Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 30 ottobre 2009
Tibe
Tibe è il nome d’arte di Andrea Tiberio, per saperne di più cliccate QUI. Musicista e scrittore, ha pubblicato nel 2005 Valido per due e nel 2007 Hotel Lamemoria, entrambi editi da Mondadori. La sua più recente impresa su cellulosa è intitolata Primavera Influenza, titolo malandrino che può convincere all’acquisto del volume chi cerca informazioni per difendersi dall’epidemia propagata dal virus A/H1N1. Resterà deluso quel frettoloso acquirente, perché non ha provato a immaginare che la parola “primavera” può essere letta staccando “prima” da “vera”, e vuoi vedere che la prima vera influenza è quella che è all’origine dello stile di Tibe? Cioè l’atmosfera punk e new wave degli anni ’80 e il clima post-rock dei primi anni '90? Già, perché cosa ci fanno David Bowie e Isabella Rossellini insieme all’H Party? Perché nelle pagine si trovano i Kraftwerk insieme con Alain Delon? E poi Grace Jones, il Killer del phon, il Violinista appeso, in un delirio più acidista che influenzale? Non lo svelerò qui altrimenti quelli della raffinata casa edittrice TraRari Tipi s’incazzano. Giusto nome editoriale per i due Rari Tipi che dirigono quella casa: Debora Ferrari e Luca Traini un tandem di critici e agitatori culturali che, tra le loro plurali iniziative tra arti visive e letteratura, in questi giorni, dopo oltre cinque mesi d’esposizione, s’accingono a concludere The Art of Games. “Primavera Influenza” è stato presentato in anteprima, ad Arte Libro 2009 perché è un romanzo verbovisivo i cui ambienti onirici sono commentati dalle immagini di luce ideate da Luca Labanca fatte, o meglio strafatte, da vorticosi neon. Nelle pagine di Tibe, come scrive Debora Ferrari: “La vita si tinge di vertigine luminosa se la si prende alla rovescia. Basta saper precipitare”.
Tibe “Primavera Influenza” Pagine 152, Euro 14:00 Edizioni TraRari Tipi
mercoledì, 28 ottobre 2009
Prof Bad Trip
L’arte di Gianluca Lerici, l’indimenticato Professor Bad Trip scomparso nel 2006, fa ingresso al CAMeC della Spezia. La mostra presso il Centro d’Arte Moderna e Contemporanea, promossa dall’Istituzione per i Servizi Culturali del Comune della Spezia, rende omaggio al genio creativo di uno dei più importanti artisti underground degli ultimi vent’anni, tra i massimi talenti dell’arte visuale contemporanea. Al piano terra del museo, è, infatti, in corso la personale a lui dedicata: il progetto espositivo, curato da Doriana Carlotti e Jenamarie Filaccio (con allestimento e progetto grafico di Roberto Pertile, Fabio Bonini, Filippo Giorgi), si avvale della catalogazione dipinti di Francesca Nepori e del coordinamento scientifico di Marzia Ratti. L’esposizione s’articola in tre sale presentando un’ampia selezione di dipinti, disegni, collage, sculture, dress art e oggetti di design. La città avrà così occasione di scoprire (e riscoprire) le opere di uno dei rari talenti cristallini dell’arte visuale contemporanea, noto e apprezzato sia in Italia sia all’estero: lo dimostrano le quasi 5000 firme raccolte nei mesi scorsi con una petizione on line e cartacea, per chiedere che il lavoro di Gianluca Lerici trovi casa in una sala a lui dedicata presso il Centro di Arte Moderna e contemporanea della Spezia. La sottoscrizione per Bad Trip, nata su iniziativa del gruppo a lui dedicato sul social network Facebook, promossa dall’Associazione AltraCultura e dal sito di E. "Gomma" Guarneri è stata consegnata nel maggio scorso alla Presidente dell’Istituzione per i Servizi Culturali Cinzia Aloisini che con meritoria sensibilità ha sùbito accolto la proposta d’allestire una personale al piano terreno del CAMEC. Gianluca Lerici, in arte Prof. Bad Trip (1963-2006) è stato uno dei migliori artisti sperimentali italiani nel campo dell’illustrazione. Si è cimentato ad alto livello con il disegno a china, la pittura, il fumetto, la fotocopia, il collage, il design d’interni e di oggetti. Come scrive Matteo Guarnaccia nel testo critico, “il suo marchio di fabbrica è un classico bianco e nero da xilografia, erede diretto della potente iconografia protestante tedesca, specialmente di quella legata alla “Danza della morte”, madre di tutte le devianze underpop e così cara agli Espressionisti. "Sbrigativamente etichettato negli anni Novanta come artista cyber-punk (a dispetto della sua ostilità verso i computer) è da considerarsi a tutti gli effetti come un perfetto esponente dell’arte popolare a sfondo sociale”. La mostra ospita anche un video dedicato all’artista, realizzato da Romano Guelfi. Concludendo, voglio ricordare un efficace ritratto tracciato da Barbara Martusciello: QUI, tra le pochissime firme che s’accorse assai per tempo di Bad Trip.
All’esposizione si affiancano incontri che vedono protagonisti esponenti del mondo dell'arte e della comunicazione. I prossimi appuntamenti: 31 OTTOBRE ORE 10,30 - Romano Guelfi (“Re Vulcano: underground arte classica!”) e Susanna Tesconi (Parlando del Professore…) 14 NOVEMBRE ORE 10,30 - Vittore Baroni (“Il Prof. Bad Trip e la musica”) Ufficio stampa: 0187 734593 camec@comune.sp.it ; 0187 727324 federica.stellini@comune.sp.it; 347 7976440 iconte69@hotmail.it “Prof. Bad Trip. La rivoluzione visuale di Gianluca Lerici” CAMeC – Centro Arte Moderna e Contemporanea della Spezia, Piazza Battisti, 1 Fino al 24 gennaio 2010 Informazioni e prenotazioni: 0187 734593 / fax: 0187 256773; camec@comune.sp.it
lunedì, 26 ottobre 2009
I buoni e I cattivi
Sono invisibili a occhio nudo, alcuni sono utili e altri dannosi, combattono fra loro, se riuscissimo a metterli insieme tanti quanti risiedono sulla pelle di un corpo umano, ne conteremo circa 100 miliardi capaci di occupare tutti insieme lo spazio di un seme di pisello: sono i batteri. A questi esseri, per lo più unicellulari, a struttura semplicissima ma con funzioni assai complesse, ha dedicato un libro intitolato I buoni e i cattivi Come sopravvivere in un mondo dominato dai batteri, la studiosa Jessica Snyder Sachs alla quale deve piacere il mondo microscopico perché nel suo primo libro, Corpse, ha indagato le dinamiche dell’ecosistema d’insetti, piante e batteri che colonizzano i cadaveri. Redattrice di “Popular Science” e di altre riviste è attualmente docente presso la Seton Hall University.
Leggere questo suo recente libro – edizioni Longanesi – fa pensare a quanto sia ricco il mondo anglosassone di divulgatori scientifici e quanto in Italia soffriamo la mancanza di quel tipo di penne, fatta eccezione, appunto, per pochi casi. L’autrice, infatti, ci conduce in un mondo multiforme e sconosciuto, anche se lo indossiamo da prima dalla nascita fin dopo la morte, in modo agile e comprensibile anche per chi non ha studiato biologia. Lo fa con ricchezza d’esempi e paralleli con la nostra vita d’ogni giorno, porta a conoscenza fatti e misfatti che combinano a nostro vantaggio o a nostro danno quelle operosissime esistenze. Illumina, esemplificando in modo egregio, anche la questione degli antibiotici (da noi deglutiti in modo troppo spesso spensierato) che attaccano sì i ‘cattivi’, ma senza risparmiare i ‘buoni’, e rischiano d’irrobustire proprio i peggiori causando danni al nostro organismo. E’ illustrato – sempre in maniera comprensibile anche ai non addetti ai lavori – il prezioso lavoro che il progetto “Human Gut Microbiome Initiative” va svolgendo dal 2005 per sequenziare tutti i geni microbiotici presenti nell’uomo, affinché nascano farmaci mirati a disattivare nei batteri la resistenza proprio agli antibiotici. Né mancano nel volume citazioni di video, documentari, film ispirati al mondo dei batteri e perfino un inno – riportato nel testo – che il poeta inglese W. H. Auden dedicò nel 1969 alla propria microflora. Quello che la Snyder Sachs non poteva sapere al momento in cui scriveva questo libro, pubblicato nel 2007 negli Stati Uniti, è che Craig Venter in epoca recente (come ha illustrato il 20 settembre scorso a “The future of science”) promettesse la nascita del primo essere vivente assemblato interamente in laboratorio, proprio un batterio, entro un anno da adesso. Ciò nulla toglie al lavoro di divulgazione dell’autrice perché per comprendere la complessa operazione di Venter, torna utilissima la lettura di un testo come I buoni e i cattivi che dei batteri esplora natura e funzioni mettendo in condizione il lettore di comprendere il meccanismo e l’importanza di mete come quella raggiunta da Venter. “I batteri hanno bisogno di noi”, scrive Snyder Sachs, “ proprio come noi abbiamo bisogno di loro. Nulla vieta a un germe di uccidere un essere umano, anche se così facendo firma la propria condanna. Oggi più che mai abbiamo bisogno di salvaguardare la nostra microflora. Se scopriremo una coesistenza simbiotica con essa, staremo molto meglio”.
Per una scheda sul libro: QUI. Jessica Snyder Sachs “I buoni e i cattivi” Traduzione di Isabella C. Blum Pagine 353, Euro 19:60 Longanesi
venerdì, 23 ottobre 2009
Orizzonti di Land Art
Il termine Land Art fu coniato nel 1969 per designare l’opera di artisti la cui ricerca – affine a quella dell’arte concettuale – sviluppatosi dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, porta a interventi nell’ambiente naturale. Accanto ad una vocazione ecologica nella Land Art, si trovano anche un rifiuto dei mezzi tradizionali (pittura, scultura, e altre tecniche plastiche), una ribellione nei confronti del mercato dell’arte, una polemica contro i luoghi abituali di produzione e di esposizione delle opere. I lavori di questa corrente artistica, spesso dislocati in luoghi impervi, sono prevalentemente composti da materiali come sabbia, pietre, acqua, rami, foglie, fango e, talvolta, solo da segni lasciati nel paesaggio che ricordano quelle misteriose tracce esistenti in certi territori precolombiani. La documentazione di queste opere è fornita da disegni preparatori, resoconti di viaggi, fotografie, o video come, ad esempio, il famoso “Land Art” (1969) di Gerry Schum il quale per primo introdusse il termine che designò quella tendenza espressiva.
Alla Galleria Repetto di Acqui Terme è in corso la mostra Il canto della Terra: Orizzonti di Land Art. Circa 50 opere di questo articolato fenomeno probabilmente tra i più ricchi e importanti movimenti che la storia dell’arte occidentale abbia prodotto nel secondo Novecento. In foto, di Dennis Oppenheim: “Branded Mountain”, 1969; esposto ad Acqui. Per altre informazioni e i nomi degli artisti presenti nell’esposizione, si può consultare il sito web della Galleria. Ufficio Stampa: Emanuela Bernascone, tel +39 011 19714998 – fax +39 011 19791935 info@emanuelabernascone.com - www.emanuelabernascone.com “Il canto della terra” Galleria Repetto Via Amendola 21/23, Acqui Terme tel/fax +39 0144 325318 tutti i giorni 9.30 - 12.30 / 15.30 -19.30 domenica su appuntamento Fino al 25 novembre ‘09
giovedì, 22 ottobre 2009
Romani all'opera
Niente paura! Non sto per riferire del lavoro politico del viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani. Tratto tutt’altro argomento. Voglio dire oggi di un singolare libro di cinema che si sofferma – se non sbaglio, è, probabilmente l’unico al momento esistente – su di un particolare aspetto della tanta celluloide dedicata all’antica Roma. Si occupa, infatti, del modo in cui è stato visto dai registi di ieri e di oggi il mondo del lavoro tra le mura romane d’un tempo. A scriverlo è il socio-antropologo, regista e autore tv Carlo Modesti Pauer. Per saperne di più su di lui cliccate con fiducia QUI. Per conoscere la sua attività cinematografica: CLIC!
Il titolo del volume è: Romani all’opera I negotia nell’immaginario cinematografico, è mandato in libreria dalle Edizioni Quasar. Il volume è ricchissimo di materiale iconografico; si contano, infatti, 266 illustrazioni.
A Carlo Modesti Pauer ho rivolto alcune domande. Puoi, in sintesi, dire come sono visti i mestieri e le professioni nel cinema di genere storico-romano? Il cinema di genere, proprio per questa precisa connotazione estetica, ha rappresentato il lavoro dei romani antichi, nei diversi periodi della sua storia produttiva lungo oltre un secolo, da un lato piegandolo nelle sceneggiature secondo i gusti o le ragioni “ideologiche” del momento, dall’altro adattandosi al budget disponibile, visto che un film in costume di regola prevede la costosissima ricostruzione di set la cui grandiosa spettacolarità è molto importante per il successo al botteghino. Così possiamo ricordare il fabbro protagonista del kolossal “Gli ultimi giorni di Pompei” di Schoedsack (USA,1935) che mette in scena nel passato romano una vicenda umana fortemente influenzata dal tracollo di Wall Street e le sue conseguenze sugli onesti lavoratori americani. Oppure, nello stesso periodo, l’apparizione del lavoro contadino nel film di propaganda fascista “Scipione l’Africano” di Gallone (1937), dove la blanda considerazione (un paio di sequenze) contrasta con la retorica “rurale” che il regime aveva intrapreso. In generale, per lungo tempo, il mondo del lavoro è rimasto sullo sfondo, appunto come“fondale scenografico” alle scene principali. I tentativi di farlo emergere come “protagonista”, per le ragioni che espongo nel libro, sono rari; tra chi ha tentato di sviluppare questo aspetto c’è per primo Stanley Kubrick (“Spartacus”, 1960). Meglio ha fatto la televisione. Fondamentale il serial della BBC I, Claudius di Herbert Wise (1976), molto attento alla vita quotidiana. Recentemente, ed è il miglior risultato di sempre, la serie “Rome” (2005), della rete USA via cavo HBO, costata 120 milioni di euro, ha reso protagonisti un legionario e un centurione di Giulio Cesare che dopo la guerra si danno da fare nella ricerca di un lavoro in una Roma interamente ricostruita a Cinecittà. Grazie alla lunga durata – 12 puntate di 50 minuti l’una - è stato possibile dare ampio spazio ai principali mestieri dell’epoca. Nei film sull’antica Roma qual è lo stereotipo più frequente che accompagna il mondo dei lavori più umili di allora? Anche in questo caso dipende dal periodo e dal luogo di produzione. Ad esempio, nei colossi hollywoodiani del dopoguerra il mondo degli umili, e quindi il loro lavoro, contrasta la decadenza e la corruzione del potere e la visione morale cristiana è dominante. Nei peplum all’italiana del periodo 1958-66, quasi sempre a budget ridottissimi, prevale, non sempre consapevolmente, una retorica vagamente “socialista”. Questi film, un fenomeno tutto nostrano, erano diretti esplicitamente ad un pubblico popolare, quello delle sale nelle borgate delle grandi città e dei cinema di provincia, spettatori antropologicamente e socialmente lontani dal boom economico e dalla “dolce vita”. Sicché talune sceneggiature vagheggiavano, attraverso il muscoloso di turno alla guida di un drappello di “proletari” (quasi un’armata Brancaleone), un possibile riscatto sociale. Chi è, a tuo avviso, il regista che meglio ha interpretato l’antichità romana? Stanley Kubrick. Specialmente se avesse avuto la possibilità del controllo totale dell’opera, cosa che notoriamente non fu (subentrò a film iniziato per sostituire Anthony Mann che ebbe divergenze con la produzione). Tuttavia ne abbiamo la certezza per quello che si vede, dal punto di vista della ricostruzione storica, nel successivo Barry Lyndon (1975). Per una scheda sul libro e titoli dei capitoli: QUI. Carlo Modesti Pauer “Romani all’opera” Pagine 160, Euro 12:90 Edizioni Quasar
Memorie del sottosuolo
Sono un uomo malato… Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Sono queste le parole che aprono uno dei capolavori della letteratura mondiale: Memorie del sottosuolo di Fedor Dostoevski, pubblicato nel 1864. Lo scrittore allora ha 43 anni, è uscito da poco da una serie di vicende drammatiche: la militanza socialista, la condanna a morte commutata all'ultimo momento, la deportazione in Siberia. Il protagonista di quell’opera, ha tratti autobiografici, è un uomo timido, senza risorse e protezioni, che la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora più in basso di lui. Altro aspetto del racconto è lo studio dell’inconscio del protagonista, infatti la nozione di inconscio ebbe anticipatori in campo artistico ai quali lo stesso Freud rese omaggio. Questa novella ne è un esempio per i suoi sorprendenti punti di contatto con la teoria freudiana. Il racconto è anche diventato una pièce teatrale visitato negli anni dagli attori di mezzo mondo. Fra questi, Valentino Orfeo (in foto) che mise in scena quella narrazione una prima volta molti anni fa; lo spettacolo fu poi invitato a rappresentare l’Italia al Festival di Omsk in Russia dove ottenne lusinghiero successo. Ora, in una nuova edizione, lo ripropone a Roma nel suo Teatro dell'Orologio e poi in tournée.
Ha scritto Leone Ginzburg:“Tutta l’opera di Dostoevkij si può ricondurre alla personalità umana, soccombente o vittoriosa, ma sempre idoleggiata con la medesima amorosa trepidazione. Il protagonista del “Sottosuolo” sembra riscoprire lui, in un’esasperata alternativa di impeti sinceri e di smorfie istrioniche, che la volontà è libera, libera anche dal di perseguire il proprio svantaggio e la propria distruzione, che la felicità preordinata e razionale – quella che Dostoevskij aveva preconizzato da giovane sull’esempio di Fourier – è peggio di ogni infelicità, in quanto presuppone che la volontà non sia libera; che il rancore umano contro la finta e meschina razionalità dell’azione utilitaria induce a provare, assaporandola, perfino la voluttà del dolore. Sono confessioni vere e false ad un tempo, : certo, all’abiezione si accompagna di continuo la coscienza dell’abiezione; ma, d’altra parte, autodenigrarsi è un piacere vizioso, che non libera mai interamante dai rimorsi. Per redimere un mondo così squallido, per dare un senso e una nobiltà a una riaffermazione del libero arbitrio che comincia col coonestare delle bassezze, ci vorrebbe una fede; infatti da ogni pagina delle “Memorie del sottosuolo” traspare questa aspirazione inespressa, questa inderogabile seppure inappagata esigenza”. Ufficio stampa Marina Raffanini: 333 4613423 – marina.raffanini@email.it Valentino Orfeo in “Il sottosuolo” di Feodor Dostoevskij Teatro dell’Orologio Via dei Filippini, 17/A – Roma dal 23 ottobre all’8 novembre ‘09 poi in tournée
mercoledì, 21 ottobre 2009
Festival jazz
Nella Sala Anfiteatro dell’Arciliuto di Roma è in corso la prima edizione dell’Arciliuto Jazz Festival. Inaugurato l’11 novembre 1967 dal chitarrista e cantautore Enzo Samaritani che lo dirige insieme con il figlio Giovanni, l’Arciliuto ha deciso d’ospitare una rassegna di vasto respiro che, infatti, durerà fino a metà dicembre. Direttore Artistico del festival è Mario Di Marco (in foto), musicista e compositore. In Rete, conduce un suo sito web.
A lui ho chiesto: qual è la particolarità espressiva che distingue il tuo Festival? La particolarità del festival consiste nella scelta di concerti proposti da musicisti italiani che si occupano di rendere reale la contaminazione tra il linguaggio jazz, inteso come libertà di creazione estemporanea, come concezione di una musica aperta a generi e strutture, e la nostra cultura musicale italiana. Il festival è nato inoltre con l'intenzione di utilizzare uno spazio storico, e molto bello, quello da te prima citato, creando così una nuova opportunità per il jazz e la musica dal vivo a Roma. Arciliuto Jazz Festival Info: 06 – 68 79 419 Cell. +39 333 8568464 Cell. +39 33678934 info@arciliuto.it Fino al 16 dicembre ‘09
martedì, 20 ottobre 2009
Runcini e il Futurismo
Ho conosciuto Romolo Runcini molti anni fa alla Rai, il caso volle che lavorassimo nella stessa Rete. Il suo modo di salutare con cortesia all’antica, l’eleganza del suo dire, perfino l’andatura con passo lento in quei corridoi attraversati da passi frenetici, manifestavano la distanza fra lui e l’ambiente che lo circondava. Eppure, proprio alla Rai aveva vinto un concorso che vedeva tra gli assunti, ad esempio, Umberto Eco e altri nomi di fine intelligenza, ma ora quell’azienda poco gli si confaceva. Non era la Rai che aveva avuto, poco prima dell’assunzione di Runcini, tanto per fare un nome, Carlo Emilio Gadda. Alla metà degli anni '50, pur non essendo un tempo felicissimo, per entrare alla radiotv pubblica non bisognava passare per segreterie di politici inquisiti o per ville sarde. Runcini, un giorno, infatti, più non lo vidi, mi dissero che di sua volontà se n’era andato via.
Qualche sua nota biobibliografica. Sposato con Giuliana Gravina, padre di due figli, ha insegnato Sociologia della letteratura all’Istituto Universitario Orientale di Napoli dal 1972 al 1997 e alla “Sapienza” di Roma dal 1981 al 1983. Vincitore di un concorso nazionale, ha lavorato alla Rai dal 1956 al 1980. Vive e lavora a Roma. Dirige la rivista “Labirinti del Fantastico” e collabora con IF, periodico del quale prossimamente se ne parlerà qui in Cosmotaxi. Tra le sue pubblicazioni: “Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell” (Laterza, 1968), “I cavalieri della paura” (Pellegrini, 1989), “Il sigillo del poeta” (Solfanelli, 1991), “La paura e l’immaginario sociale nella letteratura. I: Il Gothic Romance” (Liguori, 1995), “II: Il Roman du Crime” (Liguori, 2002), “Il fantastico in arte e letteratura dal Realismo al Simbolismo” (Società del Sole, 2006). Ora ha dato alle stampe La parola e il gesto dal futurismo al fascismo, libro prezioso perché rintraccia di quel movimento origini e approdi, luci e ombre. A Romolo Runcini ho chiesto: quale fu il primo bersaglio del Futurismo ? Prima avanguardia artistica e letteraria in Europa, il Futurismo ha avviato nel mondo un discorso di rigenerazione della parola e dell’immagine che ha aperto la via dell’incontro tra Fantasia e Tecnica. In questa direzione l’artista, entrando in contatto con la fenomenologia del processo industriale, ha rotto l’antica prospettiva ideale dell’espressione della parola e dell’immagine legate alla semplice invenzione della fantasia coinvolgendo queste nel duro vortice della nuova produzione industriale. Il primo bersaglio del Futurismo è stata, positivamente, la rottura del vincolo tradizionale con il passato. L’azione successiva ha liberato l’atto creativo dai vecchi ‘’lacci’’ del linguaggio accademico. Il bello nasceva così non più dalla espressione mimetica della realtà ma dallo sconvolgimento della sua stessa struttura formale... ... espressione mimetica della realtà. Ma quale fu la posizione del Futurismo rispetto alla realtà? Del Futurismo è esaltante il senso dell’avventura che avvia una ricerca estetica basata sul movimento. La realtà non è più come in passato ferma nel tempo e nello spazio ma in perenne ossessivo sviluppo. Il Futurismo coglie questa nuova avventura figurativa come una freccia lanciata da un arco. Romolo Runcini “La parola e il gesto dal futurismo al fascismo” Pagine 139, Euro 15:00 Edizioni La Città del Sole
Citofonare: Caos
Il titolo di questa nota può far pensare a un invito a comunicare con l’attuale governo italiano, invece no, non è così. Del resto, ammesso che siate tanto masochisti da voler parlare con quelli lì, è chiaro che si tratta di un’azione inutile, quei signori come tutti quelli che aprono troppo la bocca, hanno chiuse le orecchie. Il Caos cui mi riferisco è il Centro Arti Opificio Siri, luogo del sistema museale e teatrale della città di Terni. Inaugurato di recente, si compone di 6000 mq di spazi nei quali si trovano il Museo d'arte moderna e contemporanea “Aurelio De Felice”, luoghi espositivi per mostre temporanee, il Museo archeologico, la Biblioteca museale, un teatro da 300 posti, un bar bookshop. Tante le sue attività: festival, mostre, concerti, incontri con autori.
La sua più recente impresa è il lancio di un’iniziativa rivolto a chi abbia un’idea da realizzare e cerchi uno spazio – gratuito – dove poterlo fare. Si tratta di un progetto a cura di Indisciplinarte che si svolge negli spazi Caos. L'invito a partecipare è sempre aperto e il 20 di ogni mese vengono valutate le richieste presentate. Per presentare ciò che si ha intenzione di fare, scaricare e compilare il modulo da QUI. E’ preferibile corredare il progetto cui si vuole dar vita con materiali di documentazione che illustrino le necessità operative. Info: +39 0744 285946; +39 0744 221801; info@caos.museum L’Ufficio stampa è a cura di Luca Dentini, stampa@indisciplinarte.it Caos Viale Campofregoso 98 05100 Terni
sabato, 17 ottobre 2009
I Luoghi delle Parole (1)
Dedico questo servizio in tre parti ad un originale Festival letterario nato a Chivasso che ha il merito di tenersi lontano dalla perniciosa abitudine, purtroppo di moda, di rinchiudersi nell’esaltazione di un localismo che assai spesso precipita in un goffo campanilismo. In questo caso, invece, gli ideatori della manifestazione hanno realizzato una formula che attenta a far emergere – e riscoprire – memorie e talenti del territorio, si apre a realtà internazionali. Il Festival si chiama I Luoghi delle Parole – in foto, il logo – e quest’anno è giunto alla sua VI edizione. Anche questa continuità è merito non da poco nel drammatico momento che l’Italia sta vivendo nella comunicazione culturale; in questi recenti tempi, infatti, tante rassegne, mostre, convegni, hanno smesso d’esistere ed altre iniziative non sono riuscite a venire alla luce. Eppure, se intervistate i funzionari delle istituzioni - Ministeri, Regioni, Comuni, Enti pubblici -, vi sentirete rispondere che anzi i festival sono molti e vivono un gran momento anche considerando le difficoltà economiche del nostro paese. Mentono? Parecchi, sì. Altri, in maggioranza – ed è dramma di non poco momento – considerano, ad esempio, importanti panoramiche della nuova scena teatrale (ogni anno in numero sempre più esiguo) alla stessa stregua delle numerose fiere e feste (ogni anno in numero sempre più massiccio): dalla gara delle smorfie a quella della mazzafionda padana, dalla mostra di nuovi scarponi antisdrucciolo alla sfilata di mature majorettes.
I Luoghi delle Parole nel 2009 è stato insignito della medaglia d’onore della Repubblica Italiana a testimonianza della qualità del lavoro svolto in questi anni. Un programma di divulgazione e approfondimento che ha portato nei Comuni coinvolti grandi scrittori italiani e stranieri facendo conoscere il territorio, le sue risorse e dialogare con i suoi abitanti. Il Festival, inoltre, rivolge la sua attenzione anche ai giovani lettori con un articolato progetto didattico diretto alle scuole d’ogni ordine e grado, coinvolgendo oltre cinquemila studenti attraverso incontri con autori, laboratori di scrittura creativa e laboratori di scrittura multimediale, per i più piccoli si praticano letture animate e spettacoli teatrali. Dice lo scrittore Giorgio Vasta, direttore artistico del Festival: “Leggere è un itinerario nel quale ogni parola è un luogo e ogni luogo è un racconto, un modo per compiere il giro del mondo senza staccare gli occhi dalla pagina”. Cliccare QUI per il programma. Per i redattori dei quotidiani e periodici, delle radiotv, del web, l’Uffico Stampa è a cura di Emanuela Bernascone: info@emanuelabernascone.com ; www.emanuelabernascone.com Festival Internazionale di Letteratura “I Luoghi delle Parole” Segreteria: Palazzo Einaudi Lungo Piazza D’Armi 6, Chivasso Info: 011 – 9103591; fax: 011– 9173764 19 - 25 ottobre 2009
I Luoghi delle Parole (2)
Dal 2006 ad oggi, Responsabile Organizzazione Generale e Sistema rete Comuni del Festival Internazionale di Letteratura “I luoghi delle parole “ è Paolo Fasolo. Ideatore e organizzatore di eventi e manifestazioni in àmbito culturale, ha studiato musica jazz e contemporanea. Dal 1999 Fondatore e Presidente dell’Associazione Blu Room, esplica attività educative e formative nell’area della musica moderna. Dal 2003 è Direttore artistico e responsabile dell’organizzazione della rassegna musicale “ESTIVAL – Festival di musica estiva ” che si svolge a Chivasso. Nel 2005, ha dato vita, e ne è l’attuale Presidente, alla Fondazione Novecento.
A Paolo Fasolo, in foto, ho chiesto: come nasce l'idea e quale la storia di questo Festival? Il Festival Internazionale di Letteratura i Luoghi delle Parole, nasce nel 2004 come momento importante di promozione della lettura, con grande attenzione al progetto scuole, che coinvolge fin dalla prima edizione oltre 4000 studenti. Dopo le prime tre edizioni la Fondazione 900 prende in carico il progetto per svilupparlo e ampliarlo. Il progetto della Fondazione di mettere in rete i comuni del territorio porta ad allargare la quinta edizione del Festival ad una rete di nove comuni. I Luoghi delle Parole nascono con una formula che sin da subito ne determina il successo. Ogni anno il festival ospita un Paese straniero, scoprendone la cultura e gli scrittori più interessanti, affronta un tema o un genere letterario specifico e dedica ampio spazio ad un autore importante o da riscoprire. In questi anni Santo Domingo, Israele, Irlanda, Polonia e in questa edizione la Germania, sono stati esplorati dal punto di vista letterario, artistico, culturale, musicale e gastronomico. Oggi la manifestazione si sviluppa in nove comuni, Chivasso, Settimo Torinese, Casalborgone, Castagneto Po, Cavagnolo, Gassino Torinese, San Benigno, San Maurizio Canavese, Volpiano, perché il progetto è di rendere il territorio delle colline del Po un luogo della cultura in grado di collegare spazi preziosi, monumenti, biblioteche, ospitando eventi di grande valore culturale e formativo. La collaborazione e condivisione di visione con Regione, Provincia, Sistema Bibliotecario Metropolitano, enti locali e associazioni del territorio, è la strada seguita per rendere il festival ogni anno più capillare sul territorio, con l'entusiasmo di allargare sempre maggiormente i nostri confini Quest’anno il tema è il Viaggio… Sì, quest'anno il tema è il viaggio, la dedica è a Italo Calvino e avremo l'onore di accogliere ospiti come Alberto Granado compagno di viaggio di Che Guevara, Tito Stagno, Vincenzo Cerami, Ettore Mo, Mario Calabresi, Nicolai Lilin, Enrico Deaglio, Volker Braun, Domenico Scarpa, Christian Frascella, Sandro Rinauro e Stefano Liberti, Mimmo Candito e Mauro Vallinotto e una mostra strepitosa di Fosco Maraini proprio sul tema del viaggio. Gli incontri permetteranno di affrontare i temi trattati scoprendo allo stesso tempo le meraviglie del nostro territorio, che verrà anche quest'anno valorizzato dal progetto “Una cartolina da...” che vede 9 autori impegnati nella descrizione letteraria dei comuni del festival, con racconti inediti che verranno poi presentati in reading musicali nella settimana della manifestazione, per legare ancora maggiormente la manifestazione al territorio e a chi lo abita.
I Luoghi delle Parole (3)
Direttore artistico del Festival è lo scrittore Giorgio Vasta. Nato a Palermo nel 1970, vive e lavora a Torino in campo editoriale. Ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, di prossima pubblicazione in Francia, Germania, Olanda, Spagna, Stati Uniti e Inghilterra), selezionato al Premio Strega 2009 e finalista al Premio Berto, al Premio Dessì e al Premio Dedalus. Ha curato diverse antologie tra le quali, sempre per minimum fax, Anteprima nazionale Nove visioni del nostro futuro invisibile (2009).
A Giorgio Vasta, in foto, ho chiesto: qual è la finalità espressiva di questo Festival e, in particolare, di quest'anno? ”I Luoghi delle Parole” vuole costituire un’occasione per ragionare sul nostro tempo attraverso una prospettiva ben definita. Tale prospettiva è in generale quella suggerita dal nome della manifestazione – dunque la relazione tra luoghi e parole, tra lo spazio fisico nel quale abitiamo o che attraversiamo per raggiungerne un altro e il linguaggio che ci accompagna lungo questo percorso; in particolare, poi, questa prospettiva è quella che ogni anno viene suggerita dai temi specifici della manifestazione. Nel corso di questa edizione, dunque, proporremo una lettura della contemporaneità a partire dal ‘viaggio’ – come fuga e come ricerca, il viaggio come esplorazione e il viaggio drammaticamente attuale che costringe centinaia di migliaia di persone all’emigrazione, il viaggio a piedi, in treno e persino a dorso d’asino, il viaggio come impulso profondamente umano – dalla riflessione sull’opera di Italo Calvino, prendendo spunto dal trentesimo anniversario del suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (un altro modo per articolare il tema del viaggio); infine proveremo a guardare il presente da un luogo, la Germania e la sua cultura, sempre di grandissimo rilievo . Già, parte di quest'edizione del Festival sarà dedicata alla letteratura tedesca. Quali i motivi di questa scelta? Come accennavo la Germania – la sua narrativa, la sua poesia, in generale il suo sguardo sulle cose, sempre intenso, complesso e contrastato – è determinante per la comprensione dei mutamenti nei quali viviamo immersi. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, segnò l’inizio di una serie di metamorfosi politiche e sociali che si irradiarono e ancora si irradiano oltre i confini dell’Europa e del mondo occidentale. A vent’anni di distanza da allora, avere scelto di osservare il modo in cui è cambiata la Germania vuole essere un modo per rendersi conto che “il cielo sopra Berlino” è molto più simile di quello che pensiamo a quello che sta sopra le nostre teste.
venerdì, 16 ottobre 2009
Favole nere
È dedicata alle Dark Tales, le fiabe di paura e i racconti del terrore, la IV edizione di Autunnonero, il Festival Internazionale di Folklore e Cultura Horror, organizzato dall’Associazione Autunnonero con la direzione artistica di Andrea Scibilia e il contributo della Regione Liguria. Una nuova edizione che dopo il successo di quella precedente ispirata alla Twilight Zone, torna con un calendario ricco di eventi, workshop e ospiti internazionali, nei luoghi più suggestivi del Ponente Ligure come il Castello dei Doria di Dolceacqua (IM), Triora il borgo delle streghe, Villa Hanbury a Ventimiglia, Palazzo Oddo ad Albenga (SV) e il Castello d’Albertis a Genova. Moltissimi gli appuntamenti che spaziano da ottobre a dicembre (sul sito Autunnonero l’intero programma): esposizioni, concerti, workshop di fumetto, cinema, convegni, marionette, giocoleria infuocata, e perfino una fiera gastronomica ispirata alla Foresta Nera.
Tirannicamente, scelgo alcuni appuntamenti fra i tanti. Segnalo il concerto dei Leaves’ Eyes, la band gothic-metal guidata da Liv Kristine, che presenterà in anteprima il nuovo album “Njord”. Le sale del Castello dei Doria di Dolceacqua ospiteranno la mostra “Dracula, mito e realtà”, nata dalla collaborazione tra l’Associazione Ordine del Drago e ‘Excalibur’ società milanese che si occupa di organizzazione e gestione di eventi culturali. L’esposizione, già allestita suscitando molto interesse presso l'Accademia d'Ungheria di Roma nel 2002 e poi a Milano nel 2005, propone un lungo e tenebroso viaggio lungo un itinerario che studia il fenomeno del vampirismo con particolare attenzione allo sviluppo storico e mediatico del non-morto più celebre della storia: il Conte Dracula. Il tutto arricchito da testi rari, collezioni preziose, libri, edizioni straniere, fumetti, manifesti cinematografici, illustrazioni, cd-rom, gadget, oggettistica, film, video. Dal 24 ottobre e fino al 13 dicembre, nelle sale appena restaurate di Palazzo Oddo di Albenga, “Favole - Gothic Art Exhibition”, esposizione delle più belle illustrazioni dell’artista gothic spagnola Victoria Frances, e “Fiabe di Neroinchiostro – Comic Art Exhibition”, un percorso attraverso le tavole originali di storie fiabesche dalle tinte dark di Dampyr, Dylan Dog e Brendon della Casa Editrice Sergio Bonelli, media partner dell’evento. Per gli amanti del fumetto, ecco poi una data da segnare sull’agenda: 14 novembre. Al teatro San Carlo di Albenga, “Fiabe di Neroinchiostro” presenterà un grande incontro cui parteciperanno alcuni dei più famosi autori Bonelli. A Triora, il Teatro Alegre presenta lo spettacolo “Marionette in cerca di manipolazione” durante il quale la spagnola Georgina Castro Küstner e l’italiano Damiano Privitera daranno vita alle loro figure con la tecnica del bunraku. L’appuntamento con il fumetto torna il 7-8 novembre con un workshop dedicato allo “Storytelling” – dalla sceneggiatura alla pagina disegnata – e alla colorazione digitale. I docenti della Scuola Internazionale di Comics di Reggio Emilia Matteo Casali (sceneggiatore), Alessandro Vitti (disegnatore) e Fabio D’Auria (colorista) offriranno uno spaccato dei meccanismi di ideazione, scrittura, disegno e colorazione nel processo creativo di una narrazione a fumetti. Chiude la rassegna un cineconcerto con musica sulle immagini del film cult Il Gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene, in programma il 7 dicembre a Cervo (IM) presso l’Oratorio di Santa Caterina. Durante la proiezione, i ‘Supershock’ eseguiranno dal vivo musiche appositamente scritte per interagire con le immagini. Ufficio stampa: Agenzia Freelance sienanews@iol.it Natascia Maesi, 335 – 19 79 414 Eleonora Sassetti, 335 – 19 79 742
Un titolo giusto
I titoli della convegnistica quasi sempre hanno avuto in Italia toni tristanzuoli, ma in questi ultimi tempi, e, credo, il momento politico vi contribuisca, vanno dal tetro al teterrimo sfiorando talvolta il minatorio: “Tre giorni con Giovanni Gentile” (… e già tre ore sarebbero insostenibili),“Tradizione celtica fra Mito e Storia” (… capirai ch’allegria!), “Rileggere la Storia” (…uhm, qui siamo alle minacce). Ma ecco un titolo giusto: La vera novità ha nome Pizzuto, convegno internazionale dedicato a un narratore tra i più grandi del Novecento Italiano: Antonio Pizzuto, in foto . Già, perché in uno scenario italiano in cui si dibatte su quale forma debba assumere il romanzo… ancora?!... in cui si dà spazio a teorie quali quelle proposte dal New Italian Epic, la vera novità ha nome Pizzuto. E’ fra gli ultimi ad avere esplorato le possibilità estreme del linguaggio su cellulosa, dopo viene la scrittura elettronica (quella pensata e agita attraverso l'elettronica, non quella che può essere trascritta dalla pagina stampata al web) che è ai suoi primi passi e annuncia il futuro; su Cosmotaxi, di recente se n’è parlato QUI .
Appartengo alla setta pizzutiana e sono ben lieto di segnalare questo convegno che si terrà al Museo Guttuso e che tra tanti autorevoli nomi vede Gualberto Alvino tra i maggiori studiosi di Pizzuto e vecchio amico di questo sito. Per notizie complete sull’avvenimento: CLIC! Ufficio Stampa: Marina Mancini - Tel/fax: 091 943279, mobile 3470014952 Ufficio.stampa@comune.bagheria.pa.it “La vera novità ha nome Pizzuto” 19 / 21 Ottobre 2009 Info: 091- 94 39 02; 091- 94 39 06 Villa Cattolica – Bagheria
mercoledì, 14 ottobre 2009
Tempo, Spazio e Storia
Dobbiamo alla casa editrice Bruno Mondadori la prima traduzione nella nostra lingua di un’opera di Karl Schlögel. E’ uno dei massimi storici tedeschi. Insegna Storia dell’Europa dell’Est a Francoforte sull’Oder presso l’Europa-Universität Viadrina. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Charles Veillon per la saggistica europea, l’Anna Krüger Preis des Wissenschaftskollegs zu Berlin, il Lessing Preis der Stadt Hamburg e, nel 2009, il prestigioso Leipziger Buchpreis. La sua opera ora nelle nostre librerie è intitolata Leggere il tempo nello spazio. I meriti delle traduzioni vanno a Lisa Scarpa e a Roberta Gado Wiener per la parte intitolata “Il lavoro degli occhi”. Si tratta di un saggio straordinario che legge, e rilegge, la Storia guardandola da un’angolazione particolare, vale a dire dai segni che ha lasciato tra le cose. La storiografia spesso s’affida al Tempo, Schlögel interpreta il tempo attraverso lo spazio. In questo volume “il mondo che ci circonda è letto come un grande, incomparabile libro di storia in cui l’uomo ha tracciato i suoi geroglifici”. Per riferirci ad anni a noi meno lontani, orari ferroviari (si pensi, ad esempio, alla deportazione nazista, raccontata percorrendo gli orari ferroviari dei convogli del Reich), atlanti geografici, elenchi telefonici, agendine, guide di viaggio, selciati, ora visti in un anno ora in un altro, raccontano le variazioni imposte loro non solo da mode e stili, ma spesso da grandi avvenimenti non di rado sanguinosi. Le foto del libro sono eloquenti: quelle cartine topografiche con linee tracciate a mano da militari che avanzano o si ritirano rappresentano una cartografia di sofferenze, i segni di vite spezzate, le rotte di tanti destini. L’immagine della camera di Marcel Proust in rue Hamelin dice più di un saggio sullo scrittore, perché l’evidenza e la disposizione degli oggetti sussurrano svelamenti. Pagine dell’indirizzario di Marlene Dietrich con cancellature, aggiunte, sottolineature, sono speculari anche a tempeste d’acciaio che rombano intorno. E che dire delle piante dei cimiteri di Parigi, Londra o Budapest? Fotografie d’Europa. Il modo, via via modificatosi nel tempo, in cui sono seppelliti i morti illustri e non, i caduti nelle guerre, testimoniano il nostro cambiamento nell'avvertire il sentimento della morte. Carte, luoghi, oggetti, hanno una loro lingua, informano, riferiscono, sono spiate dal passato. Schlögel, attraverso un articolato viaggio fisico e mentale, compone nel libro un mosaico geopolitico ricco di fulminanti intuizioni e dimostrazioni. Ad esempio, il nesso tra guerra e cartografia: “… il ‘braccio di ferro’ ha luogo, ovvero c’è un teatro che ha la sua rilevanza […] l’intero lessico militare è legato al luogo e allo spazio: si parla di punti strategici, terreni, avamposti, fronti, linee di collegamento, postazioni, terrapieni, retrovie…”. E ancora: “I luoghi sono testimoni affidabili. I ricordi sono flessibili, al punto che si possono immaginare e inventare passati. I luoghi, al contrario, non si adattano: sono sempre stati dove sono. Hanno una vita propria. Una specie di diritto di veto. Sono le montagne che continuano a esistere anche quando la fede che le ha spostate è svanita da tempo. Sono le pianure che continuano a esistere anche quando tutta la fatica è stata compiuta. Sono le superfici su cui restano visibili le tracce lasciate da generazioni ormai trascorse”. Karl Schlögel “Leggere il tempo nello spazio” Traduzioni di Lisa Scarpa e di Roberta Gado Wiener Pagine 308, Euro 24:00 Bruno Mondadori
martedì, 13 ottobre 2009
Cane bianco
“Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove”. Questo il biglietto trovato il 2 dicembre 1980 in una stanza d’albergo parigino accanto al cadavere di un uomo suicidatosi con un colpo di pistola alla testa. Quell’uomo era Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew, nato a Vilnius nel 1914, scrittore francese ebreo d’origine russa, combattente nella Resistenza, decorato con la Légion d'honneur, malvisto dalla società letteraria perché considerato un reazionario. La Jean Seberg del tragico foglietto è proprio la famosa attrice americana, ex moglie di Gary - entrambi qui in foto -, considerata da molti un’icona della Nouvelle Vague (celebre la sua interpretazione in “Fino all’ultimo respiro” di Godard), suicida l’8 settembre 1979 ingerendo barbiturici. Strana avventura quella di Gary. Dopo la sua morte si scoprì che, sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, era l'autore di quattro romanzi la cui paternità era stata attribuita a un suo parente, Paul Pavlovitch, il quale aveva sostenuto il ruolo di Ajar di fronte alla stampa e all'opinione pubblica. Si aggiunga che Ajar e Gary non furono i suoi soli pseudonimi; aveva, infatti, anche scritto “Le Teste di Stéphanie”, con il nome di Shatan Bogat e un’allegoria satirica, “L'uomo con la colomba”, firmata Fosco Sinibaldi; è stato l'unico scrittore a ottenere due volte il Premio Goncourt, la prima volta con il suo pseudonimo usuale per “Le radici del cielo” nel 1956; la seconda volta con lo pseudonimo di Émile Ajar, per “La vita davanti a sé” nel 1975. Ora Neri Pozza– già editore delle maggiori opere di Gary – manda in libreria Cane bianco nella scattante traduzione di Riccardo Fedriga Non so se per scelta, il volume non reca in copertina la parola ‘romanzo’. Bene. Giusto. Perché si tratta quasi di un diario (di cui sono riportate nel testo le date d’inizio e fine: 17 febbraio ’68 e settembre ’69), in cui Gary è protagonista di sé stesso accanto alla moglie Jean Seberg impegnata a sostenere le lotte dei negri d’America, tanto da far affermare ad alcuni che fosse stata assassinata dalla Cia a causa del suo appoggio alle Pantere Nere. Il Cane bianco del titolo è un pastore tedesco (sarà chiamato Batka) presentatosi alla porta dello scrittore e che si rivelerà, con lo sgomento di Gary, come un ‘white dog’, una di quelle bestie addestrate nell’America razzista della fine dei ’60 a dare la caccia ai negri. Ne azzannerà, infatti, alquanti durante la narrazione. L’autore, pur partecipe delle ragioni della popolazione negra, non risparmia critiche alla loro lotta militare: “Peccato. State sprecando l’unica possibilità del popolo nero: quella di essere diverso”. Non svelerò qui il finale di questo intrigante, e scomodo, libro verità. Forse è d’obbligo porsi una domanda: Gary fu un reazionario? Nel testo è contenuta questa frase: “L’irrompere di qualunque folla, che sia di destra o di sinistra, mi è odioso. Sono un minoritario per natura”. Conclusione mia su questo libro: non tutti i cani sono razzisti, ma tutti i razzisti sono cani.
Per una scheda sul libro: QUI. Romain Gary Cane bianco Traduzione di Riccardo Fedriga Pagine 240, Euro 12:50 Neri Pozza
Marina Mariani in PP
Tempo fa, Marina Mariani scrisse In campo lungo, oggi voglio a quella dizione - scritta CL nelle sceneggiature -sostituire PP (Primo Piano) per riferirmi a lei e presentare il suo nuovo libro Poesie migranti a passi di lumaca, edito da Quasar. Sì, un PP se lo merita la Mariani perché è una delle voci poetiche più forti che abbiamo in Italia. Se n’accorse per primo Guanda pubblicandola nel 1981, poi nel 1982 Einaudi e critici che vanno da Elio Filippo Accrocca a Dario Bellezza, da Cattaneo a Leonelli, da Berardinelli a La Porta. Più volte ho detto che in questo sito non dedico spazio alla poesia stampata (a quella video sì, purché non si tratti di una o uno che declami davanti alla telecamera, ma siano clips dal linguaggio intercodice), ma la Mariani è un’occasione troppo importante che mi fa (momentaneamente), allontanare da quella decisione (alla quale al termine di questa nota sarò già tornato). Perché sono versi che resteranno nella storia della poesia italiana quelli della Mariani? Innanzitutto una connotazione stilistica. La distinzione di De Saussure fra langue e parole in lei trovano unificazione in una sorta di lanparolegue (lo so, questo mio neologismo non è da premio) cioè l’unione del linguaggio sociale con gli accenti del linguaggio dal contenuto affettivo. La sua è una poesia dalle parole semplici, sempre comprensibili, sempre lancinanti. E poi nella Mariani mai c’è nulla di gridato, né geme il lamento, eppure riesce a sussurrare un dolore che percuote se stessa e il mondo, c’è una disperazione quieta, una sofferenza velata, un tormento senza luci localizzabili come albeggianti o crepuscolari perché avvolge le ore tutte. Viaggio notturno a passo di lumaca, e alla lumaca, si sa, per il suo lento andare la notte sembra non finire mai. Io non cammino dentro / la vita: cammino al suo fianco. / Per questo la posso guardare / ma possederla non posso. Versi giustamente citati per primi in una vibrante introduzione di Gabriella Caramore.
Per visitare il sito in Rete dell’autrice: QUI. Marina Mariani “Poesie migranti” Pagine 60; Euro 10:00 Edizioni Quasar
Non è vero e non ci credo
Chi generosamente legge Cosmotaxi, sa che in queste pagine web sono accolte con piacere le pubblicazioni che trattano il tema dell’ateismo, gli spettacoli, i film, ... a proposito qualcuno sa dirmi dove sono finite le 30 copie del divertente documentario Religiolus già tanto osteggiato alla sua uscita nelle sale italiane? Presento volentieri, quindi, un nuovo bimestrale dal titolo già chiaro: Noncredo. Lo dirige Paolo Bancale che nell’editoriale scrive: Nel nostro paese i non credenti dichiarati dovrebbero essere, dicono alcune statistiche serie, il diciotto per cento, cioè oltre dieci milioni. Per me l’entità del numero è abbastanza irrilevante: quanti essi siano, in un paese ove fortunatamente ogni categoria culturale, professionale, religiosa, sportiva, ludica, ha le sue pubblicazioni, la rivista “Noncredo” nasce per poter dare a tutti i non credenti, quale che sia la motivazione che li fa essere o sentire tali, il loro tollerante veicolo culturale […] sarà la loro rivista con un impegno: che mai verranno infrante da parte nostra le regole voltairiane della convivenza delle idee e del rispetto per le opinioni altrui, quandanche ci fossero ostili. Insomma, il contrario di quanto fanno quotidiani, periodici, radiotelevisioni, siti web ispirati a principii religiosi, specie se monoteisti. Tra i collaboratori noto alcuni amici noti a Cosmotaxi per averli in passato già citati quali Carlo Tamagnone e Raffaele Carcano. Per dare un’occhiata al primo numero di “Noncredo”: QUI.
Restando in tema, segnalo anche il nuovo numero della rivista L'Ateo che da tredici anni conduce le sue lotte.
lunedì, 12 ottobre 2009
Yu Dan e Confucio
Pare che Confucio abbia avuto tremila discepoli, tra i quali settantadue, uomini di particolare saggezza e virtù, gli furono sempre fedelmente vicini. Insomma, gli andò di lusso rispetto a Gesù Cristo che n’ebbe solo dodici e uno gli fece pure un noto sgarbo. Di Confucio (date tradizionali 551 – 479 a. C.), dei suoi seguaci, del confucianesimo s’apprendono molte cose in un libro di scorrevole lettura: La vita felice secondo Confucio Le parole di un saggio per l’uomo di oggi; editore Longanesi. Sgombriamo sùbito il campo da un equivoco, molti ritengono che il confucianesimo sia una religione. Non è così. E’ piuttosto un culto di comportamenti. Tempo fa, in un colloquio con la grande sinologa Renata Pisu, così da lei mi fu detto: L’uomo cinese non ha proprio nessun interesse per la metafisica, per la religione. Questo non significa che non possa essere “spirituale” ma lo è a modo suo, senza credere nell’aldilà, in un Dio creatore, in un inizio e una fine. A Confucio chiesero cosa pensasse della possibilità di una vita dopo la morte e il Saggio rispose: “Ancora non conosco questa vita prima della morte, come volete che possa conoscere quella dopo?”… Quella cinese è una civiltà terranea, pragmatica, che non conosce i due grandi pilastri su cui è costruita la nostra, greco-giudaica-cristiana, e cioè Dio e Legge… Eppure, anche senza Dio e senza Legge, si può costruire la convivenza civile. Studiare la Cina antica per crederci.
La Cina antica, già. Spesso accade che di fronte a testi filosofici orientali, in occidente s’arretri pallidi, quasi fossimo dinanzi alla minaccia di un reading delle poesie di Sandro Bondi recitate dall’autore, invece quella lontana filosofia s’esprime – come accade in Confucio – attraverso concetti semplici, consigli elementari, anche se, per la maggioranza degli umani, difficilissimi da mettere in pratica, come praticare l’onestà, il rispetto, non aspirare a ricchezze e onori. Rende, poi, scorrevole la lettura di “La vita felice secondo Confucio” (un commentario ai famosi Dialoghi) la giovane autrice Yu Dan (laureata in letteratura cinese antica, studiosa di cinema e tv), che, da grande divulgatrice qual è, illumina parti che a noi possono sembrare oscure e, soprattutto, rende attuali molti concetti dimostrando come possano essere utili ancora oggi. Insomma, come tempo fa scrisse Bernardo Valli, “Confucio ritorna d' attualità. Ma con vesti moderne. Adeguate alla società industriale”. Ecco un consiglio per un grande manager o un Ministro delle Finanze (che non sia Tremonti): “Nel XXI secolo “ – scrive Yu Dan – “non è più sufficiente utilizzare il PIL (Prodotto Interno lordo) per verificare le condizioni di vita dei popoli ma si deve guardare anche al FIL (Felicità Interna Lorda)”. Pagina dalla quale il lettore italiano esce depresso perché, è noto, a noi va male il PIL e peggio il FIL. Questo libro – successo strepitoso: 15 milioni di copie vendute all’estero – nasce da una trasmissione tv cinese in molte puntate realizzata da Yu Dan, con sorprendenti numeri di ascoltatori, ispirata al principio che i Dialoghi affermano semplici verità, ciascuno le ha già dentro di sé, ma non sa come esprimerle. Trasmissione cinese che è stata possibile solo ai giorni nostri, poiché con Mao – specie durante la Rivoluzione Culturale - Yu Dan se lo sarebbe sognato un contratto, la sua proposta sarebbe finita un minuto dopo sui tavoli della police, e a quella giovane accademica il gabbio non glielo avrebbe risparmiato nessuno. Giunto all’ultima pagina, mi è venuto un dubbio. I funzionari della tv cinese, e prima di loro i funzionari di Stato addetti alla sorveglianza dei palinsesti, hanno tratto profitto dalla saggezza di Confucio? Da Tien An Men, passando per la persecuzioni dei tibetani, fino alle recenti censure internettiane, qualche perplessità è legittima. Per una scheda sul libro:QUI. Yu Dan “La vita felice secondo Confucio” Traduzione dal cinese di Valentina Potì Pagine 176 , Euro 15:00
domenica, 4 ottobre 2009
The Art of Games
Cosmotaxi Special per “The Art of Games”
Aosta, 23 maggio – 8 novembre 2009
The Art of Games: chi, come, dove, perché
Dedico questo special ad The Art of Game Nuove frontiere tra gioco e bellezza perché penso che questa mostra della durata di oltre 5 mesi – periodo punteggiato da convegni, performances, incontri con autori – sarà ricordata come il primo, ben ragionato, percorso nell’universo videoludico articolato anche nelle sue scansioni estetiche e sociali; costringerà molti critici d’arte a rivedere le loro sussiegose posizioni rispetto ai videogiochi, obbligherà molti frettolosi gazzettieri della carta stampata e delle radio-tv ad essere meno perniciosamente spensierati allorché affrontano quest’arte che ora esploreremo. Ideatori e curatori: Debora Ferrari e Luca Traini. Va ricordato anche l’apporto al progetto dato da Mattias Högvall, giovane game designer svedese che ha lavorato a “Rainbow Six” e a molti altri titoli videoludici, inoltre è presente in mostra con un 3D d’animazione “In Volo, In Valle”, uno short movie – sceneggiatura di Luca Traini – con un personaggio tratto da leggende valdostane. “The Art of Game”, infatti, si salda pure al territorio attraverso sapienti rimandi in un allestimento curato da Wizarp Urban Vision con foto di Stefano Venturini che “… si confronta” – dice di lui Daria Jorioz, dirigente del Servizio Attività Espositive della Regione – “con le nuove potenzialità della fotografia digitale, trae ispirazione dai realizzatori di videogames, ne utilizza gli strumenti. Così se la veduta del castello di Aymavilles si ammanta di un’atmosfera fiabesca, non si discosta dalla realtà, potenziandone piuttosto la valenza estetica”. Mi piace ricordare anche l’appropriata colonna sonora appositamente composta da Massimo Giuntoli che accompagna il visitatore attraverso i vari ambienti. Per maggiori approfondimenti, cliccate QUI. Spesso in Cosmotaxi mi sono occupato di videogames, sarà perché m’intriga quel loro modo di proporre un intercodice tecnologico fra immagine, letteratura, arti visive, cinema, sia quando sono umoristici sia quando sono distopici, sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, con i suoi pixel che lèvati, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago Come definire un videogioco? Secondo Paola Carbone, da me intervistata tempo fa: “Il videogioco può essere inteso come un ‘dispositivo tecnosociale’, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia. Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione… un luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio”. Secondo Matteo Bittanti: “E’ una macchina della felicità. I videogiochi producono endorfine e riducono i livelli di stress, ansia ed irritabilità. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari”. Sta di fatto ch’è un nuovo strumento espressivo che usa e produce interlinguaggio, provoca ed esige interattività, svolge ed accetta scarti, deviazioni, voli; incarna pienamente il modello di opera aperta. Ecco perché quest'operazione del tandem Ferrari - Traini è pionieristica, una vera novità per il nostro Paese, una sfida rinascimentale. Traggo l’aggettivo da una bella mostra organizzata l’anno scorso a Firenze da Mario Gerosa: “Rinascimento Virtuale", sul tema Second Life e altri mondi virtuali. Poiché credo – come già scrissi in quell’occasione – che mai altre epoche come la nostra abbiano precisi paralleli con il Rinascimento di secoli fa. Allora s’ebbero viaggi che scoprirono nuove terre e più accurate cartografie, oggi viaggi nello Spazio, e viaggi dentro il Corpo con la scoperta del Dna e la sua decrittazione; ieri con la stampa a caratteri mobili avanzò un’epoca nuova nella comunicazione, oggi con Internet un’ancora più decisiva svolta nella trasmissione del pensiero tra gli umani; ieri Arte e Scienza non erano separate, oggi dopo molto tempo i due saperi sono tornati insieme. Mentre intorno a noi, avanza il postumano preconizzato dalla filosofia tecnotransumanista di Max More, di Nick Bostrom. Mentre Google e la Nasa investono miliardi di dollari per aprire la Singularity University. Mentre Kevin Warwick studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading. In un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli; in questo scenario nessuna meraviglia dovrebbe cogliere una creatura saggia di fronte alla nascita di un nuovo modo di fare arte. E invece… invece, c’è ancora chi dibatte su quale forma debba assumere il romanzo… c’è chi pitta coi colori sulla tela… c’è chi fa teatro di parola. In molti guardiamo a quelle cose lì così come si può guardare nel XXI secolo un arazzo. Se ne vedono anche di belli, ma con la nostra epoca, le nostre case, le nostre vite, l’arazzo non trova più motivo d’esistere. Eppure, in tantissimi col cervello sulle grucce hanno lo sguardo rivolto all’indietro. Eppure… eppure basterebbe ricordare quello che un giorno disse Marcel Duchamp: “Da quando i generali non muoiono più a cavallo, non vedo perché i pittori dovrebbero morire davanti a un cavalletto”.
The Art of Games: Laurent Viérin
Nato ad Aosta il 7 agosto 1975, laureato in Politiche Amministrative, dopo esperienze prima di Consigliere e poi d’Assessore a Jovençan, Laurent Viérin (in foto) guida l’Assessorato all’Istruzione e alla Cultura della Regione Aosta dal 1° luglio 2008. A lui ho rivolto un paio di domande.
Quali le principali linee espressive cui s'ispira la politica culturale del suo Assessorato? La politica dell’Assessorato, relativamente all’offerta culturale valdostana, si sviluppa essenzialmente secondo due direttrici: da un lato, si vuole garantire la qualità e la scientificità delle iniziative che vengono proposte, dall’altro inserire queste attività in un contesto territoriale, creando consensi e sinergie a difesa della autenticità ed unicità del territorio stesso. Tale azione si esplica in tutte le attività proposte dall’Assessorato, dalla stagione di spettacoli denominata “Saison culturelle” proposta nella stagione invernale, a tutte le attività di animazione culturale estive legate alla valorizzazione dei monumenti, in particolare dei castelli, finalizzate ad incrementare l’offerta di turismo culturale. Rispetto ai beni culturali, infatti, si percorre la volontà di far convergere le attività di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, cercando di garantire la conservazione del patrimonio, attraverso interventi di manutenzione e restauro, ma in un’ottica di valorizzazione e di restituzione del patrimonio al cittadino, primo proprietario dello stesso. Riguardo alle esposizioni temporanee, la politica è da un lato di valorizzare il patrimonio culturale e le collezioni regionali, dall’altro di presentare eventi di largo respiro in un’ottica di modernità culturale e di inserimento delle iniziative in circuiti nazionali ed internazionali. Un’attenzione particolare è destinata ai giovani e alle loro curiosità, anche al di fuori dell’ambito scolastico. Come s’inserisce “The Art of games” nel quadro da lei prima descritto? La scelta di presentare al pubblico “The Art of Games” nasce dalla volontà di promuovere i linguaggi dell’arte e della cultura contemporanea presso un ampio pubblico. Il Centro Saint-Bénin di Aosta è diventato ormai da alcuni anni una sede privilegiata proprio in questo ambito. Così il programma espositivo dell’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta vuole connotarsi per innovazione, varietà e qualità. Se da un lato intendiamo valorizzare il patrimonio storico-artistico locale e internazionale, dall’altro è interessante promuovere iniziative che offrono approfondimenti sull’arte prodotta e fruita dai giovani e sullo sviluppo dei prodotti multimediali nella società attuale. Il concetto di cultura si è notevolmente ampliato negli ultimi anni, mostrando tutta la sua complessità. “The Art of games” evidenzia come la produzione videoludica attuale abbia anche una valenza artistica e culturale.
The Art of Games: Debora Ferrari
Debora Ferrari è giornalista e autrice di testi letterari. Invece di scriverne io la biografia traendola dalle tante note trovate sulla stampa e sul web, e conoscendo la sua scrittura frizzante e birichina le ho chiesto un autoscatto. Ecco la Polaroiid che ho ottenuto: “Poetessa, ma storica e critica d’arte, organizzatrice, ma autrice di pièce teatrali capaci di unire arte_musica_danza_parola. Ho coltivato studi umanistici e d‘arte contemporanea sotto la guida di Luciano Caramel; mi occupo dal 1986 di arte, cultura, letteratura, turismo culturale, collaborando con quotidiani e periodici nazionali e internazionali, case editrici (Skirà, Mazzotta, Nicolini, Lativa, Casagrande, Silvana Editoriale, StampaAlternativa) e organizzando mostre ed eventi. Rigorosa nella storia ma immaginifica nelle storie, a 21 anni ho presentato la mia prima mostra d’arte contemporanea e a 23 ho debuttato come autrice di teatro. Oltre 50 cataloghi e libri curati e più di 60 mostre ideate e realizzate in Italia. Quaranta2 anni, vivo a Aosta, dove provvedo ai destini di una casa librografica d’arte: Musea_TraRari TIPI“. L’eleganza che la contraddistingue ha fatto sì che ha omesso tante sue altre imprese.
A lei (qui in foto) ho chiesto d’illustrare in sintesi la finalità espressiva di “The Art of Games” con la sua proposta di concept art. Nel cuore del progetto di ‘The Art of Games’ si colloca una visione pionieristica sia di promozione dei beni culturali di cui le nostre regioni sono ricche, sia di lettura di opere di concept art che spesso osserviamo inconsapevolmente giocando, cosicché il confronto tra passato-presente e futuro-presente diventa stimolante sia per gli artisti che per i visitatori della mostra. Coinvolgendo un fotografo aostano si è voluto creare una serie di ‘Ispirazioni incrociate’ tale da poter rintracciare il gusto tardogotico, rinascimentale e romantico di molti autori di games presenti in mostra, creata in modo da valorizzare le nuove tecniche a disposizione del fotografo e dell’artista. Le opere esposte si offrono come quadri veri e propri in modo che il loro mondo 'virtuale' entri in quello reale dell'arte contemporanea attraverso le sue forme consuete. Concept art e conceptual art. Quali le differenze? Quando ho riflettuto sul lavoro di pittura con Photoshop fatto da questi artisti di game art di oggi e prima ancora ai programmatori retroludici di ieri, ho subito pensato alla coesistenza temporale dei due processi: negli stessi anni dell’Arte Concettuale l’informatica riusciva a passare al suo stadio pubblico e più popolare; l’una supportando il mondo attraverso la velocità dei suoi codici e linguaggi, l’altra rinunciando alle immagini per sancire la forza del pensiero e dei concetti. Mi interessa vedere che l’evoluzione di entrambe le situazioni ha poi portato verso un ‘manierismo dell’immagine’ che tuttora impera. Ovvero: dai bit, dai linguaggi basici si è passati alle icone, dalla programmazione dei games si è passati a una illustrazione del gameplay. Abbiamo citato molto Castronova nella mostra: questa ‘età della meraviglia’ che attrae tutti ci fa pensare. O stiamo entrando solo in un ‘manierismo videoludico’? Comunque sto ancora scrivendo su queste riflessioni, anche perché i due mondi a confronto svilupperanno novità. Questa è la parte più interessante: tra scienza, tecnologia e arte, come ho scritto in catalogo nel testo “L’applicazione tecnologica nell’era della sua manua(bi)lità artistica”. Come essere a un nuovo punto zero della comunicazione, pronti a ripartire. Ci successe anche nel 1994 quando con la mostra ‘L’immagine luminosa’ di videoart cercavamo proprio di far comprendere al pubblico quanto tornassimo a forme elementari di suggestione attraverso la tecnologia. Nello scenario dei new media, quale ruolo attribuisci ai videogames? Postproduzione: questa è la parola collante nelle arti attuali e in molta arte contemporanea da vent’anni a questa parte (anche se gli esempi storici vanno ovviamente fino a Duchamp). L’arte contemporanea è continua riflessione sul mondo aperto ai massimi confini (cosa che prima non poteva neanche immaginare di permettersi) e gli artisti sfruttano tutti i linguaggi per costruire il proprio messaggio, attingendo e citando e smascherando. I videogames di oggi li vedo come una grande bottega planetaria (proprio come le mostre rinascimentali) dove ogni tutto è portato avanti da una parte (Bretoniano, anche). Nello scenario dei new media è innanzitutto questo fatto a distinguerli: nessuno li comprende completamente finché la casa produttrice non li edita; ciascuno ha il tutto in mente per costruirne una parte; necessitano di continue scale di supervisori che creano le concordanze per l’esito finale; prima di chiudere la scatola la postproduzione non si ferma al produttore (come nel cinema ad esempio) ma deve includere il fruitore. Tra i new media il videogame riesce a inscatolarci prima di raggiungerci. Un’operazione unica (non so se preoccupante o no, per ora mi diverto anche io a scoprirlo), non credi?. Nella sua più nota opera, cui tanto dobbiamo, Huizinga analizzava, a quell'epoca (1939), le figure dell' "homo ludens" e dell' "homo faber". Credi che oggi proprio i videogames abbiano vistosamente unificato quei due profili? Homo faber e homo ludens qui si incontrano sia nel produrre che nel fruire, creando un mondo ambivalente di scambi continui di valori e sensazioni che si moltiplicano esponenzialmente. E’ una situazione molto elastica, tra i due profili, e in rapido mutamento. Adoro trovare qualcosa di aperto e non chiuso! Come critico d’arte ho un obiettivo: trovare quei fotogrammi, quei frames, realizzati da concept artist ancora inconsapevoli del proprio ruolo artistico, che hanno un germe di espressione nuova, sia perché utilizzano applicazioni infinite che usiamo ancora in modo finito, sia perché l’immaginario di questi artisti può portare in quella sesta dimensione un brillìo innovativo. E contagiare anche l’arte ‘tradizionale.
The Art of Games: Luca Traini
Luca Traini (1966) – qui in una foto scattata da André Villers – vive tra Aosta e Varese. Insegnante di Storia e Filosofia, ha scritto una ventina di opere in prosa, in poesia e per il teatro apparse in diverse pubblicazioni (fra queste: “Ottone III”, 1991, “900 vampiri: Bela Lugosi”, 1993, “Fratello Wolfgang, Sorella Mozart“, 2006). Nel 2007 ha pubblicato per "TraRari Tipi" un originale romanzo: "Il Dittico di Aosta". Con alle spalle esperienze in campo cinematografico e televisivo, è stato interprete di cortometraggi-video tratti dai suoi testi: “Resurrezione e morte di Jean-Antoine Watteau”, andato in onda su Rai 2 nel 1997; “Fuoriluogo: poesia all’angolo”, 2003, Premio della Giuria al “Cortisonici FilmFestival 2004”. Ha curato, insieme con Debora Ferrari, ad Aosta, per l’Assessorato alla Cultura regionale, sia l’esposizione sia il catalogo delle mostre: "REFLEXions: dans les chambres de André Villers" (2008), e "The Art of Games" cui Cosmotaxi dedica questo Special.
Tra un bicchiere e l’altro gli ho rivolto alcune domande. Nell’ideare e realizzare Art of Game, qual è la prima cosa che tu e Debora avete pensato era da farsi? Contestualizzare sempre in ambito interdisciplinare e multimediale nello spazio (in questo caso la Valle d'Aosta e i suoi tesori artistici, soprattutto i castelli del gotico internazionale, fonte di ispirazione, diciamo così, "ancestrale" di buona parte dei videogames) e nel tempo (analizzare e rappresentare la complessità dell'oggi frutto di una indagine storica ed estetica al più ampio raggio possibile) Nel catalogo hai indicate tantissime connessioni remote della concept art che figurano anche nell’allestimento della mostra. Troppe per elencarle qui, ma ti chiedo d’illustrare attraverso qualche esempio di lontana memoria il tracciato da te esplorato in modo da chiarire qual è stato il principio storico-critico che ti ha guidato in quel percorso. I piedi che lasciano impronte fossili a Laetoli diventano mani che impugnano chopper come noi il mouse, graffiano rombi su ocra rossa a Blombos e premono sulle pareti della "Cueva de las manos" per cercare di entrare in quello schermo di pietra: natura, tecnologia e arte, per farla in breve, sono già in questi pochi esempi. Il resto è Storia che scaturisce dalla scomposizione delle due parole di VIDEOGAME in 6 dimensioni, rispettivamente Realtà Schermo Computer e Meraviglia Interazione Navigazione, ognuna delle quali "esplosa" in 25 definizioni di mia creazione (il quadrato delle dita di una mano) a più livelli di lettura e sottoposte a un "labor limae" al calor bianco. I filamenti prodotti da queste scansioni di dna storico danno vita a una rete che si propaga globalmente nello spazio e nel tempo fino a lambire il secolo appena passato e gli immediati precursori delle Opere Multimediali Interattive. Il principio speranza che organizza la mia scrittura (e già il "Fedro" di Platone definiva anche la scrittura "un gioco molto bello") amo definirlo "materialismo evocativo". Durante una conversazione su questo sito, Jaime D’Alessandro mi disse che un tempo i personaggi dell’immaginario collettivo giovanile uscivano dai romanzi. Poi dal cinema. Infine dalla tv. Oggi, ventunesimo secolo – concluse – escono dai videogiochi. In virtù di quale meccanismo psicosociale i personaggi dei videogiochi, da SuperMario a Lara Croft ad altri, hanno conquistato uno spazio in quell’immaginario collettivo ponendosi alla pari di personaggi dei fumetti e della letteratura? Le peripezie dell'uomo-benzina figlio delle crisi petrolifere degli anni '70 e della femminista un po' troppo macho nata dalle onde di riflusso di Venere sono figlie dei tempi, come banchiere Arnolfini e consorte nello specchio di Van Eyck o San Giorgio cavaliere e dama nel castello di Fenis. Jaime D'Alessandro ha giustamente sottolineato anche il piacere dell'azione narrativa e dell'interazione (che, tanto per fare una connessione remota, avrà già conosciuto bene studiando la fruizione tradizionale della poesia in ambito islamico). Questi piaceri democratici virtuali ma concreti -e quindi doppiamente vitali- sono stati scandagliati a fondo nel nostro catalogo dal prezioso contributo di Henry Lowwod "I giocatori come artisti". L'interazione cosciente e critica in ambito artistico e non solo sono fondamento e scopo del lavoro mio e di Debora. Contro i videogiochi sono in tanti a muoversi: organizzazioni religiose, giornalisti parrucconi, associazioni di genitori (semmai gli stessi che preferiscono vedere i figli dinanzi ad un decerebrato programma tv o un tg di Emilio Fede). Immagina di rivolgerti ad uno di quei signori. Che cosa gli diresti circa le loro paure per i videogames? Scambiate una parte per il tutto, il topo per l'elefante (che in realtà non ha paura del topo). Più fantasia e meno fantasmi: bisogna vedere "gioco" e "game" (che pare proprio avere la stessa radice di "gemma") per le realtà complesse che sono, cioè, secondo la bella e precisa definizione data dagli amici di A.I.O.M.I. che so stai per presentare: "opere multimediali interattive". Sì, fra poco li presenterò
The Art of Games
Non riesco a capire perché tante persone sono spaventate di fronte alle nuove idee; io, ho paura di quelle vecchie. John Cage
The Art of Games: Matteo Bittanti
L'immagine che vedete è di Daniel Dociu: "Ebonhawk".
Già altre volte in queste pagine web mi sono occupato del lavoro di Matteo Bittanti perché lo ritengo uno dei migliori cervelli applicati ai new media. Tempo fa l’ho avuto anche ospite della mia taverna spaziale e lì, tra un bicchiere e l’altro, s’è svolta una conversazione che ha coinvolto (contro la loro volontà) Einstein e Prigogine e (col loro assenso) Cronenberg e Sun-Woo Jang. Si parlò a lungo di videoludica perché Matteo è tra i primissimi che ha elaborato teorie estetiche sui videogames. N’è testimonianza recente un suo eccellente libro pubblicato da Meltemi: “Schermi interattivi: il cinema nei videogiochi“. Gli ho chiesto di parlare delle affinità, deboli o forti che siano, tra schermo e videogiochi. Le affinità tra cinema e videogames sono più superficiali di quanto si possa credere. Anche se i due media usano gli stessi linguaggi e codici (immagini, parole, suoni), l'esperienza di fruizione di un film è più vicina a quella letteraria. Il videogioco non è un medium narrativo o, meglio, è ‘post-narrativo’: il fruitore di un testo ludico svolge contemporaneamente il ruolo di lettore e scrittore. Il cinema non offre questa ambivalenza. Detto altrimenti: i videogiochi non sono dei racconti "tradizionali" (e per molti non sono nemmeno racconti): essi consentono di simulare delle azioni all'interno di uno spazio virtuale, di navigare ambienti tridimensionali. Il videogame è un insieme di possibilità, un set di problemi da risolvere, un contesto di sperimentazione. Le azioni che si producono all'interno di questo spazio sono a) (potenzialmente) infinite e b) diverse, laddove gli eventi narrati in un film sono a) limitati e b) fissi. Va inoltre precisato che in alcuni videogiochi si verificano fenomeni di ‘gameplay emergente’, ovvero forme di interazione non previste dai progettisti stessi: il giocatore non si limita a seguire "itinerari" predisposti a monte, ma genera forme di gioco impreviste. Un film, per converso, ri-presenta sempre i medesimi eventi nell'ordine predisposto dal creatore del testo. Se non si tiene conto di questa differenza cruciale, si fraintendono alcune caratteristiche 'peculiari' dei due media. Si parla di "scrittura mutante", spesso a sproposito, trattandosi di testi che pur stando sul web potrebbero essere trascritti su pagina stampata senza nulla perdere. Non ti pare che la scrittura mutante, con l'immagine che prevale sulla parola, sia, invece, proprio quella profilata dai videogiochi? Lontana, come noti nel tuo intervento nel catalogo di Art of Game, "dalla 'storia' o, peggio ancora 'trama' " ? Premesso che viviamo in una cultura verbocentrica, ossessionata dalla parola scritta, generalmente tecnofobica ed intimidita a priori dal nuovo, direi che la tua lettura e' perfetta. Vorrei ricordare che "scrivere" non ha un significato univoco. Scrivere codice - il linguaggio macchina/delle macchine - e' una delle possibili forme di scrittura. Ergo, i programmatori sono degli ‘autori’ a tutti gli effetti. Il codice binario e' un alfabeto magico: con due segni, crea interi mondi. E i giocatori sono, in fondo, ‘lettori’. Lettori digitali: i videogiochi sono i romanzi del ventunesimo secolo, dei romanzi che richiedono schermi per essere fruiti - dopo tutto lo schermo, dai blog all'iPhone, da Kindle al New York Times Reader - e' una pagina, solo che invece della carta usiamo un altro materiale: impulsi elettrici, lcd, oled etc. Inoltre, nei videogame, la parola gioca un ruolo fondamentale - e' uno dei linguaggi usati - insieme a musica ed immagini - giocare richiede prassi di scrittura e di lettura. Andrea Lunsford, professore di critica e retorica all'Universita' di Stanford, sta guidando un colossale progetto di ricerca noto come SSW (Stanford Study of Writing). Tra il 2001 e il 2006 ha collezionato quasi quindicimila "esempi di scrittura" dei suo studenti - non solo relazioni e saggi - ma anche post dei blog, twitter, sms, etc. Il risultato e' che lungi dallo scrivere meno o peggio, gli studenti di oggi scrivono e leggono costantemente. le nuove tecnologie hanno rilanciato la parola, anziché sopprimerla. I videogiochi partecipano a questa rivoluzione, non dimentichiamolo. Io sono un forte sostenitore dell'Umanistica Digitale una meta-discilplina accademica che costruisce ponti, non barricate, tra le materie umanistiche tradizionali e l'informatica (computer science). Superiamo le false d icotomie! Non e' una questione di apocalissi o integrazione: e' venuto il momento di sporcarsi le mani, anzi, le dita, con il digitale, in tutte le sue manifestazioni.
The Art of Games
La frase più emozionante, quella che annuncia nuove scoperte, non è “Eureka!”, ma “Questo è divertente!” Isaac Asimov
The Art of Games: Elena Di Raddo
L'immagine è di Thierry Doizon aka Barontieri.
Elena Di Raddo, critica e storica dell’arte, è ricercatrice presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. E’ titolare di corsi di Storia dell’Arte Contemporanea per la Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica di Milano e per lo STARS (Discipline dello spettacolo, della musica e delle arti) di Brescia. Si è interessata soprattutto della pittura del periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, delle ricerche dell’astrattismo europeo, oltre che dell’arte degli anni Sessanta e Settanta. E’ inoltre curatrice indipendente e collabora alla pagina culturale del quotidiano “La Provincia di Como” e alla rivista d’arte contemporanea “Titolo”. Tante le sue pubblicazioni, la più recente, insieme con Cristina Casero: “L’arte impegnata”. I nuovi orizzonti culturali, ideologici, sociali nell’arte italiana degli anni Settanta, Silvana Editore, Milano 2009. A lei ho chiesto: i mondi descritti nei videogames spesso s’ispirano ad un futuro distopico, ad apocalissi sublimi, per citare il titolo del tuo intervento in catalogo. La distopia – lo dico a beneficio di chi non la conoscesse – è l’utopia negativa, presente in classici come Swift, Bellamy, Huxley, Orwell, Zamjatin, fino ad autori a noi più vicini quali Vonnegut, Gibson, Cardigan.Mondi disperati e desertici, usciti da tragedie atomiche o batteriologiche, percorsi da uomini e animali mutanti. Qual è la ragione per cui chi idea e realizza i videogames ha talvolta una tanto pessimistica visione del futuro? Perché mai, proprio una macchina del nostro evo moderno, pensa così male del prossimo futuro? Penso che la paura del futuro sia una realtà che appartiene profondamente all’essere umano, soprattutto a partire dal momento in cui comincia a farsi domande sul proprio ruolo e sul proprio destino nel mondo adulto. Pensando all’età di chi progetta questi giochi, giovani tra i 16 e i 25 anni, credo sia inevitabile associare l’idea del videogioco alla complessità dell’età che stanno vivendo. E’ l’età dei grandi ideali, l’età delle sfide verso gli altri, ma soprattutto verso se stessi, l’età anche degli innamoramenti, dei sentimenti forti. L’età quindi che meglio coincide – per ricordare quanto sostengo nel mio testo – con quanto espresso dalla poetica romantica. La paura verso il futuro si materializza così in scenari di distruzione e cataclisma: situazioni che si prestano a testare l’abilità e la forza d’animo degli uomini. La negatività viene quindi in qualche modo esorcizzata dal singolo, dalla sua capacità di affrontare le situazioni più difficili. Gli scenari di distruzione sono in tal modo funzionali al maggiore coinvolgimento emotivo del giocatore, che viene condotto, epicamente quasi, nella sfida, che è l’essenza stessa del video game.
The Art of Games
Se avessimo saputo che cosa stavamo facendo non l’avremmo chiamata ricerca, giusto? Albert Einstein
The Art of Games: Marco Accordi Rickards
Dopo aver scansato il malintenzionato omino dell’immagine che qui vedete - intitolata “Dwarf Torturer” creata da Nicholas Oroc - mi accingo a questa nuova nota.
Marco Accordi Rickards, nato a Roma il 2 maggio 1974, è un giornalista e critico di videoludica con al suo attivo la collaborazione e la direzione di numerose testate di settore. Fondatore e Presidente di AIOMI, l’Associazione Italiana Opere Multimediali Interattive - Movimento per la Cultura del Videogioco, è dal 2006 direttore culturale di GameCon, dal 2008 organizzatore e chairman dell’IVDC, il congresso nazionale degli sviluppatori di videogiochi, dal 2009 vice presidente e portavoce dell’IGDI, l’associazione dei game developer italiani in Confindustria. A Marco Accordi Rickards ho chiesto: dai lontani “Spacewar” e “Pong” ad oggi qual è stato, a tuo avviso, il principale elemento (ammesso che si possa restringere il campo ad uno solo) che ha connotato l’evoluzione del linguaggio dei videogames? L’Opera Multimediale Interattiva (c.d. Videogioco) è un medium ancora molto giovane e, come tale, è in continua evoluzione, quasi stesse cercando di tracciare i suoi stessi confini mediante esperimenti e processi di “trial & error”. Ma c’è di più. Il Videogioco è anche un mezzo espressivo più di altri legato al suo contenitore tecnologico-informatico, il che non può non comportare un’ulteriore accelerazione del suo tasso evolutivo. Rincorso dall’ombra di una inarrestabile obsolescenza, il Videogioco deve reinventare di continuo le sue forme, i suoi linguaggi, i suoi stessi contenuti. È difficile isolare in vitro un aspetto che più di altri ha informato di sé il medium videoludico a livello di linguaggio ma, dovendo azzardare un’ipotesi, credo possa trattarsi del senso sinestetico di fusione che ha avvolto le differenti componenti espressive attraverso le quali il Videogioco comunica con noi fruitori. Il tutto, non dimentichiamolo mai, reso assolutamente unico da quel quid pluris ineliminabile che si chiama ‘interattività’.
The Art of Games
Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma. Karl Kraus
The Art of Games: Domenico Quaranta
L'immagine che vedete è di Jason Felix: “Transfusion”.
Domenico Quaranta è curatore e critico d’arte contemporanea. Vive e lavora a Brescia, ed è particolarmente attento alla Net Art e ai nuovi media digitali. Tanti i suoi impegni: didattica, curatela di mostre, libri, articoli; tutto questo potete vederlo con un solo CLIC! Estraggo dal catalogo un piccolo assaggio del suo scritto “Arte e videogame. Confini e sconfinamenti”. La “concept art” è, a un tempo, un’arte ‘di servizio’ e un paratesto. Come arte di servizio, rientra nello sviluppo di una serie di strumenti di intrattenimento di massa che probabilmente verranno, in un futuro non troppo lontano, riconosciuti come “forma d’arte”. Svolge la stessa funzione che gli storyboard e le scenografie svolgono per il cinema. Si fonda su criteri di valore e di giudizio interni. Come paratesto, ha parentele con le illustrazioni che arricchiscono la narrativa popolare, dal fantasy alla fantascienza; con l’arte del manifesto cinematografico e con l’immaginario sviluppato per i giochi di ruolo, antecedente diretto di molti videogiochi. E come tutti questi fenomeni dell’iconografia pop, può stimolare un proprio culto, una propria critica, un proprio collezionismo. A tenere la ‘concept art’ lontana dall’arte contemporanea non contribuisce solo il fatto di essere “arte con una funzione”. Molti di questi artisti producono, occasionalmente, lavori fini a se stessi, non vincolati a un particolare videogioco. Per fare un solo esempio, il sito di Jason Felix affianca, al canale ‘concept art’, un canale che lui definisce “fine art” .
The Art of Games
Non esiste un'avanguardia, ci sono soltanto persone parecchio in ritardo. Edgar Varése
The Art of Games: Marianna Santoni
L’immagine che accompagna questa nota è di Jason Chan ed è intitolata Thirdeye.
Non ha un terzo occhio Marianna Santoni, ma i due che ha le bastano per essere riconosciuta come guru del digital imaging. Ad Aosta è stata protagonista – affiancata da Stefano Venturini – di un assai apprezzato workshop dal titolo: “Le applicazioni creative: Photoshop per fotografia, cinema, fine art, animazione”. A Marianna – per saperne di più su di lei, cliccate QUI – ho chiesto: Baudrillard definisce “estasi da Polaroid” quella voglia tutta nostra contemporanea di possedere l’esperienza e la sua oggettivazione. A tuo parere, questo desiderio che assilla l’uomo d’oggi è, oppure non è, all’origine del nuovo consumo delle immagini? Hai proprio ragione, credo si possa dire che è una vera ossessione della contemporaneità. Anche se io penso che la vera ossessione-velleità dell’era moderna - che poi è anche la causa di molte altre ossessioni - sia probabilmente una più generale aspirazione alla creatività... perché la realtà è che tutti, in fondo, aspiriamo ad essere “creativi”. Quindi per me la diffusione così capillare di questa “mania fotografica” a tutti i livelli si può spiegare solo riflettendo anche sulla facilità con la quale la fotografia rende possibile questa velleità, ben al di là del puro desiderio di “fermare un ricordo” o di possedere e oggettivare la realtà. Se sommiamo questa aspirazione al costante stato di fretta e urgenza nel quale viviamo non ci resta che dire che la fotografia, più di ogni altro linguaggio, è così amata e diffusa perché forse in fin dei conti è il mezzo d’espressione più compatibile con tutti questi aspetti, e permette a chiunque di condividere e “esibire” le percezioni e le sensazioni che l’io riceve dalla realtà, nella loro reale immediatezza. In altri linguaggi, come quello letterario, abbiamo dovuto attendere menti rivoluzionarie come quelle di Joyce, Proust e Kawabata per arrivare a tali risultati, nella fotografia invece, “immediata” in quanto tale, si è paradossalmente dovuta attendere la “fantasia” di un team di ingegneri
The Art of Games
Adoro gli esperimenti folli. Li faccio in continuazione. Charles Darwin
The Art of Games: Alessandro Taini
Alessandro TalexiTaini è nato nel 1973 a Genova, dove ha studiato presso la Scuola di Comunicazione Visiva “Byron”, specializzandosi in tecniche d’illustrazione e grafica pubblicitaria. Terminati gli studi si trasferisce a Milano, dedicandosi a lavori come visualizer per agenzie di advertising e a illustrazioni per libri. Va, poi, a Londra dove partecipa come concept artist alla realizzazione del film “Luminal” (2004), vincitore dell’Indipendent Film Festival di Roma e tratto dall’omonimo romanzo di Isabella Santacroce. Con la Santacroce collaborerà nuovamente l’anno successivo, curando le illustrazioni del libro horror “Dark Demonia” (2005), mentre tornerà al cinema nel 2007, ancora come concept artist, per il film “Frost Flower”. Talexi lavora dal 2004 per lo studio inglese Ninja Theory, dove è stato senior concept artist del fortunato videogame “Heavenly Sword”.
A lui, autore dell’immagine qui accanto, ho chiesto: il sociologo Alberto Marinelli sostiene che nei videogames “non ci s’identifica con il personaggio, ma con quello che fa il giocatore attraverso il personaggio”. Insomma, a differenza di quanto avviene sullo schermo cinematografico o tv, il processo sarebbe di attaccamento piuttosto che di identificazione. Tu sei d’accordo con questa affermazione? Se sì, oppure no, perché? Cosi ha risposto. Se devo essere sincero non mi sono mai posto la domanda. Istintivamente darei ragione al sociologo, essendo i personaggi dei videogiochi molto distanti dalla realtà, ma sopratutto esistenti per ciò che fanno e non per chi sono, e' impossibile immedesimarci emozionalmente. Il cinema e' basato sulle emozioni, di conseguenza e' facile per noi riscontrare, in alcune sequenze a cui assistiamo, momenti che ci ricordano un esperienza personale passata. Nel videogioco controlli le azioni del personaggio e le emozioni che si provano sono dettate esclusivamente dall’azione che io ho determinato. Chissà se in un futuro prossimo si riuscirà a giocare con le emozioni come vita reale...
The Art of Games
Cosmotaxi Special per “The Art of Games” Aosta, 23 maggio – 8 novembre 2009 Fine
venerdì, 2 ottobre 2009
Passioni sussurrate
Musicista, performer, architetto, lucano di nascita, napoletano d’adozione, Canio Loguercio è una delle figure che stimo nella scena sonora italiana. Con l’etichetta indipendente Officina ha ideato e realizzato numerosi progetti musicali fra cui - con “il Manifesto” - Kufia-canto per la Palestina, Trasmigrazioni, Prima della pioggia, e Indifferentemente il suo primo disco da solista. Finalista a tre diverse edizioni del Premio Recanati per la canzone d’autore, è stato anche conduttore e regista di programmi sperimentali per Radio Rai, ad esempio, “Audiobox” a cura di Pinotto Fava. Con Miserere (libro/cd/dvd, Edizioni Squilibri) ha collaborato con alcuni dei più rappresentativi autori della nuova scena letteraria contemporanea, fra questi il video-artista Antonello Matarazzo.
Ora, nelle Edizioni d'If è di recente uscito – avvalendosi della copertina e d’interventi grafici dello Studio Guida Napoli –“Passioni”: libro + Cd che raccoglie quindici “canzoni sussurrate” comprendenti anche canzoni del repertorio classico napoletano, in una particolare interpretazione di Canio, con Peppe Servillo e Maria Pia De Vito. E di “particolare” c’è davvero molto nel modo di usare lingua e voce da parte di questo cantautore che si fa cantattore perché nelle sue performances dal vivo non solo cura la parte scenica con minuziosa cura dell’oggettistica e della luministica, ma riesce a proiettare i versi in una prosa ritmica fervorosa e dolente, ironica e amara. Un assaggio d’ascolto potete farlo proprio in questo sito dove anni fa lo invitai a intervenire con uno dei suoi più riusciti brani. Ufficio Stampa: Marialuisa Giordano, 338 – 35 00 177, retropalco@alice.it Canio Loguercio “Passioni” Pagine: 52 con Cd, Euro 15:00 Edizioni d’If
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