Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
mercoledì, 31 dicembre 2008
Uqbar
Mi piace chiudere l’anno con la segnalazione di un cospicuo progetto il cui nome è Uqbar. Ha già conosciuto le prime realizzazioni muovendosi in una delle aree predilette da Cosmotaxi: il digitale nella comunicazione e nell’arte. Nel corso dell’anno me ne sono, infatti, ripetutamente occupato; la più recente volta in occasione di Rinascimento Virtuale – convegno e mostra (ancora per pochi giorni in corso) ideati da Mario Gerosa –, cui nel novembre scorso ho dedicato uno Special. Quel convegno vide fra i più apprezzati relatori Paolo Valente lo stesso che muove le mosse di Uqbar. Lo ritroveremo fra pochi giorni nella Sez. Nadir di questo sito allorché presenterà artisti ospiti della rassegna “Arena call for artists” che dei programmi di Uqbar fa parte.
A Paolo Valente ho chiesto: Perché hai scelto il borgesiano nome di Uqbar per questo progetto che agisce su più cursori? ’Uqbar’. E’ il luogo dell’ immaginario e della conoscenza, crocevia di arti e culture, crogiuolo di linguaggi, dove si incontrano persone e contenuti, in un ambiente caratterizzato da immersività e interazione, per sperimentare idee, creatività, collaborazioni e forme sociali. ‘Media art culture’. Dare forma ad uno spazio crossmediale, dove le diverse e nuove potenzialità espressive sono il risultato del contatto fra idiomi diversi e della contaminazione di culture, attraverso l’uso dei nuovi media, con standard idonei alla nostra contemporaneità. ‘Uqbar. media art culture’. E’ immaginazione, progettazione e sperimentazione, specchio e interfaccia del territorio della rete, fra second life, web e mondo reale, dove persone, arte e creatività, concezioni ed emozioni, luoghi, contenuti e forme sono gli elementi fondanti. Fin qui il suo profilo espressivo. Sul piano pratico, che cos’è Uqbar? Quali le sue più vicine realizzazioni? Una sovrastruttura concepita per l'arte e per l'immaginazione, dove vedere in un solo momento tutta la produzione artistica in second life e non solo, quella che c'è stata e quella che ci sarà, all'interno della quale eventi, incontri e mostre si svolgono come in un’arena dell'arte, dove ogni artista può sfoderare i suoi file creativi. Da qui nasce l’idea di ARENA call for artists, da te prima ricordata, uno dei più grandi eventi espositivi mai realizzato in second life. Più precisamente, come nasce Arena? Nasce dall’unione di due ricerche e gruppi di lavoro, che sino ad ora, interagendo, hanno rappresentato significative esperienze: il Museo del Metaverso di Rosanna Galvani, l’attività, da me condotta in Rete, di temperatura con il progetto dell’atlante delle visioni e di thecubestop. Cosi intendiamo creare una regia da formarsi attraverso la costituzione di una community che seleziona e indica eventi, programmi, progetti, attività e soprattutto che svolge quel lavoro critico di selezione e definizione attraverso l’interazione tra tutti gli attori (protagonisti e non) che su questi argomenti focalizzano il proprio interesse sia da un punto di vista concettuale, che da quello emozionale. Ecco alcuni siti che orientano sul progetto e le sue realizzazioni: UNO e DUE. Buon anno a Uqbar. E ai lettori di queste mie note
martedì, 30 dicembre 2008
L'opera di Le Corbusier
L’architetto Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roquebrune-Cap-Martin, 27 agosto 1965), svizzero naturalizzato francese, è uno dei nomi maiuscoli del XX secolo. Con Ludwig Mies van der Rohe e Walter Gropius, è ricordato come un maestro del Movimento Moderno. Termine con il quale si indica un periodo, tra le due guerre mondiali, teso al rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principii dell'architettura; ne furono protagonisti architetti che improntarono i loro progetti a criteri di funzionalità prima ancora che estetici. La casa editrice Bollati Boringhieri può vantare a ragione nel suo catalogo un volume straordinario - La mia Opera - che non è soltanto un libro di e su Le Corbusier: è Le Corbusier stesso, tutto l’impulso creativo che emana dalla sua opera, infatti, parla attraverso le immagini e le parole di questa autobiografia. Dice Le Corbusier che alla fine i poeti hanno sempre ragione, e questo libro di confessioni mostra come anch’egli sia uno di essi, nella forza visionaria delle sue formulazioni architettoniche e scultorie.
Ecco sul volume un flash di Guglielmo Bilancioni docente di Storia dell’Architettura all’Università di Genova e già curatore, proprio per Bollati Boringhieri, di Mistica e Architettura di Louis Hautecoeur. “Io faccio dei piani con l'analisi, il calcolo, l'immaginazione, il lirismo. Piani prodigiosamente veri, indiscutibili. Piani prodigiosamente sconcertanti.” Questo era il tono di Le Corbusier. Con il suo Ego ipertrofico ed una impressionante volontà di potenza ha dettato le leggi, non sempre giuste, del Movimento Moderno in Architettura. Finestre a nastro, pilotis, tetto-giardino e ‘muri neutralizzanti’ celavano un animo intimamente totalitario: “i piani urbanistici devono avere autorità dittatoriale”. E la casa è una “macchina per abitare”. Bisognerebbe sempre diffidare di chi parla di se stesso in terza persona, eppure nella retorica di Le Corbusier vengono bene espressi gli aneliti del 900: “Dovunque c'è architettura: negli apparecchi telefonici e nel Partenone”. E nei piroscafi e negli aereoplani. Propaganda e idealismo lirico: “L'architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico, dei volumi raccolti sotto la luce”... . Le Corbusier “La mia Opera” Prefazione di Maurice Jardot Traduzione di Maria Luisa Riccardi Candiani Pagine 312, Euro 50:00 Bollati Boringhieri
lunedì, 29 dicembre 2008
I profeti disarmati
Bene ha fatto Corbaccio a pubblicare un libro che nel descrivere lo scontro verificatosi nei primi anni del dopoguerra fra liberali e comunisti illumina una delle principali ragioni del disastro politico e culturale che quel conflitto provocò e di cui ancora oggi risentiamo pesantemente. Si tratta di I profeti disarmati 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, n’è autrice Mirella Serri; per una sua biobibliografia QUI. E’ un libro che andrebbe letto anche da tutti, proprio tutti, i dirigenti della sinistra (d’ogni partito e partitino, corrente e gruppetto) di casa nostra per capire da dove provengono gli errori di ieri e gli errori che oggi continuano a fare. Libro che sarà d’obbligo anche in futuro tenere presente per chi studierà la storia italiana dopo la caduta del fascismo.
A Mirella Serri ho chiesto: che cosa ti ha principalmente motivato a scrivere questo libro? Avevo cominciato a ricostruire il dibattito culturale alla fine della seconda guerra mondiale partendo da “Risorgimento Liberale”. Consultando questa e altre testate però mi sono trovata di fronte a ben altro: a quella che Salvemini chiamava “guerra guerreggiata”, una lotta assolutamente dimenticata e cruenta nella casa comune dell’antifascismo tra le forze politiche uscite vincitrici dalla guerra. Fu un duello che si svolse tra il 1945 e il 1948 mettendo, tra l’altro, a confronto, in particolare, due sinistre ex alleate contro il nazifascismo: quella rappresentata dal piccolo giornale diretto da Pannunzio e voce dei liberali di sinistra che sfidò, per poi soccombere, il gigante Golia, l’apparato comunista, i suoi organi di stampa e i suoi alleati socialisti. Perché non riuscì a Pannunzio, con “Risorgimento liberale”, l’impresa di convincere i comunisti a una comune lotta? Il giornale di Pannunzio si ribellò all’egemonia del Pci contrastandolo con inchieste sui massacri compiuti in Emilia dai partigiani, sull’esodo della comunità italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, su un intreccio di bugie e segreti riguardanti il colonnello Valerio, l’esecutore della sentenza di morte nei confronti di Mussolini, di cui “Risorgimento Liberale” rivelò i rapporti con i gerarchi fascisti dopo che era stato graziato dal duce. Questo storico scontro, quali conseguenze prime ebbe in campo culturale? Nell’editoria, nella letteratura… Alla fine del 1947, dopo uno scontro durissimo, l’interpretazione comunista finì per considerare inventato ad arte tutto quello che non rientrava nel suo quadro di riferimento. Soffiava sul fuoco dell’attacco alla memoria della Resistenza per sollecitare la mobilitazione continua e la ‘guerra permanente’ antifascista gestita dal Pci. In questo bruciante risveglio alla democrazia degli anni Quaranta si delineò la storia successiva: si rinunciò alla condivisione della cultura antifascista, si tracciò la vocazione alla divisione profonda nella vita politica italiana e in quella artistica e intellettuale. Grandi antifascisti come Salvemini o Ernesto Rossi verranno bollati come antifascisti inaffidabili, non ‘di qualità’ in quanto dotati del coraggio di denunciare la ‘guerra guerreggiata’ che aveva opposto antifascisti comunisti ad altri antifascisti liberali, democristiani, monarchici, repubblicani. Gli ‘uomini di qualità’, come si autodefinivano i comunisti, avevano vinto con le armi la loro battaglia per l’egemonia. Per una scheda sul libro CLIC! Mirella Serri “I profeti disarmati” Pagine 228, Euro 18:00 Corbaccio
sabato, 27 dicembre 2008
Biblioteche di Babele
Mentre il Vaticano, com'è noto s’è rifiutato di firmare la Convenzione Onu sui diritti dei disabili, cioè il primo trattato sui diritti umani del Terzo Millennio, acquista maggiore valore ogni iniziativa che tende ad illustrare e diffondere i principii della convivenza e della tolleranza contro ogni discriminazione. E le discriminazioni cominciano laddove si nega ogni diversità, da quella etnica a quella sessuale a quella culturale. A conclusione dell’anno dedicato dall’Unesco al dialogo interculturale ed in coincidenza con il 60° anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, si sono udite nei giorni scorsi in Italia due coincidenti voci: il Progetto “Biblioteche di Babele” della Coalizione Italiana per la Diversità Culturale (in sigla CIDC) e il più recente numero della rivista “Economia della Cultura” – edita da il Mulino – pubblicazione dell’omonima Associazione, in sigla AEC. Carla Bodo Vicepresidente di quest’Associazione e Silvana Buzzo Segretario generale della CIDC, ospitate dalla Regione Lazio, hanno illustrato temi e programmi del loro lavoro.
Per questo numero della rivista – uno ‘speciale’ con il contributo scientifico di esperti della comunicazione e dell’analisi sociale – l’AEC s’è avvalsa della collaborazione della già citata CIDC: creata nel 2005, raggruppa quarantatre paesi. Oltre a svolgere lavori di analisi e di documentazione, la Cidc funge da interlocutore e da punto di raccordo con l'Unesco e con le sedi istituzionali competenti (organizzazioni internazionali, ministeri, regioni, enti locali) e si pone come sede di aggregazione di tutte le istanze dove la questione della diversità culturale è oggetto di studio, di proposte metodologiche, ipotesi di lavoro.
martedì, 23 dicembre 2008
Rumore bianco
La collana Chiavi di lettura – diretta da Lisa Vozza e Federico Tibone – recentemente varata da Zanichelli, presenta plurali occasioni d’informazione su vari campi del sapere con libri veloci e cospicui al tempo stesso. Libri difficili da fare, e finora tutti riusciti, perché usare un linguaggio a tutti comprensibile su materie che vanno dalla chimica alla psicologia, dall’energia all’etologia, ad altro ancora, è un’impresa di comunicazione di non poco momento. Impegnativo còmpito, ad esempio, è trattare un argomento che sta tra scienza, tecnica ed estetica come avviene nel volumetto Rumore bianco Introduzione alla musica digitale. Ne sono autori: Andrea Cremaschi e Francesco Giomi. Cremaschi, musicologo e compositore, da molti anni si occupa dello studio storico-analitico dell’informatica musicale e della musica contemporanea, pubblicando saggi e articoli per diversi editori. Giomi, musicista, compositore e ricercatore, insegna musica elettronica al Conservatorio di Bologna e dirige Tempo Reale, il Centro di ricerca sulle nuove tecnologie musicali fondato da Luciano Berio nel 1987. Ha lavorato con importanti compositori, registi e coreografi in teatri e festival di tutto il mondo. Segue ora una breve conversazione che ho avuto con loro. Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di cui dispongo a bordo di Cosmotaxi.
Che cosa vi ha spinto a scrivere questo libro? La necessità di divulgare in un linguaggio comprensibile a tutti una serie di concetti legati alla tecnologia musicale con cui più o meno direttamente abbiamo a che fare ogni giorno. In commercio si trovano già molte pubblicazioni che insegnano ad usare un certo numero di applicazioni musicali ma manca una riflessione organica sul fenomeno in sé, sulla sua storia e le sue sfaccettature. In questo senso, il nostro libro non è rivolto solo ai potenziali musicisti (non dà ricette pronte all’uso), ma a chiunque sia curioso di capire i concetti e le tecnologie che sono dietro la musica che ascolta. Qual è stato il principale cambiamento che l’elettronica ha determinato nella composizione musicale? Il rapporto con la materia sonora, sia per quanto concerne il momento compositivo/esecutivo, sia a livello di ricezione, di ascolto. Oggetto della musica oggi non è più solo il suono “musicale”, ma qualunque oggetto sonoro, [a patto che si faccia veicolo di un pensiero]. Si è anzi persa la distinzione culturale fra musica e non-musica. L’elettronica oggi permette una tale flessibilità tecnica che si traduce in una [flessibilità e] libertà del pensiero mai sperimentata prima. Il rapporto fra idea e realizzazione si è fatto stretto come mai prima d’ora, in un’ideale continuità in cui viene quasi a cadere la linea di demarcazione fra concetto e suono organizzato. Ha scritto John Cage: “Quel che occorre, ed occorrerà, al musicista non è un computer che risparmi la fatica, ma che anzi accresca il lavoro da fare”. E’ stata ascoltata quella sua riflessione del 1967? Solo in parte, solo da alcuni. La frase di Cage è estremamente lucida nell’evidenziare i potenziali problemi del rapporto uomo/macchina e nell’indicare una via. Ma spesso, sia in ambito colto che pop, l’elettronica è oggi intesa come una scorciatoia, che permette di fare cose che non si ha la voglia, la pazienza o la fantasia di fare – con il risultato che tutto si assomiglia. Oppure è vista come una semplice sorgente di nuovi suoni, il che è ridicolo. Siamo arrivati ad un punto in cui qualunque suono si possa concepire è tecnicamente realizzabile ed esteticamente accettabile. Tutto è perciò innocuo e addomesticato, tutto nasce già vecchio. Non è questo livello che bisogna cercare la novità, bensì nel modo di organizzare i suoni stessi, cioè di creare significato musicale. Ma, se vogliamo volgere in positivo questo problema, possiamo dire che c’è ancora tanto lavoro da fare – che è come dire: il bello deve ancora venire. Andrea Cremaschi Francesco Giomi “Rumore bianco” Pagine 191, Euro 9:80 Zanichelli
Chef & Gourmet
In questi giorni in molti sono impegnati ad allestire pranzi speciali per le feste. E’ bene ricordare, però, che di questi tempi non tutti gli italiani possono permetterselo. C’è chi da sempre più autoritarie – e sempre meno autorevoli – sedi di governo invita a spendere, già, ma i soldi per farlo li passa Palazzo Chigi alle famiglie? Sia come sia, oggi segnalo cose che con l’enogastronomia hanno a che fare. Lo Chef e Patron del ristorante 'l Birichin di Torino è quel Nicola Batavia che ogni mese segnala nella sezione Enterprise di questo sito un vino da assaggiare. Ho riferito in precedenti note del successo che ha attenuto a Pechino dove durante le Olimpiadi ha diretto il padiglione gastronomico per la Nike, ma ora ha rinunciato alla stella Michelin (lo ha fatto anche Gualtiero Marchesi), con una lettera di cui qui cito i più significativi passaggi.
Cari clienti, amici e colleghi, dopo lunghi mesi di riflessione restituisco la Stella. Io Nicola Batavia, ancora considerato giovane stellato (sebbene con esperienze solo da stelle) per il rispetto che porto al riconoscimento Michelin, unica grande guida, e ai clienti, decido di cambiare. L'esperienza di questi ultimi anni è stata entusiasmante e irripetibile ma credo che siano ancora troppo pochi i clienti a Torino con il desiderio di sperimentare a tavola, e quella curiosità gastronomica che li appassioni verso la cucina definita di ricerca […] Il nuovo 'L Birichin resterà un locale caldo, accogliente, meno formale e con una carta più semplice, ma sempre ricca di spunti, sorretta da materie prima eccellenti. La mia vera passione ed unica fede sarà sempre la "mia" cucina e sempre al Birichin, ma solo alla portata di più persone. Insomma, a quanto pare, la Stella invece di proteggere può anche spaventare la clientela. Ancora una cosa mi va di dirla e riguarda noi tutti dei media. Batavia era il solo rappresentante della cucina italiana alle Olimpiadi, ma nulla è stata l’attenzione che gli è stata riservata dalla carta stampata, da radiotv, dal web. Insieme con Massimo Roscia, Batavia ha ora pubblicato Chef & Gourmet edito da Daniela Piazza Editore. Un itinerario fatto di ricordi ed emozioni, una sorta di diario a quattro mani fra sensazioni e perversioni che la Gola può dare. Il libro è impreziosito da una serie di ricette che vanno dalla tradizione domestica (Roscia) all’alta gastronomia (Batavia). Per una scheda sul libro: CLIC! Nicola Batavia - Massimo Roscia “Chef & Gourmet” Pagine 231, Euro 18:50 Daniela Piazza Editore
lunedì, 22 dicembre 2008
La Cina non era vicina
In Italia siamo da sempre autori di un genere ignoto in moltissimi paesi: la tragigag. Sappiamo, infatti, produrre epoche storiche insanguinate condite da comicità. Un maiuscolo esempio fu il fascismo che, con il suo risibile incedere tra pennacchi, fanfare e impettiti guerrieri di cartapesta, procurò morte e distruzioni. Esistono, però, altri piccoli esempi nella cronaca politica, meno clamorosi ma non meno perniciosi, che possono essere definiti tragigags. E se la destra è senza dubbio maestra in quel teatro, anche la sinistra è stata presente su quella particolare ribalta e ha recitato ruoli apprezzabili. Ad esempio, la sinistra extraparlamentare tra il ’68 fino alla fine degli anni ‘70 recitò con abilità un monologo (di cui ancora oggi ne paghiamo l’eco) talvolta tragico e comico al tempo stesso. Fra quei gruppi di allora, ci fu un momento in cui primeggiò una sigla più tristanzuola di tutte le altre: Servire il Popolo, i maoisti italiani. La storia di quella formazione è stata tirata fuori dell’oblio da Stefano Ferrante con un libro edito da Sperling & Kupfer intitolato La Cina non era vicina; un infelice esperimento politico ricordato dall’autore in un modo che supera il documento giornalistico, da autentico storico. Non si fa, infatti, prendere la mano dai tanti episodi ora ridicoli ora tremendi – pur riferendone puntualmente con una straordinaria documentazione – ma li contestualizza, ne traccia origini, derive, approdi. Stefano Ferrante (Ascoli Piceno, 1970), è giornalista parlamentare del Tg per La 7. Ha lavorato a molte trasmissioni tv, ricordo alcuni titoli: "Zona Blu", "Check point Otto", "Candido", "Soldi, Soldi”. Ha raccontato, in Vite ribelli, la storia del calciatore Paolo Sollier. “Servire il Popolo” (beffeggiato dai gruppi rivali come “Servire il pollo”) aveva un Grande Timoniere: Aldo Brandirali. Era idolatrato dai suoi, assoluta la devozione verso di lui, sugli striscioni portati in piazza c’era scritto: “Marx – Lenin – Stalin – Mao – Brandirali”. Secondo la mesta imitazione della ritualità cinese, un giorno ammetterà in un fluviale discorso (una delle caratteristiche del gruppo era la logorrea) di avere commesso 271 errori, un po’ troppi per un Grande Timoniere, più roba da Piccolo Mozzo. Fu, di fatto, la fine del gruppo. E Brandirali? Prima folgorato dalla luce di Comunione e Liberazione, passò poi in Forza Italia e adesso è consigliere comunale a Milano. Chissà, forse avrà pensato: in fondo, Mao e Moratti sempre per emme cominciano. Come lui sono finiti tanti altri tostissimi extraparlamentari d’allora e nessuno da semplice militante italoforzuto, ma tutti in posti di prima fila e di buona remunerazione economica. Ma Pechino come considerava allora quel partito? Una breve, significativa, risposta la trovate in un momento d’una conversazione che ebbi con la sinologa Renata Pisu. Negli anni trionfanti di Servire il Popolo, ero ospite in una casa romana dove passavano parecchi servitori del popolo e sentendoli parlare scendeva un velo di mestizia sul mio cuore, un linguaggio stereotipato, grigio, burocratico, con qualche livido lampo minatorio. Inventarono il ‘matrimonio comunista’, erano contro l’uso degli elettrodomestici, i loro figli seguivano corsi privati la cui principale funzione era l’indottrinamento; le donne nell’organizzazione avevano ruoli pressoché ancillari, in tanti donarono ingenti somme e ci sono stati drammi familiari uguali a quelli che oggi s’apprendono su patrimoni alienati a favore delle casse di certe sette. Molte furono a quel gruppo le adesioni di scrittori, pittori, registi, designer, studiosi di varie discipline, il libro riporta tutti quei nomi. Malinconico elenco di persone che vissero alcuni anni nel contrasto fra riso alla cantonese e fettuccine alla puttanesca.
Per una scheda sul libro: QUI Stefano Ferrante “La Cina non era vicina” Pagine 277, Euro 16:00 Sperling & Kupfer
KG alla GAM
Enigmistico titolo per dire che ci sono ancora pochi giorni per non perdere la mostra di Katharina Grosse – alla Galleria Civica di Modena. I curatori: Milovan Farronato con Angela Vettese. Se non state da quelle parti, potrebbe essere un’occasione per una vacanza (per chi può permettersela, purtroppo il numero diminuisce) e ammirare questa singolare mostra-installazione, ma anche per recarsi in una bella città qual è Modena, unica – fra l’altro – a poter gareggiare nei bolliti con Carrù; d’accordo, alla fine perde, ma solo ai rigori dopo i supplementari. Per trovare oggi il titolo di una mostra in italiano, dobbiamo aspettare quest’artista tedesca che ha intitolato l’esposizione: Un altro uomo che ha fatto sgocciolare il suo pennello; da noi, infatti, le mostre hanno implacabilmente titoli inglesi, alla faccia d’ogni asserita tendenza ‘glocal’. Per sapere il perché di quella birichina dizione voluta dalla Grosse, c’è un video condotto da Angela Vettese che, nel tracciare un ritratto dell’artista, guida attraverso le opere esposte.
Una scheda sulla mostra QUI. Per visitare Il sito web della Grosse: CLIC! Ufficio Stampa: Cristiana Minelli, tel. 059 – 203 28 83 Katharina Grosse Galleria Civica di Modena Corso Canalgrande 103 Info: 059 – 20 32 911 Fino al 6 gennaio ‘09
venerdì, 19 dicembre 2008
L'enigma di Poincaré
Bene ha fatto Enrico Marcadalli ha campire di giallo la copertina del libro di George G. Szpiro intitolato L’enigma di Poincaré edito da Apogeo. Perché pur essendo un libro scientifico che tratta la soluzione di un problema matematico, ha tanti tratti che possono accomunarlo al giallo. Il volume racconta la storia della soluzione della Congettura di Poincaré, da molti considerata uno dei più famosi problemi di topologia, e di chi riuscì ad ottenerla: Grigorij Perelman, nato a Leningrado il 13 giugno 1966. Così scrive Piergiorgio Odifreddi nella prefazione.
Come si può caratterizzare la forma del Paradiso dantesco? Sembrerebbe una domanda per critici letterari, e invece essa ha assillato i matematici per l’intero Novecento: tanto importante da entrare a far parte della ristretta cerchia dei sette Problemi del Millennio, per la soluzione di ciascuno dei quali il miliardario statunitense London Clay ha messo in palio nel 2000 un milione di dollari. Chiunque avesse pubblicato una risposta in grado di superare lo scrutinio della comunità matematica per un periodo di almeno due anni, avrebbe intascato la somma. E, se d’età inferiore ai quarant’anni, avrebbe anche sicuramente vinto la medaglia Fields, che costituisce l’analogo del Premio Nobel per la matematica. Sembrava che questo fosse il destino segnato per Grigorij Perelman, che nel novembre 2002 e nel marzo e giugno 2003 mise in rete una serie di appunti nei quali abbozzava la soluzione del problema. Purtroppo quegli appunti non soddisfano le condizioni necessarie per l’assegnazione del Premio Clay, non essendo mai stati ordinati in un vero e proprio articolo sottomeso alla revisione di recensori ufficiali, anche se le idee in essi contenute sembrano essere quelle giuste. Ciò nonostante, all’apertura del quadriennale Congresso Internazionale di Matematica tenutosiil 22 agosto 2006 a Madrid il contributo di Perelman è stato riconosciuto dall’assegnazione della medaglia Fields. Ma ad accogliere l’onorificenza dalle mani del re di Spagna, il vincitore non c’era: il presidente dell’Unione Internazionale dei Matematici John Ball ha infatti annunciato che, in un lungo colloquio “educato e piacevole”, egli l’aveva rifiutata. Apparentemente né i soldi né gli onori riescono a stanare l’eccentrico matematico. Ma che n’è stato di Perelman dopo quel suo sorprendente rifiuto? Abbandonò il posto all'Istituto di Matematica Steklov della città di Pietroburgo senza lasciar traccia e senza nemmeno avvisare la direzione e di lui più nulla si seppe se non che abitava con la vecchia madre in una casa popolare sostenendosi con una piccola pensione. Ma dov’era quella casa? Né aveva amici o conoscenti in grado di dare notizie di lui. Invano i giornalisti gli dettero la caccia. Sparito. Sino al giugno 2007 scorso, quando fu riconosciuto in metropolitana, a Pietroburgo, da un blogger che lo fotografò col suo telefonino. Perelman appare negli scatti con i capelli arruffati, la barba incolta e vecchie scarpe. Da allora, di lui più nulla. George G. Szpiro “L’enigma di Poincaré” Traduzione di Gianbruno Guerrerio Prefazione di Giorgio Odifreddi Pagine 275, Euro 18:00 Apogeo
Faces
Nel presentare una mostra fotografica di cui riferirò fra poco, voglio far precedere la presentazione stessa da alcune riflessioni di firme illustri. Anche i grandi possono dire delle cospicue castronerie. Ne volete un esempio? E’ di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita... sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”. Pure il grandissimo Kafka, a proposito d’immagini riprodotte, ne disse una che, forse, oggi più non direbbe: “Se il cinema è una finestra sul mondo, ha le persiane di ferro”. Con Walter Benjamin, la musica cambia: “Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l'analfabeta del futuro”. Ecco il pensiero di due fotografi diversissimi fra loro. Helmut Newton: “Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia. Henri Cartier-Bresson: “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.
Veniamo ora alla mostra cui accennavo in apertura. Dopo il grande successo della rassegna dedicata a Jonas Mekas, alla Fondazione Ragghianti - sapientemente diretta da Vittorio Fagone, qui in una nostra conversazione di anni fa - è in corso Faces Ritratti nella fotografia del XX secolo. In foto: August Sander: "Middle-class Children", 1925. L’esposizione – nata da un’idea del direttore artistico del LUCCAdigitalPHOTOfest, EnricoStefanelli – è curata da Walter Guadagnini e Francesco Zanot . La mostra presenta opere di 17 autori: Edward Steichen - August Sander - Edward Curtis - Ernest J. Bellocq - Paul Strand - Dorothea Lange - Arnold Newman - Ugo Mulas - Diane Arbus - Andy Warhol - Larry Clark - Malick Sidibé - Bill Owens - Ed Van Der Elsken - Jitka Hanzlova - Boris Mikhailov - Adam Broomberg & Oliver Chanarin. Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web: Ufficio Stampa Mostra: Studio Ester Di Leo: 055 – 22 39 07; esdileo@tin.it Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori; elena.fiori@fondazioneragghianti.it “Faces” Fondazione Ragghianti Via San Micheletto 3, Lucca Fino al 31 gennaio ‘09
giovedì, 18 dicembre 2008
Nel paese dei ciechi
Spesso mi sono chiesto quale racconto (scrivere sul breve è l’arte più difficile nel narrare) dopo "Bartleby lo scrivano" di Melville inserire nella classifica dei miei racconti preferiti. Ora lo so. E lo devo ad una nuova perla della collana Biblioteca Minima di Adelphi che ha mandato in libreria un racconto straordinario di Herbert George Wells (1866 – 1946): Nel paese dei ciechi (titolo originale: “The Country of the Blind”) apparso per la prima volta nell’aprile 1904 su “Strand Magazine” e nel 1911 in volume; lo leggiamo ora in italiano nell’ottima traduzione di Franco Salvatorelli. Scrive Sandro Modeo in una nota che accompagna il volume: "Entrato con una borsa di studio (nel 1884) alla Normal School of Sciences di Londra, Wells vi studierà per tre anni fisica, chimica, geologia e soprattutto biologia […] non completerà gli esami: ma questo non gli impedirà di eleggere nella biologia – ovviamente in quella evoluzionistica – la dorsale delle sue elaborazioni fantastiche […] Nel Paese dei Ciechi condensa molti temi della fantabiologia wellsiana, temi che Wells aveva già affrontato in diversi racconti o romanzi negli anni precedenti". Ecco illuminato un territorio di esperienze scientifiche e letterarie dal quale discende questo capolavoro in cui il protagonista Nuñez, sperduto nelle Ande, càpita in una comunità di ciechi e s’innamora della cieca Medina-Saroté. Non svelerò il finale – anzi i due finali (il racconto ebbe conclusioni diverse nelle stesure del 1904 e del 1911) – che chiude un vertiginoso percorso notturno dei sensi e dell’anima. Una volta ci fu chi mostrando compassione verso Borges espresse accoramento per la cecità dello scrittore che rispose: “Tu non sai cosa ti perdi!”.
Ho chiesto a Daniela Guardamagna – Professore Ordinario di Lingua e letteratura inglese all’Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" e, mi piace ricordare, ideatrice quest'anno di un riuscitissimo convegno su Beckett – la quale più volte nei suoi saggi s’è occupata di Wells, un flash sullo scrittore e su questa piccola, preziosa opera. L’interesse per Wells ha subito un’eclissi soprattutto, credo, a causa dell’ingenuità della sua posizione politica: socialista fabiano, irriso da Caudwell in ‘Studies in a Dying Culture’ (‘La fine di una cultura’) per le sue posizioni piccolo-borghesi, il suo atteggiamento di intellettuale impegnato, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, è lontano dalla sensibilità dei nostri tempi. Quel che si deve recuperare è la visione che il critico inglese Bernard Bergonzi propone dei suoi primi testi, dalla “Time Machine” del 1895 a, appunto, “The Country of the Blind”: la capacità mitografica, l’intensità della scrittura puramente creativa. Nel racconto è dipinta la cecità anche morale di una comunità chiusa che diffida del diverso fino a condannarlo a una omologazione mortale. Ma, oltre all’efficacia della metafora, è la vivida intensità delle immagini che rimane con noi, e che rende la lettura di questo piccolo testo un piacere da non perdere. Per una scheda sul libro: QUI Herbert George Wells “Nel Paese dei Ciechi” Traduzione di Franco Salvatorelli Con una nota di Sandro Modeo Pagine 61, Euro 5:50 Adelphi
Transizioni
Grande continuità di produzioni alla Galleria romana Studio.ra guidata da Raffaella Losapio; Transizioni è la mostra in corso che presenta una selezione di lavori con diffuso utilizzo di tecniche digitali.
Partecipano: Anonima di-chi-sì-lu-son, Cast, Tullio Brunone, Vincenzo Ceccato, Daniela Cignini/Mario Matto, Francesco Correggia, G.P. Mutoid, Gruppo Sinestetico, Lello Lopez, Caterina Matricardi, Franco Rinaldi, Nello Teodori. Proiezioni video di Hervé Constant con: ‘The Inquisition’, based on a short story by Dino Buzzati e Andrew Rutt che presenta ‘ecce homo’, Video Loop, 2008. La mostra, corredata da un testo in catalogo di Luca Barberini Boffi, è a cura di Barbara Martusciello, critico d’arte, organizzatrice (e agitatrice) culturale, redattore capo di Artapartofcult(ure). Galleria studio.ra |1Fmediaproject “Transizioni” Via Bartolomeo Platina, 1/F, Roma Info: 06 – 41437800; info@studiora.eu Fino al 3 Gennaio 2009
mercoledì, 17 dicembre 2008
Museo Criminale
Di musei dedicati al crimine e ai criminali n’esistono parecchi nel mondo, in Italia l’idea di fondarne uno nasce dall’opera del discusso medico veronese Cesare Lombroso che inaugurò a Torino un museo di psichiatria e criminologia (più tardi chiamato "di antropologia criminale"). Si era allora nel 1898, undici anni dopo parti del corpo di Lombroso finirono proprio in quei locali da lui voluti e laddove la sua testa dall'espressione corrucciata - conservata in formalina in un vaso di vetro - fa bella (si fa per dire) mostra di sé. Per una storia dettagliata del primo museo criminale in Italia: QUI.
Esistono, però, anche musei che sono ricostruzioni più o meno fedeli di misfatti e approssimativi ritratti di malfattori, parecchi di questi musei sono messi su maluccio, ma a Firenze ce n’è uno estremamente ben realizzato, per il suo sito web: CLIC! In una serie di locali, con luministica sapientemente ispirata ad atmosfere thrilling, sfilano vecchi e nuovi serial killers e un’audioguida di buona qualità tecnica illustra attraverso le varie stazioni non solo i fatti e i personaggi, ma anche l’ambientazione storica in cui i delitti furono compiuti. Si comincia con l’ungherese Erzsèbet Báthory, 1560 – 1614, (qui in foto un suo ritratto) soprannominata la ‘Contessa Sanguinaria’ che torturò e uccise centinaia di giovani donne e s’arriva fino ai giorni nostri: Dahmer il cannibale di Milwaukee; la Wuornos portata al cinema in "Monster"; John Wayne Gacy il clown assassino; Ed Gein ispiratore di film come "Psycho", "Non aprite quella porta" e "Il silenzio degli innocenti"; il folle cannibale russo Andrej Chikatilo; Albert Fish, da molti definito il peggior mostro di tutti i tempi. Infine, d’orrore in orrore, eccoci alla sala dove sono proposte in una puntualissima ricostruzione scenografica gli ambienti di tre esecuzioni moderne: camera a gas, sedia elettrica, iniezione letale. Fatale la domanda: tutto ciò, oltre ad essere storia ed ammonimento morale non è forse una proposta di morbosità? Francamente è una domanda che m’affascina poco, ma, se costretto sotto minacce ad esprimermi, credo che la morbosità (inevitabile, peraltro) stia soprattutto in chi guarda. Insomma un Museo fiorentino (sta in pieno centro) da visitare per riflettere anche su quella “banalità del Male” che Hannah Arendt notò in Adolf Eichmann e sul fatto che la condanna estrema manchi d’efficacia dissuasiva: i reati, infatti, anche i più efferati si ripetono ogni giorno anche là dove è prevista la condanna a morte. Concludo questa nota con un mio desiderio: vorrei anch’io mettere su un Museo criminale. Non dedicato ai sanguinari killers che il Museo di Firenze ospita, ma ad altri che pur spesso torturando e uccidendo artisti e scienziati, ne hanno soprattutto combattuto le teorie. Ecco in quel mio Museo (avrei bisogno di grande, grandissimo spazio) ci metterei i capi di tutte le religioni, specie quelle monoteiste, farei visitare i misfatti commessi da tanti santi, tanti papi, tanti ayatollah e tanti rabbini. Un museo così, spiegherebbe, almeno in parte, perché esistono tanti musei sul crimine. Museo criminale Via Cavour 51/r Firenze Tel: 055 – 21 01 88 Mail: info@serialkillermuseum.com Orario: 10:00 – 23:00
Dizionario dello schermo
Giusto vanto della Casa Editrice Zanichelli, anche per il 2009 il Morandini si presenta con un imponente corredo di documentazione dai Lumière ai giorni nostri, confermandosi indispensabile strumento per tutti quelli che lavorano nel cinema o del cinema sono appassionati spettatori, e, ovviamente, per le redazioni della carta stampata, delle radio-tv, del web. Quello che particolarmente colpisce in questa meritatamente fortunata pubblicazione – uscì per la prima volta nel 1999 – è come in pochissime righe, accanto ai dati filmografici (titolo originale, nazionalità, anno d’uscita, regista, principali interpreti, durata, sintesi della trama), sia tracciato un coinciso, ma non per questo meno articolato, giudizio critico di sapiente spessore. E, inoltre, si trovi spazio anche per riferire d’interessanti, e talvolta divertenti, lampi aneddotici. Tutto questo è frutto di un paziente lavoro, culturalmente ben attrezzato, come si può notare in questa conversazione con Morando Morandini che ebbi tempo fa a bordo dell’astronave Enterprise.
Nelle 2048 pagine del volume si trovano 23 000 film, schede monografiche su cicli e serie. D’ogni film, oltre al titolo italiano, l’opera dà: titolo originale, nazionalità, anno d’uscita, regista, principali interpreti, una sintesi della trama, una concisa analisi critica, durata, suggerimenti sull’opportunità di visione per i ragazzi, indicazione grafica sul giudizio della critica (da 1 a 5 stellette) e, unico nel suo genere, sul successo di pubblico (da 1 a 5 pallini). Inoltre l’edizione in cd-rom fornisce la trama di tutti i film; l’edizione su carta fornisce la trama di circa 20 000 film. Nel cd-rom più di 6500 schede sono corredate da un’immagine di scena o dalla riproduzione della locandina. Negli Indici:Titoli originali – Autori letterari e teatrali – Registi – Attori principali . Nelle Appendici: Premi Oscar – I migliori film (con giudizio critico di 4 o 5 stellette o maggior successo di pubblico) – I film della Mostra del cinema di Venezia 2008 – I 100 migliori registi – l principali siti Internet dedicati al cinema. IL MORANDINI 2009 di Laura, Luisa e Morando Morandini Pagine 2048, Euro 27:80 Edizione con cd-rom Euro 35:00 Edizione solo cd-rom per Windows, Euro 15:80 Zanichelli
martedì, 16 dicembre 2008
Il secolo del jazz
ll Mart di Trento e Rovereto, diretto da Gabriella Belli, proseguendo nel suo lavoro che lo ha reso uno degli importanti punti di riferimento nello scenario espositivo italiano, e non solo italiano, presenta Il secolo del jazz che di quella musica e della sua storia, esplora segni, suoni e relazioni fra essi.
In foto: Carl Van Vechten - Portrait of Billie Holiday, 23 Mar. 1949. Stampa alla gelatina d’argento, 33,2 x 23 cm. The Library of Congress, Washington D. C. Il secolo del jazz è a cura di Daniel Soutif, Gabriella Belli, Joseph Ramoneda; l’esposizione è co-prodotta dal Mart con il Museé du quai Branly di Parigi e il Centro de Cultura contemporànea de Barcelona. Per saperne di più, mi sono rivolto a Elisabetta Barisoni curatrice tecnica del catalogo. Nata 33 anni fa a Verona, laureata nel 2000 in Lettere Moderne presso l’Università di Bologna con una tesi su Robert Adam, si è diplomata nel 2007 presso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte della stessa università con una tesi su Fortunato Depero negli anni trenta. Dal 2005 è anche docente presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Funzionario del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, svolge il ruolo di curatore delle mostre temporanee dal 2003. Tante le mostre e i relativi cataloghi di cui si è occupata fino ad oggi da renderne dissuasiva l’elencazione. A lei ho chiesto d'illustrare in sintesi il profilo e la finalità espressiva della mostra... ”Il Secolo del Jazz”, aperta dallo scorso 15 novembre fino al 15 febbraio 2009 presso il Mart di Rovereto, presenta la relazione tra arte e musica Jazz. La parola più giusta per definire la mostra è rivoluzione. Rivoluzione del Jazz quale espressione musicale che contamina, con spirito irriverente di novità e immediatezza, le produzioni culturali più diverse del XX secolo. Il visitatore segue questa rivoluzione attraverso un percorso fatto di musica e suoni, ma anche di video, film, copertine di dischi, documenti, riviste, libri, grafica e fumetto, in un vivace fluire cronologico su cui si aprono sale di approfondimento dedicate all’arte ‘alta’. Piccole esposizioni tematiche raccontano le rivoluzioni, legate alla musica Jazz, che accomunano gli artisti del XX secolo fino al contemporaneo, senza soluzione di continuità su entrambe le sponde dell’Atlantico: Francis Picabia, Man Ray, Otto Dix, Piet Mondrian, Henri Matisse, Jackson Pollock, Stuart Davis, Antoni Tapiès, Lucio Fontana, Renato Guttuso, Jean-Michel Basquiat. È una storia di rivoluzione ma anche di mescolanza, unione, contaminazione, di affinità inconsuete tra generi e culture artistiche, tra provenienze culturali e ambiti creativi diversi. La mostra espone non solo materiali grafici e pittorici, ma anche suoni e musiche. I due mezzi s'influenzarono scambievolmente? E' azzardato parlare di sinestesia? Sicuramente il rapporto tra musica Jazz e arti visive è strettissimo. Un aspetto è quello dell’ispirazione creativa diretta che emerge, per esempio, nelle opere astratte di Arthur Dove, create ascoltando a ripetizione brani di musica Jazz, ma anche in Stuart Davis o Piet Mondrian per arrivare fino al ‘dripping’ di Pollock. Un altro livello di contatto tra i due ambiti espressivi è dato dagli artisti che furono anche musicisti, Larry Rivers primo fra tutti, e dall’intensa relazione tra le arti visive e la cultura Jazz in generale, dall’ “Harlem Renaissance” di Aaron Douglas e Winold Reiss fino a Romare Bearden e Jean-Michel Basquiat. “Il secolo del jazz” Mart di Rovereto Infoline: 800 – 39 77 60 Fino al 15 febbraio ‘09
Audiolibri fra ruggiti e nitriti
La casa editrice Editoriale Scienza è fra le pochissime in Italia a saper fare libri per ragazzi, ed è l’unica, poi, a saper fare benissimo quelli di divulgazione scientifica per i più piccoli. Le sue pubblicazioni, agiscono su due cursori: il primo destinato a diffondere cultura scientifica in modo chiaro, con esposizioni spesso divertenti, con grande cura editoriale sulla terminologia usata e sugli esempi illustrati; il secondo, con libri, quasi libri-giocattolo, che riescono a incoraggiare la fantasia, esercitare la manualità, sviluppare stimoli cognitivi. Per l’ideazione e la scelta dei libri da pubblicare, seguono due linee guida: lavorano in coedizione con alcuni importanti editori stranieri, per far conoscere il meglio di quanto viene pubblicato nel mondo; collaborano con specialisti della comunicazione per l’infanzia. Da qui derivano testi mirati su di un linguaggio che riesce a coinvolgere i lettori giovanissimi. Esempio di questo sapiente lavoro editoriale è la collana Audiolibri della Natura.
Si tratta di una collana pensata per i bambini dai tre anni in su. Propone, oltre al libro con illustrazioni di alta qualità grafica, un testo documentato e poetico allo stesso tempo, inoltre, un Cd contenente la storia letta da Lella Costa, una canzone in tema, approfondimenti sulla vita dell’animale e infine il testo letto nell’originale inglese. Lupi, tigri, cavalli tartarughe, panda, porcellini d’India, orsi pipistrelli, girini, balene, cavallucci marini, pinguini, sono ritratti nelle loro abitudini, le relazioni fra loro e il mondo circostante, un vero e proprio testo d’etologia spiegata ai ragazzi. Ottima occasione, visto questo periodo dell’anno, per una strenna natalizia colta e divertente Audiolibri della Natura Editoriale Scienza
L'ottavo velo di Salomè
La travagliata storia - dalla scriìttura alla traduzione, dalle censure alle rappresentazioni - della Salomè di Oscar Wilde (Dublino, 1854 – Parigi, 1900) sembra simbolicamente riflettere il percorso artistico e personale dello scrittore irlandese in una successione tumultuosa di scandali, rifiuti, clandestinità e trionfi. Salomè, però, non ha attirato solo Erode Antipa, ha sedotto scrittori, musicisti, pittori, teatranti, gente di cinema e, oggi, dopo i famosi, e fatali, sette veli, un ottavo drappo è stato tolto alla figura e alla storia di Salomè per denudarne un suo nuovo aspetto adesso vorticosamente danzante in truci ambienti di malavita dei giorni nostri. Ad immaginare nuovi scenari di quel grande mito letterario è stato il regista Claudio Sestieri con una versione cinematografica della creatura wildiana in un film intitolato Chiamami Salomè.
Nel cast: Ernesto Mahieux, Carolina Felline, Elio Germano, Caterina Vertova. Fotografia: Marco Onorato; scenografia: Antonello Geleng – Mario Fontana Arnaldi; costumi: Lia Francesca Morandini – Stefania Svizzeretto; musica: Luigi Ceccarelli; montaggio: Claudio Di Mauro. Per vedere il trailer: CLIC! Non meraviglia il successo (il film dopo la programmazione in sala è ora in home video) ottenuto da Sestieri (per una sua bio: QUI) perché è un uomo di spettacolo dalle plurali esperienze: dalla radio alla televisione, dalla letteratura al cinema, tali qualità gli hanno permesso la riuscita di quest’opera che non è solo una trasposizione cinematografica del lavoro di Wilde, ma una ridislocazione sociologica, una riscrittura antropologica. A Claudio Sestieri ho chiesto: nelle note di regìa chiarisci benissimo direzione e senso della tua scelta di portare ai nostri giorni, e in un precisato ambiente malavitoso, il lavoro di Wilde. E' stata la Salomè wildiana o la realtà dei nostri giorni a far scattare per prima in te quella scelta? Credo di essere un'anima divisa in due. Per quanto come cittadino infatti, mi sento coinvolto da quanto mi circonda, trovo un dovere impegnarmi, sono super-informato su tutto quello che accade qui e nel resto del mondo, tanto come autore me ne sento lontano. Nel senso che mi piace partire non dalla realtà contingente ma piuttosto da quelli che sono gli elementi invarianti, i miti potrei dire, che sono da sempre alla base delle nostre azioni e delle nostre emozioni. E, in questo caso, l'icona di Salomè, che troviamo la prima volta addirittura nella Bibbia, mi sembra esemplare. Sono partito dunque da Salomé (come personaggio-simbolo e come testo letterario) e non dalla realtà dei nostri giorni ma va da sé che, una volta scelta una certa distanza per me essenziale, il confronto con l'oggi poi resta comunque non solo inevitabile ma anche stimolante. Oltre ad un'intensa attività documentaristica, hai girato cinque lungometraggi. Esiste un elemento stilistico costante nella tua produzione? Se penso non solo ai film che ho girato ma anche a quelli mai nati (che sono forse ancora più importanti per me), credo che alla base di quello che faccio ci sia il bisogno di confrontarmi in qualche modo con il "mistero", con quanto si nasconde sotto l'apparenza. Tutte le mie storie sono in fondo delle "indagini sentimentali", dei gialli senza morto o magari anche con il morto... dove comunque non conta mai tanto capire "chi è "l'assassino ma "perché" e "cosa provava". Se proprio si vuole una definizione, potrei dire che i miei sono dei thriller dell'anima. Il maggiore pregio ed il più grande difetto, secondo Claudio, del cinema italiano dei nostri giorni... Direi che il pregio è la nostra tradizione, il nostro è stato per oltre 2 decenni uno dei più importanti cinema del mondo. E i difetti, due. Uno è strutturale: troppe poche risorse, un mercato non libero e in mano a due o (con Sky) tre monopolisti, l'influenza eccessiva della tv e in generale uno scarso amore nel nostro paese per la cultura. L'altro è tutto interno al cinema che facciamo. Abbiamo, ovvie eccezioni a parte, solo due grandi scuole, la "commedia" e un "cinema d'autore" che privilegia soprattutto la realtà quotidiana. A parte la solita querelle sulla assenza dei Generi, perché non c'è da noi un Tim Burton, un Lynch o un Kim Ki Duk? Perché credo, se anche nascesse, lo ammazzerebbero da piccolo. Come autore, si intende... “Chiamami Salomè” Regìa di Claudio Sestieri Prodotto da Pietro Innocenti per la Star Plex In noleggio dal 26 novembre ‘08 Fox, Cod. ACIC24594
lunedì, 15 dicembre 2008
Nella mente degli altri
Ho segnalato giorni fa la nascita di una nuova collana varata da Zanichelli: Chiavi di lettura; per conoscerne il profilo editoriale e i primi libri: QUI.
Un titolo che mi ha particolarmente interessato è Nella mente degli altri sui neuroni specchio e il comportamento sociale. Autori: Giacomo Rizzolatti e Lisa Vozza. Giacomo Rizzolatti, neurofisiologo di fama internazionale, è docente di Fisiologia umana e direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma. Accademico dei Lincei e membro di prestigiose accademie internazionali, ha ricevuto in Italia e all’estero numerosi premi e la laurea ‘honoris causa’ dall’Università Claude Bernard di Lione e dall’Università di San Pietroburgo. Alla biologa Lisa Vozza (qui da me intervistata allorché dirigeva un’altra fortunata collana Zanichelli ‘I mestieri della Scienza’), ho chiesto: perché nel campo delle neuroscienze la prima scelta di Chiavi di Lettura, da te diretta con Federico Tibone, s'è soffermata proprio sui neuroni specchio? I neuroni specchio sono cellule nervose come tante altre, ma ci permettono di fare una cosa molto speciale: grazie alla loro attività sappiamo riconoscere le azioni e le intenzioni degli altri in maniera automatica, proprio come si trattasse delle nostre azioni e intenzioni. L’imitazione, l’apprendimento, il linguaggio, la capacità di empatia, ma anche una malattia come l’autismo, sono fenomeni più comprensibili da quando sappiamo come funzionano questi meccanismi neurali. La scoperta, italiana, è di Giacomo Rizzolatti e del suo gruppo all’Università di Parma, nei primi anni Novanta. I neuroni specchio debuttano prima sulle riviste internazionali più autorevoli e poi fanno il giro del mondo. La fama è meritata: per la prima volta un comportamento cognitivo complesso, alla base della nostra vita sociale, è spiegato dall’attività di un gruppo di neuroni. Ecco perché abbiamo pensato di dedicare alla scoperta dei neuroni specchio uno dei primi titoli della collana Le Chiavi di lettura Zanichelli. A questo link una videointervista di Lisa Vozza a Giacomo Rizzolatti. Giacomo Rizzolatti – Lisa Vozza “Nella mente degli altri” Pagine 112, Euro 9:90 Zanichelli
Surreale e Digitale
E' tale l’opera di Luca Cervini che ho avuto tempo fa mio gradito ospite QUI.
Con A surreal travel through human feelings espone 10 fra i suoi più recenti lavori nell’appuntamento mensile proposto da Laboratorio Alchemico, dallo Studio C.T. 19 e dal pub Fusion che si trova all’interno di una delle più famose ville storiche di Corbetta (Milano) risalente al 1700. Scrive Nila Shabnam Bonetti presentando la mostra: Cervini assembla e manipola fotografia e pittura intervenendo sull’immagine attraverso software grafici, strumenti di lavoro non troppo diversi da quelli tradizionali (pittura, collage) ma che sussistono in forma virtuale. L’artista sfrutta così al massimo le infinite possibilità che la tecnologia digitale mette a disposizione. Come Massimo Cremagnani afferma “Nel computer non esiste nulla, quindi si può fare di tutto” (Manifesto Amplificato dell’Arte Digitale Figurativa) […] Le suggestionanti opere di Cervini impressionano per la molteplicità di emozioni che sono in grado di suscitare e riusciranno a proiettare l’osservatore all’interno di visioni oniriche grazie a una sapiente miscela di finzione e realtà, di pittura e fotografia Luca Cervini “A surreal travel through human feelings” Al Fusion Via della Madonna 15, Corbetta (MI) | Info: 02 – 977 81 43 Fino al 10 gennaio ‘09
sabato, 13 dicembre 2008
Più libri più liberi
Dobbiamo essere grati all’Associazione Italiana Editori che ogni anno, a Roma, propone a dicembre la Fiera della piccola e media editoria nella manifestazione Più libri più liberi: un’importante occasione per riflettere sulla produzione editoriale piccola per dimensioni aziendali, ma assai spesso per niente piccola nei risultati espressivi ottenuti. Straordinario il successo di pubblico in questa settima edizione conclusa pochi giorni fa: ha superato quota 52mila visitatori, registrando un nuovo record rispetto alle precedenti volte. Ho trovato ancora migliorata l’organizzazione, ottimo l’ufficio stampa (oggi in Italia la cosa non è frequente e tornerò sull’argomento nel corso di questa nota) che provvedendo celermente a richieste d’informazioni, contatti, materiali, ha permesso a noi redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, di lavorare al meglio . Sui meriti dei piccoli editori abbiamo suppergiù detto tutti le stesse cose. Si è lodato il coraggio di queste piccole imprese, si è loro riconosciuta l’importanza che hanno da sempre nel panorama culturale, ribadito il valore della proposta d’autori che, talvolta, mai forse avremmo conosciuto. Tutte cose di cui oggi più di ieri necessitiamo, in un momento tra i più gravi sofferti dal nostro paese, vulnerato da una controriforma della scuola, dalla scandalosa riduzione degli investimenti nella ricerca, e, per citare una gag, da un Ministro che afferma senza rossore “Io l’arte contemporanea non la capisco” (e sta ai Beni Culturali!). Forse, però, è opportuno anche riflettere su qualche carenza dei piccoli editori proprio per dare un contributo affinché migliorino la loro presenza nello scenario in cui operano. Per comodità d’esposizione, suddivido in paragrafi.
a) progetti Ho visto troppi progetti simili fra loro. Questo fa pensare che molti debuttano, o continuano a pubblicare, senza guardarsi intorno, muovendosi in spazi già percorsi da altri e, talvolta (è il caso più grave), perfino dall’editoria di grandi dimensioni. Vistoso esempio n’è il pullulare di tanti sulla giallistica e sul noir. Quante speranze hanno d’inserirsi in un mercato che di quei generi, in questi ultimi tempi, è già saturo? Con autori italiani e stranieri, a torto o a ragione, stimati e seguiti dai lettori? Non sarebbe meglio puntare su cose di cui c’è carestia? Faccio un esempio per non restare sul vago. L’Editoriale Scienza di Trieste si occupa esclusivamente (lo sottolineo, esclusivamente), della divulgazione scientifica per ragazzi. Un solo, specializzato, definito, precisato obiettivo. Finalmente! In Fiera, qualcuno ha obiettato che anche x e y hanno una collana scientifica per ragazzi. Appunto, anche. Guaio non da poco, si finisce col non specializzare, tanto per cominciare, il lavoro della casa editrice con probabili cadute di qualità, e non si crea presso i lettori certezza sull’equazione marchio-prodotto. Altra cosa: troppe collane. Com’è possibile che la stessa casa stampi manualistica sul giardinaggio, romanzi sperimentali, poemi in versi alessandrini e saggi culinari sulle cucine asiatiche? Lo possono fare Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, non una piccola casa editrice, non è il suo ruolo. Ad una piccola (o media) casa editrice, non molteplicità di aree, non questo le è richiesto, bensì specializzazione su campi espressivi trascurati dai grandi editori. b) grafica Troppe case con pessima grafica, soprattutto in copertina che è la pelle del libro, il primo impatto con il lettore. Non si tratta di colpa attribuibile ad un risicato budget (ho visto che ci sono alcuni che con pochissimi soldi se la cavano assai bene), ma di non considerare adeguatamente quest’aspetto del lavoro editoriale. c) promozione Qui siamo al disastro. Quasi la totalità (gli esempi in positivo pochissimi) dei cosiddetti uffici stampa sfiorano la comicità involontaria. E’ evidente che i piccoli e medi editori non ritengono questo settore strategico, pure se a parole s’affannano nel dire il contrario. S’affidano a volenterosi, ma improvvisati, personaggi che nulla sanno di quel mestiere. Eppure, proprio quest’area editoriale che soffre tante difficoltà, nella distribuzione prima e in libreria poi (quando riesce a raggiungerla), dovrebbe attrezzarsi per disporre di un’efficace comunicazione verso i media e chi legge. Perché pubblicare decine di titoli in un anno e non editarne solo dodici, in pratica uno per ogni mese, riservando energie economiche alla promozione? Specie per le sigle debuttanti, il maggiore sforzo economico dovrebbe essere puntato proprio lì. Non ci s’illuda di fare a meno di professionisti negli uffici stampa, certamente costano, ma sono soldi ben spesi. Calamitosa, poi, è la conduzione dei siti web. Succede pure che qualche editore non ce l’abbia, un po’ come se un tipografo non avesse un proprio biglietto da visita. Ma, tralasciando questa disperata condizione, colpisce l’improvvisazione con la quale sono allestiti certi siti con grafica improbabile, funzionalità incerta, legnose e ovvie presentazioni goffamente autoelogiative. Ho sentito più di uno che mi riferiva d’essersi affidato “ad un amico che col computer se la cava”! No, non ci siamo proprio. Pubblicate di meno e spendete quei soldi così risparmiati in buona comunicazione. Serve a voi più che ad altri già affermati su piazza. Naturalmente, tutti poi a lacrimare sul fatto che il loro lavoro non ha visibilità sui media. Sfido io! I media raramente sono mossi da persone curiose e disponibili, d’accordo, ma se non li raggiungi nemmeno, con appropriati messaggi, che vuoi mai sperare? d) editori a pagamento Parecchi in Fiera questi editori. Sono in molti a stracciarsi le vesti su questo fenomeno. La faccenda, in realtà, è assai semplice. Non trovo scandalosa l’esistenza di un’editoria che accolga autori paganti. Gli editori cosiddetti “a pagamento” esistono perché ci sono autori che ne reclamano i servizi fino ad esporsi in più di un caso (qualche sentenza lo dimostra) a veri raggiri contrattuali; la vanità di vedersi pubblicati può giocare brutti tiri, talvolta è castigata duramente, e aggiungo – da malvagio quale sono – giustamente. Così imparano. Ecco, questo è il punto. Quegli editori fanno, innanzitutto, firmare un contratto? E, se sì, ne rispettano poi le clausole? Clausole che, spessissimo, quasi sempre, promettono distribuzione, presentazioni radiotelevisive, incontri col pubblico. Se tutto ciò avviene, nulla di male, se non avviene oltre ad essere un reato, getta un’ombra su tutta la categoria dell’area, attizza speranze che era meglio spegnere, aggiunge stanchezza alla già stanca carta. E, guaio ultimo ma non per importanza, trasformano in frustrati scrittori tanti che potevano essere buoni lettori, ma ormai impiegano tanto tempo a scrivere da non trovarne più per leggere.
lunedì, 8 dicembre 2008
Arte, Prezzo e Valore
Cosmotaxi Special per “Arte, Prezzo e Valore”
Firenze, 14 novembre ‘08 –11 gennaio 2009
La munifica Strozzina
Il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina (CCCS), è parte della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze. Lo spazio espositivo si trova sotto il cortile (in foto) di Palazzo Strozzi, negli ambienti noti come appunto come La Strozzina. In passato, qui si trovavano le cantine del palazzo, vero gioiello del Rinascimento italiano; in seguito, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino all’alluvione del 1966, queste sale hanno ospitato con un’eco internazionale le più importanti mostre fiorentine. Il Centro comprende undici sale di dimensioni diverse, per una superficie totale di 850 metri quadrati.
Nel disegno espressivo ideato da Franziska Nori, direttore del progetto, che s’avvale del coordinamento di Fiorella Nicosia, la Strozzina è una piattaforma aperta alle varie pratiche e ai diversi approcci che caratterizzano la produzione di arte e cultura contemporanee. L’ottica fondamentale scelta è quella di lanciare un programma pluriennale sia sulla base dei network locali sia di quelli internazionali. Da qui la proposta di progetti espositivi tematici presentati nel corso dell’anno, la partecipazione di curatori indipendenti e istituzioni a concepire esposizioni, cicli di programmazione di film e video, workshops, performances, lectures da svolgere negli spazi del Centro. Tutto ciò è stato realizzato dalle mostre finora concluse, da quella in corso e dal significativo prossimo appuntamento del 2009.
Arte, Prezzo e Valore: chi, come, dove, quando
Sono bastate poche mostre – ma tutte indovinatissime – per rendere il Centro di Cultura Contemporanea di Palazzo Strozzi (in acronimo: CCCS) uno dei punti più interessanti delle arti visive contemporanee in Italia e non solo in Italia; importanti riconoscimenti, infatti, sono venuti anche dall’estero. Il 14 novembre c’è stata l’inaugurazione di Arte, Prezzo e Valore Arte contemporanea e mercato a cura di Piroschka Dossi e Franziska Nori che è anche project director del CCCS. Fino ad oggi – manca ancora un mese alla chiusura – ‘Arte, prezzo e Valore’ ha già registrato grande successo di pubblico, non solo giovanile, e riscosso consensi della stampa specializzata.
L’arte contemporanea ha acquisito un peso sempre maggiore nell’àmbito del sistema culturale, diventando un fattore economico importante, come si nota sia dalle astronomiche quotazioni raggiunte durante le aste internazionali, sia dal crescente numero di manifestazioni, biennali, festival, e mega-esposizioni, che attraggono una sempre maggiore affluenza di pubblico. La mostra analizza la crescente correlazione tra l’arte contemporanea e il sistema economico internazionale. Il potere che l’economia esercita oggi su tutti i settori della nostra realtà politica, sociale e culturale, ha investito anche il mondo della produzione artistica, facendo sì che la struttura stessa del sistema dell’arte viva una forte trasformazione verso un logica di mercato sempre più globale. L’esposizione presenta opere di ventuno artisti contemporanei: Luchezar Boyadjiev (Bulgaria), Marco Brambilla (I/USA), Marc Bijl (Olanda), Fabio Cifariello Ciardi (Italia), Claude Closky (Francia), Denis Darzacq (Francia), Eva Grubinger (Austria), Pablo Helguera (Messico), Damien Hirst (UK), Bethan Huws (UK), Christian Jankowski (Germania), Michael Landy (UK), Atelier van Lieshout (Olanda), Thomas Locher (Germania), Aernout Mik (Olanda), Antoni Muntadas (Spagna), Takashi Murakami (Giappone), Josh On (USA), Dan Perjovschi (Romania), Wilfredo Prieto (Cuba), Cesare Pietroiusti (Italia). Nel catalogo, oltre agli scritti delle due curatrici e del direttore generale di Palazzo Strozzi, troviamo interventi di Boris Groys, Pier Luigi Sacco, Julian Stallabras, Wolfgang Ullrich. Per contatti stampa: CLIC!
Arte Prezzo e Valore: James M. Bradburne
Il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, James M. Bradburne, così dice a proposito della mostra in corso al CCCS.
“Arte, prezzo e valore” affronta una tematica centrale per la cultura contemporanea, vale a dire il rapporto tra arte e mercato. Una delle domande che in pratica ogni persona si pone quando visita una mostra è: quanto valgono questi oggetti? Da un lato questa domanda non ha senso, perché dopo essere entrata a far parte della collezione di un museo (il luogo da cui di solito le mostre attingono i pezzi da esporre), un’opera d’arte non può più essere venduta, quindi in un certo senso non ha prezzo. Per molti professionisti del settore museale quella del valore è una questione sgradevole, addirittura blasfema perché profana il museo come sacro tempio dell’arte, per sua natura slegato da valutazioni economiche. D’altro canto, i musei contribuiscono attivamente alla creazione del valore di un oggetto, la cui presenza in una determinata mostra può incrementarne significativamente la valutazione nel mercato dell’arte. Lungi dall’essere blasfema, l’attività museale ha molto a che fare con il valore economico e i cambiavalute sono molto più vicini al tempio di quanto si potrebbe sospettare. Se gli oggetti di proprietà di un museo vengono sottratti al mercato, altri oggetti simili a questi continuano ad essere venduti e acquistati regolarmente – dai privati, nelle gallerie d’arte, alle aste. Quali fattori incidono sul valore di mercato di un’opera? È vero che alcuni di questi oggetti possiedono un valore intrinseco? E quella del valore è una questione legata esclusivamente alla legge della domanda e dell’offerta? Secondo un recente studio commissionato dalla Banca di Dresda, l’incremento della media dei prezzi nelle aste di opere d’arte sembra andare di pari passo con la crescita del numero dei visitatori dei musei – forse si tratta di una coincidenza, ma è possibile che non lo sia. Di sicuro, i rapporti su cui è incentrata la mostra “Arte, Prezzo e Valore” meritano una riflessione attenta e un ragionamento critico.
Arte, Prezzo e Valore: All’idea di quel metallo
Cesare Sterbini, il librettista del ‘Barbiere di Siviglia’ di Rossini, così fa dire a Figaro che poi canta: “un vulcano la mia mente incomincia a diventar”. Mi pare una perfetta metafora di quanto il denaro possa suscitare fantasia invece d’inibirla. Eppure, in molti, ritengono che la moneta sia cosa che non dovrebbe entrare nell’arte, che ne guasti la purezza, cosa insomma che corrompa l’arte stessa e chi la fa. Naturalmente sono esistiti cospicui esempi di menti nel passato, e di nuove oggi, che pensano esattamente il contrario. Con grande democrazia culturale, la mostra presenta entrambe le posizioni così come sono vissute ai giorni nostri da artisti provenienti da più continenti. Arte, Prezzo e Valore è la migliore delle esposizioni fra le tante che ho visto quest’anno (la sconsiglio a Sandro Bondi perché, da Ministro dei Beni Culturali, ha dichiarato “Io l’arte contemporanea non la capisco”). Poiché non sono un neutrale reporter, ma ho campato e campo da autore di libri, teatro, radiotelevisione, mi soffermerò, schierandomi, su alcuni punti che m’interessano ricordando quanto diceva il mio amico Gigi Malerba : “L’opera d’arte non è sacra, il diritto d’autore sì”. Esiste, da sempre, una perniciosa tendenza a considerare tutto ciò che ha successo di scarso o nessun valore e, al contrario, l’invenduto di grande qualità. Spessissimo è una scaltra autoconsolazione di quelli che, come diceva l’aspro Longanesi, “rispondono all’appello dell’arte senza essere stati chiamati”. Il risultato sta fra tragedia e gag: succede che i puritani vendono se stessi senza riuscire a vendere i loro lavori. Molti, poi, adducono la propria mancata affermazione al fatto d'essere incompresi. Certo, ce ne sono stati d’incompresi e forse ce ne sono, ma quanti? Tempo fa conversando con Rossana Bossaglia le chiesi: sono proprio tanti gli artisti incompresi? Mi rispose:”Il loro numero è inferiore a quanto si pensi. Spesso si lamentano per eccessiva autostima. Non fu incompreso nemmeno Van Gogh che talvolta è portato ad esempio di pittore incompreso. Quel grandissimo artista era nei suoi anni già conosciuto e stimato, aveva un suo mercato e falsificatori che sfornavano lavori per soddisfarne la richiesta”.
Il mercato ha sempre ragione o il mercato ha sempre torto? Non è vera la prima né la seconda cosa. Esistono non pochi fenomeni resi falsamente maiuscoli per trarne ingiusti profitti; né di sicuro vanno difesi i prezzi esorbitanti di certe opere d’arte battute alle aste, i cachet vertiginosi di attori, cantanti, direttori d’orchestra, ma da qui a sostenere che il soldo inquini l’arte ce ne corre. Una delle novità apportate da Damien Hirst, ad esempio, non è stata solo l’affermazione volutamente spudorata dell’importanza del denaro nell’arte (a farsene campione in epoca moderna c’era già stato Dalì, per fare un solo nome noto), ma, nel presentarsi come mercante di se stesso in senso strettamente finanziario con una tecnica più avanzata di Warhol che pure l’ha ben praticata. E qui – come scrive Wolfgang Ullrich facendo, però, una serrata critica alle icone del capitalismo – “… il potere del denaro trova dunque un’espressione simbolica nell’arte. Questa è la novità di ‘For the love of God’ di Hirst: nessuno era mai riuscito a evocare il denaro con mezzi artistici. Potevano esservi stati artisti che dipingevano banconote, che avevano a che fare col mondo del lusso o mettevano in scena sfarzosi allestimenti, ma tutto questo non dava la percezione del significato di una grossa somma”. Né della possibilità di gestirla in prima persona, aggiungo io. Perché – ecco un punto a mio avviso centrale in tutta la questione - è proprio la mediazione fra l’artista e chi compra che mi pare da combattere, non già disprezzare la vendita del lavoro artistico. Ai giorni nostri, inoltre, le tecnologie permettono – e sempre più permetteranno – agli autori di commerciare direttamente i prodotti. Non è forse possibile vendere un libro su internet facendo a meno dell’editore? Lo ha fatto, ad esempio, Stephen King che di sicuro un editore volendo lo avrebbe trovato, o no? E altrettanto si può fare con opere visive, musicali, film; Second Life ed altri metaversi stanno poi aprendo ancora nuove vie. Perché l’artista (e non solo quello applicato alle arti visive) non dovrebbe guadagnare con quel che produce? A meno di non pensare ad una schizofrenica divaricazione nella vita di costui, un tale, cioè, che si guadagna da vivere come idraulico, avvocato, contadino, medico, etc. e nulla ricava dalla sua produzione artistica. La cosa, peraltro, un tempo possibile, oggi è totalmente improponibile per il tempo pieno che ognuna dei mestieri citati, e tutti gli altri, richiedono. Ancora una cosa. Riguarda quelli che dell’opposizione al guadagno attraverso l’arte ne fanno una questione politica. Ricordo ancora quanti un tempo strillavano contro il mercato dall’interno di gruppi (ad esempio ”Servire il popolo”... ricordate?... a proposito, è da pochi giorni in libreria un volume di Stefano Ferrante ‘La Cina non era vicina’ che ne fa cospicue cronache), tutti tostissimi. Molti di loro – noti e meno noti – sono diventati italoforzuti. Francamente non dubitavo nel ’68 e nel ’77 che sarebbero finiti in qualche fogna. Invito a diffidare di chi fa esclamative dichiarazioni di purezza. Chiudo questa nota come peggio non si potrebbe: citando me stesso. Da un mio libro esaurito (anche l’autore lo è): “Film senza Film”. Un buon artista prima di passare alla Storia passa alla Cassa… come?... Carmina non dant panem?... chi l’ha detto! Io da una vita mi nutro con testi, regìe, articoli, performances da one man show. Pane e carmina mai mi mancano e quando mi carmina bene, certi tocchi di carmina al forno, tartufi, roba carminata da fior di vini e poi carminando strisce bianche a quel dio candido… No, sentite a me, quei motti là se li sono inventati gli impresari, i galleristi, i produttori, gli editori, i funzionari tv, giusto per tirare sul prezzo.
Arte, Prezzo e Valore: Franziska Nori
Insieme con Piroschka Dossi, curatrice della mostra è Franziska Nori, Project Director del CCCS. Sue note biografiche le trovate in un’intervista, di poco tempo fa, mentre – ci crediate o no – eravamo a bordo dell’Enterprise di Star Trek. Prima di citare alcuni passaggi del suo saggio in catalogo, riferisco di una sua risposta ad una domanda che le ho posto.
Arte e denaro. A molti, in Italia forse ancora di più, appare un rapporto sconcio, da vergognarsene solo a parlarne… la purezza! la sacralità dell’arte!… perché succede questa cosa che a me pare una nostra goffaggine culturale? Io sono un po’ meno critica di te, noto, infatti, che non solo in Italia c’è questa reticenza ad accettare che anche l’arte debba fare i conti con i principii economici. Il fatto è che inserendosi l’artista nel mercato, s’inserisce in un sistema che ha degli operatori, dove vigono delle regole, in un sistema in cui c’è quello galleristico e quello delle istituzioni, e un altro ancora che è quello del ‘glamour’ e del ‘cool’. Tornando più precisamente a quanto mi chiedevi, penso che c’è da tenere presente anche una differenza fra le generazioni: quelle più giovani, probabilmente, sono più abituate a vedere l’infiltrazione del principio economico in tutti i settori della nostra vita con cui fare i conti si voglia o no; invece in una forma, secondo alcuni retorica, di tempo fa, l’arte era vista in larghissima parte come una posizione anti-sistema, un sistema dal quale si rifuggiva preferendo l’esistere in un contesto lontano dal resto della società. Sono questi esattamente i due poli in cui gli artisti che abbiamo scelto per “Arte, Prezzo e Valore” si muovono nel raccontare la loro visione da operatori in questa problematica. Ecco ora alcuni momenti del saggio scritto da Franziska Nori per il catalogo. Dagli anni Ottanta in poi il potere che l’economia ha esercitato in tutti i settori della realtà politica, sociale e culturale ha coinvolto anche il mondo della produzione artistica, rovesciando sempre più i termini di relazione tra il concetto di valore e quello di prezzo dell’opera d’arte. In passato l’artista creava nella consapevolezza di una solida tradizione del pensiero, nell’ambito della quale cercava di inserirsi con il proprio manufatto artistico. Il riconoscimento del valore culturale (estetico ed etico) e del valore metaforico che veniva attribuito all’opera nell'area del contesto culturale e sociale nel quale essa veniva percepita, portava alla determinazione di un possibile prezzo. Il sistema critico e museale deteneva, in questa relazione, un ruolo centrale in quanto la sua missione veniva definita e affermata dalla funzione di studio, di interpretazione, presentazione e conservazione di quella che veniva poi considerata “opera d’arte”. Allo stesso modo la creazione di una collezione era definita dalla rilevanza che le singole opere avevano o che acquisivano in un contesto culturale e in via di storicizzazione. Pertanto il valore ideale e metaforico dell’opera investiva anche la collettività. Nel corso degli ultimi vent’anni, il sistema ha subìto un’inversione. Il mercato, con la sua vitalità ha preso, pertanto, il posto del museo, sostituendo la sua autorevolezza critica e culturale con l’imposizione dei prezzi e proponendo direttamente le opere ai vari e possibili acquirenti, intenti a fare operazioni economiche basate sulla speculazione e sulla crescita di prezzo di opere ancora non affermate di giovani artisti. A questo punto è stato il mercato a creare il valore, definendolo però non dalla prospettiva di crescita culturale o di tradizione estetica ma da quella molto più immediata del prezzo. Ha avuto luogo un radicale slittamento dei ruoli e delle funzioni. I musei sono meno in grado di acquistare opere d’arte per le proprie collezioni per mancanza dei fondi necessari, venendo meno dunque al loro fondamentale ruolo di costruttori di identità culturale e di memoria storica per la collettivitá […] A questo punto è lecito chiedersi: come hanno reagito gli artisti a tutto ciò? Certamente le reazioni sono state e sono di diverso tipo […] Trent’anni fa la reazione espressiva degli artisti alla crescita del mercato era stata quella di contestazione e di rottura delle convenzioni estetiche, al fine di provocare il sentimento morale dello spettatore e di innescare un processo di messa in discussione del sistema del mercato e di quello dei valori borghesi, considerati falsi e ipocriti. Un ulteriore elemento di rottura con l’idea tradizionale dell’arte, con la commercializzazione e il conformismo delle idee fu l’introduzione dell’atto performativo come opera d’arte, che già durante gli anni Sessanta vide Joseph Beuys proporre il concetto di opera d’arte allargata, nella quale la stessa società e la politica venivano plasmate nell’intenzione di produrre un cambiamento, mentre, in linea contrapposta, Andy Warhol con il suo estremo populismo creava un sistema parallelo che celebrava i principi della società consumista della quale egli stesso si rendeva marchio . Con il rapido diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa la strategia dello shock e della provocazione dello spettatore diviene uno degli elementi più frequentemente utilizzati da parte degli artisti, seguendo la linea già tracciata dalle avanguardie storiche e dai primi tentativi di esaltazione della “riproducibilità tecnica” già avviati da Futuristi, Dadaisti e Surrealisti. Nella cultura di massa però nulla ormai sembra in grado di provocare un reale scandalo, poiché la società è pronta ad assorbirlo come novità da trasformare in prodotto di spettacolo e simbolo di ‘life style’. Molti artisti oggi, infatti, collaborano con estrema naturalezza e creano solide sinergie con l’industria della moda, del cinema e della musica pop facendo parte integrante di un jet set globale che si é abituato a consumare l’arte come estremo e a volte incomprensibile oggetto del desiderio […] Questi artisti, mega star del sistema dell’arte, sono senza dubbio in grado di creare opere di indiscussa qualità tecnica ed estetica, accattivanti e concettualmente intelligenti, ma nel contempo, non possiamo non notare che esse testimoniano la più completa disillusione su ciò che tradizionalmente era lo schema di valori dell’arte, l’idea della sua autonomia e il mito dell’artista come genio. Questi grandi manipolatori del mercato dell’arte hanno assimilato ciò che Warhol aveva creato, definendo l’artista come ‘brand’ e come artefice di prodotti destinati a una società del consumo, proponendo una sofisticata strategia di vendita che non si può più scindere dall’opera stessa, essendone ormai il nucleo centrale. Come dimostrano anche le opere dei ventuno artisti coinvolti nella mostra “Arte, Prezzo e Valore”, le reazioni espressive e le posizioni concettuali sono varie e di diverso tipo, a partire da un atteggiamento di conformità ai principi vigenti del mercato per arrivare ad un approccio ironico e sarcastico, fino ad una sorta di “anti-posizione” che tenta di evadere e di allontanarsi dagli aspetti commerciali del processo di produzione artistica […] Tra questi due poli si possono situare le posizioni intermedie di tutti gli altri presenti in mostra, con atteggiamenti e modalità che vanno dall’ironia al sarcasmo, dal gioco alla messinscena, dal paradosso alla contraddizione.
Arte, Prezzo e Valore: Piroschka Dossi
Come già detto in una nota precedente di questo special, insieme con Franziska Nori, curatrice della mostra è Piroschka Dossi. Dopo gli studi in legge e storia dell’arte ha conseguito una specializzazione in management all’INSEAD a Fontainebleau; ha lavorato nella gestione di una compagnia a livello globale e nel settore delle consulenze. Ha pubblicato articoli d’arte ed economia su ‘Die Zeit’, Die Welt’ e il londinese ‘.Financial Times’ Nel suo recente libro Hype - Art and Money analizza i meccanismi dell’arte globale. Estraggo dal suo intervento in catalogo alcuni passaggi.
La ristrutturazione del mercato dell’arte è iniziata negli anni Sessanta con l’espansione delle principali case d’asta. Una pietra miliare nella loro politica di apertura ai nuovi ricchi è stata l’introduzione dell’indice di mercato Times-Sotheby’s che, visualizzando i movimenti di prezzo delle opere d’arte, ha rappresentato il primo passo verso una nuova definizione dell’arte come oggetto d’investimento […] Il legame tra arte ed economia è sempre esistito. Come un’invisibile corrente sottomarina che attraversa la storia dell’arte, l’economia ha sempre influenzato l’arte. Di conseguenza ogni opera d’arte può essere interpretata secondo un’ottica economica. Lo storico Michael Baxandall ha dimostrato che durante il Rinascimento un fattore economico come l’accordo sul prezzo raggiunto da mecenate e pittore, che includeva l’uso di pigmenti costosi, influenzava il modo di fare arte. Analogamente l’economista Michael Montias ha riscontrato che la ricchezza dell’Olanda durante il Secolo d’oro ha condizionato l’arte dell’epoca. L’esplosione della domanda costringeva gli artisti a realizzare i dipinti più velocemente, spingendoli ad adottare uno stile più informale. Lo storico dell’arte Michael North ha a sua volta sostenuto che la diminuzione della conoscenza da parte dei compratori d’arte ha portato a un’analoga riduzione del suo contenuto. Nel corso della storia le attività economiche sono state spesso ritratte nelle opere d’arte: i cambiavalute erano un soggetto popolare nella pittura olandese del XVI secolo, mentre all’inizio del XX secolo si raffiguravano i processi e i macchinari industriali […] Considerata l’onnipresenza del sistema di mercato e dei suoi meccanismi spesso oscuri, non sorprende il fatto che oggi molti artisti adottino tematiche di tipo economico che in passato sarebbero state considerate del tutto estranee all’arte: mercati e denaro, produzione e trasformazione, consumo e possesso, credito e speculazione, prezzo e valore. Il critico d’arte francese Paul Ardenne ha scritto: “Il principale interesse dell’epoca – l’economia – rappresenta per l’arte contemporanea ciò che il nudo, il paesaggio o il mito del nuovo hanno rappresentato rispettivamente per il neoclassicismo, l’impressionismo e l’avanguardia [...] L’economia fa parte della vita. Per molti è una manifestazione dello zeitgeist che stimola la creatività. La mostra Arte, prezzo e valore illustra le diverse posizioni in cui si collocano gli artisti tra i due poli della produzione creativa e del mondo dell’economia. Essi analizzano i meccanismi onnipresenti del mercato capitalista come pure il loro impatto sull’arte e il suo valore. Le posizioni variano dalla riflessione, l’analisi e la critica all’appropriazione, al mascheramento, alla rivalutazione, alla scomposizione e al rifiuto. Sviluppando prospettive inattese, immagini poetiche e visioni alternative, questi artisti si discostano dal modo convenzionale in cui la conoscenza economica viene generata e trasmessa attraverso la ricerca accademica, l’informazione giornalistica o l’esperienza quotidiana, e propongono un’interpretazione soggettiva, giocosa e interessante delle forze economiche che oggi più che mai influenzano il nostro mondo e quello dell’arte […] Andy Warhol, che proveniva dal settore della pubblicità, abbracciava l’idea dell’arte come merce, prodotta per un mercato. Con la celebre affermazione “Un buon affare è la migliore opera d’arte”, il pittore americano annullava ogni differenza tra artista e imprenditore, tra opera d’arte e bene di consumo, tra mondo dell’arte e mercato finanziario. La sua produzione di arte-merce di marca, quasi ricalcata sul modello industriale, rivelava che la logica dell’arte e quella del mercato erano non solo compatibili ma profondamente affini, pertanto in conformità con la tipica definizione americana del ruolo dell’artista e della funzione dell’arte nella società. L’itinerario della mostra segue entrambe le linee di pensiero, che hanno conosciuto sviluppi diversi riflettendo i cambiamenti socio-economici degli ultimi decenni. Agli inizi dell’avanguardia l’arte e l’economia erano considerate due settori diversi con sistemi di valore distinti; una produceva valori spirituali, l’altra generava ricchezza monetaria. I due campi, in passato contrapposti, sembrano essersi fusi nelle strutture ibride di una cultura economicizzata e di un’economia culturalizzata. La culturalizzazione dell’economia è iniziata alla fine del XIX secolo con la nascita del capitalismo consumista. La democratizzazione del desiderio, il culto del nuovo e l’interesse per la moda e il design hanno legato l’innovazione alla produzione di beni di consumo, dando origine a una nuova estetica – una cultura commerciale – con l’obiettivo di muovere e vendere merci in grande quantità. Da allora il capitalismo consumista crea immagini e simboli allo scopo di commercializzare i prodotti e guadagnare denaro e in questo senso opera con gli stessi strumenti dell’arte. Tuttavia non dovremmo farci trarre in inganno dalla possibile confusione tra mezzi e fini: l’obiettivo ultimo dell’economia è generare profitti, quello dell’arte è approfondire l’esperienza della nostra esistenza.
Arte, Prezzo e Valore: Fabio Cifariello Ciardi
Il musicista Fabio Cifariello Ciardi (1960) presenta un’installazione multimediale che riproduce l’andamento del titolo di Sotheby’s, importante attore del mercato mondiale delle aste quotato in borsa, presso lo Stock Exchange di New York. Il termine BID fa riferimento sia all’offerta delle aste sia all’abbreviazione con cui è indicato il titolo Sotheby’s alla Borsa di New York. La performance del titolo è stata registrata il 15 settembre del 2008, il primo giorno in cui le opere di Damien Hirst sono state vendute da Sotheby’s con risultati superiori alle aspettative della casa d’aste. Il compositore ha programmato un software che riesce a monitorare in tempo reale i movimenti variabili di tutti i titoli azionari dell’indice e abbina il suono di uno strumento musicale a un gruppo di cinque titoli per volta. L’osservatore, pertanto, ascolta i dati finanziari, solitamente presentati sotto forma di serie numeriche, grafici o diagrammi, trasformati nel canto delle sirene dell’universo fluttuante del mercato azionario.
Qual è il nucleo concettuale che ispira "a BID match"? Il 15 settembre 2008, alla fine della prima giornata di “Beautiful Inside My Mind Forever”, l’asta-evento dedicata da Sotheby's alle opere di Damien Hirst, si è ripetuto un miracolo non raro tra il 2003 e il 2007: mentre il mercato scontava pessime notizie economiche, le azioni di Sotheby's registravano un andamento in controtendenza, arrivando a toccare un incremento di valore del +4,8% in poche decine di minuti. Mai nella storia dell’economia e dell’arte, il desiderio di possedere espressioni artistiche del presente è stato in grado di generare tanto rapidamente un tale profitto. L’installazione “a BID match”, grazie ad un software di mia invenzione, cristallizza questo straordinario accadimento per mezzo di una traduzione in suoni ed immagini delle variazioni di prezzo e di volume di Sotheby’s e di altri 50 titoli della vecchia e nuova economia, così come realmente rilevate in quella giornata. Le immagini proiettate su due schermi forniscono una rappresentazione visiva dei dati finanziari parallelamente tradotti in suoni, in un sarcastico punto d’incontro fra un terminale di borsa e un primitivo videogame. Nonostante il risultato sonoro sia quello di un cangiante concerto per flauto e strumenti, “a BID match” non è musica, non propone allegorie: è una diretta (e impietosa?) ‘amplificazione’ del nostro tempo, di un presente del quale forse altrimenti non potremmo percepire la perfida ironia. Al di qua e al di là dell'occasione fiorentina, su quali finalità espressive punta il tuo lavoro? Il mio lavoro si articola su piani diversi: lavori sinfonici e cameristici, installazioni multimediali, musica dal vivo per il cinema muto, software, saggistica. In tutti questi campi inseguo un rapporto ‘ecologico’ fra quello che produco e ciò che mi circonda: mi interessa l’esplorazione di fenomeni e testimonianze che marcano con forza il nostro presente, che hanno qualcosa da insegnarmi e sono in grado di sovvertire le mie convinzioni artistiche; accadimenti per lo più non legati direttamente alla musica o all’arte e tuttavia formalizzabili per mezzo di reti complesse che, in quanto tali, possono essere fertilmente traslate nel suono. Non è solo la “sonificazione” delle informazioni finanziarie a darmi questo brivido. L’anno scorso ho realizzato un altro software, in grado di trascrivere le inflessioni e i ritmi di una qualsiasi voce parlata in una parte eseguibile da un musicista. E’ una chiave per penetrare le potenzialità musicali nascoste nella comunicazione orale, indipendentemente e ben prima della comprensione delle parole. Un’altra esperienza di ‘amplificazione’ di un reale che altrimenti faccio fatica a vedere. Il risultato è stato ascoltato alla Biennale di Venezia 2007, al festival Dissonanzen di Napoli e lo si potrà ascoltare in alcuni lavori per ensemble previsti per il 2009. Fabio Cifariello Ciardi è presente in Rete QUI.
Arte, Prezzo e Valore: Cesare Pietroiusti
Cesare Pietroiusti (1955) presenta: "Three thousand banknotes", 2008. Acido solforico su banconote da 1 e 5 $;3000 esemplari unici in distribuzione gratuita. L’operazione è prodotta dal CCCS di Firenze e dalla Galleria Franco Soffiantino di Torino. Un’intera parete è ricoperta con tremila biglietti da uno e cinque dollari precedentemente trattati con acido solforico e stampigliati sul retro. Questi interventi hanno privato del loro valore ciascuna delle banconote, trasformandole in un’opera d’arte unica. I visitatori sono invitati a prendere una banconota, sul retro della quale l’artista ha applicato con un timbro la seguente istruzione: “ogni transazione in denaro riguardante quest’opera invaliderà la firma del suo autore e di conseguenza trasformerà l’opera stessa in un falso”.
A Cesare Pietroiusti ho chiesto: qual è il nucleo concettuale che ispira "Three thousand banknotes"? A partire dal 2004 ho studiato e praticato vari metodi per trasformare irreversibilmente le banconote; nel 2005 - insieme ad un altro artista, Paul Griffiths, - abbiamo ingerito banconote al termine di un’asta per poi restituirle al legittimo proprietario dopo l’evacuazione; nel 2007 ho aperto, prima a Birmingham e poi a Parigi, un negozio in cui la merce in vendita sono banconote e la valuta con cui si possono acquistare è il tempo dello sguardo dell’acquirente: tu guardi una banconota da 10 sterline per 12 minuti (6 per lato) e la banconota diventa tua. Negli ultimi tre-quattro anni ho anche prodotto decine di migliaia di disegni, realizzati con tecniche molto varie, che i visitatori della mostra possono prendere gratuitamente. Il lavoro per la mostra “Arte, prezzo e valore” si colloca ad un incrocio fra queste diverse serie di interventi. Da un lato è una riflessione/azione critica sugli aspetti materiali (carta, colore…) della banconota, non solo per esprimere una volontà distruttiva ma anche per segnalare la presenza di tale materialità, rispetto all’attitudine di considerare il denaro una cosa astratta e, per estensione, virtuale (transazioni in elettronico, finanza sganciata dall’economia ecc.). Dall’altra è un invito a considerare lo scambio fra artista e pubblico in un modo un po’ diverso dal solito, e a considerare il museo non soltanto come il luogo dell’esposizione dell’opera, ma anche della sua “distribuzione”. Mi piace pensare al fatto che questo lavoro, la cui realizzazione e il cui allestimento sono stati lunghi e laboriosi, non esista più come installazione unitaria, ma sia disperso in tremila posti diversi. Al di qua e aldilà dell'occasione fiorentina, su quali finalità espressive punta il tuo lavoro? Mi interessa esplorare le situazioni vicine all’ordinarietà, le cose “quasi” normali, con cui abbiamo a che fare quotidianamente, e di cui però tendiamo ad ignorare gli aspetti paradossali, le piccole insolubilità, l’inevitabilità dell’errore e dell’incomprensibilità. Mi interessa la dimensione dell’interrogazione e del dubbio rispetto alle certezze dei professionisti e dei politici, e rispetto alle risposte usa-e-getta dei notiziari e di tutta la società dello spettacolo. Credo che quello della ricerca artistica sia uno dei pochi territori di libertà (forse l’unico) per un pensiero non omologato alle norme dell’efficienza, del dominio, del consumo. Cesare Pietroiusti conduce in Rete: www.pensierinonfunzionali.net Altra consultazione su www.evolutiondelart.net
Arte, Prezzo e Valore: elettronica e cellulosa
Per tutti gli altri artisti presenti nella mostra è possibile leggere le schede sulle modalità e i significati delle loro opere cliccando QUI.
Il catalogo della mostra - in edizione bilingue italiano/inglese - è pubblicato da Silvana Editoriale con 72 illustrazioni a colori, 72 in b/n. Art Director: Giacomo Merli Pagine 144, Euro 24:00
Arte, Prezzo e Valore
Cosmotaxi Special per “Arte, Prezzo, e Valore”
Firenze, 14 novembre ‘08 –11 gennaio 2009 Fine
mercoledì, 3 dicembre 2008
Malalingua
Un Totò che fissa con espressione di forte biasimo forse proprio il redattore del foglio che ha tra le mani è l’eloquente copertina di un imperdibile libro di Pietro Trifone. Un Totò che sembra stia per dire “Ma mi faccia il piacere!”. Il volume che presento oggi è intitolato Malalingua L’italiano scorretto da Dante a oggi stampato dalle edizioni il Mulino. Il libro è uscito un anno fa, ma a Cosmotaxi, come sanno i generosi lettori di queste mie pagine web, piace parlare anche di titoli che in libreria non sono entrati proprio ieri. Questo ha una sua precisa motivazione. Il ricambio dei volumi sui banchi dei librai è vertiginoso e, spesso, mentre le peggiori pagine scritte da presentatori tv, o da chi va dove la porta il cuore (ho scoperto che è sempre un villaggio turistico con messa a mezzogiorno) permangono a lungo, i migliori dorsi scompaiono, ma… ma è pur sempre possibile richiederli, come vi consiglio di fare con Malalingua. Non crediate che si tratti del solito libro che piange lacrime d’inchiostro su errori e devianze della lingua italiana odierna. Per niente, nessun accademismo. Indaga, infatti, su tutto quanto, a partire da uno strafalcione, può condire e rendere espressivamente vivace il nostro scrivere e parlare. Perciò è anche una lettura divertente. Leggete QUI e capirete ancora meglio. Per una biobibliografia dell’autore: CLIC!
A Pietro Trifone ho chiesto: che cosa principalmente ti ha spinto a scrivere questo libro? Ti sembrerà strano, me è stato soprattutto un desiderio di rivalutare l’errore linguistico, o meglio un certo tipo di errore linguistico. Quante volte ho segnato con la matita rossa o blu le improprietà lessicali o le incoerenze sintattiche dei miei studenti, pensando in cuor mio che quegli errori avevano in realtà un’evidente logica interna, una straordinaria energia creativa, persino una loro ambigua bellezza! E allora mi sono messo a rovistare nella pattumiera della lingua italiana, e ho scoperto che effettivamente c’era dentro una maleodorante spazzatura, ma c’erano anche delle autentiche perle di eloquenza non ortodossa, dalle parolacce di Dante alle invenzioni di Totò. Non a caso proprio uno sberleffo del principe della risata si staglia con tutta la sua dirompente espressività sulla copertina del volumetto. Spesso si sente dire che la lingua italiana è attaccata da vari mali. Da chi e da che cosa deve difendersi la lingua italiana? Sempre che debba difendersi, s’intende… Sì, la lingua italiana deve difendersi; più precisamente i parlanti consapevoli devono difendere la loro lingua dalla sciatteria delle frasi fatte, dall’accoglienza acritica delle mode del momento, dalla resa incondizionata all’egemonia della cultura angloamericana, dalla dequalificazione degli studi, dalla cialtroneria massmediale… In passato l’italiano doveva difendersi anche dai dialetti, ma oggi la situazione è cambiata: tra la monnezza e il trash, preferisco senz’altro la monnezza, che almeno non si dà tante arie. Il parlante consapevole può permettersi tranquillamente il lusso di qualche infrazione della grammatica e del bon ton linguistico, motivata da particolare ragioni stilistiche; non può più permettersi di dare a qualcuno del ‘negro’, né di ironizzare sul colore della sua pelle definendolo “abbronzato”. Come se la passa l’italiano? All’estero è una lingua più studiata o più parlata? Tutto sommato se la passa abbastanza bene. Non è una delle lingue più parlate, ma è certamente una di quelle più studiate: la quarta o quinta al mondo, dopo l’inglese e lo spagnolo, alla pari con il tedesco e ormai quasi alla pari anche con il francese. Bisogna sottolineare che si tratta di una fortuna spontanea, dovuta alla cultura e all’arte, ma anche alla pizza e alla Ferrari, molto più che al sostegno delle istituzioni. La “Settimana della lingua italiana nel mondo”, promossa dal Ministero degli Esteri, è indubbiamente una felice eccezione, ma se poi si esaminano nel dettaglio le iniziative realizzate dagli Istituti Italiani di cultura, salta agli occhi che non tutte raggiungono un livello di eccellenza. Non ci vuole molto a capire perché: un po’ perché le nozze non si fanno con i fichi secchi, e un po’ perché manca di fatto un organismo di coordinamento che indichi i criteri e controlli la qualità della manifestazione. Per una scheda sul libro: QUI. Pietro Trifone “Malalingua” Pagine 211, Euro 16:00 Il Mulino
lunedì, 1 dicembre 2008
Chiavi di lettura
S’avvicina il momento delle strenne natalizie che quest’anno sia per la situazione economica internazionale sia per il particolare disagio che vive il nostro paese vanno ben studiate e indirizzate su cose utili e, necessariamente, di prezzo contenuto. Se poi il regalo natalizio è diretto ai nostri ragazzi è bene aggiungere a quanto detto prima anche un’altra necessità: nella disastrata scuola gelminiana le occasioni di approfondimento – specialmente in campo scientifico – sono a rischio di riduzione, quindi, particolarmente indicato è provvedere ad un corredo d’informazioni su campi d’attualità di cui nelle aule ne gira poca o niente. Un’occasione in tal senso la offre la Zanichelli con una nuova collana: Chiavi di lettura che punta sulla divulgazione scientifica e, pur essendo adatta a ragazzi delle scuole superiori non esclude tanti di noi adulti che d’informazione sulle scienze assai spesso difettiamo.
La collana è a cura di Lisa Vozza (in foto) e Federico Tibone. Le ‘Chiavi di lettura’ Zanichelli affrontano temi interessanti per capire il mondo di oggi – l’energia, la cultura negli animali, le nanotecnologie, per citarne soltanto tre – con un linguaggio semplice ma non per questo meno preciso e documentato; aiutano a capire come la scienza e la tecnologia influenzano il nostro modo di vivere e di pensare. Gli autori sono scienziati e divulgatori di valore, italiani e stranieri. I libri sono piccoli, per lettori che vogliono andare al cuore di ogni questione in maniera rapida, puntuale, esatta, senza giri di parole. Ad esemplificare la linea editoriale, scelgo quattro recenti titoli. Nicola Armaroli, Vincenzo Balzani “Energia per l'astronave Terra” Quanta ne usiamo, come la produciamo, che cosa ci riserva il futuro QUI il video di un’intervista inusuale e divertente ai due autori. È Homo l'unico sapiens? Una risposta la fornisce Michelangelo Bisconti in Le culture degli altri animali Mark Haw “Nel mondo di mezzo” Che cos’hanno in comune un minuscolo grano di polline, una molecola di plastica e un filamento di DNA? Se la cosa 'incuriosisce, cliccate QUA Andrea Cremaschi e Francesco Giomi “Rumore bianco” L’elettronica ha trasformato il nostro modo di comporre e percepire la musica. Ecco perché e come Per altre informazioni sulla collana e sugli altri titoli pubblicati: CLIC!
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