Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
lunedì, 28 febbraio 2011
La cucina di Allan Bay
Anche i grandi possono dire delle baggianate, ad esempio, un giorno Socrate disse: “Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?”. Non sappiamo se questo suo dire fu l’ennesima causa dei rimproveri che gli muoveva la collerica moglie sua Santippe; in questo caso, però, mi sento di dare ragione alla signora. Il libro che presento oggi è in argomento. E’ pubblicato da Garzanti nelle preziose Garzantine. Titolo sintetico ma sconfinato per argomento: Cucina. Quella cucina tanto amata da Brillat-Savarin da fargli dire “Il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di tutti i paesi e di tutti i giorni, può associarsi a tutti gli altri piaceri, e resta ultimo a consolarci della loro perdita". Autore di questo volume è Allan Bay. Nato a Milano nel 1949, si è laureato in Economia Politica alla Bocconi con una tesi in Storia economica. Dal 1994 è giornalista nel settore enogastronomico. La cucina è sempre stata la sua grande passione e cucinare è il suo hobby. Dal 1995 scrive sul "Corriere della Sera". Cura la rubrica settimanale dei ristoranti milanesi su "Vivi Milano" e dal 1997 quella di cultura culinaria su "Diario della settimana". Dal 2002 ha una rubrica di personaggi e una di grandi ristoratori su "Viaggi e Sapori". Dal 2003 è professore incaricato di cucina presso l’Università di Pavia. Attrezzi, tecniche, procedure, ingredienti, gli abbinamenti, la tavola e il servizio, storia e tradizioni, i grandi maestri, 3118 lemmi, 106 schede di approfondimento due appendici, 2850 ricette, ecco uno scenario quanto mai ghiotto – mai aggettivo fu più coerente con l’opera qui presentata – di questa smagliante pubblicazione. Qual è il particolare merito di questo volume che pur vede in libreria tanti altri titoli sul tema? Questo lavoro di Bay, si candida ad essere un ever green perché del cibo, dei modi per prepararlo e consumarlo, si fa studio senza riferirsi strettamente all’attualità, ma espone tecniche e sapori, personaggi e cronache, illuminando uno dei territori di cultura materiale dell’umanità. Attraverso le varie “voci” si compie un viaggio originale e rigoroso, osservando un panorama di questioni che ci fanno riflettere sul rapporto tra natura e cultura, soggettivo e oggettivo, etica ed estetica, forma e materia, in pratica uno scenario filosofico. E se vi pare eccessivo accostare la filosofia alla cucina, sono pronto ad offrirvi un’autorevole smentita che viene dal filosofo Nicola Perullo che intervistai tempo fa quando uscì il suo libro “Filosofia della cucina”. A lui chiesi il motivo dell’accostamento fra tanta dottrina e l’alimentazione. Così mi fu risposto: “Questo è avvenuto soprattutto, credo, per il tipo di ricerca che ho svolto: filosofia del linguaggio, estetica, fenomenologia; àmbiti cioè in cui l’esperienza sensibile e quotidiana è studiata e presa molto sul serio. Mi è sembrato quindi un avvicinamento naturale, quello tra gastronomia e filosofia. Negli Stati Uniti, peraltro, i rapporti tra “food and philosophy” sono oggetto di attenzione da qualche tempo; qui da noi, in Italia, invece, è più difficile. La complessità dei problemi del cibo è enorme: il piacere, la fame, la cultura, l’industria, l’artigianato, la natura, la “glocalizzazione”. Bay, in questo massiccio libro, non trascura i cibi di altri paesi, e di ogni sostanza (verdure e carni, pesci e dolci, pane e biscotti) ne analizza tutto l’arco delle proprietà, da quelle chimiche a quelle gustative. Questa Garzantina, insieme con quella di Paolo Della Rosa dedicata al vino forma una coppia di volumi che non può mancare nelle cucine nei ristoranti degni di questo nome e anche in quelle case dove il mangiare non è solo nutrirsi ma pure una cosa felicemente seria. Ecco perché concludo questa nota, ricordando una frase di Oscar Wilde: “Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo”. Per una scheda sul libro: QUI. Allan Bay Cucina Pagine 1264, Euro 45.00 Garzanti
sabato, 26 febbraio 2011
Lettere mai spedite
Ha scritto Kafka: “Scrivere lettere significa denudarsi davanti ai fantasmi che stanno avidamente in agguato. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono mangiati dai fantasmi lungo il tragitto”. Forse questo è ancora più vero per lettere mai spedite. E se, poi, quelle lettere, non inviate, sono state scritte per i propri genitori ecco che quei fantasmi del grande Franz hanno ancora altra cellulosa (dolce o amara che sia) per saziare i loro appetiti. I legami familiari sono la base della formazione dell’individuo. La rabbia, le incomprensioni, le frustrazioni fanno parte della gamma di impulsi con cui ci confrontiamo, fin dalla tenera età, nelle quotidiane dinamiche delle relazioni familiari ma spesso la rielaborazione in età adulta può sembrare inutilmente tardiva. Ognuno pensa che le irrisolte questioni coi genitori siano parte di un percorso personale indicibile e, sovente, non più risanabile. Con queste parole, Alessia Locatelli – critico d’arte contemporanea – presenta le ragioni di un originale progetto dell’artista Alessia De Montis intitolato Cara mamma, caro papà e che si avvarrà di quanti vorranno inviarle una missiva pensata per i propri genitori. Ecco come in pratica si svolge quest’azione postale e come approderà a un’installazione alquanto ventosa; passo la parola ad Alessia: Il mio progetto ha come principale obiettivo la raccolta di almeno 999 lettere mai spedite, da inserire nell'installazione "Cara Mamma e caro Papà...". Le lettere, delle quali non saranno resi pubblici i nomi degli autori e delle autrici, diverranno (in copia anonima) il contenuto permanente dell'opera site specific, la "stanza del vento". Una grande struttura in vetro accoglierà, infatti, le lettere che mi invierete e che curerò di disporre dopo averle stampate ed accartocciate. La “stanza del vento” sarà così custode dei pensieri su carta di tutti noi: ogni copia sarà perciò rigorosamente anonima e nelle sembianze di messaggio mancato, stropicciato. All’interno della “stanza” verrà montato un grosso ventilatore. La pavimentazione sarà coperta di sale, testimonianza solidificata e tangibile di tutte le nostre lacrime versate. L’aria generata dal ventilatore creerà un turbine di lettere volanti che travolgeranno il visitatore nel momento in cui avrà varcato la soglia della stanza. Prima di uscire potrete afferrare e portare via una lettera (solamente una, preferita alle altre) da conservare al contempo come frammento originale dell’opera e frammento della storia familiare di legame così esclusivo raccontato da mille penne e così tante voci. Cliccare QUI per visitare il sito appositamente predisposto per “Cara mamma, Caro papà”.
Poesia Epigenetica
Nel corso della rassegna “Il corpo elettrico della parola” a cura di Marco Palladini si è avuta una performance di Giovanni Fontana (in foto) che ha presentato alcune delle sue più recenti produzioni ispirate ad una poesia epigenetica come chiama le sue creazioni. Il termine “epigenetica”, viene attribuito a Conrad Waddington (1905-1975) che così definì "la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo", cioè l’effettiva, totale manifestazione fisica di un organismo. Giovanni Fontana – tempo fa ospite proprio di questo sito – oltre ad essere un artista è un maiuscolo teorico delle forme espressive multimediali. Ecco come definisce la poesia epigenetica. E’ necessario ricercare in ambito performativo intermediale nuovi rapporti con le forme del testo, con l'intenzione di costruire una poesia che sia multidimensionale e pluridirezionale, multivalente e pluripotenziale, policentrica e multilaterale, poliritmica e multisonante, che non sia ripiegata su se stessa e sappia decisamente analizzare i territori più disparati, purché la contaminazione dei sistemi sia portatrice di germi antagonisti e la compenetrazione degli universi separati sia sorda alle sirene della multimedialità istituzionale invischiata nella melassa televisiva o sorretta esclusivamente dalla logica del mercato. Il poeta si trasforma, allora, in poliartista: egli si appropria delle pratiche elettroniche, videografiche, del cinema, della fotografia, dell’universo sonoro (oltre la musica), della dimensione teatrale (oltre il teatro), dell’universo ritmico. Agisce poieticamente utilizzando tutte le tecniche, tutti i supporti, tutti gli spazi, senza rinunciare a ricondurre all’àmbito creativo il suo stesso corpo, quindi il suo gesto e la sua voce: elementi che, collegati alle nuove tecnologie, alimentati dal sostrato energetico dell’elettronica, costituiscono il fondamento di un nuovo atteggiamento poetico. Il poliartista è, dunque, l’artefice e l’attore di una “iperpoesia”. Le odierne tecnologie consentono di evidenziare i suoni impercettibili del corpo, di amplificare il flatus più recondito, di generare nuovi universi vocali attraverso l’utilizzazione di software sempre più complessi, che realizzano il totale sconvolgimento dei diagrammi acustici iniziali. Si è passati, quindi, dall’ingenua onomatopea marinettiana ad una hypervox digitalizzata, che apre al linguaggio ampi orizzonti acustici, lontanissimi da qualsiasi arcaico effetto mimetico. Si può parlare, allora, di maschera elettrofonica e numerica dietro la quale il suono viene articolato come uno degli aspetti fondamentali del linguaggio per quella che si profila come una vera e propria forma iperpoetica: la poesia epigenetica.
Ingresso Pericoloso
La Galleria Ingresso Pericoloso di Roma annuncia la mostra Il Terzo Inverno Brevi racconti sul naufragio. E’ la terza personale del trentaquatrenne artista romano Zaelia Bishop e terza tappa espositiva del progetto “Diari dal Dedalo”.
In foto: Zaelia Bishop – “Portraits After Great Pain” (2010); collage e assemblaggio su fotoritratto d’epoca cm 30x35 La mostra è a cura di Francesco Paolo Del Re – una delle voci emergenti della critica d’arte italiana più attenta al nuovo – che così scrive in catalogo: Il cuore è uno specchio ustorio; a volte noi siamo il fuoco dell’altrui specchio e altre volte per alcuni siamo la superficie riflettente. È, questa, una delle verità smarrite nell’eterna stagione di crudeltà che è la fanciullezza, secondo Zaelia Bishop (Roma, 1977). I temi che permeano tutto il corpo del lavoro di Zaelia Bihop sono il passaggio inesorabile del tempo, che preserva disseminando e poi logora, e il senso della perdita irrimediabile a esso connesso. Quindi il dolore, la morte, la preparazione e l’elaborazione del lutto di chi sa di andare perdendo, ogni istante, una parte della propria memoria. Le opere dell’artista sono “assemblage” materici di grande fascino e potere evocativo. La mostra si dispiega nello spazio della galleria con interventi installativi che legano le singole opere in una “wunderkammer” abitabile. Zaelia Bishop “Il Terzo Inverno” Galleria Ingresso Pericoloso Via Capo d’Africa 46, Roma tel/fax: +39 06 45496564 email: posta@ingressopericoloso.com Orari: dal lunedi al venerdi dalle 15.30 alle 19.30 Fino al 14 aprile 2011
Monet e Gide
Di Antonio Castronuovo da tempo conosco i raffinati gusti letterari e in Cosmotaxi ne trovate ampi riferimenti, ad esempio, QUI. Ora con le Edizioni Via del Vento (in foto il logo) ci offre altre pubblicazioni da lui commentate. Due testi di Claude Monet qui raccolti sotto il titolo di All’aria aperta e un tandem di racconti di André Gide: Storia di Pierrette e Il racconto di Michel con il primo a dare nome al librino. Del pittore parigino (dalla cui opera nacque il termine ‘impressionismo’ datogli però in modo canzonatorio da un critico), il primo testo è uno squarcio autobiografico, seguito da un secondo composto di stralci da “Lettere e confidenze”. Giusto preferire il titolo “All’aria aperta” perché Se c’è qualcosa che emerge – come scrive Castronuovo – dai residui documenti è proprio il suo amore del “plein air”, il rifiuto della “vita di atelier”. Da ciò deriva l’assenza in lui di ogni posa intellettualistica e di una definita teoria. I due racconti di Gide (entrambi finora inediti in Italia), sono abbozzi da cui lo scrittore francese intendeva trarre brevi opere compiute. Storia di due ossessioni, più articolata la prima che dà titolo alla pubblicazione. Gide aveva cominciato a constatare in Pierrette Adam, la donna delle pulizie, l’evoluzione di una mania persecutoria – ancora Castronuovo – Il racconto di un’ossessione diventa dunque, oltre a un buon abbozzo narrativo, la cronaca di un’esperienza che l’autore visse tra le pareti domestiche. André Gide Storia di Pierrette Pagine 36, Euro 4.00 Claude Monet All’aria aperta Pagine 36, Euro 4.00 A cura di Antonio Castronuovo Edizioni Via del Vento
giovedì, 24 febbraio 2011
Gli artifici della non-fiction
Il libro reca in epigrafe parole di una grande scrittrice qual è Elsa Morante: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura”. Francamente mi è più vicino quanto dice Giorgio Manganelli: “La prima qualità di uno scrittore è quella di essere inutile”. Superato quell’inizio, da me distante, la lettura di Gli artifici della non-fiction la messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi di Stefania Ricciardi si è rivelata di grande qualità perché la Ricciardi saggista di qualità è. Dottore in Études italiennes e traduttrice letteraria, ha svolto attività didattiche e di ricerca all’Università di Bordeaux 3 e all’Istituto Superiore di Traduttori e interpreti di Bruxelles. Attualmente è Research Fellow alla Katholieke Universiteit di Lovanio. Il libro è pubblicato da Transeuropa. Si tratta di un’analisi – finora la migliore da me letta – della cosiddetta “non-fiction” che, come tutte le dizioni che partono con una negazione corrono il rischio di restare tali. Tentativi di far risorgere il romanzo da ceneri che da tempo (per esempio, dagli “Esercizi di stile” di Queneau) lo seppelliscono? Respirazioni bocca a bocca degli uffici stampa con autori in pericolo di vita letteraria? E se, invece, fossero segnali di un nuovo modo di fare letteratura? L’autrice nel suo libro ci guida sapientemente con un’intelligente analisi di ciò che sta accadendo e fornisce critiche e ragioni su artefici e artifici della non fiction. A Stefania Ricciardi ho chiesto una sintetica definizione di questa dizione. Per “non-fiction” s’intende convenzionalmente quel tipo di narrativa non inventata (memorie, diario, reportage, saggio) caratterizzata da un elevato tasso di leggibilità. Io andrei oltre questa definizione, perché una componente finzionale esiste comunque. Il fatto che risieda nelle strategie narrative anziché nel “plot”, o nell’invenzione di personaggi, non autorizza a negarla. Parlerei piuttosto di “messa in racconto” della cronaca, della realtà documentale. Fai una puntuale analisi della non-fiction in Italia degli anni ’80, ti chiedo di tracciare una differenza fra quel genere praticato allora e quello di adesso… Strutturalmente, a partire dagli anni ’80 si registra uno slittamento dal riferire al raccontare. La società attuale rincorre il “racconto” del fatto più che la “conoscenza” del fatto, di cui è indecentemente satura. In tal senso, rispetto al dopoguerra e fino agli anni ’70 la differenza è enorme: se allora bisognava informare (perché non c’era la televisione) e denunciare, oggi l’imperativo è narrativizzare, cioè tradurre il documento in racconto. È il trionfo dello “storytelling”, fenomeno che dalla politica si è esteso all’imprenditoria e alla pubblicità. Non a caso, quest’arte di fabbricare storie è nata proprio negli anni ’80, nell’America di Reagan. Riguardo al contenuto, dalla scoperta del Paese (del Sud in particolare) e dall’inchiesta sociale (anni ’60-’70) si è passati al racconto del Paese, passato e presente: dagli eventi di rilievo alla cronaca spicciola, cioè quei fatti in apparenza privi di interesse giornalistico, ma che invece offrono un prezioso monitoraggio della realtà. Negli ultimi anni, un dato allarmante è costituito dallo sfruttamento della cronaca, nera in particolare, a livello letterario e mediatico, vuoi per cavalcare l’onda Saviano, vuoi per coprire l’informazione politica o gli scandali delle lobby di potere. Sul delitto di Cogne si contano ben sedici puntate di ‘Porta a porta’, dal 2002 al 2004, un biennio segnato da scandali importanti, come il crac Parmalat di Tanzi, la frode fiscale di Telecom via Bell. Paradossalmente, si ricorre alla realtà (vedi anche il Grande Fratello o i reality show) per distogliere dalla Realtà. Noto nel volume una ragionata presa di distanza dalla ‘New Italian Epic’, da me (anche se con accenti diversi dai tuoi) ampiamente condivisa. Puoi qui darcene in breve una motivazione? Innanzi tutto, l’idea della “nuova epica italiana” come campione rappresentativo della narrativa italiana dal 1993 mi sembra azzardata. Direi che questa tendenza rientra in un fenomeno più vasto e complesso, che ingloba anche “non-fiction” e “auto fiction”: l’imperioso ritorno alla realtà. Penso ad autori come Trevisan, Calaciura, Mari, Covacich, Albinati, Franchini, Veronesi, Tuena, Siti, che tra il 1993 e il 2008 hanno prodotto opere significative ma totalmente estranee alla NIE. Non condivido, inoltre, l’immagine restrittiva e caricaturale del postmoderno, inteso unicamente in chiave estetica. Va tuttavia dato atto a Wu Ming 1 di aver sollevato un dibattito di grande importanza sul piano teorico, e non è poco. Hai scelto per le tue tesi critiche tre autori: Albinati, Franchini, Veronesi. Perché? Il fattore generazionale è stato importante. Ma la ragione principale è che “Maggio selvaggio”, “L’abusivo” e “Occhio per occhio” rappresentano tre modalità narrative diverse di una scrittura ibrida che regge benissimo il confronto con il romanzo. L’ideale, dunque, per mostrare che anche lo scabro dato documentale, se resettato con maestria stilistica, può diventare letteratura. Stefania Ricciardi Gli artifici della non-fiction Prefazione di Mario Barenghi Pagine 245, Euro 19.90 Edizioni Transeuropa
martedì, 22 febbraio 2011
Salvare il prossimo decennio
La Casa Editrice Garzanti ha stampato un nuovo libro di Roberto Vacca. Titolo: Salvare il prossimo decennio, illuminante il sottotitolo Pericoli immaginari e rischi reali, vecchie paure e complessità. Roberto Vacca (Roma, 1927), ingegnere, già docente alla facoltà di Ingegneria di Roma e dirigente industriale, consulente nel campo dell'ingegneria dei sistemi (trasporti, energia, comunicazioni), ha realizzato programmi tv di divulgazione scientifica e tecnologica. E' autore di trenta fra saggi e romanzi a cominciare da “Il Robot e il Minotauro” (Rizzoli, 1963). Il suo “Medioevo prossimo venturo” è stato tradotto in molte lingue e anche in un paese ad altissimo sviluppo tecnologico qual è il Giappone. Con Garzanti ha pubblicato Anche tu matematico (prima edizione 1989, edizione ampliata 2008), che da vent'anni è continuamente ristampato; Anche tu fisico (2008), che mira a spiegare come funziona e come cambia il mondo intorno a noi; Patatrac! (2009), che analizza la crisi di questi anni e prova a indicare qualche via d'uscita. Qual è il principale merito del pensiero di Vacca che in questo volume è proiettato in 3D? Quello di smontare le tante paure che, complici la sciatteria dei media, attanagliano moltissimi e quello di raffreddare i troppo facili entusiasmi dei più fantasiosi futurologi. Il metodo che usa e che consiglia a tutti, anche in questo libro, di usare: andare alle fonti delle notizie, verificarle, non credere al primo esperto che si dice tale. Quest’ultima cosa la suggerisce soprattutto alle aziende che non dovrebbero “affidare questioni cruciali a incompetenti e sfruttatori”.perché “continua ad aumentare la complessità dei grandi sistemi tecnologici e ne crescono le dimensioni. Ciascuno interagisce con gli altri: energia, trasporti, comunicazioni, finanza. Alcuni processi lenti hanno effetti positivi. Altri subitanei, portano degrado e distruzione di ricchezza”, tenendo ben presente che è, e sarà, decisivo ai fini di un autentico progresso non far crescere il divario fra i redditi dei ricchi e quelli dei poveri”. Particolarmente severo è il giudizio di quanto accade in Italia, dove manchiamo di analisi delle prospettive, usiamo male gli strumenti informatici, si va diffondendo una cultura della specializzazione (peraltro tutta da verificare che sia tale) a danno di una visione olistica della cultura. Già anni fa, Vacca, in un’intervista, affermava: … da noi si identifica spesso la cultura con spettacoli-più-musei. Cultura significa, invece, conoscenza del mondo fisico e dei traguardi raggiunti dal pensiero umano in scienze, arti, tecniche, storia, organizzazione, capacità di apprendere usando linguaggi umani e informatici e di usare procedure logiche, matematiche, letterarie. Chi non legge e sa poco, non riesce nemmeno a svolgere i compiti elementari necessari a funzionare nella società moderna. Riesce ancor meno a usare strumenti telematici. Certo: dovremmo addestrare i giovani ad acquisire abilità e strumenti avanzati. Però non dovremmo accontentarci di raggiungere traguardi troppo facili che, in effetti, sono illusori. Perché ci accede questo? Perché, com’è detto in “Salvare il prossimo decennio”: … una disgrazia che ha colpito l’Italia ben più gravemente di quanto sia accaduto in altri paesi è la diffusione dell’idealismo tendenza rappresentata da due filosofi famosi (da noi – non nel resto del mondo): Giovanni Gentile (membro del Gran Consiglio del fascismo) e Benedetto Croce (liberale). L’impatto sulla cultura italiana è stato deleterio. E il futuro? In un’intervista rilasciata al Cicap, Vacca ha detto: Wells nella Macchina del Tempo prefigurava un mondo futuro di Eloi (esseri umani belli, eterei e un po' sciocchi) che vivevano in superficie e Morlock (brutti, cattivi, cavernicoli). Diventeremo così? Nessuno può dirlo, ma certo il genere umano è composto in gran parte di ignorantoni. La cosa grave è che chi capisce qualcosa fa troppo poco per diffondere conoscenza e fare in modo che altri gli somiglino. Facciamolo (io lo faccio da tempo). Questo suo più recente libro lo dimostra. Sito web dell’autore: QUI Per una scheda sul libro: CLIC! Roberto Vacca Salvare il prossimo decennio Pagine 224, Euro 18.60 Garzanti
L'energia del vuoto
La Casa Editrice Guanda ha pubblicato un appassionante libro dal titolo L’energia del vuoto, ne è autore Bruno Arpaia. E’ nato nel 1957 a Ottaviano, in provincia di Napoli. Giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana, ha pubblicato “I forestieri” (Leonardo); Il futuro in punta di piedi; Tempo perso (Premio Hammet Italia 1997); L'angelo della storia (Premio Selezione Campiello 2001, Premio Alassio Centolibri - Un autore per l’Europa); Il passato davanti a noi (Premio Napoli e Premio Letterario Giovanni Comisso 2006); Per una sinistra reazionaria;Raccontare, resistere, una sua conversazione con lo scrittore cileno Luis Sepùlveda. L’energia del vuoto, oltre ai meriti di una scrittura tesa, vertiginosa, senza pause che corre impegnata su di un tracciato di suspense, ha anche il merito di un’originale, e attuale, ambientazione. La storia, infatti, si svolge tra i fisici che lavorano all’Lhc – Large Hadron Collider – il più potente acceleratore di particelle mai costruito al mondo. Questo thriller, insomma, sono certo che appassionerà più di un lettore alla Fisica contemporanea incuriosendolo sui traguardi ambiziosi che questa scienza si propone, spingendolo a saperne di più, svolgendo così un’importante funzione culturale: la conoscenza della complessità del nostro tempo. Una conoscenza che ha ricadute sulla società comportando la necessità d’apprendere la pluralità e lo scambio dei saperi. A Bruno Arpaia ho rivolto alcune domande. Quali sono le ragioni che ti hanno spinto ad ambientare la storia nella comunità scientifica dei fisici? Dopo aver finito il mio precedente libro, “Il passato davanti a noi”, mi sono pian piano reso conto che la mia vera ossessione, quella che mi teneva sveglio la notte, quella che ti deve colpire se vuoi davvero scrivere un romanzo, era diventata la fisica. Forse perché la fisica contemporanea, al di là dei suoi tecnicismi, è tornata a porsi le domande fondamentali, quelle che si ponevano già i presocratici e che assillano noi oggi: che cosa siamo, da dove veniamo, cosa sono davvero la materia, lo spazio, il tempo? Del resto, oggi la scienza, esattamente come l’arte, usa molta immaginazione, si occupa sia di verità sia di bellezza, è più incerta, indeterminata: più misteriosa. Mi è sembrato, inoltre, che la comunità dei fisici che lavorano all’Lhc fosse una prefigurazione di quello che, con molta fortuna, potremmo diventare: una comunità colta, cosmopolita, in cui il merito conta più che nelle nostre società attuali e in cui una donna può diventare la responsabile di uno degli esperimenti più arditi mai tentati dall’umanità. Come ti rapporti con il genere del ‘giallo’? Il noir ha avuto una grande importanza in tempi in cui la letteratura ”mainstream” sembrava occuparsi solo del proprio ombelico. Più o meno a partire dagli anni Ottanta, il noir ha scavato nelle pieghe più oscure della società, ha percorso i sentieri dei conflitti sociali ancora aperti, delle problematiche convivenze etniche, delle insicurezze metropolitane. E ce n’era davvero bisogno. Adesso mi pare che la sua “spinta propulsiva” si sia un po’ esaurita, che sia un po’ inflazionato. Ma la mia scelta di scrivere in qualche modo un thriller è legata ad altro: prima di tutto alla necessità di “catturare” il lettore per farlo addentrare più facilmente nelle difficoltà e nei misteri della fisica contemporanea, e poi alla volontà di dare al libro un’architettura che fosse coerente con le teorie sul Tempo che vengono discusse nel romanzo. La suspense è data da una serie di “quadri” che non sono necessariamente in ordine linearmente cronologico: ogni lettore li può leggere secondo il suo “tempo proprio”. Il che è un modo per cercare di fare esperienza del tempo einsteiniano, un’esperienza che nel mondo reale ci è quasi del tutto vietata. Come giudichi il panorama della narrativa italiana oggi? Quale la sua forza (se esiste)? Quali le sue debolezze (se ci sono)? Nonostante noi italiani siamo specialisti nell’ “autolamentazione”, direi invece che la letteratura italiana gode oggi di ottima salute: la qualità media è elevata, i temi affrontati sono rilevanti e appassionanti, molti scrittori continuano a cercare nuove strade. Del resto, basta vedere i cataloghi degli editori stranieri: siamo in tantissimi, ormai, a essere tradotti in tutto il mondo. Dieci, quindici anni fa gli unici italiani tradotti erano Eco e Calvino. Per una scheda sul libro: CLIC! Bruno Arpaia L’energia del vuoto Pagine 266, Euro 16.50 Guanda
venerdì, 18 febbraio 2011
Talenti Emergenti 2011
Dopo il successo della trascorsa edizione, il CCCS - Centro di Cultura Contemporanea Strozzina - Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, presenta il secondo allestimento di Talenti Emergenti: un premio e una mostra per offrire a giovani artisti italiani l’opportunità di promuovere il loro lavoro, per fornire a pubblico e critica la possibilità di monitorare il panorama artistico contemporaneo italiano. Il vincitore sarà annunciato nel corso dell’inaugurazione della mostra, oggi venerdì 18 febbraio 2011, e riceverà in premio il finanziamento della Fondazione Palazzo Strozzi per una monografia dedicata al suo lavoro, pubblicata in un catalogo bilingue (italiano – inglese) da Silvana Editoriale.
Le opere di tutti i 16 candidati verranno esposte negli spazi della Strozzina, fornendo l’occasione per il pubblico di conoscere nuove ricerche e tendenze dell’arte contemporanea italiana. La selezione dei partecipanti che, secondo il regolamento dell’iniziativa, devono essere italiani e con un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, è stata affidata a un comitato scientifico composto da Luca Massimo Barbero (direttore del MACRO di Roma), Chiara Bertola (direttore dell’HangarBicocca di Milano), Andrea Bruciati (direttore della Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Monfalcone) e Giacinto Di Pietrantonio (direttore della GAMEC di Bergamo), ognuno dei quali ha selezionato quattro artisti. Barbero: Alessandro Ceresoli. Valentino Diego, Giovanni Ozzola, Antonio Rovaldi. Bertola: Ludovica Carbotta, Loredana Di Lillo, Invernomuto, Margherita Moscardini. Bruciati: Giorgio Andreotta Calò, Riccardo Benassi, Luca Francesconi, Alberto Tadiello. Di Pietrantonio: Meris Angioletti, Rossana Buremi, Patrizio Di Massimo, Luigi Presicce. Il vincitore di Talenti Emergenti 2011 è stato individuato da una giuria internazionale composta da Achim Borchardt-Hume (Whitechapel Gallery, Londra), Kelly Gordon (Hirshhorn Museum, Smithsonian Institution, Washington D.C.) e Adam Szymczyk (direttore della Kunsthalle Basel). Dice Franziska Nori, direttore della Strozzina: Il CCCS, coerentemente con la sua politica, vuole essere un punto di riferimento per lo stato dell’arte italiano e internazionale, non solo organizzando mostre ed eventi, quanto promuovendo il lavoro di giovani artisti. In quest’ottica s’inserisce il premio biennale “Talenti Emergenti”. In un panorama artistico così ricco di riconoscimenti, “Talenti Emergenti” si distingue per la sua formula innovativa che garantisce serietà e qualità della scelta, attraverso una doppia selezione fatta, in prima battuta, da una giuria italiana, e in seguito da una internazionale, coinvolgendo personalità di primo piano del panorama artistico europeo e mondiale. La novità di quest’anno risiede nella possibilità che verrà data al premiato di poter pubblicare una propria monografia, che permetterà al pubblico e alla critica di conoscere e apprezzare la sua ricerca. Talenti Emergenti 2011 Firenze, CCCS Centro di Cultura Contemporanea Strozzina Palazzo Strozzi Dal 19 febbraio al 1° maggio 2011
giovedì, 17 febbraio 2011
Morte e resurrezione dei giornali
La Casa Editrice Garzanti ha mandato in libreria un volume che riflette su di un problema di grandissima attualità: il giornalismo oggi tra carta stampata e web in un momento in cui la libertà d’informazione nonostante la grande diffusione offerta ai nostri giorni in notevole quantità, ad esempio dai canali tematici su satellite e dalla Rete, è minacciata da concentrazioni editoriali e da poteri sempre più occhiuti. Per non dire dell’Italia che soffre di una condizione tale da essere classificata dall’Istituto di ricerca Freedom House (fondato nel 1941), per quanto riguarda la libertà di stampa, tra i paesi “parzialmente liberi” al di sotto di Ghana, Tuvalu e Nuova Guinea e, comunque, ultimi nella zone dell’Euro; primi nella lista virtuosa, invece, risultano Finlandia e Islanda. Maglia nera per la Corea del Nord. Il libro cui mi riferisco è intitolato Morte e resurrezione dei giornali chi li uccide, chi li salverà, ne è autore Enrico Pedemonte. Nato a Genova nel 1950, è laureato in fisica, ha lavorato al “Secolo XIX”, all’”Espresso” come caporedattore e corrispondente da New York. Poi a “Repubblica” come caporedattore. Esperto di rete e giornalismo: "Personal Media" è stato il titolo della sua rubrica sull'Espresso, del saggio (Bollati Boringhieri, 1998) e del blog che conduce attualmente. A Enrico Pedemonte, ho rivolto alcune domande. Quale la principale motivazione che l’ha spinta a scrivere questo libro? In Italia si parla troppo poco della crisi dei giornali. Nella società civile non esiste ancora la consapevolezza dei rischi e delle occasioni che nascono dal declino della carta stampata. La discussione è ancora tutta interna della corporazione dei giornalisti. Mi sembrava importante allargare il discorso lanciando un allarme: i giornali non sono un fatto privato degli editori e dei giornalisti, ma della società. Che cosa è cambiato nei giornali da quando i nativi digitali sono diventati lettori (o utenti come lei ricorda che nel 2009 cominciò a chiamarli il “New York Times”) e che cosa prevede che accadrà quando lavoreranno nelle redazioni? I nativi digitali sono abituati al multitasking, saltano da un sito all’altro, colgono frammenti di realtà da diverse fonti, usano le notizie come merce sociale, scambiando news sui social network. I giornali sul web sono ridotti a frammenti, atomi di informazione. I nativi digitali che entrano nelle redazioni capiscono questa evoluzione nei consumi delle notizie e cercano di trasformare il tradizionale lavoro solitario del giornalista in un lavoro di gruppo, in un network che coinvolge i lettori. Sarà un processo traumatico. Qual è, tra i tanti, quello che ritiene il peggiore malanno del giornalismo in Italia? Il giornalismo italiano è troppo compromesso con il potere. Nel mio libro parlo di tre anomalie: i conflitti di interesse di Mediaset, quelli della Rai (che dipende dalla politica) e quelli dei giornali (che in Italia appartengono in maggioranza a editori impuri). Queste anomalie fanno sì che i giornalisti italiani siano abituati alla connivenza con il potere. E questo, al di là dell’onestà dei singoli e della buona fede, crea una cultura a libertà limitata. Per una scheda sul libro: CLIC! Enrico Pedemonte Morte e resurrezione dei giornali Pagine 248, euro 14.00 Garzanti
martedì, 15 febbraio 2011
Ricordo di Piero Gobetti
Ottantaquattro anni fa, il 15 febbraio 1926, moriva a Parigi Piero Gobetti in seguito ai postumi di una bastonatura ricevuta dai fascisti. Per ricordarlo, questa nota s’articola in due momenti. La prima parte è costituita da frasi tratte dai suoi scritti, parole che in quest’Italia dei nostri giorni non hanno perso di valore e, anzi, hanno il suono terribile dell’attualità. In foto: Gobetti il giorno del suo matrimonio con Ada Prosperi, 11 gennaio 1923; tre anni prima della sua morte. Mussolini non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Avrebbe potuto riuscire il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari". Il fascismo è il governo che si merita un'Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell'economia come delle coscienze. Combattevamo Mussolini come corruttore, prima che come tiranno; il fascismo come tutela paterna prima che come dittatura; non insistevamo sui lamenti per mancanza della libertà e per la violenza, ma rivolgemmo la nostra polemica contro gli italiani che non resistevano, che si lasciavano addomesticare. Il mussolinismo è [...] un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza. Senza conservatori e senza rivoluzionari, l'Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico. La seconda parte di questa nota consiste in un intervento di Enzo Marzo, autore di quello splendidio libro che è Le voci del padrone e direttore di Critica Liberale. A lui ho chiesto di tracciare l’importanza di Gobetti oggi. Il pensiero e l'azione politica di Piero Gobetti dovrebbero essere al centro di ogni dibattito proprio ora. Quasi non si dovrebbe parlare d'altro. Non solo per merito intrinseco di quelle idee così fervide, ma per una necessità storica. Mai come in questi ultimi tempi le classi dirigenti si sono trovate di fronte a scelte simili a quelle degli anni terribili dell'avvento del fascismo. E la risposta di Gobetti fu isolata ma esemplare. Il pensiero democratico allora rispose con mille ambiguità. Come ora. Il pensiero socialista estremista rispose con la sottovalutazione del fascismo che fu visto come una semplice variante del potere borghese. Dopotutto era il secolo delle ideologie e i danni di questo ragionare furono devastanti. Anche adesso gli ex-piccì si sono rivelati i migliori complici del berlusconismo. La storia non si ripete mai, ma in forma nuova, con la tv al posto del manganello, i pericoli per la democrazia sono gli stessi. Gobetti comprese fin dal primo momento cosa era il fascismo. Per questo motivo, ancora oggi è così trascurato. Rappresenta un rimprovero perenne per i liberaloidi attuali. Con decenni e decenni di anticipo li condanna, perche mostra che gli scivoloni del nostro paese verso regimi più o meno autoritari e populisti trovano origine proprio nella debolezza delle classi dirigenti, imprenditoriali e no, nel loro trasformismo, nella loro incapacità di portare il nostro paese verso una democrazia matura. Per documentarsi sulla figura e l’opera di Piero Gobetti, ricordo agli interessati che a Torino, in Via Antonio Fabro 6, agisce il Centro Studi Gobetti fondato nel 1961.
L'Ateo
E’ uscito un nuovo numero del bimestrale dell’Uaar L’Ateo diretto da Maria Turchetto che nella presentazione giudiziosamente scrive fra l’altro: … ma insomma ce l’ha, l’Europa queste radici cristiane? […] certo: la storia dell’Europa, dei suoi popoli e delle sue civiltà è una storia lunga, molto più di quella del cristianesimo – con buona pace di benedettosedicesimo. Ma si può forse affermare che hanno radici cristiane i “moderni” Stati europei, quelli che si formarono dopo la guerra dei trent’anni e il trattato di Westfalia, col venir meno delle logiche imperiali e il costituirsi delle nazioni: nel senso che a formarli furono guerre di religione, “guerre tra cristiani”. Sono radici odiose e insanguinate pregne di violenze, persecuzioni, intolleranze inaudite: non so quanto giovi alla cristianità rivendicarle. Quanto all’italia, tardivo Stato unitario, ha radici “laiche” e addirittura “anticlericali”. E’ un fatto storico innegabile, ma le celebrazioni ufficiali del 150° anniversario dell’Unità d’italia sembrano decise a ignorarlo. Nonostante nei programmi e nelle indicazioni date alle scuole la parola “memoria” si sprechi, sull’anticlericalismo risorgimentale si praticherà l’amnesia – in nome della concordia, dell’armonia, dell’amicizia, del papa pappa-e-ciccia tra Stato e Chiesa […] ma per favore non raccontate panzane ai bambini! Non ditegli che Pio IX era un galantuomo e Garibaldi un baciapile! E così eccoci a cercare di mettere qualche pezza al “negazionismo” ufficialmente in programma per le celebrazioni del 2011. Su pochi punti, rispetto a una pagina di storia ricca e certamente complessa, ma è già qualcosa. Su Pio IX, per l’appunto, “Illiberale, antirisorgimentale, antiunitario” come lo definisce Francesco D’Alpa in un articolo presente in questo numero della rivista – altro che padre della Patria come pretende il cardinal Bertone! Su Garibaldi, perché come ci ricorda Marco Accorti (in altro articolo di questo numero) “dir male di Garibaldi è cosa da chercuti”. E sul positivismo che animava la cultura risorgimentale: movimento di pensiero di grande interesse: ma bestia nera per Pio IX prima, per Croce e Gentile poi, e di conseguenza consegnato alla memoria dei manuali scolastici in una forma svilita e carica di fraintendimenti. In questo numero della rivista, ci sono tante altre cose: resoconti del IX Congresso Uaar, articoli sulla scuola, sull’ora di religione e quella alternativa, qualcosa sulla teoria dell’evoluzione visto che i Darwin Days cominciati il 12 febbraio sono in corso di svolgimento.
lunedì, 14 febbraio 2011
Filosofia del rugby
Il rugby sta conoscendo anche da noi una crescente diffusione e se prima sugli spalti c’erano solo ex rugbysti adesso c’è anche un pubblico che non ha praticato la palla ovale. Il pubblico: è, forse, la testimonianza più evidente della differenza di questo sport dagli altri. Mai ha creato problemi d’ordine pubblico, allo stadio non ci sono episodi di violenza, si fraternizza, e le scolate di birra del post-partita sono fatte insieme dai tifosi delle due squadre che fino a poco prima hanno battagliato duramente in campo. Così come avviene per i giocatori. Il famoso “terzo tempo” (goffamente imitato dal calcio dove, talvolta, quel terzo tempo è un terzo round pugilistico), non è soltanto l’applauso degli sconfitti ai vincitori, ma si protrae con libagioni in un’atmosfera di festa tra omoni che fino a poco prima se le sono suonate intorno al pallone. Nel libro che sto per presentare, è chiaramente spiegato: Chiunque conosca il rugby vi dirà che nel terzo tempo non c’è niente di artificioso: fraternizzare non è obbligatorio, non si viene educati a fingere, non si è costretti a fare la pace dopo la guerra. Tutto nasce, invece, dal fatto che i giocatori imparano fin da bambini che l’ospite è sacro e che, per quante legnate abbia dato e/o ricevuto, non bisogna negargli un panino e una tazza di tè caldo, che poi, con gli anni assume una strana schiuma e per incanto si trasforma in birra. Com’è possibile tutto ciò? Poiché non si tratta d’ipocrita fratellanza ma di reale amicizia. La Casa Editrice Ponte alle Grazie ci offre la possibilità di capirlo con un volume firmato da due grandi del rugby italiano: Mauro e Mirco Bergamasco autori di Andare avanti guardando indietro. Un libro piacevolissimo, scritto con grande umiltà, ma che fa intravedere tra le pagine una cultura fatta di precisi riferimenti storici, filosofici, letterari, musicali, richiami alla fisica, e, per usare un’espressione cara ad Angelo Guglielmi che la applica alla tv e alla letteratura, si fa amare perché è “colto, non culturale”.
Il titolo, riporta a quella che appare come un’illogicità: andare avanti per raggiungere la meta guardando indietro dove, se è più opportuno, passare la palla. I fratelli Bergamasco spiegano benissimo la faccenda: … in effetti, chi avanza col pallone sa di essere sostenuto da tutta la squadra, lo sente profondamente. Avverte di far parte di un gruppo compatto […] sorretto, sospinto fisicamente e moralmente, sente di essere l’avamposto di un insieme molto più grande di lui, formato da persone pronte a venire in suo aiuto […] da soli non possiamo fare nulla, sembra confermarci la nostra strana regola. Altra cosa che affascina del rugby è l’eleganza. Mai assisterete alle scene d’esultanza di un giocatore di calcio (preciso che amo quello sport) dopo un gol con quel consueto e stupidissimo gesto di sfilarsi la maglia e zompare come un tarantolato … chi va in meta, dopo aver ricevuto le felicitazioni dei compagni, parte di corsa per tornare in fondo al campo. E’ come se fuggisse […] in questa fuga precipitosa del giocatore che ha segnato si rivela tutto il pudore dell’atleta, la consapevolezza che ciò che ha realizzato appartiene all’intera squadra. Volendo dare un nome a questo stile di comportamento, si potrebbe parlare di “antidivismo”. Nel libro si parla anche di molto altro illustrando tecniche (dal placcaggio alla touche) ma sempre come metafora di comportamenti e d’interiorità. Forse tra i giochi di squadra, il rugby è il più bello; di certo moralmente il più alto. Questo libro ci aiuta a capire perché. Mauro e Mirco Bergamasco Andare avanti guardando indietro Premessa di Matteo Rampin Pagine 160, Euro 14 Ponte alle Grazie
venerdì, 11 febbraio 2011
Colpi di coda
Vincitore, nell’ottobre scorso, con “Rossoamaro” del Premio Azzeccagarbugli al Romanzo Poliziesco, Bruno Morchio riporta in libreria il suo investigatore, Bacci Pagano, con Colpi di coda pubblicato dalla casa editrice Garzanti. In questo nuovo episodio, di una serie che ha venduto più di 100.000 copie, il detective privato si troverà impegnato a confrontarsi con avversari nuovi, ancora più temibili e potenti di quelli affrontati negli altri episodi e a fronteggiare la sua depressione che non gli dà tregua. Evidentemente mai ha pensato di farsi curare dal suo autore che è anche psicologo e psicoterapeuta, vantando pure una vasta pubblicistica scientifica sulle neuroscienze. La cosa però non gli sarebbe facilissima perché (e qui tradisco una confidenza fattami da Morchio) il suo autore non amerebbe troppo averlo tra i suoi pazienti. Perché? Questo non lo so. Ma, chissà, forse, potrebbe essere lo spunto per un futuro romanzo. A Bruno Morchio ho chiesto: qual è la particolarità di questo libro che lo differenzia nell’affollato scenario della giallistica italiana? Ogni volta che mi accingo a scrivere un romanzo, cerco di scrivere un libro nuovo. Nonostante la permanenza degli stessi personaggi-chiave, l’idea di riscrivere lo stesso libro (con questo sono sette) mi toglie la voglia di impegnarmi nel lavoro. La strada per rinnovarmi sta nel muovermi “sul filo” dei generi letterari, esplorando le possibilità che ciascuno di essi offre alla narrazione e alla scrittura. Ho lavorato con i materiali del noir puro (Bacci Pagano. Una storia da carruggi), con quelli del giallo “classico” (Maccaia), con il giallo psicologico, attingendo l’ispirazione alle più svariate – e puntualmente dichiarate - fonti letterarie (da Proust a Hemingway a Vazquez Montalban), con il romanzo storico (Rossoamaro). Con Colpi di coda mi sono misurato con la spy story, assumendo quale riferimento il grande maestro, John Le Carré. La conseguenza è stata quella di dovermi confrontare con l’intreccio in una misura mai esperita prima. Non per niente il libro conta quasi 500 pagine. Vorrei aggiungere che a questo lavoro di ricerca, che per gran parte nasce da una lettura e rilettura degli autori che mi hanno preceduto, attribuisco una grande importanza, perché contrasta con la filosofia prevalente (anche in letteratura) del cosiddetto “format”. Il pubblico si innamora di un format e talvolta vorrebbe un prodotto sempre identico a se stesso. Questa irreggimentazione dei gusti è figlia della televisione e rappresenta un impoverimento culturale che, nel mio piccolo, cerco di contrastare. Per sintetizzare: con i miei romanzi cerco di evitare il “serial” televisivo e mi sforzo di fare del cinema. Come ti rapporti con questo, tanto frequentato, genere del ‘giallo’? Il mio rapporto con il genere giallo è sintetizzabile dicendo che abbiamo una convivenza altamente conflittuale. Il meccanismo del puzzle, tipico del giallo, non mi interessa. Sono invece molto più interessato a caratterizzare i personaggi e alla evoluzione drammatica della storia, che muove generalmente da strutture motivazionali legate a passioni e interessi. Tuttavia non voglio nascondermi dietro un dito: il protagonista delle mie storie, il detective privato Bacci Pagano, per lavoro e per destino è condannato a cercare la "verità", il retroscena di storie criminose, e dunque i miei romanzi se non sono ascrivibili al giallo classico, restano comunque storie noir (li definirei senza riserve noir mediterraneo), con riferimenti letterari piuttosto precisi e dichiarati: l'hard-boiled di Chandler, il poliziesco di Vazquez Montalban e Izzo. Il contenitore serve a facilitare il compito di scrittura, offre coordinate, impone un ritmo e chiama ad una attenzione al lettore, ma lascia liberi di soffermarsi sulle ferite e sui nervi scoperti (sociali, psicologici, culturali) che più stanno a cuore al narratore. Alla domanda: perché hai scritto un romanzo noir? risponderei: "Perché l'Ulisse l'ha già scritto qualcun altro. Una scheda sul libro: QUI. Per leggere le prime pagine: CLIC! Bruno Morchio Colpi di di coda Pagine 482, Euro 18.60 Garzanti
giovedì, 10 febbraio 2011
Qui si vende storia (1)
E’ questo il titolo di un libro che corre veloce su di un tandem poetico e critico guidato da Nevio Gàmbula e Francesco Muzzioli, volume che nasce prendendo spunto da una polemica contro il New Italian Epic. Già, e se gli italiani, almeno in letteratura, diventassero epici? Li esorta a tanto il collettivo di scrittori Wu Ming proclamando il NIE, acronimo che sta per “New Italian Epic” (e, da parte di chi s’è dato un nome cinese, chiamare in inglese un indirizzo letterario che nasce in Italia, entra già di diritto nella storia del Varietà). Adesso, con qualche critico che gli scodinzola dietro (e anche qualche carampana che vuole fare la cciovane), un po’ di pubblicità l’hanno rimediata e fanno sapere ch’è ora d’assumere nella scrittura valori etici, dicono – letteralmente – “un senso di responsabilità”. E, soprattutto, rifiutare l’ironia perché “Se ogni volta che parli segnali che la tua parola non ha peso né valore, si allarga sempre più la distanza tra quel che dici e quel che provi”. Molti scrittori, alcuni scarsamente etici, e tutti ironici fino al sarcasmo (Cervantes, Rabelais, Sterne, Sade, Svevo, Celine, Gadda, Queneau, e tanti altri), saputo del New Italian Epic, tremanti, si sono chiesti angosciosamente: “E ora, che ne sarà di noi”? Nella foto accanto, un libro elettronico al quale va tutta la mia fiducia (... tranquilli, non riproduce una pagina dei Wu Ming che scrivono ancora su carta, e usano sì il web ma come megafono della carta stampata): pussa via carta e inchiostro! (A proposito, Italo Calvino già prefigurò la e-letteratura e il vook inventando il termine “iper-romanzo” e profetizzandone l'avveniristico profilo; poi il primo romanzo ipertestuale ad essere pubblicato sul Web è stato, nel 1994, “Delirium”, di Douglas Cooper, che permetteva di navigare all'interno di quattro storie incrociandole e dissezionandole con movimenti visivi e random usando software come Storyspace e Hypercard). Poi, c’è anche chi corre ai ripari. Roberto Saviano, ad esempio. Uno dei più grandi giornalisti dei nostri anni cui, talvolta, alcuni cercano d’azzannargli i calcagni. Molti credono che gli sia stata data una scorta per difendersi dai casalesi. Macché! I casalesi sono bravi guagliuni; Saviano ha la scorta per difendersi da quelli della Nie che hanno preso l’abitudine di catturare chiunque abbia successo e iscriverlo di forza nel loro (immobile) movimento. Nie. Quelle lettere sono anche le prime tre lettere della parola NIEnte. I cervel… diciamo le teste è meglio và… senescenti di questi giovanotti che hanno partorito quel figlio di cellulosa, sono, come dicevo prima, i Wu Ming. In Vikipedia è detto di loro “… rifiutano di mettersi in posa per servizi fotografici e hanno come politica di non apparire mai in video. Nemmeno sul loro sito ufficiale sono disponibili immagini dei loro volti”. Insomma, nessuno può riconoscerli in qualche piazza o in qualche via. E questa sì che mi pare una loro decisione comprensibile e saggia. Perché, in conclusione, non mi piacciono questi Wu Ming? In parte, se v’interessa, l’ho già detto tempo fa QUI e, poi, perché credo in ciò che sostiene Giorgio Manganelli: “La prima qualità di uno scrittore è quella di essere inutile”. C’è anche chi, con altre angolazioni, illuminate da grande autorevolezza critica e poetica, ha illustrato motivazioni che rendono la Nie un grande equivoco teorico e una piccola disgrazia del nostro scenario letterario. Sono Gàmbula e Muzzioli proprio in Qui si vende storia, il libro che ho citato aprendo questa nota, e che ora ne scriverò nella seconda parte di questa stessa nota.
Qui si vende storia (2)
Le edizioni Odradek hanno pubblicato Qui si vende storia una farsa proletaria, o un aborto di teatro epico di Nevio Gàmbula con un saggio di Francesco Muzzioli intitolato Per una parodia rossa nell’epoca del ridicolo. Si tratta di una raffinata operazione in due tempi, la prima affidata ad un testo teatrale e la seconda a un testo critico. Nevio Gàmbula, (Nurallao, 1961) – per visitare il suo sito web cliccare QUI – è attore, poeta, insegnante di recitazione e autore di saggi sul teatro e di critica culturale. Ha pubblicato testi poetici in diverse antologie, la raccolta di testi drammaturgici "La discordia teatrale" (Pendragon, 2003) e il volume "L'attore senza ruolo" (Zona, 2010), dove analizza teoricamente e tecnicamente la voce recitante e alcune esperienze fondamentali di teatro contemporaneo. Realizza spettacoli in veste di autore e attore. Ebbi il piacere di presentare tempo fa una sua dichiarazione di poetica e il trailer di “RadioHamlet”. Francesco Muzzioli (Roma, 1949) insegna Critica letteraria presso l’Università “Sapienza” di Roma. Si è occupato principalmente degli autori del Novecento e delle linee di ricerca dell’avanguardia e dello sperimentalismo; nell’àmbito della teoria letteraria si è interessato al dibattito delle tendenze e dei metodi. Tra i suoi volumi: “Le teorie della critica letteraria” (1994); “Teorie letterarie contemporanee” (2000); “L’alternativa letteraria” (2001); “Le strategie del testo” (2004); Scritture della catastrofe (2007); Quelli a cui non piace” (2008); e due funambolici testi di cui sono (e non solo il solo) entusiasta lettore quali sono L'urbana nettezza (2007) e Alla Corte del Corto (2009). Prossimamente presso l’Editore Guida uscirà “Letteratura come produzione”. Una sua intervista rilasciata a questo sito si trova QUI. Circa Qui si vende storia ecco la quarta di copertina che spiega come meglio non si potrebbe questo volume che consiglio vivacemente alla vostra lettura. “Questo libro è un doppio esercizio critico, condotto sul piano della scrittura drammaturgica e di quello della teoria letteraria, e che ha come bersaglio principale il New Italian Epic e alcune delle “mode” letterarie più invasive del momento. Gli autori, ognuno secondo la propria modalità espressivo-discorsiva, contestano che la letteratura sia concepibile soltanto all’interno delle maglie stritolanti del mercato editoriale, così come si pongono in conflittualità frontale con le forme più evidenti di intrattenimento, dal noir, al fantasy, al recupero della fiction impegnata o storica. Il libro si costituisce quindi come critica radicale del senso comune e, al contempo, come sperimentazione linguistica che si affida alla forza dirompente della parodia. Quel che conta, per gli autori, è la pratica “grottesca” della parola, il gesto profanatorio che istituisce il linguaggio come “rivolta disalienante”. A Francesco Muzzioli ho chiesto: qual è, in sintesi, la critica che rivolgi alla Nie? In che cosa ravvisi le sue principali debolezze? Ho accolto la proposta di accompagnare il testo teatrale di Gàmbula e di rendere ancora più esplicito il suo contenuto polemico verso la Nie, perché da tempo conduco un discorso avverso all’ideologia della narrazione e alle “forme di fiction” che ci avvolgono da ogni parte. Limitandosi a proporre un ritorno verso i contenuti “storici” e i problemi reali, i Wu Ming restano ben dentro questa ideologia e queste forme. Da un lato non inventano nulla (“oggetti narrativi non identificati” ce n’erano stati già un bel po’, pensa a Primo Levi, a Carlo Levi, al libro di Sciascia su Moro, ecc.); dall’altro lato sembra che la durezza del reportage giornalistico – di per sé lodevolissima – sia assunta come passaporto, una sorta di spolveratura legittimante della fiction romanzesca. Altrettanto, inversamente, un certo giornalismo si serve di modalità narrative come “abbellimento” della rudezza giornalistica. Un bel chiasmo, ma sempre interno agli accorgimenti del mercato per acchiappare il pubblico. Il tuo saggio è intitolato “Per una parodia rossa”. Quale senso attribuisci alla parodia oggi che indossi quel colore? Mi pare che sia palese, ormai, che il sistema del libero mercato non regge e non è più sopportabile, almeno a livello europeo e italiano. In tempi di crisi, occorrerà progettare forme di “condivisione della penuria”, uguali per tutti. Vale a dire, tornare a discutere di ‘comunismo’. Per questo ho ripreso il colore di quella bandiera. E però l’utopia non va sognata, ma va costruita a partire dalla miseria del presente e con la consapevolezza di disporre di una ragione e una sensibilità abbondantemente disastrate. In letteratura, propongo di partire dalla parodia, cioè dalla riscrittura del passato, non però con l’ammiccamento indifferente del postmoderno, ma con un attraversamento scombinante e rovesciante. Una parodia dialettica, teatralmente dinamica, polemica e non arresa a semplificazioni di sorta, una parodia che non abbia timori reverenziali e tiri fuori dal passato tutte le cariche alternative che ancora vi si trovano. Non conferendo all’arte nessuno statuto speciale. L’“aureola” della poesia è andata perduta da tempo, né ci può essere d’aiuto il profetismo intellettuale o la morale pietosa. Richiedo la forza del sarcasmo. Nevio Gàmbula Francesco Muzzioli Qui si vende storia Pagine 90, Euro 12:00 Edizioni Odradek
domenica, 6 febbraio 2011
Ah, che rebus! (1)
Ancora un mese di tempo per vedere una mostra che è allestita a Roma preso l’Istituto Nazionale della Grafica che così chiude le celebrazioni del 35° anno dalla fondazione: Ah, che rebus! Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia. Le due curatrici sono Antonella Sbrilli e Ada De Pirro che hanno messo su una mostra non solo originale e intelligente, ma anche benissimo allestita e divertente. Una mostra che merita, se a Roma non abitate, una gita nella Capitale che in un momento di grande depressione culturale in cui vive la città, trova adesso all’Istituto della Grafica uno dei pochi momenti di riscatto. Per una scheda di presentazione: CLIC! In foto: Luigi Ontani, Guglielmo Marconi Tell, 1966. Tondo in ceramica, diametro 78 cm. Roma, collezione privata. Il titolo “Ah, che rebus!” è tratto da una canzone di Paolo Conte, autore anche di un rebus, finora inedito, in esposizione. Il percorso espositivo in più sale si snoda fra oltre cento opere tra disegni, incisioni, dipinti, libri, riviste, video, che propongono un originale tracciato nei rapporti fra arte e rebus in Italia dal 500' ad oggi. Per uno sguardo in Galleria: cliccare QUI. A differenza di molte mostre che una volta inaugurate sono abbandonate a se stesse, questa è sapientemente accompagnata da una una serie di eventi già accaduti e che accadranno senza trascurare bambini e ragazzi ai quali sono dedicati laboratori su tema. Particolare piacere, ovviamente, ho provato nell’incontrare in esposizione tanti miei amici: da Lamberto Pignotti (splendida una sua opera su metallo) a Luca Patella, da Pablo Echaurren a Fanny e Alexander... a proposito non perdetevi il loro recente libro O/Z Atlante di un viaggio teatrale … ad altri ancora. Ho lasciato i locali della mostra recandomi a bere un bicchiere in un’enoteca vicina brindando alla gioia (si sa, per me ogni occasione è buona) ricevuta da una mostra ragionata e festosa insieme, lontana dalla cultura come noia, “colta e non culturale”, per usare un’espressione cara ad Angelo Guglielmi. Non privatevi di quella mia stessa gioia, andateci. Catalogo: Edizioni Gabriele Mazzotta. Ufficio Stampa Mazzotta: Alessandra Pozzi, tel. 02 – 8055803, ufficio stampa@mazzotta.it Ufficio Stampa: Marcella Ghio marcella.ghio@beniculturali tel.+ 39 06 69980.238 - 335 6821996; 334 6842173 - fax +39 06.69921454 “Ah, che rebus!” A cura di Antonella Sbrilli e Ada De Pirro Roma, Istituto Nazionale per la Grafica Palazzo Poli, via della Stamperia 6 Orario: 10 - 19, chiuso lunedì Informazioni 06 – 699 80 242 / 257 Fino all’8 marzo 2011 Ingresso libero
Ah, che rebus! (2)
Questa mostra si svolge poco dopo sessantacinque anni della pubblicazione in Italia di “Homo Ludens” di Johan Huizinga e poco dopo il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Oulipo. Due date in cui al Gioco è stato restituito la dignità che gli spetta uscendo dalle spire dell’idealismo. Huizinga: ”La cultura nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco”; e l’Oulipo che importa in letteratura giochi matematici con Queneau il quale dice: “Il tragico greco che scrive i suoi versi obbedendo a regole che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa e che è schiavo di regole che ignora” (“Voyage en Grèce”, Paris 1973). In foto: Stefano Della Bella (1610 - 1664), Rebus sull'amore, 1647-49, acquaforte e bulino, Roma, Istituto Nazionale per la Grafica Ma che cos’è il Gioco e come si è evoluto nel tempo? Lascio la parola all’antropologa Paola De Sanctis Ricciardone che nel corso di un nostro incontro così mi disse ... Einstein diceva: "Dio non gioca a dadi", e per questo, e anche per la sua teoria della relatività, si è beccato l'appellativo di "Ultimo Grande Determinista", ultimo grande newtoniano. Da Ilya Prigogine per esempio, il quale non solo pensa che dio giochi proprio a dadi ma si diverta anche come un matto alla faccia nostra. Bene, queste due concezioni sono le polarità estreme di diversi concetti di gioco: da un lato un gioco regolato, padroneggiabile da una definizione, dagli esiti indagabili e accertabili e in una qualche misura deterministico e dall'altra un gioco aleatorio, stocastico (non dico mai parolacce), non prevedibile ed entropico. E' una gamma ampia di giochi che va dai giochi deterministici (come il filetto, intendo il gioco) ai teoricamente deterministici (come gli scacchi) ai probabilistici, fino ad arrivare ai giochi d'azzardo. In questa gamma puoi metaforicamente trovarci di tutto: teorie della Fisica, giochi degli uomini, scuole filosofiche, paradigmi e anti-paradigmi, società segrete, massoneria, sistemi di parentela, lega lombarda, figli dei fiori, fondamentalismi e quant'altro. Io ci ho trovato molta antropologia. E il Rebus che cos’è e da dove viene? Giampaolo Dossena, il più grande enigmologo italiano: ... nell’enigmistica italiana sia “classica” sia “popolare” è un indovinello formulato con vignette: immagini di oggetti, persone o azioni. A tali immagini vanno attribuiti nomi convenzionali, o vanno collegate parole e frasi più o meno pertinenti […] le origini del rebus si possono rintracciare nel passaggio dalla pittografia alla ideografia, nei momenti originari delle scritture alfabetiche (“Il dado e l’alfabeto”, Zanichelli, 2004). Il rebus, inoltre, piace anche per la sua ambiguità. Eccone un esempio fornito da un grande studioso dell’enigmologia: Giuseppe Aldo Rossi in “Storia dell’enigmistica”, Edizioni Cei, 1967: ... quando gli sciti inviarono a Dario una rana, un uccello, un topo e delle frecce, intendevano dire – come interpretò un cortigiano – che gli facevano omaggio degli animali viventi nei tre regni della natura e che gli consegnavano le armi; o piuttosto – come sostenne un generale – che, se Dario fosse pure fuggito sotto terra come i ratti, o nell’acqua come i ranocchi, o in aria come gli uccelli, non sarebbe scampato alle armi nemiche? Questo era un rebus. Un rebus di tanto tempo fa. Tutta la complessità del rebus, la sua vita tra arte visiva e letteratura attraverso i secoli, è evidenziata alla perfezione in questa mostra imperdibile curata da Antonella Sbrilli e Ada De Pirro.
Ah, che rebus! (3)
Rapidi cenni biografici sulle curatrici. Antonella Sbrilli insegna Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza dove è presidente del corso di laurea in studi storico-artistici. Ha pubblicato ricerche di storia dell’arte (Paesaggi del Nord, 1985; Storia dell'arte in codice binario; Album di Ebdòmero, 2008) e realizzato giochi sull’arte e la letteratura. Ada De Pirro, diplomata in pittura e incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, laureata in Storia dell’Arte con una tesi sui “rebus” del pittore Tano Festa, conduce presso l’Università La Sapienza di Roma una ricerca di dottorato sul tema del gioco linguistico nella grafica del secondo Novecento. In foto: Maria Ghezzi, Sperare nel domani, autore della frase Madalca. China su carta, 16x16 cm. Proprietà della “Settimana Enigmistica”, pubblicazione: ottobre 1970. Ad Antonella Sbrilli e Ada De Pirro ho rivolto alcune domande. Le sentirete rispondere con una voce sola. Prodigi della tecnologia di bordo su Cosmotaxi. Perché una mostra sul rebus? Dopo alcune mostre significative sui rapporti fra immagini e parole, come “Alfabeto in sogno” del 2002 e “La parola nell’arte” del 2007, è sembrato giunto il momento per approfondire la presenza del Rebus nell’arte figurativa italiana. La ricerca ha portato a successivi approfondimenti che hanno rivelato quanto sotterranea ma allo stesso tempo rilevante sia stata questa presenza, dalle prime incursioni di artisti come Leonardo o Lorenzo Lotto nel campo delle “cifre figurate” e delle imprese, all’attività degli artisti seicenteschi che hanno inciso rebus per ventagli, fino alla produzione di vere e proprie vignette da parte di pittori liberty, macchiaioli, divisionisti. La sorpresa principale emersa dalla ricerca ruota intorno alla celebre “Settimana Enigmistica” e ai suoi rebus inconfondibili ideati, nel dopoguerra, da grandi rebussisti. Gli artisti romani della cosiddetta scuola di piazza del Popolo, negli anni Sessanta e Settanta, hanno guardato e “prelevato” vignette dalla rivista, scegliendo, la maggior parte delle volte, quelle eseguite da Maria Ghezzi, moglie del rebussista Giancarlo Brighenti, una disegnatrice molto raffinata che ha fatto del disegno del rebus (a china nera su cartoncino) un genere a sé stante. Quando avete varato la mostra quale cosa avete deciso ch’era la prima da evitare e quale la prima da fare? La prima cosa che abbiamo cercato di evitare è stata di dare alla mostra una prospettiva univoca, che fosse quella della storia dell’enigmistica o quella della storia dell’illustrazione del rebus. Abbiamo cercato di mantenere fisso l’obiettivo: raccontare lo scambio fra i due poli dell’arte e del rebus in Italia, mantenendoci su una linea di confine. Abbiamo anche cercato di evitare di dare alla parola rebus le accezioni di mistero insolubile o situazione ingarbugliata, scegliendo opere in cui emergesse il dispositivo tecnico del rebus, cioè la sostituzione di parole o parti di esse con immagini. La prima cosa da fare è stata quella di progettare il percorso espositivo, cercando di renderlo piacevole e leggero, di sciogliere i nodi più intricati e di bilanciare le tipologie di opere: disegni, riproduzioni su riviste, stampe, foto e poi quadri, assemblage, video, anche piccoli gioielli in forma di rebus (l’ “A-nell-O d’oro” di Aldo Spinelli e l’ “O-pera” d’argento di Mirella Bentivoglio). La ludolinguistica ha avuto influenza sulle arti visive? Se sì, in che cosa è rintracciabile? Anche se ludolinguistica è un termine di conio recente, le tracce di ciò che indica – la vasta gamma dei giochi di parole – sono presenti nell’arte, per esempio in numerosi calembour tra titolo, forma e materiali, in molte opere di Aldo Mondino o di Luigi Ontani. In mostra poi ci sono opere di artisti legati alle ricerche dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale), come Paolo Albani (“Rebus delle cinque del pomeriggio”) e il già citato Aldo Spinelli. Eugenio Miccini, interessato alle lingue e alla comunicazione, si è avvicinato alla forma del rebus declinato su messaggi politici. Anche Arrigo Lora-Totino ha giocato informalmente con il rebus, disponendo nello spazio del foglio sillabe e numeri, come nel caso di “Parole ai quattro venti” del 1971. Il gioco di parole è utilizzato anche da artisti che hanno fatto del linguaggio e della parola gli strumenti di creazione di “universi possibili”, come nel caso di Gastone Novelli che si avvicinò al rebus attraverso lo studio di un testo francese di bizzarrie letterarie di fine ’500, “Les Bigarrures” di Etienne Tabourot, uno dei primi repertori di giochi fra parole e immagini.
Ah, che rebus! (4)
La mostra “Ah, che rebus!” presenta anche aspetti nuovissimi di quella tecnica enigmistica verbovisiva, non trascurando, ad esempio, quanto accade nella Street Art. Nata al principio degli anni ’70 come Graffiti Art nei ghetti afroamericani statunitensi, proponendo segni d’opposizione sociale, oggi, s’è evoluta nelle tecniche (dallo ‘sticker’ o adesivo allo ‘stencil’ o cartoncino ritagliato, fino a videoproiezioni – un posto a parte occupa Shane Waltener: usa intarsiare muri con pasta di zucchero, glassa, coloranti commestibili, caramelle e così ha dolcificato pareti del Victoria and Albert Museum e della Tate Britain). In Italia, ha fatto discutere di recente anche un movimento per il restauro di quest’arte stradale che ha visto risorgere l'Arcangelo firmato Ozmo, pseudonimo dell'ottimo Gionata Gesi che è stato tempo fa anche ospite di questo sito nella Sez. Nadir: CLIC! Spesso tornano discussioni accese su chi vorrebbe questi artisti castigati dalle autorità cittadine, considerati, non di rado, vandali. Vandalo è chi deturpa monumenti o angoli di paesaggio urbano, ma sono pochi quelli della Street Art a farlo, più massicciamente lo fanno i partiti politici con i loro manifesti e la pubblicità con i suoi megacartelloni. Il writwer sta al vandalo, come l’hacker sta al cracker.
Nella foto: BrosArt (Bros e Sonda), Rebus 5.1.5, in “Alias”, supplemento di “il Manifesto”, 21 maggio 2005. Nella mostra, di Street Art si è occupata Silvia Veroli che con i suoi interventi giornalistici e da sceneggiatrice svolge da tempo un discorso attento a rilevare nell’intercodice, nella creatività giovanile, nelle più vivaci ricerche artistiche, gli accenti più nuovi dell’espressività contemporanea. Per averne qualche esempio, cliccare QUI, e anche QUI. A Silvia Veroli ho chiesto di raccontare la storia del graffito in esposizione. Non tutto quello che è per strada è arte, ma quando l’Arte va per strada è sicuro che, come fu per i rebus graffiti, i risultati sono reali, vividi e come tutte le cose di natura, destinati a non distruggersi, a sbiadirsi magari ma comunque trasformarsi in qualcos’altro. Nel caso dei rebus di Bros e Sonda i disegni fatti su un muro sono diventati subito la copertina di un giornale di carta e di pixel, alias, che aveva (e ha sempre) bisogno di immagini verticali per la sua prima pagina; di graffiti sviluppati in lungo però non se ne trovavano e fu così che per magia pochi giorni prima di andare in stampa col numero dedicato ad arte ed enigma, a Milano spuntò un nuovo rebus metropolitano firmato dai Nostri, verticale, nuovo di zecca, perfetto per la cover. Un colpo da maestri e un gesto d’amore. Un Re Bus D Amo Re.
Ah, che rebus! (5)
Il catalogo, edito da Gabriele Mazzotta, raccoglie saggi che esplorano il rebus dal punto di vista della storia dell’arte, dell’enigmistica, della letteratura italiana, del linguaggio, con incursioni nel mondo dei geroglifici, degli enigmi musicali, della pubblicità.
In foto: un’immagine del 1691: La musica sicura di Giuseppe Maria Mitelli (1634 – 1718), acquaforte, bulino. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, Fondo Corsini.
Tra le molte cose di grande interesse presenti nel catalogo, ci sono la presenza di una nota e un rebus di Maurizio Calvesi, storico dell'arte che da giovanissimo è stato enigmista, e un vertiginoso intervento della linguista Caterina Marrone – la cui più recente pubblicazione è I segni dell'inganno – che svolge, con la sua solita acutezza, riflessioni semantiche su di un rebus egizio ricordandoci che il rebus viveva ben prima ancora di essere specificamente denominato. Quel rebus di migliaia d’anni fa raffigura l’enigma del nome della regina Nefertari (1295 – 1255 a.C.), sposa di Ramsete II. A proposito, costui, in barba al controllo delle nascite, pare sia stato padre di quasi 100 figli; si dirà: altri tempi… sì, vabbè, ma il troppo è troppo. Ho invitato Caterina Marrone a parlare del rebus di Nefertari. Durante una ricerca su Athanasius Kircher, un “egittologo” secentesco ante litteram, mi imbattei in un articolo accattivante: parlava di crittografie geroglifiche. Da semiologa avevo un acceso interesse a capire come una scrittura “figurativa” potesse rendersi crittografica, così approfondii le indagini sull’ideogramma egizio “normale” e con sorpresa mi accorsi che tale scrittura si serviva “regolarmente” di un ardito gioco verbale: il rebus. La scrittura geroglifica si serve di rebus codificati – ne esistono delle liste –, ma il fantasioso antico scriba era capace di crearne sempre di nuovi specialmente se si trattava di celebrare qualche evento importante. Ciò che appare nel modo a rebus è la tecnica creativa che trasforma una frase in immagine adoperando l’omofonia. Non il significato della frase, dunque, ma il corpo sonoro della frase viene trasformato in figura, in una rappresentazione come quella del fregio – un principino in lacrime davanti alla dea Mut – di Deir-el Medina. Nella lastra lo scriba compose in enigma il nome della grande sposa di Ramesse II, “Nefertiri” detta “Merit (e)n Mut”, (“Nefertiri amata da Mut”) frase il cui corpo sonoro è pressoché omofono di un altro significato con cui si attua il rebus e che viene tracciato in disegno “Egli versa lacrime davanti a Mut”.
sabato, 5 febbraio 2011
Tavole italiane: Ratanà
Premesso che non è una mia scoperta perché ha già tanti sostenitori, segnalo con grande convinzione soprattutto per quelli che non abitano a Milano (o per i milanesi che non lo conoscessero ancora) il ristorante Ratanà. Si trova a due passi dalla fermata Gioia della Metropolitana, ma non è troppo esposto sicché va trovato attraversando un piccolo parco giochi per bambini, dopo qualche comprensibile esitazione dovuta al malignazzo quiz proposto. Nella foto scattata da Michele Nastasi una visione notturna dell’ingresso. Non descrivo i piatti perché credo poco che le emozioni sensoriali (e al Ratanà ne proverete parecchie) possano essere descritte con efficacia. Almeno da me. Segnalo soltanto un maiuscolo risotto con ossobuco raro a trovarsi così trionfante per qualità del riso e della carne e curato con lodevole saggezza. Ma vi sono altre meraviglie da gustare in un ambiente caldo, di sobria eleganza dove sarete coccolati da un servizio efficiente, cordiale, mai invasivo. Incantevole la lista dei vini governata, e illustrata con competenza, dalla sommelier Federica Fabi. Dei due soci, Cesare e Danilo, ho avuto il piacere di conversare con il primo, dal nome patriottico Cesare Battisti (mi riferisco, ovviamente, alla figura dell'irredentista italiano, non ad altri) giovane chef, ma già maturo in quanto a scienza gastronomica. In questa videointervista potrete ascoltare le sue teorie su risotti e altro mentre si trovava invitato a Identità Golose 2011. I prodotti che cucina – come anche la carta indica – sono frutto di ricerche appassionate presso piccoli produttori lombardi e da questo deriva la grande qualità delle materie prime. Un mio amico gourmet definisce i bravi cuochi “benefattori dell’umanità”, ecco Cesare è uno di questi. Pratica una cucina che punta al “genius loci” rivelando dei prodotti la loro natura di terra e di aria lombarde con delle intelligenti variazioni sui temi della tradizione. Il conto, per un pranzo completo fino al dessert, sta intorno ai 50 euro assolutamente meritati. Ma si può spendere perfino di meno. Evidentemente molto dipende anche dalla qualità dei vini che sceglierete e anche evitando la quantità alla quale io da sempre colpevolmente mi abbandono. Insomma, andateci e mi ringrazierete. Consigliabile la prenotazione. Ratanà Via De Castillia 28 Milano info@ratana.it Tel: 02 – 87 128 855
Mondo Bizzarro Show
La Galleria Miomao di Perugia, è tra le poche gallerie d'arte contemporanea europee unicamente dedicate al disegno; è stata fondata nel 2007 da Maria Cristina Maiocchi, storica dell'arte specializzata nel contemporaneo. Tanti i prestigiosi artisti ospitati finora, tra i quali in queste pagine web ci siamo già occupati di Fernando Del Barrio e di Squaz . Ora, mentre in aprile si annuncia la partecipazione di Miomao alla Fiera “Chic Dessin” che si terrà a Parigi all’Atelier Richelieu, da oggi è possibile visitare nei locali di via Podiani la Mostra Bizzarro Show Pop Surrealism + Urban Art + Photography a cura di Cristiano Armati e Dario Morgante con il coordinamento di Gian Marco Tosti. In foto: un’opera di Sten+Lex In mostra e in vendita, una selezione di capolavori degli artisti di “Mondo Bizzarro”, celebre galleria di avanguardia aperta quindici anni fa a Bologna e trasferitasi a Roma proponendosi come piattaforma per le arti contemporanee del XXI secolo. Si tratta di una ghiotta occasione per rivedere i protagonisti del Pop Surrealism e dell’Urban Art: da Obey, famoso creatore dell'immagine pop di Obama, alla star del pop surrealism Mark Ryden, dai più noti Street artist romani da Sten+Lex a Stanley Donwood, creatore dell'iconografia dei Radiohead. Mondo Bizzarro Show Galleria Miomao Via Podiani 19-21, Perugia tel. (0039) 347/7831708 (0039) 347/7831708 info@miomao.net Fino al 26 Febbraio 2011
venerdì, 4 febbraio 2011
Civico 103
Una notizia per gli amanti dell’arte e delle nuove tecnologie: è ora disponibile su App Store "Civico 103", il nuovo magazine della Galleria Civica di Modena che raccoglie le informazioni sulle iniziative promosse dal museo modenese, sulle mostre, gli eventi ospitati e fornisce dettagli e curiosità sulle opere, gli artisti ed il “dietro le quinte” dell’organizzazione. La nuova applicazione è lo strumento ideale per essere sempre aggiornati sulle proposte della Galleria Civica e per conoscere più da vicino l’attività di una delle più autorevoli istituzioni italiane, impegnata da oltre cinquant’anni nella promozione dell’arte contemporanea in tutte le sue forme ed espressioni. Realizzata in collaborazione con Saidmade è compatibile con iPad. Richiede l’iOS 4.2 o successive. Civico 103 è un’applicazione gratuita.Tags: arte iPad, Civico 103, Galleria Civia Modena, magazine arte iPad In questo numero, dedicato in particolare alla collettiva "Lo spazio del sacro", un editoriale a firma di Marco Pierini – direttore della Galleria – testi sulla mostra e sulle iniziative ad essa collegate, una nota sul restauro degli interni della Palazzina dei Giardini, immagini dal backstage e una selezione di disegni preparatori degli artisti. Focus sulle numerose iniziative organizzate dal museo modenese durante l'autunno con un contributo d'autore scritto ad hoc dal titolo "Sul Sacro" dello scrittore Paolo Nori. È una pubblicazione a diffusione gratuita distribuita presso le sedi espositive dell'istituto modenese, nelle biblioteche, presso gli istituti culturali cittadini, nelle librerie, e nei principali punti informativi della città. Ufficio Stampa Galleria Civica di Modena: Cristiana Minelli tel. +39 059 – 203 28 83; galcivmo@comune.modena.it
giovedì, 3 febbraio 2011
Appunti dal presente
All’inizio del nuovo decennio, si presenta con rinnovate energie la rivista Qui Appunti dal presente diretta da Massimo Parizzi. Fa piacere notarlo in un momento particolarmente negativo dello scenario culturale italiano colpito da infausti provvedimenti. A proposito delle riviste, Valdo Spini, Presidente Riviste Italiane di Cultura, su “Repubblica” del 18 gennaio di quest’anno ha lamentato quanto deciso dal governo di “non assegnare i contributi riguardanti l’anno 2010 e 2011 alle riviste di elevato contenuto culturale. Si tratta di un nuovo colpo inferto alla pubblicistica di cultura già pesantemente aggravata dagli aumenti tariffari per la spedizione in abbonamento postale”.
Qui, nata nel 1999, è stata definita recentemente dal critico e saggista Alfonso Berardinelli "la più originale e sperimentale rivista italiana"; e, in tempi ancora più vicini, Juan José Gutierrez, ne ha parlato come di uno "straordinario contributo alla Storia Orale". Ecco come Massimo Parizzi dice, telegraficamente, della sua creatura di cellulosa che dal gennaio 2012 sarà gratuitamente anche on line: "Qui - appunti dal presente" è un trimestrale composto soprattutto da pagine di diario e di blog - di vita politica, sociale e anche privata - scritte da più paesi del mondo ("Qui" esce anche in un'edizione inglese, "Here - Notes from the Present"). I loro autori sono sia persone per le quali scrivere è un'attività quotidiana, a volte professionale, sia persone per le quali è un'attività soltanto occasionale o rara (intellettuali e non, in poche parole). Alle pagine di diario si accompagnano riflessioni, saggi, e racconti in relazione con i loro contenuti. Si presenta come un libro di un centinaio di pagine ed è pubblicata dall'Associazione culturale senza scopo di lucro "Qui - appunti dal presente". Con un CLIC è possibile raggiungere un’intervista su “Qui”, rilasciata da Massimo Parizzi ad Attilio Mangano, nel corso della quale è illustrato il progetto editoriale della rivista.
mercoledì, 2 febbraio 2011
La moneta di Akragas
Il mio vecchio amico Andrea Camilleri (con lui ho diviso molti anni in Rai, schiavi ai remi nelle galere delle regìe tv e radiofoniche) ha una grave colpa: con il suo successo ha indotto una moltitudine d’italiani a scrivere libri gialli. Sicché oggi in Italia il numero dei giallisti supera quello degli evasori fiscali. Nato a Porto Empedocle nel 1925 (nel 2003, in suo onore, il comune di Porto Empedocle assumerà come secondo nome ‘Vigàta’), dal 1948 al 1950 studia regìa all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” e inizia la sua attività di sceneggiatore e regista. Nel 1958 porta in Italia il teatro dell'assurdo di Beckett con “Finale di partita”, prima al teatro dei Satiri di Roma e poi in televisione con Adolfo Celi e Renato Rascel. Molte le produzioni Rai di cui si occupa, particolarmente famosi gli sceneggiati del tenente Sheridan con Ubaldo Lay e Le inchieste del commissario Maigret con Gino Cervi. Nel 1977 ottiene la cattedra di Istituzioni di Regia all'Accademia d'Arte Drammatica dove insegnerà per vent'anni. L’esordio in narrativa è del 1978 con “Il corso delle cose” pubblicato da un editore a pagamento. Nell’80 pubblica con Garzanti, “Un filo di fumo”, il primo romanzo ambientato nell’immaginario paese di Vigàta e con questo romanzo vince il Premio Gela. Nel 1994 con “La forma dell’acqua” crea il personaggio del commissario Montalbano che, al momento, conta diciassette titoli. Sommando tutte le sue pubblicazioni ha venduto oltre 10 milioni di copie. Anni fa, salì sulla mia taverna spaziale che da dieci anni conduco sull’astronave Enterprise e avemmo un colloquio che si può leggere QUI. Ora l’Editrice Skira ha mandato in libreria La moneta di Akragas, un romanzo di Camilleri che per la stessa casa ha pubblicato, nel 2009, Il cielo rubato. Dossier Renoir. Questo nuovo testo muove le sue mosse nell 406 a.C. quando Akragas (l’antica Agrigento) fu vinta e distrutta dai Cartaginesi. La scampa solo il mercenario Kalebas che ha con sé un sacchetto con 38 monete d’oro. La scampa, si fa per dire, perché quando la Zella ti prende di mira a quella non si scampa, sicché Kalebas viene morso mortalmente da un serpente e il prezioso carico va disperso. Quasi 2170 anni dopo, nel 1908, un’altra città siciliana è distrutta: Messina. Stavolta a colpire una città sicula ci pensa il terremoto. Ed ecco dalle rovine spuntare una di quelle monete appartenuta forse a Kalebas. Seguirà un altro casuale ritrovamento e… no, mi fermo qui altrimenti alla Skira si arrabbiano di brutto. Posso aggiungere solo che si tratta di pagine avvincenti che una volta che cominciate a leggerle difficilmente ve ne staccherete se non con sommo fastidio verso chi vi ha costretto a interrompere la lettura. Per leggere le prime pagine: CLIC. Dopo, v’avverto, andrete di corsa in libreria. Andrea Camilleri La moneta di Akragas Pagine 136, Euro 15.00 Skira
L'absolu ou rien
L’editore Campanotto ha mandato in libreria L’absolu ou rien Frammenti al margine del silenzio di Enzo Minarelli. Il libro sarà presentato lunedì prossimo a Bologna da Renato Barilli e Giorgio Celli A Minarelli – QUI il suo sito web – ho chiesto in che cosa consiste questo suo nuovo lavoro e quali ragioni lo hanno spinto a farlo. Ho voluto tenacemente far cozzare due mondi l’uno contro l’altro armati , o tutto o nulla, l’assoluto o il niente, riproponendo l’aspro assioma d’Artaud in un’epoca come quella odierna dove tutto tace, regnante un silenzio d’indifferenza e staticità, sullo sfondo del quale, lo scontro viene ambientato. Faccio leva su una girandola di osservazioni, espresse sotto forma di frammenti, uno zibaldone ad uso e consumo del fruitore disincantato del Duemila; note, commenti, riflessioni svolte a tutto campo, senza esclusione di colpi o censure tematiche, si va dall’arte alla poesia, dall’architettura alla musica, dalla fotografia all’archeologia, dal teatro alla danza, dalla filosofia alla storia, dal cinema alla performance, alla linguistica, alla religione, alla psicologia, alla natura, ma anche al grande teatro della vita, variando all’uopo forma di scrittura, che spazia dal diario al saggio, dalla poesia alla narrazione, dal dialogo al monologo, dall’articolo all’intervista, con l’intento di trasformare l’atto dello scrivere in una festa del sapere, secondo la formula di Barthes. Attraverso un procedimento di progressive riduzioni cerco di estrapolare da tale binomio assoluto-niente un piccolo fenomeno inteso come allegoria di una totalità in continuo divenire, un frammento che, arginandone il flusso, lo fissa come simbolo di tale contrasto, con la variante di un valore aggiunto diverso o nuovo rispetto al contesto di partenza; questi quadretti, talora sequenziali, o diacronici, talora provenienti dai più disparati contesti, si riuniscono nella mia ossessiva ricerca dell’assoluto, come tasselli di un puzzle specchio fedele della selezione in atto, nel corso della quale si coglie come direbbe Benjamin, una vena melanconica, quando il nulla sembra così opprimente, accanto ad un’altra più sotterranea ma altrettanto presente, quella decadente quando l’assoluto dispensa i suoi piaceri. Enzo Minarelli L’absolu ou rien Pagine 160, Euro 15 Campanotto Editore
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