delle arti interdisciplinari oggi in Turchia. Così mi ha risposto: Posso dirti di Istanbul dove lavoro con la mia Compagnia Taldans che nasce nel 1996. Perché da noi c’è una situazione molto frammentata sul territorio. Mi sento, però d’affermare che, forse, proprio nel teatro-danza ci sono le più interessanti novità in Turchia. E’ il genere nel quale c’è stato il maggiore contributo di altri campi: dalle arti visive, dal video, eccetera. Interviene Filiz: E sai perché? Perché da noi non ci sono sovvenzioni pubbliche per la danza (né, in verità, per altre arti, a parte qualche piccola cosa per il cinema) e questo invece di deprimere la nostra area espressiva l’ha incentivata ad avere più fantasia, a collegarsi con artisti di altri settori, a sperimentare.
L’amore al tempo della Tv
Anni fa, un cantautore, Francesco Jovine, rivolgendosi a un suo televisore da lui amatissimo, cantava “con te mio nuovo amore m’infilo nel letto…”. L’olandese Ries Straver nel video Fuck Television (2’15”) simula d’accoppiarsi con un televisore che trasmette l’immagine di Ries stesso. Qualora quel tv avesse trasmesso l’immagine di Emilio Fede o Bruno Vespa, credo che quella voglia gli sarebbe passata. Oppure l’avrebbe simulata con altre intenzioni. Lavoro divertente e non privo di trasparenti significati che vanno oltre l’esibizionismo approdando a un’idea di ribellione contro il mezzo televisivo. Ancora dalla canzone di Jovine: “Tu non m’ami più, tu non m’ami più / ma a me cosa importa / io c’ho la tv…”.
Che notte quella notte!
Un fatto realmente accaduto nel 1950 dà lo spunto a Marco Austeri per costruire in scena un monologo affidato a Luigina Gualtieri che di quell’episodio fu protagonista – e n’avrebbe fatto volentieri a meno – col marito. La prima notte di nozze Tutti i particolari in cronaca è il titolo di questa singolare piéce nella quale accade che per un equivoco, uno scambio di persona, la polizia piombi nella camera d’albergo dove due sposini stanno trascorrendo la loro prima notte insieme. Marco Austeri, all’opposto di Luca Ronconi dove ai suoi spettacoli è bene andare con la colazione a sacco, ama la misura breve e brevissima, una sorta di teatro-clip che è difficilissimo da farsi bene (ma lui c’è riuscito) e può avere un gran futuro. Austeri, laureato al Dams di bologna, ha lavorato con Gabriele Vacis, Antonio Latella, Marco Paolini. Prima di questa riuscita prova, s’era prodotto in altre occasioni del teatro di narrazione. Ricordo qualche titolo: “Notte chiara” e “Partigiane”.
Conclusioni
Le cronache fin qui da me fatte non sono esaustive su Love is contemporary. Ma ruit hora e vado a concludere ricordando in flash altre meritevoli cose. Un’installazione, ad esempio, di Andrea Abbatangelo che dispone mobili domestici in precari equilibri che rimandano ad altri precari equilibri della coppia che in quella casa abita; il video visionario Il radiatore di Paolo Liberati; la performance d’indignazione civile di Sukran Moral intitolata di Storia vera di una donna turca; l’azione (10 spettatori per volta) Schlaflos di e con Irina Lorez . Non resta che sperare in una prossima edizione, questa ha data molta gioia. E molte riflessioni sulle visioni contemporanee, e temporanee, sull’amore.
Aforisma
L’amore è la capacità d’avvertire il simile nel dissimile.
Theodor Adorno (1903 – 1969), da “Minima Moralia”
Special Cosmotaxi su Love is contemporay
Terni, 21 febbraio – 3 marzo 2007 FINE
giovedì, 22 febbraio 2007
Invettive amorose
Immagino ispirato a un titolo del film del 1980 di Marco Tullio Giordana (‘Maledetti, vi amerò’) il nome della nuova mostra di Dario Lanzetta che vi aggiunge, generosamente, un “tutti”, sicché suona: Maledetti, vi amerò tutti! Dario è un videopittore che stimo molto e, non a caso, l’ho invitato tempo fa ad esporre suoi lavori su questo webmagazine come si può vedere cliccando QUI.
Scrive in catalogo Andrea Polati curatore della mostra: La poetica di Lanzetta è la risultante di un cortocircuito storico-artistico, dove confluiscono varie istanze: dall’Espressionismo tedesco all’Informale americano, all’Azionismo viennese; il tutto in funzione del contesto attuale, trovando nelle nuove tecnologie informatiche e digitali il medium più adatto a veicolare tutta la forza espressiva di cui si fanno carico i suoi lavori. La mostra è promossa in collaborazione con Selezione Arte. Dario Lanzetta “Maledetti, vi amerò tutti” a cura di Andrea Polati Dekamer Dinner Cafè Via Dietro Listone 13 - Verona Mercoledì - Domenica dalle 18:00 alle 02:00 Dal 23 febbraio al 15 marzo 2007
L'albero dei pipistrelli
Se un giorno vi troverete a passare per la capitale del Ghana, Accra (… probabile, no?... mi pare ci passa pure il 51 barrato), noterete al 37 di Liberation Road un ospedale, e proprio davanti al suo ingresso un albero scelto a dimora da centinaia di pipistrelli. Sergio Zuccaro, detto anche Piumalarga e Elmerindo Fiore raccontano, in forma di graphic novel, la storia, o meglio la leggenda, che sta all’origine dell’arboreo insediamento di quei volatili. Lo fanno in un delizioso librino intitolato L’albero dei pipistrelli che ha l’andamento di una favola aerea nel b/n delle matite (Fiore) e di una elegiaca canzone nel n/b delle parole (Zuccaro).
La pubblicazione si deve al gruppo Emergency di Imola. Il ricavato delle offerte per acquistare “L’albero dei pipistrelli” sarà interamente devoluto a favore di Emergency con la finalità di aiutare la clinica pediatrica di Campo Mayo (Khartoum – Sudan). Per avere il racconto, rivolgersi all’Associazione Dedalus, P. Municipio, 03034 Casalvieri, (Frosinone).
mercoledì, 21 febbraio 2007
Radio Hinterland
Quando alla metà degli anni ‘70 sorsero antenne radiofoniche private, con frettolosa euforia furono definite “libere”. La verità è che non se ne poteva più di Radiorai (oggi peggiorata rispetto a quel tempo) ingessata su modelli paludati e sussiegosi. Presto, però, con pochissime eccezioni che riguardarono le radio più politicizzate, quei microfoni cosiddetti “liberi” diventarono commerciali, fiera di vanità di conduttori-padroncini, tutto un ciuciù di bassa lega. La Rai, poi, prese a rincorrere quei modelli di trasmissione cercando di ovviare alla sua vecchiezza dandosi a un raccapricciante lifting, cercando di mostrarsi “cciovane”. Le cose oggi non sono cambiate, i grossi networks privati, anzi specialmente quelli, schiavi della pubblicità più della stessa Rai (abbandonata da molti inserzionisti per i paurosi crolli d’ascolto cui è andata incontro, specie negli ultimi anni), praticano prevalentemente una programmazione da juke-box. Per carità, niente contro le canzonette (piacevano pure a Proust che diceva: “Le canzonette, la musica da ballo, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella”), ma il troppo è troppo. La qualità, talvolta, emerge dalle radio più piccole. Oggi vi parlo di una di queste, una radio – ascoltabile anche sul web – che, pur essendo orientata sul territorio lombardo, s’avvale di un palinsesto che propone un modello il quale si discosta dal tran-tran delle altre antenne; si tratta di Radio Hinterland. Propone sondaggi su temi della società contemporanea, dedica spazio alla presenza straniera in Italia, ai problemi del lavoro e – incredibile dictu! – alla letteratura e ai libri intervistando scrittori italiani e stranieri, docenti universitari, librai, piccoli editori. A guidare la trasmissione “Hinterland Cultura” è Attilia Garlaschi ideatrice e conduttrice del programma. Dopo una laurea in discipline scientifiche nel 1984, s’appassiona al campo umanistico, insegna scrittura creativa, seleziona narrativa italiana per case editrici. E ai microfoni di Radio Hinterland confeziona interviste a scrittori di oggi, special su autori di ieri, incontra addetti ai lavori e lettori. Le sue trasmissioni – il venerdì dalle 17 alle 18, con repliche la domenica e il mercoledì – sono ascoltabili in streaming. Le trasmissioni del 2007 le trovate QUI.
martedì, 20 febbraio 2007
Going Public '06
In un libro di fantascienza di Harry Turtledove – “Dramma nelle Terrefonde” – s’immagina che il Mediterraneo a causa di catastrofi si sia prosciugato per evaporazione diventando una sorta di fossa brulla posta a diversi chilometri sotto il livello del mare. Per fortuna – nonostante l’impegno volenteroso di molti inquinatori – tutto ciò non è avvenuto e il Mediterraneo sta ancora là. I suoi vissuti artistici, le nuove rotte culturali che attraversano quel mare costituiscono il tema di riflessione del progetto Going Public giunto alla sua quinta edizione. Going Public è un "work in progress", si sviluppa attraverso una ricerca collettiva che coinvolge artisti, studenti, ricercatori, scrittori, geografi e sociologi sia italiani sia stranieri. L’edizione del 2006 è guidata da Claudia Zanfi che cura anche il catalogo edito da SilvanaEditoriale. Claudia Zanfi, critico d’arte, s’interessa di culture emergenti, micro-geografie, nuovi linguaggi. Ha diretto il progetto multimediale Virtual Gallery su video e fotografia, la sezione italiana alla sesta Biennale di Plovdiv/Sofia, e il progetto editoriale Scripta volant , piccole monografie su artisti italiani di ricerca degli anni ’60 e ’70. Nel 2001 ha fondato il laboratorio culturale aMAZElab ancora da lei diretto. Attualmente è anche visiting professor alla Middlesex University di Londra. Quest’edizione Going Public ’06 guarda al Mediterraneo, come si diceva, per comprendere le identità e le trasformazioni che coinvolgono i delicati equilibri sociali e ambientali delle realtà che si affacciano su quelle acque. Sono state studiate sei città: Istanbul, Beirut, Nicosia, Tel Aviv, Alexandria, e Barcellona. Luoghi di movimento e mutazioni, in cui sono evidenti gli effetti della globalizzazione e il cambiamento dello scenario geo-politico: l’abbandono delle tradizioni e la crescita di nuove megalopoli, l’aumento dei flussi migratori e i capisaldi turistici, le antiche rotte mercantili e le grandi infrastrutture, il ruolo ibrido e complesso delle città e dei grandi porti sul Mediterraneo. Questi sono solo alcuni dei temi intorno ai quali ruota questa edizione di Going Public. La pubblicazione, che si riallaccia concettualmente ai volumi editi nelle passate edizioni, documenta, come in una guida, i progetti, le ricerche e gli interventi realizzati, che spaziano dalle installazioni artistiche ai video, dalle performance ai dibattiti ai workshop.
A cura di Claudia Zanfi “Going Public ‘06” Edizione bilingue italiano-inglese Pagine 239, Euro 26:00 SilvanaEditoriale
Le giravolte di Carola
Da tempo sostengo che Carola Spadoni è fra i nomi più interessanti fra i giovani del nuovo cinema italiano. Fidatevi di me, ho oltre trent’anni di contributi Enpals, un po’ me n’intendo. E mi piace il suo lavoro anche perché non si limita al film narrativo, ma spazia anche nell’area dell’installazione, della performance, non a caso nel suo curriculum figura anche una presenza alla Biennale. L’occasione per segnalare ancora Carola m’è data da un’interessante rassegna – “Italia Francia, le nuove generazioni”, a cura di Philippe Azoury e Roberto Silvestri - che si tiene a Roma, a Villa Medici, e che vede riuniti otto registi delle più recenti leve del cinema francese ed italiano, registi pluripremiati da molti prestigiosi festival, ma non sempre premiati dalla distribuzione nelle sale; il film della Spadoni Giravolte è in programma per domani. Non sono il solo ad essermi accorto di questa giovane regista (nella foto), anche se rivendico orgogliosamente d’essere stato fra i primi, perché firme più autorevoli della mia (… sì, lo so, ci vuole poco ad avere una firma più autorevole della mia), ne hanno scritto. Ecco, ad esempio, che cosa hanno detto.
“Lo sguardo di Carola Spadoni dà forma ad una visione "plastica" del reale. Condivide un simile trattamento delle immagini e del suono con pochi altri: nel passato recente con Johann Van der Keuken, Robert Kramer, Alberto Grifi; oggi, con Amos Gitai, Pedro Costa, Abdellatif Kechiche soprattutto (…) Carola Spadoni è un'antropologa visiva sensibile al flusso del marginale contemporaneo oltre che, naturalmente, un'antropofaga delle sue energie”. Andrea Lissoni, "On air: video in onda dall'italia" (testo critico in catalogo), Galleria d'Arte Contemporanea di Monfalcone, 2004. “Carola Spadoni, romana, è decisamente la più newyorkese degli autori dell'ultima leva (…) Giravolte, che ha esordito al Festival di Torino ed è poi transitato al Forum della Berlinale, benissimo accolto da un pubblico internazionale, avvezzo alla sperimentazione, ne esprime benissimo la filosofia ibrida che unisce cinemascope e basso budget, lavoro d'ensemble sugli attori (o meglio non attori) e apparizioni pregnanti per chi vuole capire (Alberto Grifi e soprattutto Victor Cavallo sono addirittura icone della sperimentazione romana), multirazzialità e spirito local, citazionismo e struttura libera”.
Cristiana Paternò, "Il cinema italiano del terzo millennio, i protagonisti della rinascita", a cura di Franco Montini, Lindau, Torino, 2002.
lunedì, 19 febbraio 2007
Fondando e fondendo
Si chiama Videofusion1 una rassegna condotta da Gabriele Perretta allo Studio.Ra, luogo romano che da tempo va proponendosi tra i più interessanti nella Capitale quanto a presentazione di arte digitale. Scrive Perretta: Videofusion1 si rivolge ad un pubblico impegnato nella ricerca di una nuova dimensione dell’immagine e della parola video. Con essa si tenta di tradurre in savoir faire il patrimonio dei generi e delle suggestioni formali, accumulate negli ultimi anni dalla videoarte e dalla performing art, tecniche oramai assorbite tra schermi ed azioni. La scaletta di questa prima Miscellanea tenta di suggerire chiavi di interpretazione dei problemi culturali e tecnici dell’immagine video, per far fronte agli impegni di una pratica libera ed adeguata alle esigenze di una metaforica fusion art e di una traccia di segni intermediali. Contando su generazioni diverse di autori, che dalla poesia all’esperienza più dettagliata del ‘video’ si incontrano nel campo dell’immagine e della performance, videofusion1 cerca di mescolare ciò che la critica accademica ha sempre separato in anguste partizioni. In realtà, lo spirito della rassegna si propone di raccontare e analizzare “un’esperienza della videoarte” in una traiettoria trasversale ai generi e ai modi, prendendo a pretesto quattro o cinque punti di vista mediali, che hanno a che fare con la stimolazione delle sinergie: narrazione, quotidianità, movimento nel movimento, performing art vs performing image, critica totale e persistenza della sperimentazione, etc. […] Una delle peculiarità della rassegna è l’assemblaggio di opere ed esperienze artistiche provenienti dai territori più disparati: arti visive, cinema, televisione, teatro e performance, danza, letteratura e scritture visive . Tanti gli artisti presenti di ieri e di oggi, i nomi li trovate sul sito di Studio.Ra. L’immagine che ho scelta per accompagnare questa nota è di uno di loro, Antonello Matarazzo, già ospite di questo webmagazine nella sezione Nadir Videofusion1 Studio.Ra Via Bartolomeo Platina 1-F Info: 06 – 454 95 639 e 349 – 159 75 71 Tutti i giorni dalle 17 alle 21, esclusi i festivi Fino al 3 marzo ‘07
venerdì, 16 febbraio 2007
407 e non li dimostra
Sono trascorsi 407 anni da quel giovedì 17 febbraio 1600 in cui Giordano Bruno, fu arso vivo per volere del tribunale cattolico. Il pensiero del Nolano (per una sua biografia, cliccate QUI) è ancora vivo e soccorre in molti ragionamenti contro l’intolleranza, i dogmi, il pensiero unico. In un momento in cui il pensiero laico avanza, più prepotente e rabbiosa si fa l’intimidazione che il Vaticano lancia ai governi – per primo in Italia – nel tentativo d’imporre leggi e pensieri che provengono da lontane tenebre. Già, ai governi. Perché nulla ci sarebbe da ridire se si rivolgesse ai fedeli (è un suo diritto) ricordando loro le norme della Chiesa, peggio per chi a quelle norme ha aderito. No, tenta, con ingerenza del tutto illegittima, di fermare leggi, pretende di cambiare statuti, cerca di dividere coalizioni tuonando spesso goffamente. Lo fa in nome di un’asserita pietas, lo proclama in nome della Vita con la v maiuscola. E, contemporaneamente, nega i funerali a Welby, se ne infischia della morte di Raciti e fa svolgere a Catania lo stesso giorno di quell’omcidio i festeggiamenti per S. Agata, tanto per ricordare due avvenimenti italiani assai recenti. Anche quest’anno, quanto mai benvenute, si svolgeranno manifestazioni per celebrare l’anniversario del sacrificio di quel grande filosofo. L’Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" – come informa la vicepresidente Maria Mantello – il 17 febbraio, dalle ore 16.30, a Campo dei Fiori a Roma, ricorderà il pensiero di Giordano Bruno. Perché, com’è detto in un comunicato, Liberare la mente dai dogmi è per noi il presupposto per realizzare libertà e giustizia. E' bene ricordarselo di fronte ai rinnovati sogni teocratici di casa nostra e d'importazione. Pensare, giudicare, scegliere, agire liberamente nel rispetto del diritto reciproco alla libertà di autodeterminarsi. Ecco tutto questo oggi si chiama laicità, ed è la base della democrazia. Ed è la garanzia della saldezza della vita democratica, per ognuno e per la collettività. Per questo la nostra manifestazione (patrocinata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma e dal Centro Internazionale di Studi Bruniani) si intitola : “Nel nome di Giordano Bruno, libertà ed autodeterminazione, valori laici” . Altre manifestazioni sono previste in varie città, per saperne cliccate QUI. Colgo l’occasione per segnalare l’uscita di un libro graphic novel di Maurizio Di Bona intitolato “Chi ha paura di Giordano Bruno” con prefazione di Giuliano Montaldo edito da Mimesis. Sul web una dichiarazione dell’autore.
giovedì, 15 febbraio 2007
La battaglia del prode Anselmo
In questa rubrica, recensisco pochi romanzi. Perché li amo poco. Concordo con quanto diceva Pessoa: “Il romanzo è la favola delle fate per chi non ha immaginazione”. E Giorgio Manganelli: “Basta che un libro sia un ‘romanzo’ per assumere un connotato losco”. Molti lettori (non tutti, s’intende) di quel genere letterario sembrano, infatti, così privi di fantasia da chiederla in prestito ad altri. Comunque, mi piaccia o no, i romanzi esistono, talvolta sono anche belli, e per lavoro me ne occupo (sigh!) da molti anni. La casa editrice nottetempo, per esempio, ha un fiuto eccezionale nel pescare buona narrativa. E’ il caso di una sua recente pubblicazione: La pelusa, di Adrián N. Bravi, scrittore argentino che vive in Italia e scrive in italiano. Nel 1999 ha pubblicato “Río Sauce”, poi il debutto in Italia, e in italiano, nel 2004, con Restituiscimi il cappotto edito da Fernandel. La pelusa è la storia di un’ossessione, quella che ha il protagonista, il bibliotecario Anselmo Del Vescovo, per la polvere, peggio ancora se si presenta come lanugine, pelusa appunto. Anselmo ha una moglie alcolizzata (e va capìta, chi non lo sarebbe con un marito così!) che si sforza invano d’assecondare il coniuge in quella sua manìa di pulizia che va oltre l’igiene, sconfina nelle inquiete praterie di una ragionata follia. La caccia allo sporco diventa per Anselmo attacco e difesa, elabora tattiche esplorative e strategie pulenti soprattutto nel suo territorio domestico, perché fuori, in ufficio o per strada, la polvere, pur malsopportandola, non gli arreca lo stesso atroce disagio. La cosa si presta a fatali riflessioni psicoanalitiche, ma me n’asterrò per due motivi: il primo è che non credo sia la chiave migliore per capire il libro di Bravi, il secondo per non imbattermi in una cosa che amo poco quanto i romanzi, cioè la psicoanalisi; le preferisco gli psicofarmaci. La descrizione di quanto accade e fa il protagonista dà gran godimento di lettura, una scrittura veramente straordinaria, sembra quasi il racconto di un fratello entomologo di un insetto. Poi accade che un giorno ad Anselmo si presenti un altro che si chiama Adrián Bravi, proprio come l’autore del libro, e ha la stessa avversione per la polvere. Qui, pur trovandoci di fronte ad una sempre fascinosa macchina narrativa (l’incontro col Doppio) a me è sembrato che le pagine perdano qualche colpo, diventino cioè pericolosamente romanzate. Ma ve l’ho già detto, non fidatevi di me, non amo il genere. Eppure prima di quel coup de théâtre (che piacerà a moltissimi lettori, quanti ne auguro a Bravi) che pagine strepitose! Come va a finire? Anselmo – rifacendoci alle locuzioni popolari – morderà la polvere?... mangerà la polvere?... si ridurrà in polvere? Non ve lo dico. Non vorrei attirarmi, svelando il finale, le ire delle edizioni nottetempo. Sento già odor di polvere, e non mi conviene dar fuoco alle polveri. Del resto, le librerie stanno lì per questo. Per acquistare i libri. E questo è un libro che vale un passaggio alla cassa di quei negozi.
Adrián N. Bravi “La pelusa” Pagine 144, euro 12:00
mercoledì, 14 febbraio 2007
Loro stanno lì
La casa editrice Minimum Fax ha mandato in libreria sedici racconti, sedici esordi narrativi sotto il titolo Voi siete qui. Costituiscono una ricognizione letteraria fra le generazioni più giovani, insomma le promesse (e, perché no, anche le minacce) che aspettano il lettore nei prossimi anni. L’operazione è a cura di Mario Desiati, scrittore e redattore della storica rivista letteraria “Nuovi Argomenti”. Ha pubblicato i romanzi “Neppure quando è notte” (peQuod, 2003) e “Vita precaria e amore eterno” (Mondadori, 2006), le raccolte di versi “Il generale Inverno” (Socrates, 2002), “Agrimensure” nell'Annuario della Yale University (2002) e “Luci gialle della contraerea” (LietoColle, 2004). Si è sottoposto alla fatica che non gli invidio di leggere centinaia di racconti su riviste e sul web per dare vita a quest’antologia che, come dicevo in apertura, si propone di presentare nuovi scrittori ma anche, attraverso questi, di capire pure che aria tira sulle modalità di linguaggio usate dagli autori più giovani. Operazione, quindi, doppiamente meritoria. Francamente non credo che sia oggi la pagina stampata a rivelare grosse novità, e l’antologia pur ricca di stimolanti pagine mi sembra confermarlo. Diversa cosa, invece, avviene sul web. E’ qui che vedo, attraverso l’uso sempre più raffinato dell’ipertesto, sorgere strutture narrative di grande interesse; la confluenza d’immagini, suono e parola, la possibilità d’interazione col lettore alla maniera di un videogame, i potenziali sviluppi dei wiki cioè l’ipertesto collaborativo on line con scarti e deragliamenti delle storie provenienti da più fonti. Mi riferisco a quella “scrittura mutante” che, ad esempio, Carlo Infante va esplorando da tempo. Usare l’elettronica – alcuni dei racconti del libro sono tratti da riviste internettiane – per scrivere una pagina che poteva essere scritta sulla carta mi sembra come possedere un jumbo e per muoverlo farlo trainare dai cavalli. Sia come sia, e gusti dello scrivente a parte, Voi siete qui merita ogni rispetto sia per il riuscito impegno del curatore e sia per quanto è prodotto dai sedici autori in quelle pagine – il cui livello medio è buono – che presentano un’occasione pressoché unica di conoscere quanto va accadendo sulla cellulosa dei nostri giorni in Italia. A Mario Desiati ho chiesto: come hai operato le tue scelte, a quale criterio critico ti sei ispirato? Si trattava di scegliere tra il materiale delle riviste letterarie soprattutto testi esordienti, ossia autori non ancora pubblicati e farli conoscere al pubblico dei lettori. La mia idea è nata dalla certezza che oggi in Italia gli esordienti sono più motivati a dare il meglio di loro stessi in rivista, rispetto agli scrittori affermati. Scommetto che tanti di questi 16 esordienti troveranno nei prossimi mesi editori e un loro pubblico. I racconti che ci hanno convinto di più, che siamo riusciti a leggere più volte, che ci hanno appassionato, sono stati discussi con la redazione di Minimum Fax. Curatore da una parte e redazione dall'altra che ha portato a uno stimolantissimo dibattito che ha prodotto questo libro.
Fatale in un’antologia citare i pezzi che sono più piaciuti volendo evitare la grande bontà, o piccola viltà, di trovare un aggettivo per tutti. Nel mio gradimento, il primo è “Il pugile” di Tommaso Giagni (fra i più giovani, vent’anni), uno che cura il linguaggio, lo fa alla grande e se n’infischia del plot. Un altro notevole è “La delegazione arrivò a Massa senza troppi casini” di Duccio Battistrada, ancora uno che racconta emozioni e non trame (… meno male!) e lo fa benissimo. Segnalo poi il racconto “Venticinque forbici” di Tiziana Battisti, storia visionaria di una metamorfosi. E ancora “Fantasilandia”, per il suo veloce ritmo e i colori acrilici della storia, l’ha scritto Axel Braun. Per una scheda del libro e leggere le recensioni finora ricevute, cliccate QUI Aa. Vv. “Voi siete qui. Sedici esordi narrativi” A cura di Mario Desiati Pagine 264, Euro 12:50 Minimum Fax
martedì, 13 febbraio 2007
Alle origini del graffitismo
C’è l’occasione di vedere per la prima volta a Roma una mostra dedicata ad un artista recentemente scomparso, George Lilanga di Nyama (1934 – 2005), grande rappresentante dell’arte contemporanea africana. Profondamente legato alla cultura makonde e alla sue tradizioni, precursore di Keith Haring, realizza opere surreali e coloratissime confinanti con lo stile dei graffitisti statunitensi. Vissuto sempre nella sua terra in Tanzania, amava ripetere: "Dipingo quando sono felice e racconto le vicende quotidiane del mio popolo". E, infatti, il tracciato espressivo di George Lilanga – dalle sculture lignee policrome ai monocromi su carta, ai dipinti su pelle di capra fino ai grandi lavori su lastre di ferro tagliate con seghetto a mano e ai dipinti su masonite o faesite – ruota tutto attorno ai temi animistici della tradizione del suo paese, temi che si materializzano nella fitta e sempre varia presenza colorata di spiritelli-elfi benefici, cosiddetti “mashetani” o “shetani”, intesi a mimare situazioni quotidiane legate alla vita del suo villaggio natale. L'artista restituisce una realtà gioiosa e felice accompagnando le sue immagini con titoli che descrivono la scena rappresentata lanciando un semplice messaggio di saggezza popolare. Alcuni titoli, sono entrati nel repertorio della letteratura africana contemporanea e persino nello slang in voga tra i giovani: frasi come "Dopo aver ricevuto le diverse notizie, la famiglia è rimasta sorpresa", "Aspetta, non ricordo quando dobbiamo partire", "Sono in attesa della spesa del supermercato", "Aspetta un attimo, mi prude il collo", "Quando i bambini giocano, saltano di qua e di là", "Ehi ti stiamo aspettando", "C'è una parola ma l'ho dimenticata". La mostra è organizzata dalla National Gallery di Firenze dagli studiosi ‘di linguaggi altri’, Luca Faccenda e Marco Parri. Ho appreso che Lilanga poco prima di morire ha voluto (ed è il primo caso dell’arte africana) con un atto notarile dare mandato in esclusiva dal giorno della sua morte affinché le sue opere presenti in Europa e in Asia politica e geografica venissero autenticate proprio dagli esperti della National Gallery di Firenze. A proposito di Luca Faccenda mi piace ricordare che ha pubblicato per primo in Italia uno studio sui maestri dell’arte contemporanea africana (Editore L & O, Livorno) in occasione della mostra “Africa nera - Cuore rosso”, tenutasi al Museo Archeologico, Palazzo Bombardieri, Rosignano Marittimo, nel 1995. Il catalogo della mostra romana di Lilanga – edito dalla National Gallery fiorentina – contiene testi di Renato Barilli e Lara Vinca-Masini.
George Lilanga di Nyama “Opere scelte 1970 – 2005” Museo Hendrik C.Andersen Via P.S.Mancini 20, 00196 Roma Ingresso libero Info: 06 – 321 90 89 / 06 – 322 98 302 Email: comunicazione.gnam@arti.beniculturali.it Fino all’1 Aprile 2007
Pugni di zolfo
Il Teatro Vascello accanto al cartellone della Sala A (attualmente lì s’assiste al successo di Manuela Kustermann interprete e regista di “Morire e non morire” testo di Sergei Belbel che ho presentato in una precedente nota) attraverso la programmazione della Sala B propone autori, attori, registi che sono le speranze (e, talvolta, le minacce) della nuova drammaturgia italiana. Autore, attore e regista che promette e non minaccia è Maurizio Lombardi ch’è in scena con Pugni di zolfo. Poco più che trentenne ha al suo attivo una carriera che lo ha visto lavorare con registi i cui nomi vanno da Ugo Chiti a Ridley Scott, da Philip Hass a Franco Zeffirelli. A Maurizio Lombardi ho chiesto di parlare di questo suo recente lavoro.
Quando ho letto la poesia ,trovata per caso, di Ignazio Buttitta “A li Matri de li Carusi” un mondo enorme di umanità e disperazione mi si è aperto davanti.La Sicilia delle zolfare ,le miniere di zolfo, dove bambini di 7- 8 anni si spezzavano la schiena per portare alla luce la nuova “ricchezza “della loro terra. Così mi sono identificato in un pugile siciliano, che fatto fuggire dalla madre da un piccolo paese, Favara, vicino ad Agrigento, si ritrova adulto nel suo spogliatoio dopo un incontro durissimo, e fischiettando la ninna nanna di sua madre ritorna con il ricordo ai suoi primi anni di vita in Sicilia. Ho scritto questo spettacolo per raccontare una storia fatta di zolfo e di sangue, di amicizia e amore, tra due “carusi” in una miniera dove il più piccolo dei due sogna di andare a fare il pescatore di acciughe con la barca di Gianni sul mare che non ha mai visto. Raccontare una terra che ha dato tanto a tutti noi, il suo mare la sua gente, la sua passione. Un racconto semplicemente un racconto alla mia Sicilia. Teatro Vascello, Sala B Via G. Carini 78, Roma “Pugni di zolfo” Scritto, diretto e interpretato da Maurizio Lombardi Fino al 25 Febbraio 2007 Poi in tournée
lunedì, 12 febbraio 2007
Smontando Oscar
“Suspense, risate, violenza, cuore, nudo, sesso… lieto fine… specialmente lieto fine”. Così il produttore Tim Robbins elenca a Greta Scacchi gli ingredienti per un film di successo in ‘I protagonisti’ del 1992. Ma le cose non sono così semplici perché accade spesso che pur seguendo collaudate regole il successo può mancare. Basta un niente. Le macchine narrative, e non solo al cinema, sono macchine ribelli, governarle è difficile. E’ interessante, quindi, osservare da vicino i congegni che sono riusciti ad assicurare buona riuscita ad alcuni film fino a farli raggiungere popolarità e perfino l’Oscar. E’ questo il fine di una serie di incontri che si svolgono per tutto febbraio al Caffé Fandango di Roma che, attraverso una fitta serie di manifestazioni è diventato uno dei centri culturali più attivi e interessanti della Capitale. Nello spazio ideato dall’architetto Paolo Bonfini, si svolgono, infatti, con un palinsesto quotidiano presentazioni di libri e album musicali, letture poetiche, incontri con autori, concerti, mostre fotografiche, proiezioni di film, documentari e corti. Il tutto condotto attraverso un piano di comunicazione guidato da Fiammetta Biancatelli che raggiunge sia gli addetti ai lavori sia un pubblico che s’è fatto sempre più numeroso fino a mettere talvolta in crisi la capienza dei locali; né mancano degustazioni a tema, assaggi di ghiottonerie, ottimi drinks che sostengono la vocazione di “Caffè” del Fandango. Torniamo agli incontri di cui vi dicevo in apertura. La scoperta dei meccanismi delle sceneggiature di film di successo è affidata a Michele LaNubile, drammaturgo e regista che proviene da studi scientifici, è, infatti, laureato in Ingegneria Strutturale, ed è stato vincitore del dottorando di ricerca in Meccanica dei Solidi presso l’Università di Pisa associando a tali impegni lo studio del cinema all’Università statunitense di Minneapolis nel Mimnnesota. Il suo curriculum artistico lo vede tra i più attivi collaboratori del Teatro Kismet di Bari. Frequentazione del laboratorio “Ipotesi Cinema” a Bassano del Grappa condotto da Ermanno Olmi, ha scritto e diretto “Io non ho la testa”, prodotto proprio da Ermanno Olmi con la partecipazione di Rai Cinema, presentato al Locarno Film Festival. Ha suddiviso questo primo ciclo al Fandango in 4 parti rispettivamente dedicate a un film drammatico: “La moglie del soldato” (Oscar ’92); psicologico “Will Huntig, genio ribelle” (Oscar ’97); thriller “Traffic” (Oscar 2000); sentimentale “Se mi lasci ti cancello” (Oscar 2004). Le sue analisi sono integrate da proiezioni d’esemplificative sequenze estratte dai film presi in esame. A Michele LaNubile, ho chiesto di parlare di questa sua operazione: da che cosa è mossa, quale finalità espressiva si propone...
Come sceneggiatore spesso analizzo belle e premiate sceneggiature per continuare a imparare nella difficile arte del raccontare. Come un investigatore alla ricerca di indizi per ricostruire la logica dei fatti, così vado anch'io alla ricerca di quegli elementi portanti che hanno guidato lo sceneggiatore per costruire la sua storia, ovvero il tema e la sua drammatizzazione, la struttura narrativa con i punti di svolta, la definizione a catena dei personaggi con le funzioni archetipiche, gli ostacoli interiori ed esteriori, fino alla individuazione della fabula e della trama. Con questi incontri al Caffè Fandango, voglio quindi condividere i miei studi con tutti gli appassionati di cinema, e di storie in generale. Qual è il maggiore demerito degli sceneggiatori italiani di oggi? Il maggior demerito degli sceneggiatori italiani di oggi credo che sia quello di permettere ai registi di collaborare alla sceneggiatura... ognuno deve poter fare il suo mestiere. Gli incontri: ogni mercoledì alle ore 19:30 Caffè Fandango Piazza di Pietra 32/33, Roma Info: 06 – 45 47 29 13
sabato, 10 febbraio 2007
Storia di una nudità negata
C’è una critica d’arte, Barbara Martusciello, che stimo da anni e perciò altre volte in Cosmotaxi mi sono occupato di mostre da lei ideate e realizzate. Ho appreso da un articolo apparso a sua firma su “Liberazione” di una ben strana vicenda che riguarda una grande artista italiana: Olga Carolina Rama. A chi fosse sfuggita quella storia, trova qui l’occasione per conoscerla. Ho apportato qualche taglio al pezzo originale che pur così eccede le solite misure che uso proporre in questa rubrica, ma, credetemi, è da leggere proprio perché narra di un inquietante caso che… vabbè, mi fermo qui sennò la faccio lunga io. Ecco l’articolo.
“Poco più di un mese fa la nota galleria d’arte romana Luxardo si è vista pervenire una diffida. Serviva a impedire una mostra che avrebbe dovuto inaugurare a febbraio: l’esposizione di Dino Pedriali, artista e fotografo di fama che ha immortalato, tra gli altri, Nureyev, Wahrol, Segal, Moravia, Fellini e Pasolini. La sua mostra consisteva in 38 scatti alla sua amica da trent’anni, Carol Rama, ritratta nuda. L’inibizione è stata esercitata da un tutore legale perché la straordinaria artista torinese, 89 anni, è stata dichiarata inferma di mente. Questa è la notizia. Per comprenderne gravità e dinamiche cerchiamo di conoscere meglio questa donna particolare, apprezzata dal mondo dell’arte ma forse non abbastanza celebrata e conosciuta. Olga Carolina Rama è nata a Torino nel 1918 […] Nei suoi olii, nelle tempere, nelle incisioni sperimenta linguaggi artistici e vi porta aspetti traumatici della vita, focalizzando la sua attenzione sui rapporti tra corpo, sessualità e identità femminile. In quegli anni Trenta e Quaranta, certi approfondimenti sono malvisti perché ritenuti assolutamente tabù, anche se sono trattati con toni grotteschi e con una naturalezza rara; la sua ricerca incappa quindi nelle maglie di una censura ottusa e coercitiva: nel 1945 le istituzioni fanno chiudere la sua prima personale e sequestrare le sue opere rendendola, agli occhi della collettività torinese, un personaggio scomodo. Questo non scoraggia Carolina. Dopo una parentesi astratta nel Movimento Arte Concreta torinese, riafferma un proprio linguaggio visivo basato sulle immagini: corpi femminili smembrati, mani, piedi, scarpe, letti, protesi, dentiere, volti inquieti, sedie a rotelle, animali e soprattutto organi sessuali prendono vita senza falsi pudori rincorrendosi e ripetendosi negli anni in un turbinio perturbante, sempre in bilico tra angoscia e ironia, cruda realtà, per quanto stravolta, e fiaba […] La scelta di dipingere tematiche così forti e spregiudicate, con una particolare predilezione per l’eros e una carica di follia che le deriva dall’aver visto così da vicino la pazzia e i manicomi dove accompagnava la madre, la collocano nell’olimpo delle creative indomabili e disturbate; la sua indifferenza nei confronti di una vita normale - niente casa e chiesa, né marito, né figli - così raccomandata alle donne di quegli anni non fanno che confermare questa sua immagine. Carol non è mai stata e non è insana di mente: è certamente eccentrica, curiosa ma schiva, trasgressiva suo malgrado, amabile e culturalmente brillante: ha compagni di strada come il geniale architetto e fotografo (anche osè) Carlo Mollino, l’artista Felice Casorati, gli scrittori Calvino e Pavese, il poeta sperimentale Sanguineti, che le dedica dei versi strepitosi; viaggia, a Parigi e a New York frequenta Andy Warhol, Orson Welles, Picasso, Louise Bourgeois e Man Ray con il quale stringe una lunga amicizia che dura sino alla morte di quest’ultimo […] Sfrontata, dispettosa, determinata, la sua voce artistica si affianca a quella di altre artiste estreme e impudiche diversamente ma quanto lei: da Frida Kahlo alla Bourgeois sino alle più giovani Sarah Lucas, Tracey Emin o Marlene Dumas non dimenticando trasversalità e derive che abbracciano anche la poesia, magnificamente espressa dall’affine Alda Merini che ha tra l’altro posato anche lei senza veli in età adulta, suscitando grande scalpore. E’ indicativo il fatto che non vi sia censura né scandalo quando la nudità, anche non più giovane e tonica, è restituita in vesti e contesti patinati, trendy, ritoccati come potrebbero essere quelli di un’anziana Sophia Loren nude-look su un noto calendario d’autore; in questo e in simili casi di giovinezza sfiorita il corpo nudo della donna è accettato, persino acclamato solo perché vessillo della menzogna: quella che occulta la realtà e la sincerità di “acciacchi” e imperfezioni, negando la naturalezza del tempo che passa per tutti e che nessun bisturi fermerà in eterno… Cosa importa a una donna eccellente come Carol Rama se rughe e difetti non la risparmieranno, nell’obiettivo senza aggiustamenti digitali e carico d’affetto di Dino Pedriali? […] Ho sentito esprimere, più volte e in varie occasioni, a Carol Rama un pensiero che è un’ottima risposta a quanto si è abbattuto sulla sua persona; recita più o meno così: “io dipingo soprattutto per costruire me stessa e per guarirmi… vogliono guarire togliendo i desideri, ma quelli io non me li faccio portar via, me li tengo ben stretti.” Ecco: ci auguriamo che la società civile, artistica e intellettuale ora reagisca affinché nessuno privi qualcun altro di questa libertà, che Carol Rama ha difeso e ha proposto durante tutta la sua vita e la sua pittura, convinta che oltre a guarire lei, e a “farla volare”, l’arte possa cambiare il modo di vedere se stessi e di percepire le cose, la realtà… E’ ovvio che questo faccia ancora paura a qualcuno”.
Esse-O-Esse da Napoli
Napoli è città che ha plurali motivi di lanciare sos. Come dire: a occasioni niente da invidiare a nessuno. Eccone una. Poiché rientra in uno dei campi d’interesse di questa rubrica, volentieri pubblico quanto m’è pervenuto.
Sono oltre 250 gli organismi che hanno costituito il Coordinamento dei produttori e promotori delle attività di cultura e spettacolo della Regione Campania operanti in tutti i settori dello spettacolo e su tutto il territorio regionale tra cui federazioni, comitati regionali ed associazioni di categoria. L’esigenza di creare questo Coordinamento è nata dalla preoccupazione per la scarsa considerazione in cui è tenuto il mondo dell’associazionismo culturale, delle piccole e medie imprese e si propone oggi di diventare un organismo stabile di confronto con le istituzioni per la tutela e la valorizzazione del settore. Per saperne di più, cliccate QUI
venerdì, 9 febbraio 2007
Signora libertà, signorina fantasia
“E adesso aspetterò domani per avere nostalgia. Signora libertà, signorina fantasia”, così cantava Fabrizio De Andrè. Penso che il pensiero anarchico sia un atto di stima che l’Uomo non merita. Indossiamo un sistema nervoso centrale che non lo ammette. L’evoluzione cammina con un passo che non ha raggiunto tutti contemporaneamente, perciò accanto a grandi figure troviamo pure grandi tiranni e piccoli teppisti; il potere, il territorio da possedere sono così profondamente incisi nel nostro dna che non ci sono speranze prossime. Come vedete, non pecco d’ottimismo. Forse il solo auspicio è contenuto nella previsione contenuta nell’ultima pagina de “La coscienza di Zeno” di Svevo con la sua tragica profezia di distruzione totale che stiamo facendo di tutto affinché s’avveri velocemente. Eppure l’anarchia con la sua illusione (che è peggio di un’utopia perché contiene in sé speranza) ha cercato, anche attraverso i suoi errori di ieri e di oggi, di fornire un’alternativa ai movimenti di quel pendolo che oscilla tra ferocia e barbarie cui l’umanità è da sempre consegnata. A queste cose mi ha fatto pensare un ottimo libro da poco mandato in libreria dagli Editori Riuniti: Gli anarchici: Cronaca inedita dell’Unità d’Italia . L’autore, Aldo De Jaco, giornalista e scrittore, è stato attento raccoglitore di documentazione storica, generalmente trascurata dalla storiografia ufficiale. Impegnato dal 1954 nel Sindacato Scrittori diventerà poi presidente dell’Unione Nazionale Scrittori. Ha pubblicato per gli Editori Riuniti: Mikis Theodorachis (1968), Antistoria di Roma capitale (1970), Colonnelli e resistenza in Grecia (1970), Di mal d’Africa si muore (1972), I socialisti (1974), Le quattro giornate di Napoli. La città insorge (1975), Il brigantaggio meridionale (2005). Gli anarchici: Cronaca inedita dell’Unità d’Italia è un libro di grandissimo interesse perché è costruito solo attraverso documenti certosinamente ricercati in libri, riviste, archivi, casellari giudiziari, emeroteche, schedari della polizia. Non vengono soltanto pubblicate, quindi, le documentazioni degli anarchici, ma anche quelle dei loro nemici. Si fa luce così su trame, soprusi, processi spesso frettolosi e popolati da falsi testimoni subiti dai rivoluzionari e, al tempo stesso, si rivelano ingenuità e divisioni nel movimento anarchico che non sempre – come sciattamente si ritiene – condivise attentati e altri atti violenti. Le storie di personaggi noti e meno noti dell’anarchia italiana sono descritte con puntualità seguendo perfino giorno per giorno i principali avvenimenti che li videro protagonisti e interessarono l’opinione pubblica. Leggendo le pagine del volume si capisce assai bene come è stato vissuto dalla Sinistra tutta quel movimento e perché, ancora oggi, vari filoni di pensiero antagonista continuano, in nuove vesti e proposizioni, a combattersi fra loro. E risulta chiarissima la contrapposizione fra anarchia e comunismo che è sfociata nel sangue, come ad esempio massimamente in Spagna durante la guerra civile. Appare evidente – scrive De Jaco nella presentazione – dalla storia di questi nostri ultimi cento anni e dalla pratica sociale di oggi, che il problema della libertà non è ancora stato risolto […] Certo però la prima generazione che quel problema si pose fu la generazione dei Cafiero, dei Costa, dei Malatesta. Dopo di essa, è vero, non ebbe più alcun senso la “rivolta anarchica”: ad altre piattaforme si affidava il compito di realizzare la libertà degli italiani. Talvolta viene il ragionevole dubbio che non si sia ancora riusciti a realizzarla pienamente. Il libro è corredato da un’ampia documentazione fotografica, con ritratti alcuni dei quali finora inediti.
Aldo De Jaco “Gli anarchici” Pagine 701, Euro 28:00 Editori Riuniti
giovedì, 8 febbraio 2007
Kustermann e Belbel
Debutta domani, a Roma, al Teatro Vascello Morire o non morire di Sergi Belbel. E’ il secondo impegno registico di Manuela Kustermann che si è già misurata con “Il gioco dell’amore e del caso” di Marivaux. Stavolta ha scelto questo lavoro di Sergi Belbel, catalano, 45 anni, molto noto e rappresentato in Spagna; in primavera un altro suo testo sarà ospite del Piccolo Teatro di Milano con la regia di Lluìs Pasqual. Il teatro di Belbel punta ad una riscoperta della tragedia anche attraverso lampi d’umorismo nero come, ad esempio, in “Mobil” – il telefono cellulare in spagnolo – d’impianto digital-telefonico, costruito su piccoli monologhi, sintetici, simili a quello degli sms. È autore, tra le altre opere di: Calidoscopios y faros de hoy (1985); La nit del Cigne (1986); Dins la seva memória (1986); Minim.mal Show (1987), con Miquel Górriz; Elsa Schneider (1987); Òpera (1988); En companyia d’abisme (1988); Tàlem (1989); Carícies (1991); Despres de la pluja (1993); Al mateix lloc (1996-97); Sóc Lletja (1997), con Jordi Sánchez, La sang (1998) ed El temps de Planck (1999). Ha tradotto in catalano opere di Racine, Georges Perec, Bernard-Marie Koltés, Moliére. Scrive sceneggiature per la televisione – Secrets de Familia ed Ivern – e per il cinema. Ha diretto per il teatro diverse sue opere - Mini.mal Show, Òpera, En companyia d’abisme, Tàlem, Caricies, Després de la pluja, Homes!, Soc lletja, El temps de Plance -, come di altri —Georges Perec, J. Sanchis Sinisterra, Beckett, Josep M. Benet i Jornet, Angel Guimerà, Shakespeare, Goldoni, Moliére, Neil Simon e David Mamet. Tra i premi ottenuti: Maqués de Bradomín 1986; Nacional Ignasi Iglésias 1987, Ojo Crítico de Rne 1992, Nacional de Literatura Dramática de la Generalitat de Catalunya 1993-95, Serra d’Or 1994, Nacional de Literatura Dramática del Ministerio de Cultura Español 1996, Molière 1999 e Nacional de Teatre 2000 de la Generalitat de Catalunya. In “Morire o non morire” – traduzione di Ilaria Panichi – s’assiste ad un girotondo di morte: sette coppie di personaggi tipici dell’immaginario metropolitano (l’eroinomane e la sorella stanca di subire; la madre castrante e la figlia succube, l’assassino e la vittima…) intrecciano variazioni comportamentali violentissime un attimo prima che uno dei personaggi cessi di vivere. Il testo, che evidenzia una derivazione da “La Ronde” di Schnitzler, è diviso in due parti. Nella seconda vengano ribaltate le ipotesi della prima parte e i vari personaggi sfuggono al loro destino. L’iterazione, il raddoppiamento, la variazione di scene analoghe è una tecnica spesso usata da Belbel, che talvolta arriva alla polverizzazione della trama in una serie di azioni minimaliste, connesse fra loro dalla continuità stilistica. “Morire o non morire”, con scene e costumi di Francesca Linchi, è uno spettacolo corale che vede impegnati, oltre alla stessa Kustermann, Pietro Bontempo, Paolo Lorimer, Astra Lanz, Massimo Fedele, Gaia Benassi, Sara Borsarelli, Sandro Palmieri, Alessandro Scalone, Tatiana Winteler.
Teatro Vascello Via G. Carini 78, Roma “Morire o non morire” di Sergi Belbel Regia di Manuela Kustermann Dal 9 al 25 Febbraio 2007 Poi in tournée
mercoledì, 7 febbraio 2007
Il peccato è servito
Il grande Brillat - Savarin (1755 -1826), autore del libro “Fisiologia del gusto”, scrisse: “La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano della scoperta di una nuova stella”. Deve pensarla così anche Nella Zanotti autrice di un libro delizioso: Tutto il male vien per cuocere edito da nottetempo. Giornalista e fotografa, s’è occupata di architettura, moda, arredamento. E di cucina, come chimica della passione e fisica della virtù. Del cucinare, ne dimensiona vertigini di gusto e ardite raffinatezze ispirandosi ai vizi capitali di cui esplora qualità e pregi, tanto che non le bastano i canonici sette, ma ne conta nove aggiungendovi tirannicamente e, senza interpellare esperti celesti, l’Avidità e l’Impazienza. Crea così 131 ricette (e a Milano dove si teneva – manco a dirlo – il convegno sulla cucina d’autore “Identità Golose” ideato da Paolo Marchi, mi ha giurato sui fornelli d’averle tutte sperimentate e assaggiate) che sembrano spaziare tra uno capriccio di Rabelais e un lampo futurista. Ed ecco accidiose tagliatelle posapiano, avarissimi bocconi di manzo pitocco, golosi polli crapuloni, invidioso risotto al veleno, irata furia di tagliatelle, lussuriosa concupiscenza al fois gras, superbiosa crema di formaggi boriosi, né mancano impazienti paté di fegatini nervosi e avide pere ingorde. A presentare i peccati che ispirano nove gironi di altrettanti capitoli, sono penne intinte in creativi sughi, penne impugnate per l’Accidia da Antonio Prete, per l’Avarizia da Maria Pace Ottieri, per l’Avidità da Marco Baliani, per la Gola da Vivian Lamarque, per l’Impazienza da Eraldo Riva, per l’Invidia da Patrizia Zappa Mulas, per l’Ira da Franca Valeri, per la Lussuria da Giorgio Soavi, e per la Superbia da Barbara Alberti. A Nella Zanotti ho chiesto: ti sei occupata di architettura, fotografia, moda, arredamento. C'è una rima fra questi tuoi interessi e la cucina?
L'armonia. Se una costruzione, un abito, un paesaggio, un interno mi appassionano è soprattutto perchè tra linee, colori, ombre e luce non ci sono fratture, o, se ci sono, l'insieme è così calibrato che la disarmonia si impone con nuove prospettive. Passo da un soggetto all'altro con lo stesso piacere e l'indignazione è sempre la stessa quando mi viene esaltato quello che non è. Questo vale anche per i sapori, cucinare per me diventa un esercizio di equilibri. L'occhio e il palato mi tradiscono raramente, credo che sia qualcosa che in famiglia ci trasmettiamo da generazioni. Per quanto mi ricordo già uno dei miei bisnonni in cambio di balli e serate all'opera, pretendeva dalle figlie un'educazione culinaria di alto livello con il tirocinio in cucina agli ordini del cuoco di casa. Man mano che il tempo passava la tradizione è continuata, il dossier di ricette si è fatto ricco e oggi anche l'occhio e il palato dei miei nipoti sono maledetti, la disarmonia non sfugge. Qual è la prima cosa da fare entrando in cucina… dopo avere lavato le mani, s'intende… e qual è la cosa da non fare mai? Liberare la mente da pensieri avversi e dalle preoccupazioni. Lavorare in cucina è una passione che, come tutte le passioni, almeno nel momento che le si praticano, devono diventare esclusive per dare via libera alla fantasia creativa, anche quando si tratta di preparare un riso bollito. Poi, mai dimenticare il rispetto per utensili e fornelli, che devono sempre essere perfettamente puliti e efficienti per evitare contaminazioni di sapori non previste. Cucinare senza passione diventa un tormento e allora cosa non fare mai, ma proprio mai? Non accettare la propria mancanza, voler avere un talento negato e di conseguenza non cimentarsi con le proposte che prevedono elaborazioni astruse. Non ci sarà soddisfazione, i risultati non saranno mai quelli promessi e ci sarà solo frustrazione. Non dimenticare che c'è anche chi ha fama di grande cuoca e solo dopo anni si scopre che ordinava pranzi e cene al negozio di fiducia. Nella Zanotti “Tutto il male vien per cuocere” Immagini di Jean Blanchaert Pagine 173, Euro 25:00 edizioni nottetempo
martedì, 6 febbraio 2007
L'opera di Loos
Chiuderà l’11 febbraio, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, una importante mostra: Adolf Loos 1870-1933. Architettura. Utilità e decoro con la partecipazione dell’Istituto Storico Austriaco a Roma e Albertina Museum di Vienna. I materiali, in gran parte provenienti dall’archivio Loos dell’Albertina, da altri musei e prestatori viennesi, mettono in mostra oltre 40 opere architettoniche suddivise in 5 sezioni, che raccolgono progetti di concorso, architetture realizzate, arredi interni e cose d’uso. Nel complesso sono esposti 190 oggetti, di cui 66 disegni autografi, e numerosi altri documenti dell’epoca, 20 modelli di ricostruzione, di cui uno originale proveniente dall’archivio dell’architetto, 90 stampe fotografiche di immagini d’epoca. Ho chiesto a Guglielmo Bilancioni, docente di Storia dell’Architettura all’Università di Genova (da poco in libreria Mistica e Architettura, di Louis Hautecoeur, volume da lui tradotto e curato per Bollati Boringhieri), un profilo critico dell’architetto austriaco.
Adolf Loos, secondo Benjamin si rivolgeva al “nudo uomo del nostro tempo, che strillando come un neonato se ne giace nelle sudice fasce di quest'epoca”. Aveva compreso la moderna potenza del “lavoro distruttivo”: “Allegri risuonano i colpi d'ascia”; così viene tracciato dal carpentiere il fondamento di un tetto. L’anelito alla sobrietà si confonde in Loos, definito da Kraus l’architetto della ‘tabula rasa’, con il demone dell’eleganza, e la sua rinuncia in nome della chiarezza all’orpello superfluo non nasconde il desiderio di un potere dello stile: l’architetto moderno, dal contegno teso ed esclusivo, dev’essere capace di avvalersi di un giudizio sottile, formatosi nella precisione, e per questo sempre sicuro. L’inadeguatezza a significare, di forme e parole, che il moderno recava in sé, trova Loos perfettamente preparato, disposto a ridurre la cosa fino a farla riverberare, compressa e denudata, come nichilismo; nel togliere, nell’omettere, nel superare riducendo vive la resistenza del soggetto che non vuole dover scomparire dietro l’anonimato; vive l’estrema urgenza delle forme all’espressione. “Cittadino della vita”, come il suo amico Peter Altenberg, Loos è un uomo di cultura, e un grande aforista: “L’opera d’arte è rivoluzionaria, la casa è conservatrice”; le sue sentenze costringono a vedere: “Con la verità, anche se vecchia di secoli, abbiamo un legame più stretto che con la menzogna che ci cammina al fianco”. L’Altro, ‘Das Andere’, come intitolò la sua rivista, il cui polemico programma era di introdurre la cultura occidentale in Austria è, dunque, per Loos l’architetto, la scrittura, la sua diffusività, la sua ‘pubblicità’, la possibilità di estendersi e di influenzare. La “catastrofica severità” di Loos, la sua infallibile eleganza fatta di progressive rinunce, lo porta alla muta colonna dorica per il Chicago Tribune, cava ed immensa, elevazione silenziosa e classica. La mostra, tutta da elogiare, è a cura di Richard Bösel e Vitale Zanchettin. Il catalogo (Electa, 148 pagine, 35 euro) è molto ben edito, con saggi di forza critica innovativa e foto efficaci per spiegare l'opera. Gall. Naz. Arte Moderna Roma Fino all’11 febbraio incluso
lunedì, 5 febbraio 2007
Tavole italiane: Al Poetto
In campo enogastronomico, a Roma, tranne qualche acuto (valga uno per tutti il nome di Heinz Beck), il panorama non è esaltante. Ma non manca qualche sorpresa anche su prezzi che siano decisamente più abbordabili di quelli della, giustamente, famosa “Pergola”. Oggi ve ne segnalo una. Un delizioso ristorante col menu orientato sul pesce. Si chiama Al Poetto e, come il nome già dice, si tratta di un ristorante sardo; Poetto è, infatti, una nota spiaggia cagliaritana. Accolti affabilmente da Tarcisio Piras - che si rivelerà eccellente, quanto discreto, consigliere - in un ambiente di sobrio gusto, con tavoli accettabilmente fra loro separati, provvisto di giardino d’inverno, si assaggia un pranzo d’assoluta eccellenza a cominciare da un trionfo di plurali antipasti marini crudi e cotti fra i quali non mancano ostriche. Dopo tale abbondante ingresso, è imbarazzante scegliere fra i primi e i secondi tante le tentazioni preparate da Ireneo Lai. Lasciate comunque uno spazio per le imperdibili seadas; sono un appassionato di questo dolce, l’ho assaggiato tante volte e neppure in Sardegna vi ho trovato tanta soavità quanto al Poetto. La scelta fra i vini è confortevole, ma andrebbe fatto un ampliamento della lista. Il conto per tanta gioia del palato, riserva una piacevolissima sorpresa. Consumando un menu tutto di pesce, senza nulla negarvi, difficilmente supererete i 50 euro, cifra che, ovviamente scende sensibilmente se dopo i cospicui antipasti scegliete esclusivamente un secondo o un primo seguito da dolce e caffè. Ecco un ristorante romano che per tali prezzi consente una serata di grande felicità di gusto. Andateci e mi ringrazierete. Come faccio io qui ora con l’amico Pietro Giordano, raffinato gourmet, che me l’ha fatto scoprire.
Al Poetto Via Rodi 41, Roma Tel-Fax: 06 – 39 72 72 87 Chiuso la domenica
giovedì, 1 febbraio 2007
Scalfire il vuoto
La mostra di Francesco La Fosca s’inserisce nel progetto della Galleria bresciana “Nuovi Strumenti”, diretta da Piero Cavellini, di rileggere alcuni aspetti del suo passato. La Fosca è un autore che la galleria Cavellini ha seguito alla fine degli anni Ottanta all’interno di una ricognizione attorno ad una nuova generazione di artisti dedicati alla neo-installazione. E’ con questo intento che nacque lo spazio di via Pastrengo a Milano. Poco più di quindici anni dopo il lavoro di La Fosca continua con la medesima spinta progettuale, attraverso un’attività fuori dal clamore delle mode imperanti, ma carica di segnali operativi che mettono in evidenza una lettura specifica del contemporaneo, attraversata da una vena di novità stilistiche. In questa mostra presenta un’installazione che accompagna e legge specificatamente un lavoro di certosina riealaborazione del dipinto “La città che sale” di Umberto Boccioni, da lui effettuata alcuni anni fa con una tecnica di disegno a strappi contigui. Nello spazio sotterraneo della galleria verrà proposta la prima visione assoluta del suo video “Gibigiana”.
Gibigiana – scrive Piero Cavellini – è un gioco di luce riflessa su uno specchio e sulla luce. La Fosca ha fondato gran parte del suo lavoro come nelle opere che da questa apparivano per una sorta di magia, scrivendo con sottigliezza stratificata una delle poche vere pagine nuove dell’Arte degli anni Ottanta […] Basta alzare una mano, calzare lo specchio del tempo, che per molto tempo era stato dimenticato in un angolo, e rilanciare oltre il confine dello sguardo quella che non è certamente più la periferia del mondo ma la nuova tensione metropolitana globale di cui il nostro autore tenta utopicamene un “detournement riflessivo” con cui ci ha sorpreso attraverso un abbaglio. Francesco La Fosca “Scalfire il vuoto” Nuovi Strumenti show room Piazza Tebaldo Brusato 2 Brescia Tel/fax 030 – 37 57 401; cavellini@alice.it Fino al 28 Febbraio
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