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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Nuovo e Utile


Diceva Arthur Koestler: “La creatività è l'arte di sommare due e due ottenendo cinque”.
Annamaria Testa, talvolta dal 2+2 ha ottenuto anche 6.
Annamaria TestaPubblicitaria, scrittrice, docente, ci crediate oppure no, è stata anche cosmonauta.
Per raccontarne degnamente le gesta vorrei scritturare biografi all’altezza, mi piacerebbero... chessoio... Plutarco, Svetonio, Vasari, ma me li dicono tutti impegnati e allora per saperne di più su di lei, cliccate QUI.

Una delle sue più recenti imprese sta sul web e si chiama Nuovo e Utile, sito per la divulgazione di teorie e pratiche della creatività.
Non credo che n’esista uno simile. Perché della creatività traccia una storia delle idee, ne coglie l’intreccio fra umanesimo e scienze, estetica e tecnologia, ne studia nascita e approdi avvenuti e futuribili.
Sterminata è l’offerta di documentazione, attraverso rimandi alla saggistica e al giornalismo sul tema, proponendo bibliografia e webgrafia specializzate; ragionato e ben strutturato è il percorso attraverso le realizzazioni creative di ieri nel mondo e le nuove tendenze di oggi.
Difficile trovare un campo che non sia di vostro interesse perché il portale è attrezzato con temi che vanno dall’architettura e design alle arti visive, dal cinema e televisione al crowdsourcing, dalla pedagogia all’innovazione e impresa, dal linguaggio e scrittura a moda e trend, dalla musica alla pubblicità e comunicazione, dalle scienze alle tecnologie, dal teatro e danza al web e ICT.
Né manca di istruzioni su come difendere e diffondere un’idea o come avviare un’attività sotto il profilo del posizionamento strategico .
A tutto questo s’aggiunge un calendario che informa mese per mese su quali sono i più importanti appuntamenti in Italia e all’estero tra festival, rassegne, convegni.
Ecco un sito che aziende pubbliche e private, università, musei, redazioni, dovrebbero mettere tra i “preferiti” dei propri computer.

Per attraversare l’universo creativo proposto da “Nuovo e Utile”: CLIC!

Buon viaggio!


Acrostico da record


L’acrostico è una forma di componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi formano, lette di seguito (solitamente in verticale), una parola o una frase.
Un esempio in orizzontale non rese lieto Napoleone quando vide il proprio nome così raffigurato: Non Amavit Populum Omnes Leges Evertit Omnia Nostra Eripit (= Non amò il popolo, sovvertì tutte le leggi, ci derubò d’ogni cosa).
Dell’acrostico, il più antico documento si rinviene in un papiro greco-egizio del 190 a.C., ma la sua storia attraversa i secoli e giunge fino ai tempi nostri.
N’è testimonianza uno strepitoso librino pubblicato da Meridiano Zero che si pone (di traverso) tra il poemetto e il romanzo facendosi beffe dell’uno e dell’altro. Titolo: L’acrostico più lungo del mondo.
Con l’autore, che non conosco di persona, condivido luogo di nascita, Napoli, e passione per le forme letterarie aliene. Vado più fiero della seconda cosa che non della prima.
Il suo nome: Vincenzo Mazzitelli.
La scheda biografica dell’editore c’informa che dopo il liceo classico si è imbarcato con la Marina Mercantile panamense e ha girato il mondo.
Che cosa ha combinato sulle pagine costui – alla faccia di tanti poeti e romanzieri – tanto da suscitare il mio entusiasmo?
Ha composto un acrostico, divertente e maratoneta, che, immagino, troverà spazio nel Guinness dei Primati (libro dei record, non delle scimmie), ma merita - come vedrete non bado a spese - d’essere ricordato nella storia letteraria italiana di questi anni perché confinarlo nelle cronache della scrittura enigmistica sarebbe oltre modo riduttivo.
Il suo libro, se letto in verticale per lettera iniziale d’ogni rigo, restituisce, e forse vomita (rispettosamente, s’intende), tutto il primo canto dell’Inferno non solo per iniziale d’ogni verso dantesco, ma lettera per lettera d’ogni parola.
Se letto in orizzontale ogni linea concorre alla narrazione dell’autobiografia dell’autore.
Esempio dall’incipit:

Non avea più del Cristo morto etade
E della mia città sì perigliosa
Languidamente bazzicavo strade
Malato di libido e ogn’altra cosa.
Ero per la tribù già troppo anziano,
Zingaro vecchio dall’ardita prosa,
Zotico spesso e trucido e villano,
Ormai poeta di poesia distorta

E così via via.
Questa raffinatissima operazione richiama alla memoria i dettati dell’Oulipo (scuola che, lo ricordo ai più distratti, ha visto tra i suoi protagonisti Queneau, Calvino, Perec) così ben riassunti proprio da Queneau il quale sostiene che “il tragico greco mentre scrive i suoi versi obbedendo a regole ferree che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa e che è schiavo inconsapevole di regole che ignora”.
La neurolinguistica, oggi, gli dà pienamente ragione.
Con L’acrostico più lungo del mondo non assistiamo solo a un gioco di parole – cosa in sé, se ben fatta, già sublime e ricca di epifanie – perché l’acrostico non è stato applicato a caso su quei versi di Dante. Lascio la parola all’editore Marco Vicentini: “L’Inferno dantesco è infatti anche la chiave di lettura di questo testo, che narra di un satiro, e dei suoi vizi capitali. L’innocuo personaggio, si ritrova ben presto condannato, dalla tradizione cattolica, a un inferno popolato da maliziose quanto malvagie figure. Lo sfondo di questa storia lo offre Napoli; il campo di battaglia un giovane adolescente, gravato da vizi canonici (sesso, droga e rock ’n’ roll). E vizi a parte: strane scelte, discutibili personaggi, piccole e grandi nefandezze, intriganti e perverse situazioni erotiche. E traumi più o meno insuperabili quali l’arresto e la prigione, la malattia di mente, la tossicomania…”
Non perdetevi questo libro di Vincenzo Mazzitelli che crea ricreando e scrive riscrivendo. Ve lo consiglia, non a caso, questo sito che da otto anni ha per disclaimer: ricreazioni e riscritture.

Vincenzo Mazzitelli
“L’acrostico più lungo del mondo”
Pagine 155, Euro 9:00
Meridiano Zero


Natura o storia?


Siamo frutti della prima o della seconda? E’ un dibattito filosofico di vecchia data che specialmente tra i psicologi ha trovato terreno d’incontri e scontri.
Democrito diceva: “Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità” riflessione dalla quale è stato tratto il titolo di un famoso libro (‘Il caso e la necessità’) di Jacques Monod, biologo, Premio Nobel nel 1965, che concilia quelli che a molti sembravano opposti.
“Alla fine potremmo affermare che siamo frutto di una natura su cui scende la mano della storia”, così, con encomiabile sintesi scrive Gianluca Castelnuovo, psicologo e terapeuta, in Psicologia da tasca Breve viaggio nella storia della psiche edito da Ponte alle Grazie.
Editore che con la dizione “da tasca” indica propri agili librini divulgativi che, però, non rinunciano ad approfondimenti; con tale formula editoriale, ha già pubblicato volumi dedicati a materie quali matematica, filosofia, cosmologia, fisica, psicanalisi, architettura.
Tutti affidati a studiosi che illustrano storia, temi e problemi della propria specializzazione con un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori.
E’ il caso di Castelnuovo che riesce ad affrontare in modo estremamente comunicativo faccende complesse che vanno dalla psicologia delle sensazioni ai misteri della memoria, dal potere delle emozioni alle regole della mente sociale.

Da tempo rivolgo la stessa domanda a psicologi e psichiatri sperando che un giorno, vincendo la pigrizia, riesca a mettere le risposte una accanto all’altra per una panoramica sul tema che segue.
La psichiatria organicista riduce tutti i fenomeni psichici ai principi che presiedono la biochimica del cervello; la psicoanalisi riduce le manifestazioni della psiche alla dinamica che presiede la sessualità infantile; le neuroscienze riducono gli scenari psichici alle dinamiche dei sistemi neuronali; la genetica riduce i disturbi psichici alla componente ereditaria e solo in seconda battuta ai fattori ambientali.
A quale direzione appellarsi per saperne di più su noi umani?
Gianluca Castelnuovo ha così risposto.

E’ importante sottolineare come la stessa disciplina psicologica, attraverso i diversi paradigmi che si sono susseguiti nella sua storia, ha spesso corso il rischio di collocare l’individuo fra un determinismo intrapsichico, frutto di incontrollabili forze inconsce (come la psicoanalisi), ed un determinismo più socio-culturale, dove ogni scelta è inevitabilmente condizionata da un contesto allargato (la società, la cultura di appartenenza) o ristretto (la famiglia, le relazioni interpersonali). L’individuo rischia così di essere considerato un elemento reattivo e determinato dal sistema che lo ingabbia, un prodotto di meccanismi di causalità. Tali posizioni sembrano ben conciliarsi con il determinismo biologico e genetico, che sempre più va diffondendosi anche nell’interpretazione della dimensione umana e dello sviluppo mentale normale o disturbato.
Pur riconoscendo l’importanza delle premesse genetiche, della storia personale e del gruppo di appartenenza, la psicologia crede che vi sia uno spazio per la libertà e volontà di ciascuno: diventa dunque necessario ‘educare’ le persone all’esercizio della propria volontà e della responsabilità ricordando che solo chi è capace di volere ed essere responsabile può essere veramente libero. La cura psicologica, facendo leva anche sulla sfera affettivo-emotiva, può essere quindi letta come un processo nel quale si sviluppa la volontà dell’individuo per una progressiva assunzione di responsabilità, premessa per la “guarigione” e per una modalità sempre maggiormente “sana” e “libera” di essere con gli altri nel mondo
.


Per una scheda sul libro: QUI.

Gianluca Castelnuovo
“Psicologia da tasca”
Pagine 144, Euro 10:00
Ponte alle Grazie


Kataklisma in arrivo


L’uovo è tra le figure simboliche più ricche di significati, quello prevalente è associato alla fertilità, tanto che secondo il mito orfico rappresenta la genesi del mondo. Ma compare anche con simili e a volte diverse declinazioni in miti polinesiani, giapponesi, peruviani, indiani, fenici, cinesi, finnici, slavi.
Nella pittura, per citare esempi solo europei, troviamo l’uovo in creazioni di Piero della Francesca, Hieronimus Bosch, Pieter Breugel, fino ai nostri giorni nelle fantasie surrealiste di Fabrizio Clerici o nella mitologia personale di Luigi Ontani che essendo nato in una località che si chiama Montovolo pare destinato fin dalla nascita alla rappresentazione di quella forma geometricamente perfetta.

Promette, quindi, nuove nascite ed epifanie un Festival che ha per nome Uovo Critico promosso e ospitato da Kataklisma Teatro con la direzione artistica e organizzativa di Elvira Frosini.
Particolarità di questo Festival è data dall’associare un critico agli spettacoli affinché nasca una riflessione guidata sulle pratiche e i linguaggi della ribalta performativa fra artisti, pubblico e teorizzatori della nuova scena.
I critici invitati, qui elencati in ordine di calendario, sono: Donatella Bertozzi, Maria Teresa Surianello, Marcantonio Lucidi, Gianfranco Capitta, Attilio Scarpellini, Nico Garrone, Lorenzo Donati, Antonio Audino.

Tutti gli aggiornamenti in un blog appositamente predisposto: QUI.

Ufficio stampa e comunicazione: Laura Neri, 347.47 16 598; laura.neri@gmail.com

“Uovo Critico”
Kataklisma Teatro
Roma, Via G. De Agostini, 79 (Pigneto)
Info: 338 – 34 766 16
Dal 29 febbraio al 13 aprile


FilosofArti


A Hans-Georg Gadamer fu chiesta la differenza tra filosofia ed arte e lui rispose che la filosofia è una forma d’arte e l’arte una manifestazione, anche se non sempre cosciente, della filosofia.
Ai giorni nostri, il fenomenologo Romano Gasparotti interrogandosi sul tema nel suo recente “Figurazioni del possibile” dice che “… specie dal primo ‘900 in poi, la ricerca filosofica più avvertita sembra avere un necessario bisogno di confrontarsi e dialogare con l’arte. Come se al centro delle pratiche dell’una e dell’altra vi fosse la stessa misteriosa, ma assillante ‘Cosa’ “.
Sul rapporto Filosofia-Arte, con le sue plurali articolazioni ed intersezioni, è imperniata la terza edizione del Festival FilosofArti a Gallarate.
E’ organizzato dal Centro Culturale di Prosa del Teatro delle Arti e dalla Fondazione Culturale Gallarate Città.
L’attenzione alle relazioni tra filosofia e scrittura, musica, teatro e cinema, arti visive e danza sarà dunque ancora una volta oggetto di molteplici manifestazioni, in grado di avvicinare alla materia non solo il mondo della scuola, della ricerca universitaria e degli esperti, ma anche il pubblico più vasto di non specialisti che già nelle trascorse edizioni affollò le sale manifestando un vivace interesse.
In programma incontri con Gianni Vattimo, Salvatore Natoli, Enrico Berti, Franco Trabattoni, Carlo Sini.
Mi piace che questo Festival dalle linee tanto impegnative sia riuscito a trovare spazi che, pur in rima con il tema centrale, possa accogliere e coinvolgere i ragazzi. Lo fa con una serie di attività laboratoriali. Fra queste spiccano quelle interattive del Progetto “Alice”.
Nella parte scenica due notevoli presenze: Franco Branciaroli e Ascanio Celestini.
Il primo, nella duplice veste di attore e regista, proporrà un suo successo del 2006: “Finale di partita” di Samuel Beckett, un classico del teatro contemporaneo, riconosciuto come maggior lavoro teatrale del drammaturgo irlandese. Della parola beckettiana, Branciaroli mette in rilievo soprattutto la dimensione tragicomica suggerita dalle scrupolose didascalie dell’autore.
Ascanio Celestini, uno dei maggiori affabulatori del teatro di narrazione italiano, sarà interprete di un suo stesso testo: “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico”.
Nato dopo anni di ricerca dell’autore, lo spettacolo conferma il profondo impegno civile di Celestini e la sua denuncia sociale, confrontandosi con la realtà dell’istituzione manicomiale prima e dopo la riforma.
Ci saranno anche mostre. Quella di Bianco e Valente alla Civica Galleria d’Arte Moderna, e quella fotografica di Fabrizio Garghetti a cura del Sestante Fotoclub sul tema “Le performances dei poeti e degli artisti: L’ultima cena di Andy Wahrol, 1987”.

Per il programma, cliccare QUI.

L’Ufficio Stampa è guidato da Sara Magnoli.

“FilosofArti”
Dal 2 al 10 marzo ‘08
Info: 0331 – 78 41 40; fondazione@comune.gallarate.it
Gallarate


L'universo della mente


Psicologia, psicanalisi, psichiatria, sono parole che ricorrono spessissimo sui media e anche nelle conversazioni al bar, il livello è simile: stampa e radiotv influenzano le parole al bar e viceversa. Quasi fossero materie sulle quali tutti possono pronunciarsi e questo forse perché non sono praticate solo in medicina, sociologia, antropologia, ma sono entrate anche in campi quali l’organizzazione aziendale, il marketing e perfino della politica dei portaborse dal livello culturale, spesso, pari a quelli di cui portano la borsa.
Freud, Jung, Pavlov, Piaget, sono finiti sulle tastiere frettolose dei gazzettieri e sotto i caschi dei parrucchieri, si parla di loro, si sputano sentenze, nomi da esibire come quei libri finti sugli scaffali dove dei volumi è raffigurato solo il dorso.

Da qui approssimazioni, strafalcioni, e anche una mancanza di rispetto verso un tema che presiede a tante sofferenze.
Ben venga, quindi, un libro serio come quello mandato in libreria da Meltemi: L’universo della mente, una raccolta di saggi guidata dallo psichiatra Mauro Maldonato.
Per saperne di più su di lui, i suoi studi, le sue pubblicazioni, cliccate QUI.

Oltre a quello dello stesso curatore, il libro s’avvale di contributi provenienti da Edoardo e Francesco Boncinelli, Mario Maj, Giuseppe Mininni, Alberto Oliverio.
L’assunto della pubblicazione è così spiegato: “E’ tempo che le neuroscienze si rendano protagoniste di un vero e proprio autosuperamento. Ciò a cui alludo è una nuova alleanza tra discipline come la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio, la linguistica e la neurobiologia, la psicologia e la logica, l’intelligenza artificiale e la scienza cognitiva, che abbia come obiettivo l’individuazione delle sovrastrutture neurali e della neurofisiologia della vita di relazione, iscrivendo tutto questo in un nuovo modello biologico complesso del comportamento”; così afferma nell’Introduzione Mauro Maldonato.

A lui ho rivolto la domanda che segue.
La psichiatria organicista riduce tutti i fenomeni psichici ai principi che presiedono la biochimica del cervello; la psicoanalisi riduce le manifestazioni della psiche alla dinamica che presiede la sessualità infantile; le neuroscienze riducono gli scenari psichici alle dinamiche dei sistemi neuronali; la genetica riduce i disturbi psichici alla componente ereditaria e solo in seconda battuta ai fattori ambientali.
A quale direzione appellarsi per saperne di più su noi umani?

In poco più di mezzo secolo abbiamo imparato più cose sul cervello di quanto non ne avessimo imparato nei cinquemila anni precedenti. Fino alla metà del secolo scorso, l’idea che la ricerca biologica potesse violare i suoi più reconditi segreti, anche a livello molecolare, non sarebbe stata nemmeno presa in considerazione. Oggi, l’impaziente sviluppo delle neuroscienze alimenta forti speranze non solo sulla possibilità di venire a capo di molte malattie neurologiche e psichiatriche, ma anche di chiarire aspetti sin qui ritenuti inaccessibili e non misurabili come le preferenze estetiche, il libero arbitrio, l’eterogeneità delle preferenze e dei criteri di scelta, il ruolo delle emozioni nei processi decisionali ed altro ancora. Nonostante i prodigiosi progressi, l’Universo della Mente che emerge dall’intricata rete di neuroni resterebbe incomprensibile se lo si considerasse alla stregua di un sistema formale. La sua comprensione richiede una ‘nuova alleanza’ tra le discipline che, a diverso titolo, rivendicano titolarità su tale campo d’indagine. È sempre più necessario riconoscere che nessuna teoria scientifica, per quanto rigorosa, può dirsi autosufficiente nel far fronte alle sfide della complessità. Una ‘nuova scienza della mente’ sollecita tutti noi - psichiatri, psicoanalisti, psicologi, chimici, filosofi, biologi e scienziati cognitivi - ad aprirci a una visione prismatica dei fenomeni della mente che tenga in somma considerazione ogni aspetto (biologico, evolutivo, culturale, esperenziale) in una prospettiva perennemente interrogante.

Per una scheda sul libro: CLIC.

Mauro Maldonatp
“L’universo della mente”
Pagine 119, Euro 13:00
Meltemi


Saggi e saggisti


Esistono saggisti che perfino se non sei d’accordo su quanto scrivono riescono a farsi ammirare perché propongono temi insoliti o problemi noti ma con taglio inedito. Insomma, fanno quello che devono fare i saggi prima di diventare saggisti: provocare reazioni, suscitare nuovi pensieri intorno a realtà che entrano nelle nostre vite.
Uno di questi è il bulgaro Tzvetan Todorov. Per una sua biografia: QUI.
Di lui l’editore Garzanti poco meno di un anno fa stampò lo straordinario volume “Lo spirito dell’Illuminismo” - di cui Cosmotaxi si è occupato in una sua nota - ed ora pubblica La letteratura in pericolo testo che dispone un discorso critico di grande interesse sulla e intorno alla letteratura.
Chi e che cosa minaccia la letteratura?
Secondo Todorov, prima di tutto il modo in cui avviene l’insegnamento della stessa (lui porta l’esempio della Francia, ma in Italia siamo messi peggio) e fin qui vagli a dare torto!
Poi prosegue ravvisando pericoli nella scienza e nella tecnica che ostacolerebbero oggi la comprensione dei grandi capolavori. Strano. La nostra epoca fra i suoi meriti registra quella di avere riunito, dopo il Rinascimento, umanesimo e scienza. Credo che i grandi capolavori letterari si giovino in comprensione grazie a nuovi apparati critici anche di natura scientifica e, come sostiene De Kerckhove, pure grazie al lavoro dei neurolinguisti che scienziati sono e di tecnologie s’avvalgono nelle loro ricerche.
Inoltre, Todorov ritiene che la letteratura debba rigettare il solipsismo, il nichilismo e debba mettersi in rapporto con il mondo ricercando la verità. Critica, infatti, le avanguardie storiche che hanno dissolto l’idea stessa di arte affermando che tutto quello che si mette in un museo lo diventa, e la citazione nel libro di Duchamp è senza dubbio pertinente. Quest’idea della letteratura alla ricerca della verità, questa sì, oso pensare, è un pericolo. Quanti capolavori dovremmo gettare dalla finestra perché non si propongono la ricerca della verità ma navigano intorno, talvolta facendosene beffe, delle improbabili, plurali, verità che circolano sul mondo?
Eppure, Todorov nella sua proposta critica mantiene una serietà intellettuale, un rigore di studi che invogliano a nuove riflessioni, ad approfondire – poco importa se d’accordo o non con lui – i temi proposti, a svilupparne nuovi percorsi.
Tutto ciò fa sì che valga l’occasione per leggerlo.

Tzvetan Todorov
“La letteratura in pericolo”
Traduzione di Emanuele Lana
Pagine 84, Euro 11:00


Bellissima


Se vivete a Napoli o dintorni oppure se a Napoli vi portano questioni di affari, turismo, sesso, avete ancora una settimana di tempo per visitare Bellissima Visconti (e) il contemporaneo mostra con la direzione artistica di Ugo Vuoso.
Mi sono già occupato di quest’esposizione che vede anche una particolare installazione - titolo: 'Kiss Spam', dimensioni 6x4 mt - del tandem Marco Abbamondi e Attilio Sommella riuniti nell’acronimo AbSo.
L'opera consta di due immagini di coppie unite da un bacio, tratte da una famosa tela e da un fotogramma viscontiano, che, in una rielaborazione digitale, si fondono in una nuova, inedita coppia impegnata nelle sue effusioni su di un mosaico con tessere fatte da immagini scattate col videofonino. E fatalmente disturbata dallo squillo del portatile.
Per spiare gli amanti e saperne di più: CLIC!

Il catalogo di “Bellissima” s’avvale della prefazione di Julia Draganovic Direttore Artistico del Pan - Palazzo delle Arti Napoli

“Bellissima”
Maschio Angioino, Napoli
Orari: 9.00 – 19.00
Biglietto ordinario: € 5,00; gruppi (min. 15 persone) € 4,00
Info: 081 – 49 71 300 e 081 – 79 55 877

Fino al 2 marzo 2008


Premio Italia


Ho appreso con piacere che il magazine in Rete WebTrekItalia guidato da Giancarlo Manfredi, vecchio amico di Cosmotaxi, è finalista al Premio Italia.

Questo Premio, da non confondere con l’omonimo radio-televisivo, da circa trent’anni si occupa di fantascienza, fantasy e horror seguendo le declinazioni tecnologiche che nel tempo sono intervenute in questi generi.
Giancarlo merita il riconoscimento che ha ottenuto e gli auguro di conquistare anche il Premio. La sua pubblicazione, infatti, non si limita a documentare l’universo di Star Trek (e lo fa in modo lontano da certo goffo folklore cui soggiacciono molte pubblicazioni simili), ma si articola anche in spazi filosofici, letterari, scientifici, tecnologici.

Lunga vita e prosperità!


Giunte e caldaie


Uno dei compagni di viaggio sulla mia Enterprise l’ho avuto in Gualberto Alvino.
Durante quella traversata spaziale mi confidò che ad una marmista di sua fiducia aveva dettato il proprio epitaffio che così suonava: Spese la vita / - e ancor non è finita - / a far chiaro l'oscuro.
Filologo e critico letterario, ma anche narratore (sarà presto nuovamente ospite di questo sito per presentare il suo romanzo Là comincia il Messico), quella dizione marmorea ben s’attaglia all’opera sua. Specie in quella, estesa e profonda, dedicata a Antonio Pizzuto di cui in Italia è il massimo studioso.
Oggi segnalo proprio un volume pizzutiano curato da Gualberto Alvino che dice nella Premessa: “… ripropongo con alcune modifiche e sotto un titolo collettivo che sarebbe certamente piaciuto al prosatore siciliano le edizioni critiche di Giunte e virgole […] e Spegnere le caldaie".
Questa pubblicazione esce quasi a ridosso del trentennale della morte di Pizzuto che ricordai in queste pagine web con una nota… a proposito, poiché da link nasce link in quella nota troverete l’accesso alla “pizzuteide” di Luca Tassinari che è il migliore angolo della Rete dedicata, con scritti e voci, all’autore palermitano; né poteva essere diversamente vista la qualità di Tassinari scrittore: se lo leggete una volta, vedrete, che poi lo metterete fra i vostri ‘preferiti’.
Il lavoro di Alvino in “Giunte e caldaie” è uno di quelli da far venire i brividi all’idea delle fatiche cui lo studioso s’è sottoposto. Centinaia e centinaia di note che guidano il lettore (e, spesso, svelano chicche) nell’universo della scrittura magmatica di Pizzuto, oltre a un Glossario ed un’esaustiva Bibliografia critica.
Il volume si conclude con un Dialogo di stampo galileiano tra uno Scettico e un Fautore, il primo dubbioso sulle virtù scrittorie dello scrittore siciliano e l’altro, invece, che ne è sostenitore. Quest’ultimo, cioè Alvino stesso, a un certo punto della scena dice una cosa a me carissima e che vale per Pizzuto, ma non solo per lui.
Trascrivo.
Lo stile, egregio signore, lo stile è l’unica realtà estetica. La letteratura è un fatto di lingua, pertanto il suo proprium consiste nell’organizzazione formale dei contenuti. Il vero e solo significato si annida fra le crespe del significante. Ormai dovrebbe essere un dato universalmente acquisito, invece, a quanto pare....

Antonio Pizzuto
“Giunte e caldaie”
edizione critica di Gualberto Alvino
Pagine 209, Euro 15:00
Edizioni Fermenti


Italia 2


In qualche modo di clonazione si tratta in un libro intelligente, frizzante, divertente e pur pensoso: Italia 2 viaggio nel paese che abbiamo inventato edito da minimum fax.
Libro a quattro mani scritto da Cristiano De Majo & Fabio Viola.
L’Italia di cui si parla in quelle pagine si riferisce a luoghi esistenti, ma che sono stati raffigurati, sfigurati e trasfigurati dai media assumendo una nuova identità e una propria entità divenendo simboli di un nostrano modo d’intendere un’artificiale e artificiosa realtà.
Una sorta di terragna second life dove l’avatar non è un Doppio ma l’italiano stesso e il suo provincialismo in pomidoro color e 3D (dove la D sta per Disgrazie).
I luoghi di questa natura innaturale vanno dalla località del Mulino Bianco alla villetta di Cogne, dal tempio di Damanhur alla cripta di Padre Pio, dalla Risiera di San Saba a Predappio, a Roma-Venezia-Matera sbalzate su un rutilante luna park di cartapesta o, forse, goffo puppentheater.
Lontano da pesantezze sociologiche, con una scrittura senza rimpianti e speranze, questo imperdibile volume riesce meglio di tanti saggi a farci capire chi siamo attraverso un viaggio durato 5 mesi (dall’ottobre 2006 al febbraio 2007) che ha visto Cristiano De Majo e Fabio Viola entrare in finzioni che si fanno reali, fantasie che precipitano nell’icastico.
A proposito di questo libro c’è chi, apprezzando l’operazione dei due autori, ha detto che si tratta di visite a non-luoghi. Non sono d’accordo. Sono luoghi della memoria mediatica; i loro vizi, tic, manie, tendenze, rappresentano quell’Italia 2 che abbiamo costruito con la tv, la pubblicità, il cinema. Sono iperluoghi. E anche metaloghi.

A Cristiano De Majo, ho chiesto: i posti che tu e Viola descrivete - e meglio: interpretate - quale ritratto dell'immaginario degli italiani vi hanno dato?

Non abbiamo una risposta unica e definitiva sul punto. Nel libro cerchiamo appunto di evitare schematizzazioni eccessive. Quello ci ha spaventato è stato rendersi conto quanto questo territorio al tempo stesso reale e fantastico appartenesse anche a noi autori, quanto ci rappresentasse. Del resto se tra un catanzerese e un trentino ci sono differenze culturali incolmabili, queste differenze sono molto meno nette dal punto di vista dell'immaginario. Chiunque, comunque la pensi, dovunque sia nato, può riconoscere il Mulino Bianco e la villetta di Cogne come le due facce opposte della casa italiana.

Per una scheda sul libro: CLIC!

Cristiano De Majo & Fabio Viola
“Italia 2”
Pagine 338, Euro 16:00
Minimum Fax


Un impero criminale


Il titolo di questa nota contiene un aggettivo forse superfluo.
Esiste un impero che criminale non è? Ne dubito.
Piuttosto esistono vari imperi che opprimono varie collettività.
Meglio specificare i settori di competenza
Giusto, quindi, è il titolo L’impero della camorra mandato in libreria dalla Newton Compton che ha pubblicato un libro del giornalista Simone Di Meo il quale di un personaggio della camorra narra il profilo psicologico, l’ascesa, i crimini.
Un elogio va fatto alla Newton Compton. Da tempo, infatti, edita con serrata frequenza una serie di volumi che hanno stretti legami con l’attualità, documenti che aldilà del valore documentaristico possiedono anche la capacità di meglio trasmettere il ritratto dei nostri giorni nei suoi aspetti più inquietanti: madri assassine, sette religiose, torbide multinazionali, malavita organizzata.
Di un personaggio della malavita napoletana s’occupa Di Meo nel suo libro; si tratta di Paolo Di Lauro detto Ciruzzo ‘o milionario.
Nella Napoli soggiogata dalla violenza di Raffaele Cutolo e dalle disgrazie del terremoto del 1980 – nella regione in cui un discusso politico rapito dalle Brigate Rosse viene liberato, mentre è ucciso il coraggioso capo della squadra mobile che sta indagando sul patto scellerato tra Stato e camorra – un giovane decide di diventare il capo incontrastato della Cupola. Comincia così la carriera criminale di Paolo Di Lauro: il boss che, da un’anonima stradina del quartiere di Secondigliano, dichiara guerra ai clan più potenti della Campania. Venti anni dopo, Di Lauro sarà inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi di tutti i tempi e verrà braccato in tre continenti. Ma intanto “Ciruzzo” dissemina di morti il suo cammino e accumula, con lo spaccio di droga, un patrimonio imponente nel mondo della criminalità organizzata: palazzi, casinò, supermercati, aziende di abbigliamento, boutique, complessi turistici, centri commerciali.
Un impero di paura, di sangue e di denaro sporco. Come tutti gli imperi.

Il libro ha in Rete un suo blog: QUI.

Simone Di Meo
“L’impero della camorra”
Pagine 281, Euro 9:90
Newton Compton


Tra pagina e schermo


Il rapporto tra letteratura e cinema suscita da sempre dibattiti molto accesi.
Ad affrontare un viaggio tra la pagina scritta e lo schermo è Sandro Volpe nel libro Adattamento Sette film per sette romanzi edito da Marsilio.
I film presi in esame: ‘Tristana’ da Pérez Galdós a Buñuel; ‘La camera verde’ da Gruault a Truffaut; ‘La donna del tenente francese’ da Fowles a Reisz; ‘Guardato a vista’ da Wainwright a Miller; ‘I fantasmi del cappellaio’ da Simenon a Chabrol; ‘Il danno’ da Hart a Malle; ‘La promessa’ da Dürrenmatt a Penn.
Perché questi esempi e non altri? L’autore così spiega: “La scelta riflette un preciso comune denominatore: sono sette trasposizioni che rinunciano consapevolmente (con una sola brevissima eccezione) all’uso della voce di un narratore fuori campo”.
Di solito, accade che si fronteggino due partiti: quello del lettore fondamentalista e quello del cinefilo assolutista, ma Volpe, giustamente, avverte che “… per fortuna, esiste anche il lettore-cinefilo. La sua doppia appartenenza lo rende più prudente”. E su quel cursore di prudenza si tiene l’autore illustrando le ragioni degli uni e degli altri pur sottolineando che spesso quel dibattito “… nasce da una premessa errata: perché l’adattamento non è una traduzione, ma un’interpretazione”. Inoltre: “… ogni adattamento fa storia a sé, richiede uno sguardo diverso, un incrocio di competenze, una duttilità di approccio: viaggiare tra la pagina e lo schermo con un bagaglio teorico leggero e una memoria sempre in ascolto rinnova e prolunga il piacere del testo".

Sandro Volpe insegna Teoria della letteratura e Storia e critica del cinema all’Università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni i saggi “L’occhio del narratore” (1984), “Il tornio di Binet. Flaubert, James e il punto di vista” (1991), “Controcampi, Conversazioni su letteratura e cinema” (1995), “La forma intermedia. Truffaut legge Roché” (1996) e il romanzo “All’incrocio delle righe” (2004).
Collabora alle pagine culturali dell’edizione di Palermo del quotidiano «la Repubblica».

A lui ho chiesto: nell’accingersi a tradurre un’opera letteraria per lo schermo, qual è la prima cosa da evitare e qual è la prima cosa da fare?

La cosa più importante da evitare è cercare di rincorrere il romanzo sul suo terreno. C’è una cosa che la letteratura sa fare meglio del cinema: descrivere paesaggi interiori. Di qui la missione difficile – talvolta impossibile – di tutte le voci fuori campo (monologhi, narratori più o meno implicati nell’azione) che popolano gli adattamenti. Forse si può andare oltre: evitare la ricerca di procedimenti analoghi ai procedimenti narrativi, allontanare la tentazione di possibili equivalenze.
Le istruzioni in positivo sono le più difficili. Si possono condensare in una sola: dimenticare per un po’ il romanzo. Ci sarà sempre un secondo momento in cui verrà ripreso, annotato, ripensato. Il romanzo è lì, con i suoi pregi e i suoi difetti: noi veniamo dopo ed è un enorme vantaggio. Sì può, si deve fare una cosa diversa. E talvolta anche migliore
.

Per una scheda sul libro: QUI.

Sandro Volpe
“Adattamento”
Pagine 160, Euro 16:00
Marsilio Editori


Cuori invernali


Felicissimo approdo è quello di Lidia Ravera al suo 21° libro.
Scrittrice, sceneggiatrice e giornalista, dopo aver raggiunto la notorietà con il romanzo d’esordio “Porci con le ali”, ha pubblicato, fra gli altri titoli, “Maledetta gioventú”, “Né giovani né vecchi” (Mondadori); “Sorelle” (Bur); “Il freddo dentro” e “Eterna ragazza” (Rizzoli).
Conduce un blog in Rete: QUI.
Questa sua più recente… a proposito, ma perché tanti nell’indicare un nuovo libro hanno la cattiva abitudine di dire “ultimo”? quando l’hanno detto a me, mi sono dato a gesti apotropaici che lascio al vostro intuito... questa sua più recente opera è intitolata Le seduzioni dell’inverno ed è pubblicata dalle raffinate edizioni nottetempo.
Il protagonista, Stefano, disincantato redattore in una casa editrice, un giorno si ritrova in casa una matura, misteriosa e affascinante cameriera inviategli dall’ex moglie. Tenterà di allontanarla (la cameriera, non la moglie che ormai è già andata), nonostante la domestica dimostri assoluta perfezione professionale. Finirà poi con l’innamorarsene e quando… no!... basta così, la trama non la racconto sia perché credo che in un romanzo sia importante il linguaggio con cui è scritto e non la storia, e sia perché qui c’è un finale che se ve ne parlo finisce che quelli di Nottetempo s’incazzano.
Gran merito della Ravera, fin dal suo debutto, è quello d’essere una scrittrice che fa agire la narrazione in maniera che da essa si manifestino le attese, i sogni, ma anche le ansietà e i mali di un’epoca. “Porci con le ali”, ad esempio, è un libro che, più di tanti pensosi saggi, serve a capire gli anni ’70 e quelli che giovani allora li vissero.
Anche in Le seduzioni dell’inverno è tracciata una storia che fa i conti con il disagio della nostra epoca, ne interpreta aridità e indifferenza attraverso l’avventura di Stefano, uomo dal cuore invernale.

Ho rivolto all’autrice una domanda.
Nel presentare il tuo nuovo lavoro, parli dell’"anestesia sentimentale" dei nostri anni. Quell'anestesia ha attanagliato anche altri personaggi d’altre epoche, ma vorrei che tu indicassi qual è la principale caratteristica che la configura ai nostri giorni.
Ecco la risposta.

Anestesia… Oggi si aspira a non soffrire. Mai. Né nel corpo, infatti siamo fra i massimi farmaco-dipendenti, né nello spirito, infatti fioriscono i vili, quelli che si arrangiano, che tirano a campare, che non sognano, che non progettano, che non sperano, pur di non correre il rischio dello scacco. Le donne/ragazze partoriscono, se appena ne hanno l’opportunità, col taglio cesareo . La pubblicità promette pillole che stroncano i sintomi dell’influenza cosi chè non si debba rinunciare ad andare a divertirsi. Stroncare i sintomi, è questo il programma, non certo curare la malattia. Siamo fra i massimi consumatori di psicofarmaci, infatti. Invece di passare per l’inevitabile quota di malinconia o tristezza che la vita contiene ( basterebbe la condizione di mortalità), si inghiotte un antidepressivo e via, coglioni e contenti come prima. Il rifiuto della sofferenza, purtroppo, appiattisce l’arte e cancella l’amore. Per concepire un’opera occorre andare a frugare dentro la propria anima, il che non è certo indolore. Innamorarsi è concedere all’altro una signoria su di te. Essere soggetti alle variazioni del suo sentimento. Rischiare di perdere. Soffrire se l’altro sta male, affrontare un grande dolore se muore. Innamorarsi vuol dire mettersi in condizione di ricevere una quota di dolore aggiuntiva, anche essere più felici, magari brevemente ma questo non basta , evidentemente. Così tutti si aggrappano al proprio benessere e finiscono di amare soltanto sé stessi.

Lidia Ravera
“Le seduzioni dell’inverno”
Pagine 185, Euro 14:00
edizioni nottetempo


Suicidi d'autore


Robert Louis Stevenson immaginò, con tratti d’umorismo nero, un “Club dei suicidi” che radunava vogliosi di porre fine ai propri giorni e agevolava il desiderio di quei soci.
Lui non appartenne a quel club, morì per la rottura di un vaso sanguigno.
Il suicidio, si sa, ha ispirato molte storie letterarie, ma anche parecchie letterali.
Sono in molti a credere, poi, che scrittori, pittori, musicisti, contino rispetto ad altre professioni il più alto numero di autosoppressioni. Le statistiche, però, smentiscono tale cosa perché – equamente distribuendo – riportano morti volontarie, con par condicio, fra impiegati, contadini, medici, avvocati, e via elencando.
Il fatto è che la storicizzazione degli artisti rende più note le loro esistenze e maggiore risalto acquista la cronaca della loro fine rispetto a quella d’un funzionario del Catasto.
Piuttosto, pare che esista un’ora che statisticamente registra il più alto numero dei suicidi: fra le 4 e le 5 del mattino. A quella tragica ora, infatti, l’autrice teatrale inglese Sarah Kane ha dedicato il suo dramma intitolato “Psicosi delle 4 e 48”.
Kane morì suicida impiccandosi. Il 22 febbraio 1999. Non si sa a che ora.
Un raffinatissimo scrittore, Antonio Castronuovo, ha raccolto in un libro 15 tragiche storie: Suicidi d’autore. D’autore perché come egli stesso spiega “… ben firmati, compiuti da letterati e artisti, abitati da un dèmone”.
O un nume pietoso, aggiungo io.
Di Castronuovo (sono stato recente lettore di un altro suo consigliabilissimo volume: Macchine fantastiche) ammiro l’eleganza dello stile con il quale esplora angoli inquieti della letteratura indagando sugli ingranaggi della fantasia oppure sui meccani di vite vertiginose come accade in “Suicidi d’autore”.
Nell’ordine dell’Indice: Abdallah Bentaga, Angelo Fortunato Formaggini, Sylvia Plath, Mark Rothko, Unica Zürn, Urmuz, Marina Cvetaeva, Henry de Nontherlant, Sarah Kane, Alfred Jarry, Irma Seidler, Walter Benjamin, Raymond Roussel, Anna Sexton, Pierre Drieu la Rochelle, questi i personaggi prescelti a ciascuno assegnando con ragionate motivazioni un ruolo che ne fanno testimoni particolari di diversi modi d’intendere la morte.
Ognuno di loro rappresenta per l’autore anche un’occasione per farne un folgorante saggio del profilo artistico che conteneva già in sé l'inesorabile Atropo.
Dal canto mio, penso che quelle donne e quegli uomini di cui ci parla Castronuovo, e altri esseri ignoti alla Storia come loro suicidi, chissà che non abbiano beffato quell’inesorabile Parca decidendo il proprio momento, dicendoci che la vita, e la morte, appartiene solo a noi e a nessun dio.

Per una scheda sul libro: QUI.

Antonio Castronuovo
“Suicidi d’autore”
Pagine 121, Euro 8:00
Stampa Alternativa


Terre inquiete


Sono tante sul nostro pianeta le terre attraversate da conflitti annosi, la Palestina è la più famosa tra queste. Impossibile contare i libri che, con diverse opinioni, si sono cimentati sul tema, assai difficile su quella tragedia formarsene un’opinione obiettiva perché le fonti troppo spesso sono fatalmente attraversate dalle ragioni dei contendenti.
Da una di quelle ragioni, essendo ateo, sono lontanissimo: quella religiosa, che pure pare di rilevante importanza. Peggio mi sento, come si dice a Roma, all’idea che lì si fronteggino due monoteismi, vale a dire due arroganti modi d’interpretare l’esistenza.
Una nuova pubblicazione va ad aggiungersi a quella sterminata biblioteca portando il contributo appassionato di un’autrice che quelle terre ha attraversate.
Si tratta di Spicchi di Palestina, Edizioni Puntorosso.
L’autrice è Giusi Ambrosio. Nata a Maratea, politicamente impegnata nel movimento delle donne e nell'elaborazione di un pensiero femminista, ha insegnato Storia e Filosofia nei Licei, prima nei paesi della Lucania ed ora a Roma dove vive.

Trascrivo da una presentazione del volume: “Una narrazione intensa e complessa; una scrittura che lega emozionalità e riflessione filosofica, vita quotidiana e analisi politica che accendono un cono di luce su un mondo spesso al centro dei media ma in realtà ancora irriducibilmente lontano ai più, opacizzato dalla onnipresente patina televisiva”.

Chi fosse interessato a interviste all’autrice e/o presentazioni del libro, può rivolgersi a Marta Volterra che cura l’Ufficio Stampa: marta.volterra@gmail.com


Warhol - Beuys


E’ in corso la mostra Warhol – Beuys. Omaggio a Lucio Amelio alla Fondazione Mazzotta che espone in collaborazione con la Fondazione Amelio / Istituto per l’Arte Contemporanea di Napoli, la Soprintendenza Beni Architettonici di Caserta, e con il sostegno della Provincia di Milano/Settore Beni Culturali.
Locandina MostraPartendo da una data, il 1980, e dall’incontro a Napoli di due grandi dell’arte contemporanea, il tedesco Joseph Beuys e l’americano Andy Warhol, Michele Bonuomo ha ideato una mostra che rappresenta un omaggio allo storico confronto dei due artisti con il gallerista Lucio Amelio.
Nei suoi circa trent’anni di attività (1965 -1994), la Galleria di Amelio fu un maiuscolo punto di riferimento per tutti i protagonisti del panorama artistico internazionale.
Il 23 novembre 1980 una devastante scossa di terremoto si abbatté su Napoli e sui territori dell’Irpinia e della Basilicata. Quella notte cambiò il destino di genti e di luoghi, e anche la storia di Lucio Amelio si incanalò lungo un percorso che avrebbe portato al famoso Progetto Terrae Motus.
A soli tre mesi di distanza dalla catastrofe, nel febbraio del 1981, fu Joseph Beuys con “Terremoto in Palazzo” - una mostra e una serie di performances ormai storiche - a tracciare l’impianto teorico di quella che da rassegna presto si sarebbe trasformata in collezione permanente diventando il cuore della futura Fondazione Lucio Amelio.
L’altra risposta di forte impatto formale ed emozionale fu quella data da Warhol, nel dicembre del 1982: tre grandi tele, con la riproduzione serigrafica della prima pagina del quotidiano Il Mattino con il titolo-urlo: “Fate presto!”.
Sono dunque Beuys e Warhol a tracciare gli estremi del discorso creativo che diede identità inequivocabile al progetto per la collezione ‘Terrae Motus’, divenuta con il passare del tempo una magnifica ossessione per Lucio Amelio. Un’avventura che vide l’adesione di Mimmo Paladino, Ernesto Tatafiore, Cy Twombly per primi, cui si aggiunsero poco dopo Barcelò, Alighiero Boetti, Boltanski, Cragg, Cucchi, Di Bello, Haring, Fabro, Gilardi, Gilbert & George, Haring, Kiefer, Kounellis, Mapplethorpe, Merz, Ontani, Paolini, Pistoletto, Rauschenberg, Richter, Schifano, Schnabel, Vedova e molti altri.

Ho chiesto a Ugo Vuoso una riflessione sulla figura di Lucio Amelio.
Vuoso, antropologo, Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, dirige la Fondazione La Colombaia e il Centro Etnografico Campano. E’ direttore artistico del Festival Visconti, del Festival delle minoranze culturali di Greci e dell’associazione “IPA l’arte in contemporanea”. E’ stato curatore di numerose mostre, la più recente è quella in corso nelle sale del Maschio Angioino di Napoli: “Bellissima.Visconti (e) il contemporaneo”, aperta fino al 3 marzo.
Ecco la sua risposta

“Terrae Motus” ha innescato e modulato un sostanziale processo di rinnovamento nella progettazione e nella distribuzione dei fatti culturali e artistici a Napoli e in Campania. Lucio Amelio ha intessuto i fili di trame espositive che hanno amalgamato il meglio dell’arte mitteleuropea e americana al potenziale cosmopolitismo culturale di Napoli. Per la prima volta un gallerista, un operatore culturale privato, ha superato i limiti della propria impresa per farsi promotore e organizzatore di cultura, provocatore e produttore di eventi e di fatti artistici di interesse collettivo, sperimentando inedite collaborazioni con gli enti pubblici preposti alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico. L’attività di Amelio in Italia e all’Estero (soprattutto quella della sua galleria di Parigi) ha avuto a Napoli il suo punto di massima tensione creativa. Amelio ci ha lasciato un’eredità culturale dalla quale non si può prescindere: lo evidenzia la permanente esposizione di “Terrae Motus” alla Reggia di Caserta, monumento e documento di quell’azione di Amelio che resta un paradigma per quanti oggi operano nell’ambito della organizzazione e della diffusione delle arti.

“Warhol vs Beuys. Omaggio a Lucio Amelio”
Fondazione Mazzotta
Foro Bonaparte 50, Milano
Infoline e prenotazioni: 02 – 54 913
Ufficio Stampa: Alessandra Pozzi, ufficiostampa@mazzotta.it

Fino al 30 marzo ‘08


This is contemporary!


“… di che cosa parliamo quando parliamo di musei? Come si configurano i luoghi dell’arte in Italia, e all’estero? Ancora, quali strategie sono rintracciabili? E come si sta evolvendo questo scenario?”.
Queste le domande che si è posta Adriana Polveroni in un volume mandato in libreria da FrancoAngeli intitolato This is contemporary! Come cambiano i musei d’arte contemporanea.

Libro imperdibile per artisti, critici, organizzatori di rassegne d’arte visiva, e che risulta prezioso averlo nelle redazioni della carta stampata, delle radio-tv, del web. Perché profila con dati storico-critici i più importanti centri italiani e stranieri della nuova espressività visiva contemporanea indicando e interpretando le più urgenti tematiche che girano intorno al perché e come agiscono quei centri.
Ampio spazio è dato anche alle ragioni sociologiche che portano (e talvolta deportano) tanti a varcare le soglie d’un museo d’arte contemporanea.
Sarebbe stato facile, e comodo, nel fare un libro come This is contemporary! lasciarsi andare solo a lodi ed esaltare quanto c’è in giro, ma l’autrice ha preferito, nel citare i pregi laddove ci sono, anche sottolineare limiti e ambiguità, chiedersi lo sviluppo che potranno avere i nuovi musei in un momento politico internazionale come il nostro e in un’epoca come l’attuale dove l’interlinguaggio reclama scelte spesso radicali.
Da tutto questo, viene fuori il ritratto gestionale, politico e sociale di un’istituzione culturale molto amata e anche, da parecchi guardata con obbligatorio rispetto ma, spesso, noioso obbligo nei viaggi turistici. Viaggi che già attraversano anche musei virtuali, come accade con l’iniziativa di un vecchio amico di Cosmotaxi – Mario Gerosa – che ha intrapreso il primo progetto museale al mondo per preservare il patrimonio dell'architettura e dell’arte digitale creata su Second Life.
Adriana Polveroni è nata e vive a Roma, dove si è laureata in Filosofia.
Prendendo spunto dal sottotitolo del libro, le ho chiesto: in Italia in che cosa sono principalmente cambiate l'immagine e l'operatività dei Musei d'arte contemporanea?

I musei d’arte contemporanea italiani non sono tanto cambiati: semplicemente sono nati. Nel senso che, fino a poco tempo fa, ne esistevamo solo due: il Castello di Rivoli, nato nel 1984 vicino Torino, e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, sorto nel 1988. Guarda caso, entrambi fuori mano e con caratteristiche anomale. Uno, frutto del restauro di una reggia sabauda, e quindi tendenzialmente quanto di più lontano dalla contemporaneità, e l’altro nato come nuova architettura, ma da subito infelice e incapace di rappresentare il nuovo. Oggi quasi ogni città ha il suo museo o galleria civica che si occupa di arte contemporanea, Roma, nel giro di due anni, varerà i suoi due musei da lungo tempo attesi. Da un punto di vista mediatico, quindi, non c’è confronto con prima, mentre l’operatività ancora fa fatica a delinearsi con nettezza. Si guarda sempre molto all’estero insicuri di se stessi e non sapendo come promuovere i nostri artisti, uscendo da una logica nazionale per competere su una scena globale, tanto per dirne una.

Dall'esperienza da te fatta scrivendo questo libro, vorrei un tuo parere su quanto segue. Baudrillard definisce “estasi da Polaroid” quella voglia tutta nostra contemporanea di possedere l’esperienza e la sua oggettivazione. Questo desiderio che assilla (o anche delizia) l’uomo d’oggi è, oppure non è, all’origine del nuovo consumo delle immagini?

L’estasi da polaroid di cui parla Baudrillard è oggi superata da quel fenomeno che definirei ‘convergenza sincronica del digitale’. Rimango sempre molto colpita quando persone, giovani ma non solo, in un batter d’occhio si piazzano davanti a un obiettivo (camera o telefonino) si immortalano e si rivedono un istante dopo. Il consumo dell’immagine è sincronico al suo farsi e obbliga tutti ad essere voyeur di se stessi, senza attesa e senza neanche ambizioni di fotografo. Basta esserci, scattare e vedersi.
E‘ l’apoteosi del consumo, che guarda caso passa attraverso le immagini. Un po’ come accade nei musei
.

Adriana Polveroni ha rilasciato anche un’interessante intervista sul suo volume a Radio Papesse, per ascoltare QUI.

Per una scheda sul libro, bio dell'autrice e Indice del volume: CLIC!

Adriana Polveroni
“This is contemporary!”
Pagine 199, Euro 19:00
FrancoAngeli


Tommaso Ottonieri 1 e 2


Escono contemporaneamente due libri di Tommaso Ottonieri.
Una novità e una riedizione. La prima è: Le strade che portano al Fùcino.
In un momento in cui siamo travolti da uno tzunami di romanzi che mostrano la loro ripetitività, e inutilità, ecco un libro in prosa che pur narrando esplora territori strutturali e linguistici inediti. Non è un caso, infatti, che travalica la pagina e naviga in modo reticolare anche attraverso immagini e suoni. Suoni elettronici di profondità sotterranea dovuti a Maurizio Martusciello, sui quali s’incide la voce dello stesso Ottonieri, e foto in un aspro b/n.
L’autore attraversa il Fùcino, conca d’Abruzzo dai riflessi di fuoco e che alle illusioni delle fiamme deve il nome; un tempo, in certi periodi dell’anno, un’alga di colore rosso faceva assumere al lago del Fucino una colorazione simile a quella di un fucìna. La scrittura sprigiona scintille oniriche, si fa delirio terragno dispiegandosi non in maniera sequenziale, ma per blocchi che richiamano alla memoria la funzione dei links sul web, qui apertura d’improvvise finestre su precipizi di memoria. S’inscrivono sulla pagina vite di massaie maghe e ricordi d’infanzia, forme abissali che danzano intorno all’antenna di Telespazio (si trova nel Fùcino) preso a simbolo forse di colloqui celati in cielo ed epifanie sulfuree.
Libro straordinario che una volta afferrato il ritmo di lettura trascina e affascina.
A Tommaso Ottonieri, ho chiesto una dichiarazione su "Le strade che portano al Fùcino".

Tommaso OttonieriNella sua complessità di disseminazioni, il libro ambisce a una assolutezza narrante ancor più a una totalità di “testo”. Non solo per la configurazione ipertestuale e multimedia (scrittura moltiplicata dall’immagine fotografica ma anche dalla esecuzione sonora, con l’allegato cd realizzato assieme a Maurizio Martusciello), Ma soprattutto per la sua natura di sistema; e di sistema particolarmente aperto, dove le tessere narrative, apparentemente autonome, stabiliscono relazioni multiple entro un’unica Trama (la quale, tuttavia, non smette di decentrarsi…) Scaturito dalla multi-direzionalità “oggettiva” del genere guida-di-viaggio, con cui ha inizio, la narrazione devia su di un ipercontaminante horror metafisico, con pulsioni fantascientifiche e angeliche, per corrompersi di continuo di sottotracce autobiografiche, mitiche, geologiche, puro-visionarie… Del tema, qui non posso dire se non che si tratta, nuovamente, di un ‘nostos’; ritorno al mar-morto d’una (azzerante) Origine, astratta e viscerale, a un nodo ombelicare che non smette di sibilare il suo fiato di deserto. Una saga di de-fondazione, se si può dire.

L’altro libro cui accennavo in apertura è la riedizione – stampato dalle ottime Edizioni No Reply – del debutto letterario di questo magmatico autore: Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, scritto nel 1978 apparve due anni dopo edito da Feltrinelli con un’entusiastica nota di Edoardo Sanguineti.
Fu una rivelazione allora, resta un gioiello oggi.
Rivisitato accortamente dall’autore si ripresenta ai lettori, rispetto alla I edizione (di cui sono orgoglioso possessore) con una chiusa intitolata: “Trent’anni d’ipertofia. Il soggetto-detto-dell’autore, nel rinvenire i suoi passi”.
Ho chiesto a Tommaso… a proposito, se volete sapere di un viaggio spaziale in cui lo ebbi a compagno, cliccate QUI ... di rinvenire sui suoi passi e dirci, a circa trent'anni dalla pubblicazione di “Dalle memorie di un piccolo ipertrofico”, come vede quel libro.

E’ una scrittura in movimento (e infatti, per questa edizione, rivista dall’interno): la quale “agisce”, probabilmente come poche altre, su un nesso così problematico e fondante, come quello tra pulsionalità e linguaggio (e/o codice-lingua). Dove il poetico è in tensione estrema col politico. E’ per questo che, pur frutto tra gli esemplari di una stagione fin troppo determinata (il movimento del ’77), questo testo mi sembra ancora in grado di promanare la sua forza centrale.

Per ascoltare pagine di questo libro lette dall’autore: CLIC!

Tommaso Ottonieri
“Le strade che portano al Fùcino”
Prefazione di Enrico Grezzi
Guida alla lettura di Gilda Policastro
Libro + Cd, Pagine 272; Euro 24:00
Edizioni Le Lettere

“Dalle memorie di un piccolo ipertrofico”
Con note per un testo di Edoardo Sanguineti
Pagine 121, Euro 12:00
Edizioni No Reply


Kiss Spam


Le Officine Abso aperte dagli artisti Marco ABbamondi e Attilio SOmmella (nella grafica che riporto nello scrivere i cognomi dei due c’è la chiave per capire perché le Officine si chiamino proprio così), nonostante abbiano aperto il loro laboratorio da poco più di un anno, hanno già prodotto mostre, concerti, performances, come si può notare dal loro sito web.
Hanno, cioè, mantenuto le promesse dichiarate nella dichiarazione iniziale del programma di lavoro.
Ora, a Napoli, al Maschio Angioino espongono un’installazione intitolata Kiss Spam.
L’opera fa parte di Bellissima. Visconti (e) il contemporaneo, mostra presentata dall’IPA guidata da Ciro Prota che vede con la direzione artistica di Ugo Vuoso impegnati nomi da Marisa Albanese a Nino Longobardi, da Sergio Fermariello a Ernesto Tatafiore, al duo Alba D'Urbano/Tina Bara ad altri ancora, in creazioni ispirate all’arte di Luchino Visconti.
Per saperne di più CLIC!

Abso così presenta il proprio lavoro delle dimensioni di 6x4 mt.

Gli antropologi dicono che il bacio sia la più grande forma di comunicazione che esiste, ma non sono i soli a saperlo.
Narratori, pittori, poeti, scultori, fin dall’antichità hanno descritto e raffigurato quel momento d’intimità nella sua forma d’eterna promessa amorosa, nell’ardore di una fugace passione, nello struggimento di un addio. Né mancano altri significati illustrati nell’iconografia del bacio: da quello traditore di Giuda fino a quello dolcemente pubblicitario ideato da Federico Seneca per la ditta Perugina.
Con l’avvento della fotografia e della cinematografia le coppie oltre che su tele, marmi e cellulosa hanno preso a baciarsi anche sulla celluloide.
Nel 1896 il pubblico di un cinema fu così preso dal primo piano di un bacio della durata di 30 secondi che a furia di farlo rivedere si strappò il rullo.
Di baci famosi nella storia del cinema ne verranno molti altri, ammirati dal pubblico senza stavolta procurare danni alla pellicola.

Abso, Kiss Spam, 2008ABSO presenta al Maschio Angioino una rielaborazione d’un famoso bacio.
Si tratta di una scena tra Farley Granger e Alida Valli in "Senso" (1954) che Visconti volle ricostruire prendendo a modello il quadro di Francesco Hayez intitolato “Il bacio” (1859).
Questa installazione propone in digitale le due immagini – un fotogramma del film e la famosa tela – che si fondono in una sola su di un mosaico realizzato con tessere provenienti da uno strumento tecnologico dei nostri giorni: il videofonino.
Gli amanti viscontiani e quelli di Hayez diventano una nuova coppia, riassunto di slanci e spasimi che rivivono sulle effigi di 2520 baci ritratti da appassionati MMS provenienti dall’universo della memoria ottica contemporanea: baci celebri del cinema, dell’arte, baci di coppie ignote scattate in strade, case, stazioni, aeroporti, baci europei, asiatici, americani e africani, baci etero, omosex, baci del fumetto, delle copertine di libri, di dischi, fino a quelli scambiati sul multiverso Second Life.
Smack!

Cartella stampa: QUI.

"Bellissima. Visconti (e) il contemporaneo”
AbSo: 'Kiss Spam'
Maschio Angioino, Napoli
Orari: 9.00 – 19.00
Biglietto ordinario: € 5,00; gruppi (min. 15 persone) € 4,00
Info: 081 – 49 71 300 e 081 – 79 55 877
Fino al 3 marzo 2008


Manuela Kustermann


A Roma, al Teatro Vascello, dopo il successo dell’anno scorso, torna in scena, interpretato e diretto da Manuela Kustermann il testo di Sergi Belbel intitolato Morire o non morire tradotto da Ilaria Panichi.
Sergi Belbel, nato a Terrassa (Barcellona) nel 1963, è molto noto e rappresentato in Spagna; nella primavera scorsa un altro suo testo è stato messo in scena dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Lluìs Pasqual.
Il suo teatro punta ad una riscoperta della tragedia anche attraverso lampi d’umorismo nero come, ad esempio, in “Mobil” – il telefono cellulare in spagnolo – d’impianto digital-telefonico, costruito su piccoli monologhi, sintetici, simili a quello degli sms.
È autore, tra le altre opere di: Calidoscopios y faros de hoy (1985); La nit del Cigne (1986); Dins la seva memória (1986); Minim.mal Show (1987), con Miquel Górriz; Elsa Schneider (1987); Òpera (1988); En companyia d’abisme (1988); Tàlem (1989); Carícies (1991); Despres de la pluja (1993); Al mateix lloc (1996-97); Sóc Lletja (1997), con Jordi Sánchez, La sang (1998) ed El temps de Planck (1999).
Ha tradotto in catalano opere di Racine, Georges Perec, Bernard-Marie Koltés, Moliére. Scrive sceneggiature per la televisione – Secrets de Familia ed Ivern – e per il cinema.
Ha diretto per il teatro diverse sue opere.
Tra i premi ottenuti: Maqués de Bradomín 1986; Nacional Ignasi Iglésias 1987, Ojo Crítico de Rne 1992, Nacional de Literatura Dramática de la Generalitat de Catalunya 1993-95, Serra d’Or 1994, Nacional de Literatura Dramática del Ministerio de Cultura Español 1996, Molière 1999 e Nacional de Teatre 2000 de la Generalitat de Catalunya.

Manuela KustermannDice Manuela Kustermann: In “Morire o non morire” s’assiste a un vero e proprio “girotondo”, sette coppie di personaggi tipici dell’immaginario metropolitano (l’eroinomane e la sorella stanca di subire; la madre castrante di una figlia succube, l’assassino e la vittima …) intrecciano variazioni comportamentali violentissime un attimo prima che uno dei personaggi cessi di vivere. Il testo, è diviso in due parti, ognuna delle quali comprende sette scene. Nella seconda vengono ribaltate le ipotesi della prima parte, e i vari personaggi che inizialmente sembravano apparentemente autonomi, sfuggono ad un destino di morte attraverso una concatenazione esistenziale che determinerà una salvezza collettiva. L’iterazione, il raddoppiamento, la variazione di scene analoghe è una tecnica spesso usata da Belbel, che talvolta arriva alla polverizzazione della trama in una serie di azioni minimaliste, connesse fra loro dalla continuità stilistica.

Lo spettacolo vede impegnati, oltre alla stessa Kustermann, in ordine di apparizione: Paolo Lorimer, Alberto Caramel, Gaia Benassi, Monica Barbato, Massimo Fedele,Tatiana Winteler,Sara Borsarelli, Sandro Palmieri.

L’Ufficio Stampa è affidato a Marina Raffanini : 06 – 588 10 21.

Teatro Vascello Via G. Carini 78, Roma
“Morire o non morire”
di Sergi Belbel
Regia di Manuela Kustermann
Fino al 2 marzo 2008
Poi in tournée


'A Flobert


Ben vengano le manifestazioni contro le guerre con i loro tragici bilanci fisici e morali. Mentre in guerrra, però, è scandaloso ma è così, si va per uccidere ed essere uccisi, non ci si reca, invece, al lavoro per morire.
Eppure, in Italia, muoiono più lavoratori che non americani in Iraq. Può sembrare incredibile, ma le cifre lo testimoniano.
L’Italia è il paese in Europa dove ci sono più infortuni. Un milione di incidenti all'anno con oltre 1300 morti sul lavoro, un morto ogni 7 ore.
Inoltre, si rileva un’impennata di incidenti fra i lavoratori immigrati. L’Inail stima 200mila infortuni non denunciati.
Le buone leggi – vedi lo Statuto dei Lavoratori – sono ampiamente trasgredite.
Alla vergogna morale va anche aggiunto un prezzo che pesa su tutta la collettività: il costo economico è attorno ai 70 miliardi di euro, quasi due finanziarie.
E’ da accogliere, quindi, con elogi il lavoro di quanti denunciano questa tragedia.
E’ il caso di Maurizio Gibertini (“Gibo”) che ha realizzato un documentario intitolato 'A Flobert su di un gravissimo incidente avvenuto nei pressi di Napoli tempo fa.
L’11 aprile 1975 a Sant’Anastasia, esplose la Flobert, fabbrica di giocattoli che ospitava lavorazioni di materiale esplosivo non autorizzate, pertanto non messe in sicurezza. Dodici le vittime. Tutti operai assunti pochi giorni prima.

Maurizio Gibertini (per una sua bio, cliccate QUI) dal 2002 gestisce la Marte WebTv che produce e trasmette documentari e servizi giornalistici.
Di “’A Flobert”, è possibile vederne il trailer: CLIC!


Pinketts e Bernadette


Chi spera in un gossip celeste, qui sarà deluso.
La Bernadette del titolo non è la Soubirous che vide la Vergine nel 1844 fondando il mito di Lourdes e anche le fortune dell’Ente per il Turismo locale.
Si tratta di un’altra Bernadette che vive nelle pagine di una fiaba metropolitana raccontata da Andrea G. Pinketts nel suo più recente libro La fiaba di Bernadette che non ha visto la Madonna pubblicato da Edizioni il Filo.
Una fiaba che comincia con “E vissero tutti felici e contenti” e termina con “C'era una volta”. L’autore in una videointervista consiglia il libro alle fanciulle in fiore, io, invece, lo consiglio alle beghine così capiscono bene che cosa si sono perse; si sa, non è mai troppo tardi.
Non farò cenno alcuno alla trama e non solo per non togliere il gusto di scoprire un’elettrica avventura che trascorre fra streghe, fughe, torvi tipi, e sesso ardente, ma anche perché è il linguaggio che fa un’opera. Altrimenti se tutto è trama finiamo per cadere nelle braccia di Moccia o nell’incenso amaro della Tamaro… pfui!
Andrea G. Pinketts (biobibliografia sul suo sito web… a proposito, urge un restyling lì) è un autore che nonostante nelle sue pagine faccia accadere un sacco di cose, con ritmi vertiginosi che strizzano l’occhio allo slapstick, è sul linguaggio, sul modo di raccontare ch’è unico nello scenario letterario italiano.
Nei suoi libri, protagonista di sé stesso, è un funambolo della parola, stravede e stravisa, coglie epifanie nei lapsus, allega alle pagine pensieri politicamente scorretti e le allaga con l’acque luride stagnanti in creature che trascorrono la vita in bar notturni, destinate a finire in tombini e tombe.
Sono in molti ad associarlo al “noir”, da lui praticato ben prima che andasse di moda come va adesso che ci ritroviamo in Italia tanti autori noir per numero inferiori solo agli evasori fiscali.
Francamente mi dissocio da quel giudizio.
Pinketts, scrittore vero, ha preso solo in prestito, e a pretesto, quel genere per prendere a calci in culo il romanzo. Operazione riuscita e meritoria, perfino le sue storie ne sono testimonianza: la trama, infatti, in lui è tanto eccessiva da uscirne derisa.
Sarà anche per questo che, pur avendo un suo folto pubblico e vendendo bene, i critici più seriosi non si occupano di lui, si sa, quelli annegano nell’inchiostro soltanto degli autori che quando li prendi a leggere già ronfi a pagina 3.
A coloro che ancora non avessero letto i libri di Pinketts, li invito a farlo, troveranno gioia e divertimento, rifletteranno su come si può essere grande scrittore senza farli a pezzettini piccoli così al lettore. E talvolta – orrore! – senza neppure usare l’anestesia locale.

Per una scheda su La fiaba di Bernadette che non ha visto la Madonna: QUI.

Andrea G. Pinketts
“La fiaba di Bernadette che non ha visto la Madonna”
Foto di copertina e interne di Mariasole Brivio Sforza
Pagine 106, Euro 12:00
Edizioni il Filo


Che cos’è la follia?


Non amo Chesterton, eppure quel mezzo prete una cosa giusta… una soltanto, intendiamoci… l’ha detta: “Il pazzo è uno che ha perso tutto tranne la ragione”.
Non perdere la ragione, però, non significa – anzi, tutt’altro – evitare la sofferenza psichica che assume varie forme. E qui si apre uno scenario di molteplici ipotesi per curare quei tormenti; sostanzialmente si fronteggiano due posizioni, una organicista (detta anche psichiatria biologica) e l’altra chiamata cognitivista. All’interno di questi due schieramenti scientifici, vivono poi varie correnti pensiero che giungono a diversi approdi terapeutici.
Non m’azzardo ad entrare in quel dibattito, mi mancano gli strumenti per farlo. Gradirei, però, che anche altri, come me non attrezzati, evitassero d’avventurarsi in dichiarazioni su quel campo.
Perché se si parla di cardiologia si lascia la parola agli specialisti e se, invece, si discute di psichiatria tanti si sentono in diritto d’esprimersi? Perfino evocando ideologie politiche?
Non c’è dubbio che il male psichico risenta d’ambienti sociali (ma perché le cardiopatie no?) in modo più marcato rispetto ad altri malanni che ci acciaccano, ma da qui a farsi esperti, ce ne corre. Vorrei che a parlare fossero i medici e i loro pazienti, le sole due categorie le quali, con diverse matrici, hanno la competenza per pronunciarsi.
E se è vero che non è necessaria una laurea in medicina per dire che Basaglia aveva ragione, è altrettanto vero che occorrono studi scientifici o esperienze di sofferenza per dibattere seriamente sulla questione.
Un nome maiuscolo che da anni, con riconoscimenti in Italia e all’estero, si occupa professionalmente dei temi e dei problemi della psiche è Eugenio Borgna, per una sua biobibliografia, cliccate QUI.
Lo troviamo ora, con la sua più recente pubblicazione, nella collana Auditorium dell’’Editore Luca Sossella con il titolo Che cos’è la follia?.
Domanda alla quale Borgna così risponde: Una condizione umana che è l’altro volto della ragione. Ed è il rifiuto del volto dell’altro. L’impossibilità di condividere un codice comunicativo, la ‘cura’, trasforma la follia in malattia allo scopo di eliminarla. La speranza è una dolorosa apertura nel tempo (diversamente dalla disperazione che vive il tempo come fosse una prigione).
Eugenio Borgna è un fenomenologo, gli ho chiesto: può dare in estrema sintesi un profilo della psichiatria fenomenologica?
Ecco, in breve. La fenomenologia, che si nutre del pensiero filosofico di Edmund Husserl e di quello psicopatologico di Ludwig Binswanger, consente di cogliere le esperienze psichiche, normali e patologiche, nella loro radicale significazione umana; realizzando una psichiatria indirizzata alla descrizione e alla analisi della vita interiore dei pazienti: delle loro emozioni e dei loro stati d'animo, delle loro angosce e della loro disperazione, delle loro speranze e delle loro disillusioni, che non si distinguono nella loro essenza da quelle che sono le esperienze emozionali della vita normale.

L’audiolibro si connota anche per ottimi ritmi e scansioni vocali (in quel genere di pubblicazione è determinante ai fini della comunicazione) che ne rendono scorrevole l’ascolto.
Di spicco la copertina ideata dalla sapiente art direction di Alessandra Maiarelli.

Eugenio Borgna
“Che cos’è la follia?”
Dvd più un fascicolo di 28 pagine, Euro 15:00
Luca Sossella Editore



Letteratura e Internet


In quest’epoca delle “pisicotecnologie” – definizione di Derrick de Kerckhove – s’assiste ad una rivoluzione che, forse, per entità è superiore a quanto accadde con Gutenberg.
La scrittura, non solo quella d’informazione, ma anche quella creativa, s’è evoluta per tempi, stili e forme in un modo che perfino chi professionalmente pratica la Rete non sempre ha colto. Si nota, infatti, in molti siti, un modo di scrivere che altro non è che la trasposizione della vecchia pagina su cellulosa in formato elettronico.
C’è ancora troppo amore per la carta - questo lo dico io, non lo sostiene il libro che sto per presentare - tanto che càpita di leggere di taluni che nati con una propria rivista sul web, esultano nell’annunciare “finalmente” il loro passaggio alla carta stampata; come dire, possedevamo un aereo ed ora, “finalmente”, un carretto. Tutto questo mentre Arthur Sulzberger Jr, editore e presidente del “New York Times”, annuncia che entro 3 anni quel famoso giornale più non sarà stampato e vivrà solo on line.
L’editore Bevivino sulle sorti dello scrivere oggi in Rete, e per la Rete, manda tempestivamente in libreria un proprio volume.
La letteratura nell’era dell’informatica proposte per il XXI secolo, questi titolo e sottotitolo del libro ch’esce a cura di Cesare Milanese con testi dello stesso curatore e di Alberto Abruzzese, Enzo Berardi, Pino Blasone, Vanni De Simone, Gabriele Frasca, Fabio Giovannini, Marco Paladini, Gabriele Perretta.
Cesare Milanese vive e lavora a Roma. Scrittore, saggista, critico letterario, consulente editoriale, giornalista (“L’Espresso”, “Mondoperaio”, “Rinascita”, “Il Messaggero”, “Avanti!”). Tra le sue pubblicazioni: “Principi generali della guerra rivoluzionaria” (Feltrinelli, 1970); “Luca Ronconi e la realtà del teatro” (Feltrinelli, 1973); “Il tempo e l’ora” (Spirali, 1981); “La tela” (Feltrinelli, 1998); “Sul teatro e dintorni”, “Hortus Musicus”, 2003-2005; “Qui è Platone che parla”, Metateatro di Pippo Di Marca, 2006.
Nei saggi di La letteratura nell’era dell’informatica, tutti ben ragionati e ricchi di spunti interessanti, talvolta lampeggia anche una certa avversione al nuovo che ha radici più politiche che estetiche, e forse sarebbe stato opportuno anche uno scritto affidato a qualche tecnico del web che s’interrogasse sui problemi che la nuova tecnologia propone dal web.2 alla previsione di quanto potrà accadere nel prossimo futuro.
Molto ruota intorno all’ipertesto che Caterina Davinio ben definì in un incontro che ebbi con lei tempo fa: "Ipertesto" è una parola nata in ambiente informatico negli anni 60 e indica un testo in cui il contenuto non è in ordine sequenziale, ma è diviso in blocchi disposti secondo una struttura reticolare, in cui il lettore può individuare più di un percorso o anche andare alla deriva (dipende dal grado di gerarchizzazione che l'autore ha imposto al proprio ipertesto); se l'ipertesto è una narrazione, il lettore può costruire più di una storia, giocando metanarrativamente con i nodi della narrazione con l'elemento fondante della struttura nel link.
L'ipertesto si presenta oggi spesso nella forma più spettacolare dell'ipermedia, dotato di una grammatica che coniuga musiche, immagini, filmati, animazioni; se il tutto non è una semplice sovrapposizione, ma concorre a formare un testo intersemiotico, possiamo trovarci di fronte a un sistema nuovo
.

Per una scheda sul libro: QUI.

“La letteratura nell’era dell’informatica”
A cura di Cesare Milanese
Pagine 352, Euro 18:00
Bevivino Editore


Debord e il cinema


Diceva Guy Debord: Un avventuriero è colui che fa sì che un'avventura accada.
E di avventure ne ha fatte accadere e attraversate tante Debord, filosofo, cineasta, agitatore culturale, nato a Parigi il 28 dicembre 1931, morto suicida a Champot il 30 novembre 1994; per una sua estesa biografia: QUI.
Guy DebordE’ ricordato come l’ideatore dell’Internazionale Situazionista, movimento politico e artistico dalle plurali radici, dal marxismo all’anarchismo, con modelli d’intervento derivanti dalle avanguardie del primo ‘900.
Ai più distratti ricordo che quell’Internazionale fu fondata nel 1957 in Italia, precisamente a Cosio d’Arroscia, in provincia d’Imperia, e, accanto a Debord, figurano anche gli italiani Walter Olmo, Pinot Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone.
La parola e la pratica dei situazionisti, influenzeranno fortemente il movimento del maggio 1968 in Francia.
Guy Debord, è autore del famoso testo “La società dello spettacolo”, di lui è possibile leggere anche altro in italiano.
Uno degli aspetti meno noti di questa grande figura è quello riguardante il suo cinema.
Ora, Lili Hinstin, cui dobbiamo molte occasioni di conoscenza di cose cinematografiche francesi sconosciute o quasi da noi (vedi ad esempio QUI) presenta a Villa Medici una rassegna della produzione di Debord che realizzò fra il 1952 e il 1978 tre lungometraggi e tre cortometraggi.
Tale rassegna – film proiettati in 35mm in versione originale con sottotitoli in italiano – è curata da Fabien Danesi, nata nel 1975, laureata in Storia dell’Arte, docente all’Università di Versailles.
Così scrive su Debord la Danesi: Nei suoi film, sono tangibili la passionalità della sua esistenza e le sue teorie, ormai indissociabili dalla sua persona: Debord non è un semplice regista, anzi ha sempre tenuto a sottrarsi alla definizione specialistica. Egli è un rivoluzionario cui le immagini non sono mai state sufficienti: giudicandole invasive, gli contrappone, da stratega, una praxis, un atteggiamento di cui i suoi film rendono perfettamente conto.

“Il cinema di Guy Debord”
da giovedì 7 a sabato 9 febbraio 2008
Académie de France, Villa Medici
Viale Trinità dei Monti 1, Roma
Ingresso libero


Festa in Second Life


La sim Parioli, la prima fra le italiane ad essere realizzata in Second Life, festeggia due anni di vita.
Ideata da Bruno Cerboni, fondatore di Virtual Italian Parks, successo virtual-mediatico studiato nelle università internazionali, ‘Parioli’ è stata testimone dell’evoluzione di quell’universo sintetico.
Mario GerosaGiustamente, quindi, si festeggiano in SL i due anni di ‘Parioli’, dove a fianco di Cerboni troveremo un vecchio amico di Cosmotaxi: Mario Gerosa (in foto) alias Frank Koolhaas, o viceversa se più vi piace.
Il tutto, lunedì 11 febbraio alle ore 21:00 italiane.
Per maggiori informazioni, cliccare QUI.

Mario è il maggiore studioso italiano del multiverso, autore per Meltemi di Second Life, sta per pubblicare un nuovo libro dal titolo “Rinascimento virtuale” che presenterò prossimamente in queste pagine web.
Ideatore della prima Agenzia di viaggi nei mondi virtuali - Synthravel - di recente si è ancora una volta soffermato acutamente sui temi delle arti visive in SL.

Second Life
Lunedì 11 Febbraio
Festa Parioli
Alle 21:00, ora italiana


Cuori da bar


Le Edizioni BD hanno di recente mandato in libreria una raccolta di racconti di Lorenzo Bartoli.
Titolo del volume: Cuori da bar.
L’autore è sceneggiatore per la tv, il cinema e i fumetti.

Scrive Paolo Pietrangeli nella prefazione: C’entrano i fumetti? Poco. Se c’entrano li trovi nella rapidità del racconto, nell’odio per le lungaggini, nella successione delle immagini, nelle associazioni verbali e mentali che ti spostano da un piano all’altro, ma la terza dimensione che qui c’è ti conduce a una riflessione che detesta il luogo comune, la didascalia e la predica moralista, non è dei fumetti e nemmeno del cinema o, ancor meno, della televisione.
C’entrano le canzoni? Tanto […] qui le storie entrano dentro una grande ballata, “ballade” per coloro che abitano i territori dei vincitori che hanno perso
.

In quarto di copertina, dice Remo Remotti: Sono partito e sono ritornato da un sacco di posti. Ma i bar di questo libro li ho visti solo a Roma. Sono dei posti strani, brutti, sporchi e cattivi. Ma se ci entri per un paio di giorni di seguito sei finito. Diventano la camera migliore di casa tua. Quella dove nessuno te rompe li cojoni.

Lorenzo Bartoli conduce in Rete un suo blog.

Lorenzo Bartoli
“Cuori da bar”
Illustrazioni di Massimo Carnevale
Pagine 106, Euro 10:00
Edizioni BD


Fight da faida


Già altre volte in queste pagine web (ad esempio QUI) ho parlato di Federico Panero e della sua elettronica creatura: il DigiFestival.
Non si tratta soltanto di un Festival perché, oltre all’annuale concorso, DigiFestival è un webmagazine che presenta durante tutti i 12 mesi produzioni video italiane e straniere, di ieri e di oggi, che spaziano dalla videoart allo sport ai clip musicali.

Questo mese spicca la riproposta di uno storico videoclip del famoso rapper Frankie Hi-Nrg-Mc, cioè Fight da faida; merita visione e ascolto specie per chi non lo ha finora visto, oltre a chi vuole rivederlo.
Frankie Hi-Nrg Mc (in foto) è il nome d’arte di Francesco Di Gesù.
D’origini siciliane, è nato a Torino il 18 luglio 1969; lo troviamo in scena fin dagli albori del movimento hip hop in Italia.
Dalle prime fino alle più recenti produzioni, Frankie racconta uno spaccato dell'Italia; fa parte, infatti, di quel segmento dell’hip hop più impegnato che nei brani parla di mafia, droga, malaffare politico.

Per vedere e sentire (assicuratevi, quindi, che le casse acustiche siano in funzione, perché se nulla sentite è colpa vostra) ‘Fight da faida’ e dopo avere alzato bene il volume CLIC!

Per il sito web in Rete di Frankie QUI.


Figurazioni del possibile


La casa editrice Cronopio, proseguendo nella sua linea di pubblicazioni attente a rilevare i dibattiti estetici in corso, manda in libreria Figurazioni del possibile Sul contemporaneo tra arte e filosofia, libro che riflette sul confronto fra espressività e nuove estetiche, sui suoi risvolti in un mondo che è diventato pluralità di mondi del sentire e del vedere.
Il volume procede attraverso l’interrogazione di alcune parole-guida, novelle sibille che tra stili e forme appaiono decisive tanto per la riflessione filosofica quanto nelle pratiche artistiche del contemporaneo: opera, materia, colore, violenza, comunicazione, negazione .

N’è autore Romano Gasparotti.
Insegna Fenomenologia dell’Immagine all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.
Prima del libro di cui qui si parla, la sua più recente pubblicazione è stata Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico stampato da Bollati Boringhieri.

A Romano Gasparotti, ho chiesto le principali motivazioni che lo hanno spinto a questo suo lavoro.

Innanzitutto un dato. I fenomeni assai eterogenei che vengono messi insieme sotto l’espressione ‘arte contemporanea’ sono ritenuti di dominio quasi esclusivo dei critici, i quali di solito si limitano a parafrasare, cioè a descrivere con le loro parole, ciò che si vede dell’evento o dell’opera. E’ come se, al cospetto di un tramonto estivo, vi fosse bisogno di una guida turistica che dicesse: ‘ecco, quello è il sole di colore rosso, in alto si vede il cielo che si oscura, mentre in basso il cielo appare infuocato sul mare …’.
Il secondo motivo è una domanda (a cui il libro cerca di rispondere): forse l’arte odierna viene chiamata semplicemente ‘contemporanea’ (ovvero ciò che l’arte è in ogni epoca), perché ci costringe a porci radicalmente la domanda ‘Che cos’è l’arte’? E quindi ci invita a riflettere sullo stupore che l’uomo prova di fronte all’apparire di qualcosa, di una figura, di un mondo? Gli antichi, del resto, sostenevano che la filosofia nasce proprio dalla meraviglia…
Infine: se, da un lato, i fenomeni dell’arte contemporanea
fanno pensare in senso forte, dall’altro, dal primo ‘900 in poi, la ricerca filosofica più avvertita sembra avere un necessario bisogno di confrontarsi e dialogare con l’arte. Come se al centro delle pratiche dell’una e dell’altra vi fosse la stessa misteriosa, ma assillante ‘Cosa’.

Romano Gasparotti
“Figurazioni del possibile”
Pagine 249, Euro22:00
Cronopio


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