Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 28 dicembre 2012
Videoculture
Uno dei settori vitali per la costruzione di una società all’altezza del presente e pronta a capire il futuro, qual è la scuola, è, particolarmente in Italia, uno dei più refrattari ad accettare i segnali tecnologici della nostra epoca. Nelle mie interviste, ho chiesto spesso il perché di questa mancanza. La migliore risposta me l’ha data Piergiorgio Odifreddi che così mi disse: “Perché da noi c'è stata per anni una refrattarietà della cultura ufficiale, umanistica, a non considerare la scienza degna di attenzione. In parte la cosa deriva dal deleterio influsso dell'idealismo di Croce e Gentile, e dalle loro riforme scolastiche. Entrambi sono stati ministri della pubblica istruzione, e hanno forgiato la riforma dell'insegnamento che ha prodotto la divisione fra i licei per dirigenti, e scuole tecniche per i lavoratori. L'idea era che per comandare bastava conoscere i classici. I bei risultati a cui ha portato questa divisione si vedono oggi, nella spaccatura fra il mondo reale del lavoro, basato sulla scienza e sulla tecnologia, e il mondo irreale della politica, basato su una caricatura dell'umanesimo”. Il libro che presento oggi, pubblicato dalle Edizioni Clueb, è un volume prezioso perché interpreta e propone le forme di un nuovo tipo di apprendimento. E’ a cura di Laura Corazza e Luca Ferrari. Titolo: Videoculture Tra formazione, didattica, ricerca.
La struttura del testo è multidisciplinare e orientata a creare nuovi scenari di collaborazione tra cultura umanistica e scientifica. Sono tre le direzioni proposte dai curatori del libro verso le quali le videoculture possono prendere forma: formazione, didattica, ricerca. La prima direzione, definita della formazione, propone alcune riflessioni sull'educazione ai media e sui rapporti della narrazione audiovisiva con la letteratura e il cinema. La seconda, definita della didattica, illustra alcune esperienze progettuali che affrontano il tema della narrazione veicolata e amplificata da media quali la web tv, il podcasting e authoring tools per il digital storytelling. La terza e ultima parte è una riflessione sul rapporto tra ricerca scientifica e produzione audiovisiva e presenta alcuni strumenti per monitorare esperienze didattiche supportate da un uso competente dei media, ricerche sulle tematiche dell'audiovisivo a partire dall'uso dei blog fino ad arrivare all'ambientazione filmica. I saggi, tutti valorosi e corredati da blibliografie, sono firmati, per la Formazione, da Andrea Canevaro – Giuseppe Manzoli – Manuela Fabbri – Alessandro Zanchettin. Per la Didattica, da Elena Pacetti – Nicoletta di Blas – Paolo Paolini. Per la Ricerca, dai due curatori e da Anna Antonazzi (di recente ospite di questo sito in occasione dell’uscita del suo libro “Contaminazioni”, vedi QUI) - Loretta Guerrini Verga – Sara Iommi. Il testo termina con un saggio dedicato al carattere pervasivo della cultura video, ne è autore Enrico Masi. A Laura Corazza ho rivolto due domande. Da quali urgenze di comunicazione è nato questo libro? Il video è una forma culturale di moda. Carlo Lucarelli, da me intervistato, ha detto: “Nell’immaginario collettivo il video è uno strumento più semplice da capire rispetto al testo scritto. Non è vero ma non importa. Questo immaginario già da solo, anche se fondato su un assunto sbagliato, rende l’audiovisivo un buon veicolo.”. Sono noti però anche i rischi di una comunicazione fondata sull’audiovisivo. Ezio Raimondi ha messo in evidenza il processo di drammatizzazione che accompagna la cultura del video e il ricorso alla teatralità nell’affermare il proprio punto di vista. Inoltre, la narrazione audiovisiva ha le sue regole e le sue strutture, è frutto di scelte nei confronti delle immagini, delle musiche, dei testi e dei concetti da esprimere. Il video in qualche modo falsifica per poter rappresentare. Da qui nasce l’esigenza di un’educazione all’interpretazione e all’uso dei video e degli oggetti multimediali in genere, anche in relazione all’analisi della società. Giacomo Manzoli ci spiega perché l’aggettivo postmoderno è applicabile anche al cinema. Andrea Canevaro si addentra nel bisogno di formazione, esplicito e implicito. Elena Pacetti, Paolo Paolini, Nicoletta Di Blas e Luca Ferrari propongono esperienze di didattica attraverso la multimedialità e il digital storytelling. In quale modo le videoculture possono superare il dissidio idealistico fra cultura umanistica e scientifica? Applicare al cinema la condizione postmoderna, come ha fatto nel suo saggio Giacomo Manzoli, significa riconoscergli la capacità e la possibilità di connettere e disconnettere a piacimento elementi di tutte le culture. Lo spettatore contemporaneo che sa interpretare il linguaggio audiovisivo diviene capace di navigare fra concetti e suggestioni creando e ricreando fili personalissimi di connessione. L’educazione collegata al cinema e al video in generale apre molti scenari possibili, di grande ampiezza e complessità, fino a superare le barriere e le distinzioni all’interno del sapere. La Media education ha un ruolo fondamentale nella formazione del pensiero critico, come ci illustrano Manuela Fabbri e Alessandro Zanchettin. Nel video si incrociano linguaggi, trame e pensieri diversi. Anna Antoniazzi l’ha sperimentato scrivendo una storia per bambini, narrata con linguaggi multimediali e realizzata accostando modelli ricorrenti a strutture inusuali. Loretta Guerrini Verga e Sara Iommi analizzano il ruolo della scenografia virtuale e dell’ambientazione filmica nella rappresentazione della realtà e del sapere. Enrico Masi, riflettendo anche sulla sua esperienza di regista, si domanda chi sia l’autore effettivo del video poiché sono almeno quattro gli agenti coinvolti nell’opera: soggetto, operatore, montatore, fruitore. Videoculture A cura di Laura Corazza - Luca Ferrari Pagine 205, Euro 15.00 Edizioni Clueb
giovedì, 27 dicembre 2012
Changing Difference
Oggi, la tematica Glbt è venuta alla luce uscendo – grazie alle scienze e a un'evoluzione del concetto di società – da un ingiustificato clima di colpevolezza in cui – prime fra tutte le religioni, specie quelle monoteiste – l’avevano cacciata. Nonostante il progresso scientifico e sociale abbia fatto maiuscoli passi in avanti, larghe parti del consorzio umano, ottusamente rinchiuse in un pensiero reazionario, manifestano, purtroppo (Italia non esclusa), un atteggiamento ostile e violento contro le diversità di genere. Mi piace qui riportare una frase di Michele Serra: “Leggere sulle prime pagine le parole "contro natura", pronunciate dal papa Benedetto XVI a proposito delle unioni omosessuali, mi fa rivoltare le viscere. La natura umana è così complicata e ricca (essendo biologica, psicologica, culturale, sociale) che estrarne un pezzo e appenderlo al lampione del Giudizio Divino equivale ad amputarla”. La Teoria Queer indica, nella stessa area Glbt, un marcato impegno politico, è un pensiero che attraversa più discipline e che ha avuto all’estero anticipatori di quegli studi in Michel Foucault, Jacques Derrida, Julia Kristeva, Judith Butler. Tale teoria, in pratica, mette in discussione la naturalità del genere e dell’identità sessuale, affinché eterosessualità, omosessualità, transessualità – possibili declinazioni queer – più non siano nomi di una sessuologia impoverita di pensiero ma modi di relazione con l’Altro. Il tema è di grande attualità. Basti pensare che Umberto Veronesi prevede un futuro bisessuale con la procreazione artificiale per tutti. Infatti, secondo l'oncologo, in un tempo non molto lontano (si parla di due o tre generazioni) il sesso sarà solo piacere e amore perdendo del tutto il suo scopo riproduttivo che sarà ottenuto dalla clonazione e dalla fecondazione artificiale.
Di grande tempestività culturale è, quindi, la mostra in corso alla Galleria civica di Modena Changing Difference Queer Politics and Shifting Identities. Curatore: Lorenzo Fusi già curatore della Biennale di Liverpool, sue note biografiche QUI. L’esposizione vede tre mostre personali simultanee. Protagonisti Peter Hujar (1934 – 1987), sua la foto qui in pagina Candy Darling on her Deathbed, 1974. Jack Smith (1932 – 1989). Mark Morrisroe (1959 – 1989). Questa mostra in tre parti - scrive in catalogo il curatore - prende il titolo dall’omonimo libro della filosofa francese Catherine Malabou che traspone la classica opposizione materia/forma (rappresentanti rispettivamente il femminile e il maschile in termini filosofici) in un contesto sessualmente ibrido […] L’osservatore attraverso il lavoro dei tre artisti selezionati si troverà nel bel mezzo di una lotta fra opposti solo apparenti, come l’arte d’élite e quella popolare, il banale e l’elegiaco, il trash e il ‘raffinato’, il camp e l’etero (mainstream?), il pop e l’aulico, il feticismo e l’amore (o la feticizzazione dell’amore), la vita e la morte. Tali dicotomie, in relazione all’opera loro, rivelano il falso problema ‘della differenza’ in quanto ciascun termine non esiste in opposizione all’altro, bensì l’uno nell’altro. Le opere di Hujar e Smith sono distribuite nei due livelli di Palazzo Santa Margherita in una narrazione visiva che, se per Hujar si concentra esclusivamente sulle straordinarie foto in bianco e nero, tra cui la serie dedicata alle catacombe di Palermo e gli intensi ritratti di David Wojnarowicz (fotografo e scrittore americano, morto di Aids a 37 anni, nel 1982), per Smith predilige i film e una cospicua antologia d’immagini presentate nella forma dello slide-show. I circa 240 lavori del più giovane, Mark Morrisroe, sono, invece, esposti alla Palazzina dei Giardini. Hujar, Morrisroe e Smith si muovono all’interno del difficile territorio che separa la visibilità e l’assimilazione della “differenza”. La loro opera mette in risalto i rischi che il fondere arte e vita, ricerca formale e lotta politica, comporta. Il loro agire diventa sempre più urgente con l’approssimarsi dell’Aids, ma, di fatto, traccia una complessa parabola che dagli anni ’60 arriva alla fine degli anni ‘80. L’America e New York, fanno da sfondo a queste storie che s’intersecano di fronte al colpevole disinteresse di una classe politica (l’amministrazione Reagan), che rifiuta di riconoscere quei diritti civili che la gravità dell’emergenza sanitaria e la nuova epidemia - di cui i tre moriranno - mettono drammaticamente in evidenza. Il catalogo bilingue italiano/inglese con testi di Bill Arning, Lorenzo Fusi, Fiona Johnstone e Marco Pierini è pubblicato da Silvana Editoriale. Ufficio Stampa Galleria Civica di Modena, Cristiana Minelli. Tel. +39 059 – 20 32 883, galcivmo@comune.modena.it Changing Difference Galleria civica di Modena Info: tel. +39 059 2032911/2032940 - fax +39 059 2032932 L'ingresso è gratuito. Fino al 27 gennaio 2013
venerdì, 21 dicembre 2012
Stupidità
“Antropologicamente, lo stupido è sempre l’altro. Ma a ben vedere esistono innumerevoli forme di stupidità sempre parziali, momentanee, soggettive, rintracciabili, a esser corretti, in ciascuno di noi. Scagli la prima pietra chi ne resta fuori”. Queste parole, estratte dal testo, sono riportate sul quarto di copertina del volume Stupidità firmato da Gianfranco Marrone. Saggio fulminante – edito da Bompiani – grandiosa investigazione sulla stupidità che avverte come sia possibile in ogni momento esserne colpiti, ricordate Baudelaire che diceva “Oggi mi sono sentito sfiorare dall’ala dell’imbecillità”? Libro che esplora territori letterari e tecnologici, politici e transpolitici, filosofici e antropologici, ricco di citazioni (… a proposito, quanto avrei gradito un Indice dei Nomi!) in cui non sorprende che il nome più ricorrente sia quello di Barthes essendo l’autore uno dei migliori studiosi che abbiamo in Italia del semiologo francese. A parte gli stupidi istituzionalmente tali (politica e burocrazia sono fabbriche che lavorando 24 ore su 24 riescono a sfornarne un numero elevatissimo), niente e nessuno sono al riparo, neppure certe cause nobili o ignobili; diceva Gesualdo Bufalino: “Un’idea innaffiata dal sangue dei martiri non è detto che sia meno stupida di un’altra”. Marrone, saggista e scrittore, insegna Semiotica all’Università di Palermo, collabora con diversi giornali. Si occupa di linguaggi, discorsi e media nella cultura contemporanea, analizzando fenomeni diversi come il giornalismo e la fiction televisiva, lo spazio della città e le tecnologie comunicative, la gastronomia e la corporeità, la comunicazione di marca e l’ideologia naturalista. Tra i suoi libri: Il sistema di Barthes 1994); Corpi sociali (2001); La cura Ludovico (2005); Sensi alterati (2006); L'invenzione del testo (2010); Introduzione alla semiotica del testo (2011); Addio alla Natura (2011). A Gianfranco Marrone ho chiesto: Enrico Vaime esclama “Non ci sono più i cretini di una volta”. Ha ragione o torto? Ha ragione. Prima di Vaime, lo diceva anche Sciascia, e si riferiva a un fenomeno preciso, che ancor prima di lui Flaubert aveva combattuto: la comparsa del cretino intelligente, della stupidità che si nasconde nelle pieghe della cultura, e della cultura progressista in particolare. Flaubert lo notava a proposito del pensiero positivista, per lui del tutto negativo. Sciascia lo diceva per la sinistra italiana ("è nato il cretino di sinistra"). Ai tempi dello scemo del villaggio era tutto facile. Esistevano codici sociali condivisi, e ai margini della società ci stava lo stupido, il matto, il trasgressivo, che poteva talvolta essere colui il quale svelava l'arbitrarietà dei codici stessi, il fool che lotta contro il potere, quello che indica il re nudo. Oggi lo scemo del villaggio globale non sta ai suoi margini ma al centro, a esser stupida è la legge, la burocrazia, l’amministrazione, che da mezzi son diventato fini, principi idioti a cui tutti dobbiamo adeguarci. Oggi tutti indicano tutti come stupidi, ma in un mondo dove tutti sono stupidi nessuno lo è più, non c’è nessuno che, dal di fuori, scopre il re nudo. Così, la stupidità è diventata cool,: basti pensare alla tv, alla pubblicità, alla vita stessa. prima c’era l’anti-intellettualismo di destra, ora c’è quello generalizzato. La cultura è out. L’argomento tecnologico è ampiamente trattato nelle tue pagine. In tanti dicono che gli uomini sono istupiditi dalle macchine e dalla supermacchina Internet. Ma, le macchine, dovrebbero preoccuparsi o no della stupidità umana? Dato che la stupidità è di moda, a essere intelligenti sono diventate le macchine, tecnologiche e sociali. Oggi tutto è smart, dai telefonini alle automobili, perfino intere città. Abbiamo delegato alle tecnologie il compito di essere intelligenti, di pensare per noi, di riflettere e di agire in modo sensato. Solo che loro lo fanno in modo stupido, ossia senza secondi fini, senza sapere il perché, senza conoscere, direbbero i filosofi, il senso del senso. E poi, le macchine sono state progettate da qualcuno che le progetta solo per riuscire nel progetto, per andare avanti nella sofisticatezza della tecnologia, senz’altro scopo che non le loro potenzialità. Gli ingegneri oggi progettano cose sperando che, poi, qualcuno dica loro a cosa servono. Hanno bisogno di cultura, di pensiero, che viene però da altre macchine. Ed è un circolo vizioso. Siamo messi male. Per visitare il sito web dell’autore: CLIC! Gianfranco Marrone Stupidità Pagine 176, Euro 12.00 Bompiani
giovedì, 20 dicembre 2012
L'ultimo bunker
Il titolo di questa nota non tragga in inganno: non si tratta di quello berlinese ma di un più recente (e tecnologicamente attrezzato) nascondiglio dove era rintanato un sanguinario camorrista. Il sottotitolo del libro che presento oggi chiarisce meglio tutto quanto: L’ultimo bunker Come abbiamo catturato Michele Zagaria, il più potente e più feroce boss dei Casalesi. Scritto da Catello Maresca con Francesco Neri è stato pubblicato da Garzanti. Catello Maresca (Napoli 1972), in Magistratura dal 1999, è pm a Napoli. Dal 2007 è alla Direzione Distrettuale Antimafia. Ha diretto le operazioni che hanno portato all'arresto del superlatitante Michele Zagaria descritte in “L’ultimo bunker”, ha rappresentato l'accusa nel processo al gruppo Setola e ha partecipato all'operazione ‘Gomorrah’ sul traffico internazionale di merce contraffatta. Francesco Neri (Roma 1971), giornalista professionista dal 2002, ha lavorato come redattore per la casa editrice Editalia e per “Polizia e Democrazia”. Collabora con “il manifesto” e con la Rai (Unomattina, Ballarò, La grande storia in prima serata). È stato docente a contratto di storia del giornalismo all'Università La Sapienza.
In Italia il numero dei giallisti ormai supera quello degli evasori fiscali, trovarsi, quindi, di fronte a un libro come questo, finalmente su cose e personaggi reali è per me (e, credo, non soltanto per me) una gioia. I meriti del libro, però, non risiedono solo nell’essere un vero e proprio documento storico, ma si estendono al piano stilistico perché attraverso una scrittura tesa, appassionante, tiene il lettore avvinto alle pagine pur sapendo che l’esito darà ragione a chi indaga. Già, ma attraverso quali avventure ciò è avvenuto! Dovendo incassare anche sconfitte dalle quali Maresca invece d’abbattersi ne usciva rafforzato dall’esperienza per metterla a frutto in successivi passi. Le difficoltà per catturare Zagaria sono state tante, comprese quelle di dover dirimere contrasti tra appartenenti a varie forze (Carabinieri, Finanza, Polizia) divise talvolta da gelosie professionali. Le pagine filano via velocissime illustrando anche le capacità dei nuovi strumenti tecnologici oggi al servizio delle inchieste. Tutto questo è raccontato senza mai perdere di vista lo scenario sociale in cui sono stati commessi gli atti criminosi e la protezione della latitanza di Zagaria (16 anni!) sicché ne viene fuori un panorama antropologico tanto crudo quanto vero. Ho rivolto alcune domande a Francesco Neri. A te che sei stato docente di storia del giornalismo chiedo: quale credi sia il peggiore difetto dei libri di cronaca che si occupano di criminalità organizzata? L'elemento che contribuisce a non appassionare i lettori incuriositi dai libri che si occupano di criminalità organizzata è la presenza di atti giudiziari, documenti ufficiali e verbali. Che da un lato conferiscono alla pubblicazione autorevolezza e serietà ma dall'altro rischiano di rendere il libro poco coinvolgente dal punto di vista emotivo e quindi anche più difficile l'approccio. Maresca ed io, proprio per coinvolgere emotivamente il lettore, abbiamo voluto scrivere un libro che, pur raccontando tutti i fatti in modo preciso e dettagliato, coinvolgesse emotivamente il lettore e suscitasse, pagina dopo pagina, la curiosità necessaria a continuare la lettura. E' un dialogo, come mi piace dire, tra il giornalista e il magistrato. Abbiamo voluto raccontare una storia gigantesca, la cattura di Michele Zagaria, praticamente ignorata, colpevolmente vorrei aggiungere, da tutti i grandi giornali e da tutte le grandi televisioni italiane, che ovviamente l'8 dicembre 2011, giorno seguente all'arresto più importante della storia giudiziaria recente come è stato definito da qualcuno, hanno dato la notizia ma poi non l'hanno approfondita minimamente, come invece avrebbe meritato. Raccontare è importante perché consente di conoscere e la conoscenza è alla base di qualunque libertà. Senza considerare che veniamo da vent'anni in cui abbiamo assistito a un Truman Show continuo, durante il quale, nel migliore dei casi, i fatti che ci riguardavano non ci sono stati raccontati. Nel peggiore ci sono state raccontate tante menzogne e chi le raccontava ha costruito carriere eccezionali. Passiamo ora alla fiction letteraria italiana. Crea più distorsioni o benefici alla conoscenza della delinquenza come mafia, camorra, ‘ndrangheta, eccetera? Nel ribadire, come hai già detto in apertura, che ciò che Maresca ed io abbiamo raccontato nel libro “L’ultimo bunker” non è fiction, non è finzione, non è costruzione fantastica ma purtroppo è realtà, dura e drammatica, che nasce a un quarto d'ora da Napoli, una delle più grandi e più belle città del sud per poi ramificarsi in tutta Italia "come un cancro che lancia metastasi imprevedibili in ogni direzione", sono convinto, e l'ho imparato in questi mesi lavorando con l'amico Maresca alla stesura di questo libro, che la lotta alla criminalità organizzata si fa anche tenendo i riflettori puntati su queste realtà. Quindi qualsiasi fiction, letteraria o cinematografica, purché fatta bene, può solo portare benefici. Qual è la cosa che più ti ha appassionato di questo libro cui hai lavorato con Maresca? Vedere come accanto all'Italia volgare e sguaiata che abbiamo conosciuto in questi ultimi vent'anni c'è un'altra Italia fatta di uomini e donne che lavorano sodo, spesso nell'anonimato, rischiando la vita per garantire la sicurezza di tutti noi e che tutti noi per questo dobbiamo ringraziare. Per una scheda sul libro: CLIC! Catello Maresca con Francesco Neri L’ultimo bunker Pagine 176, Euro 14.00 Garzanti
Fotografia dell'identità
L’Associazione Heart - Spazio Vivo fondata da Giacomo Ambrosi - Simona Bartolena - Piera Biffi - Giuseppe Brivio - Enrico Giudicianni - Antonio Testa propone la mostra Fotografia dell’identità curata da Roberto Mutti. Per sue note biografiche:CLIC!
Dal comunicato stampa. Se la fotografia del Novecento ha posto al centro della sua ricerca la complessità della figura e del ritratto è anche per rispondere alle nuove istanze espresse dalle rivoluzioni culturali che hanno caratterizzato il periodo. Per fare pochi esempi, sono bastati i primi vent’anni per veder pubblicate “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, il “Manifesto iniziale del Futurismo” di Filippo Tommaso Marinetti e “Ulisse” di James Joyce: da allora il mondo, conosciuta la tragedia della Grande Guerra e il relativo abbandono delle “magnifiche sorti e progressive”, non sarebbe stato più lo stesso e la fotografia non poteva che prenderne atto. Quella contemporanea continua non a caso ad affrontare il tema dell’identità: talvolta lo fa in modo indiretto (per esempio, interrogandosi sui mutamenti del paesaggio naturale ed urbano), più comunemente ricorrendo alla rappresentazione del corpo e a quella più specifica legata al ritratto. La riprova la possiamo trovare osservando le opere che costituiscono la collettiva di autori stranieri qui presentata: pur non essendo nata come mostra tematica, rivela di esserlo grazie ad accostamenti non necessariamente cronologici che fanno subito emergere improvvise intuizioni, razionali coerenze, scarti logici fino a creare un percorso indubbiamente sinuoso e discontinuo (non è forse costituita in questo modo la realtà?) ma proprio per questo ricco di suggestioni. Ai visitatori viene così indicata una strada: saranno loro a scegliere quali tappe di questo affascinante percorso li sedurranno o semplicemente li incuriosiranno. La mostra presenta trenta opere originali di altrettanti autori di fama internazionale che si sono misurati con il ritratto e la figura, il nudo e la performance, la descrizione serena e la provocazione intellettuale. Fra gli autori in mostra, noto con piacere il nome di un’amica già più volte ospite di questo sito: Giovanna Torresin. Tutti di primo piano i nomi presenti: Yasumasa Murimura, Bill Brandt, Seidou Keïta, William Klein, Helmut Newton, Sante D’Orazio, Nobuyochi Araki, Jan Saudek, Sebastiaõ Salgado, David LaChapelle, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano, Cindy Sherman, Kim Joon, Wolfgang Tillmans, Thomas Ruff, Sally Mann, Loretta Lux, Robert Gligorov, Vaness Beecroft, Sandy Skoglund, Irina Ionesco, Nicollas Sinclair, Nan Goldin, Shirin Neshat, Giovanna Torresin, Matteo Basilé, David Hamilton, Gregory Crewdson. Fotografia dell’identità Heart – Spazio vivo Via Trezzo, angolo via Manin, Vimercate, Mb in collaborazione con M&D Arte Fino al 20 gennaio 2013
mercoledì, 19 dicembre 2012
Come smettere di scrivere poesia
Come sanno quei generosi che leggono queste mie note, in Cosmotaxi (né in altre sezioni di Nybramedia) pubblico poesia o recensioni di libri di poesia. Ho esibito sì qualche mia prova di anni fa, ma quelle scritture erano dettate da necessità alimentari: commissioni per programmi radio o tv della Rai. Chi non mi perdona è un crudele. E, comunque, mai in quei versiciattoli c’erano singhiozzi. No, troppi poeti, troppi gemiti, troppi agonizzanti. Lontani dalla lezione di Rabelais "Mieux vaut de ris que de larmes écrire". Ci sono capolavori poetici che hanno parlato perfino della morte ridendo pur senza irriderla. Tanti – ma proprio ‘na folla –, invece, schizzano lacrime. Perché? E’ colpa di una terribile malattia: il lirismo. Come tentare di guarire da questo malanno ce lo suggerisce un godibilissimo saggio di Francesco Muzzioli, birichino al punto giusto (cioè oltre il punto giusto): Come smettere di scrivere poesia Manuale di pronto intervento per il recupero in otto giorni di 12.000 infettati in forma grave; copertina gustosamente ottenuta rielaborando le famose cancellature di Emilio Isgrò. Per alcune note biografiche essenziali di Muzzioli – anche se non aggiornatissime – QUI. Questo volume, ispirato linguisticamente al procedere scrittorio di un manuale prima diagnostico e poi terapeutico, è anche condito da ricette farmaceutiche sotto forma di “consigli dei nonni”, occasione questa per tracciare una micro antologia di riflessioni sul tema poetico, ad opera di tredici autori, ad esempio: da Orazio a Baudelaire, da Gozzano a Majakovskij, da Gadda a Manganelli. Muzzioli ha pubblicato: Le teorie della critica letteraria; Le strategie del testo; Scritture della catastrofe. Accanto a questi autorevoli contributi alla critica letteraria, da tempo coltiva una vena monellesca che non si accontenta di facile satira ma che dietro la clownerie manifesta tutta la forza morale e fustigatrice dell’autore. Leggete, ad esempio, L'urbana nettezza; Alla Corte del Corto; Il corto, la scorta, le escort. Senza trascurare la gioiosa e sferzante polemica contro la New Italian Epic di Qui si vende storia. Ecco come Muzzioli conclude questa suo recente lavoro: Questo stesso opuscolo potrebbe essere visto, precisamente, come una scusa buona per continuare, non altro che un modo per camuffare da medicina gli ennesimi Exercices de style. Può anche darsi che sia vero e che non ci sia niente da fare, che una volta presa l’influenza poetica non se ne esca più. Sono sincero però quando dico che vorrei smettere e che ce la sto mettendo tutta; e che, poiché le ricadute non si possono mai né escludere né prevedere, questo libro, nel suo percorso “purgatoriale”, vale anche e soprattutto per me. Se poi potesse aiutare altri che si trovano nelle mie medesime condizioni, ne sarei felice e spero davvero che, attraverso le griglie dell’umorismo e dell’ironia, del ritaglio e della saturazione, si riescano se non altro a scrivere delle poesie meno brutte. Buona fortuna a tutti! Francesco Muzzioli Come smettere di scrivere poesia Pagine 108, Euro 9.00 Editore: Lithos
Intermedia Edison 2012
S’avvererà la profezia attribuita agli incolpevoli Maya da iettatori professionisti? Credo che camperemo benissimo (e anche malissimo, come già avviene) pure dopo il 21 dicembre, ma per chi voglia essere estremamente prudente e godere di musica, immagini, tecnologia, c’è un motivo di più per recarsi all'Intermedia Edison proposto proprio il 20. Il collettivo di compositori dell’Edison Studio è da anni un’importante realtà nel panorama della musica elettroacustica internazionale grazie ai numerosi premi e riconoscimenti ottenuti. Ne cito alcuni e non giuro d’essere esaustivo: Concours International de Musique Electroacoustique de Bourges, Prix Ars Electronica, International Computer Music Conference, Main Prize Musica Nova. Con le prestigiose collaborazioni con la Biennale di Venezia, il Ravenna Festival, la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, l’Opera di Lipsia, il Calarts Theater di Los Angeles, l’Edison Studio si distingue per l'originalità dei suoi progetti: il CD “Zarbing” con il percussionista Mahammad Ghavi Helm, lo spettacolo "I luoghi comuni non sono segnati sulle carte" per 4 strumenti e 10 voci registrate su un testo originale di Marco Martinelli, e il "Sound of Silences": le musiche scritte per i film muti “Gli Ultimi Giorni di Pompei” (1913), “Das Cabinet des Dr. Caligari” (1919), “Inferno” (1911) e "Blackmail (1929) una commissione della Società Aquilana dei Concerti "B. Barattelli" per il 2013. Intermedia Edison, arrivato quest’anno alla sua tredicesima edizione, è un appuntamento con le più recenti creazioni dello Studio. Ad aprire l’evento è il compositore russo Igor Kefalidis che con il suo “Vogelperspektive”, monta e trasforma il canto di un usignolo registrato alle porte di Mosca. Subito dopo video, ascolti e interventi di Guido Barbieri, Giulio Latini, Marco Gazzano, Mauro Cardi, Luigi Ceccarelli, Fabio Cifariello Ciardi e Alessandro Cipriani offriranno una panoramica sulle ultime e prossime produzioni di Edison Studio. Fra queste, l’utilizzo musicale delle inflessioni e dei ritmi della voce parlata e dei dati finanziari nella musica di Fabio Cifariello Ciardi; “Il Contatore di Nuvole”, il nuovo lavoro per pianoforte ed elettronica di Luigi Ceccarelli; le musiche di Edison Studio per l’ultimo film muto di Alfred Hitchcock, Blackmail (Ricatto); una raccolta di saggi dedicata alle musiche dello Studio per il cinema muto, curata da Marco Gazzano e di prossima uscita per la casa editrice Exorma. La musica tornerà, questa volta dal vivo, con le percussioni di Gianluca Ruggeri, i flauti di Gianni Trovalusci e l’elettronica curata da Angelo Benedetti e Salvatore Mudanò. In programma “Manao Tupapau” per flauto, percussioni ed elettronica
di Mauro Cardi, “Altri Passaggi Ruggenti” per percussioni ed elettronica scritto da Fabio Cifariello Ciardi per l’ingegno di Gianluca Ruggeri e soprattutto due brani di altrettanti giovani compositori appositamente selezionati dallo Studio per questa occasione: “Movimenti sulla memoria” di Vincenzo Core, per percussioni ed elettronica, e il video “Falling” con la regia di Adriano Cirulli e la musica di Antonino Chiaramonte. Infomazioni: info@edisonstudio.it tel. 349.5502571, 06 – 68 40 690; 06 – 68 40 69 16-23 Intermedia Edison 2012 Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi Palazzo Mattei di Giove Via Michelangelo Caetani, 32 – Roma Giovedì 20 dicembre, ore 16:30 Ingresso libero
domenica, 16 dicembre 2012
Confinati a Ventotene (1)
Un tipo buffo, tempo fa, ebbe a dire che i confinati dal fascismo avevano trascorso il loro esilio in “luoghi di villeggiatura”. Aggiunse pure che “Mussolini non ha mai ucciso nessuno”. A quella mente malandata, sfuggì che lo squadrismo, ideato e incoraggiato direttamente da Mussolini stroncò le vite di molti: Giovanni Amendola, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, i due fratelli Rosselli, Giacomo Matteotti, solo per fare alcuni dei nomi più noti, ma l'elenco è ben più lungo, e soltanto riferito agli anni dell'ascesa al potere e al consolidamento della dittatura del duce. Circa il confino, che dire? I confinati erano tradotti nelle isole in catene ed erano assimilati ai delinquenti comuni. Per loro significava la messa al bando dalla società civile e la reclusione in remote località della nazione, dove vi erano poche vie di comunicazione. Al confino finirono i più grandi intellettuali antifascisti, forzatamente isolati su minuscole porzioni di terra in mezzo al mare (Pantelleria, Ustica, Ventotene, Tremiti, per citare le isole più utilizzate) o in paesi dell’Italia meridionale (ad esempio, Roccanova, Eboli, Savelli), così da separarli fisicamente e moralmente da qualsiasi contatto con il resto del Paese. Il confino aveva una durata massima di 5 anni, che tuttavia potevano essere rinnovabili. Gli oppositori politici venivano così isolati, privati del loro lavoro, allontanati dalla famiglia che spesso si trovava a vivere in condizioni di difficoltà economiche e sociali. Questo servizio che state leggendo è dedicato a un episodio alquanto recente che ha portato di nuovo alla ribalta in particolare i confinati nelle isole Pontine: 2100 a Ponza e 2292 a Ventotene (dov’è nato il famoso documento politico noto, appunto, come Il Manifesto di Ventotene). Riccardo Navone, torinese di nascita e genovese di adozione, storico e saggista, un giorno sbarcò a Ventotene da turista e si recò nell’unica libreria dell’isola – “L’ultima spiaggia” – gestita dal suo amico Fabio Masi che da poco aveva edito “Ventotene, isola di confino” di Filomena Gargiulo (la incontreremo nella seconda parte di questa nota). Da quel giorno, Navone ha perseguito il progetto di ricostruire tutte le biografie dei confinati, essendo note finora solo quella dei nomi più importanti dell’antifascismo lì isolati. Per conoscere meglio Navone e il suo progetto, cliccate QUI. A Riccardo Navone, ho rivolto due domande. Quella decisione del fascismo, oggi, a 70 anni circa da quel tempo, possiamo dire che cosa, oltre alle sofferenze inflitte, ha provocato? Intanto è stata una formidabile arma di repressione e di ricatto non solo per i confinati ma anche per le famiglie e per i cittadini tutti. Controlli asfissianti, licenziamenti, persecuzioni per i parenti, eccetera. Ha contribuito notevolmente a quel clima di delazione diffusa che è stato uno dei tratti più caratteristici del fascismo. Nel tempo il confino politico si è trasformato in un clamoroso errore per il fascismo perché ha dato un impulso notevolissimo al lavoro politico clandestino e ha favorito una unità di intenti, anche a livello strategico, fra tutte le componenti antifasciste. Al confino si discuteva e ci si confrontava, soprattutto ci si organizzava. Lì si è formata una classe dirigente che ha diretto la Resistenza e la lotta armata contro i nazi-fascisti. Nel dopoguerra, chi era passato per quella esperienza, non è venuto meno a un certo spirito internazionalista e sinceramente democratico che ha guidato le opposizioni ai governi democristiani almeno fino a tutti gli anni Settanta. Oggi questa eredità si è completamente perduta. In alcune interviste hai detto che questo lavoro di rinvenimento dei documenti sui confinati di Ponza e Ventotene “potrebbe anche mai finire”. Ma allora che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro? Quali i tuoi obiettivi più immediati? La ricerca storica non finisce mai e questo vale per qualsiasi tipo di ricerca. L’obiettivo primario è quello di ottenere uno status ufficiale dalle istituzioni locali e nazionali. A Ventotene questo si sta concretizzando con l’impegno dell’Amministrazione Comunale e della Riserva Statale. Il collettivo che compone il “Laboratorio Isole della memoria” desidera costituire un archivio nazionale sulla tematica del confino con l’aiuto di tutti i cittadini che hanno avuto dei parenti o dei conoscenti finiti al confino. Vorremmo riuscire a scrivere tutte le biografie, acquisire documenti inediti, per approfondire un pezzo di storia tutta italiana che ha segnato profondamente più di una generazione e che oggi sembra una memoria perduta. Allo stato attuale abbiamo realizzato una mostra in alcuni locali che sono stati approntati come sede del Laboratorio. Nell’immediato prepareremo un sito web e una pubblicazione tratta dalle memorie inedite di un combattente nella guerra di Spagna che venne confinato a Ventotene.
Confinati a Ventotene (2)
Nella prima parte di questa nota ho citato un libro e la sua autrice: “Ventotene, isola di confino” (2009) di Filomena Gargiulo. Nata a Ventotene, insegnante di scuola primaria, lavora a Formia. Nel luglio 2000 ha organizzato e curato la mostra antropologica "Il tempo di Ventotene", sulla storia, vita quotidiana e il lavoro dei ventotenesi. Nel 2005 ha pubblicato I Ventotenesi. Attualmente conduce una ricerca sulla colonizzazione dell'isola nel periodo borbonico. A lei ho chiesto: quali furono i rapporti fra i confinati e gli abitanti di Ventotene? In una piccola isola, come quella di Ventotene, le due comunità, quella dei confinati e degli isolani, pur rimanendo entità diverse, indugiando al limite di una barriera d’interrelazioni e sottoposte entrambe a controlli molto severi, intrecciarono inevitabilmente le loro storie e i loro destini e ciò li legò inesorabilmente. Fra confinati e isolani non potevano esserci rapporti se non quelli fra i venditori e gli “spesini”, cioè quei confinati che si occupavano di acquistare la merce per le mense, ma dovevano limitarsi a quelli formali di compravendita; era vietato, per i confinati, trattenersi in un negozio o in qualsiasi locale pubblico più del dovuto e ai ventotenesi era precluso qualsiasi saluto prolungato, essi, come i confinati, vivevano impauriti e assoggettati alle guardie. Tuttavia i rapporti furono complessi e per alcuni aspetti rilevanti, sia quelli più palesi sia quelli caratterizzati da una silenziosa complicità e furono diversi anche secondo i periodi. Spesso furono contraddistinti dalla solidarietà, a volte dalla sopportazione e dal disincanto, ma non mancarono anche sentimenti d’insofferenza per la loro posizione che, per assurdo, poteva persino apparire di privilegio; sicuramente la loro presenza garantiva una certa vivacità alla povera economia dell’isola. Ritengo, però che i rapporti furono sempre improntati sul reciproco rispetto. Nonostante i divieti alcuni ventotenesi, rischiando molto, accettarono di trasportare documenti e messaggi clandestini da e per l’isola; nacque qualche amore con ragazze isolane e con alcune famiglie significative relazioni di stima e amicizia che continuarono e si rinsaldarono negli anni successivi. Permane il ricordo di quegli anni lontani presso i ventotenesi di oggi oppure no? E, con la tua pratica dell’isola, ti risulta se i tanti turisti, provenienti da tante parti d’Italia, siano o no, a conoscenza di quei duri giorni passati lì al confino dagli antifascisti? Il ricordo dei confinati, a mio parere, non si è del tutto sopito presso la comunità degli isolani; grazie anche alle iniziative delle associazioni antifasciste quali l’ANPPIA e l’ANPI, che fino agli anni novanta hanno organizzato dei grandi raduni per mantenere vivo il ricordo di quanti hanno sacrificato la propria vita per la democrazia e la libertà. Sull’isola, eccetto il piccolo monumento dedicato ai confinati, non esistono più tracce evidenti di quel periodo, la cittadella confinaria fu definitivamente abbattuta alla fine degli anni settanta. Si sta diffondendo, però negli ultimi anni un particolare tipo di turismo, sono i figli e i nipoti dei confinati che ritornano, inseguendo deboli tracce, per ripercorrere e ritrovare testimonianze importanti degli anni che hanno così fortemente caratterizzato il passato dei loro cari. Gli altri turisti forse sono un po’ più distratti, ma l’isola si offre come un immenso contenitore di storia per chi ha voglia di intraprendere percorsi evocativi ed emblematici.
Suburbans
Leggere un romanzo di oggi dopo gli “Esercizi di stile” di Queneau è lavoro al quale da tempo non mi sottopongo. Se proprio voglio leggere narrativa, c’è tanto da trovare tra grandi e piccoli libri che non ho letto, di ieri e dell'altro ieri, d’avere solo l’imbarazzo della scelta. Romanzi no, al limite leggo qualche racconto, perché scrivere sul breve è arte difficile, ma raccomando a chi s'accinge a una short story di non leggere Bartleby lo scrivano perché dopo, giustamente scoraggiato, corre il rischio di non scrivere il racconto ideato perché capisce ch’è difficile superare quel capolavoro. Il romanzo, lo so, è vivo più che mai come la maggior parte delle cose che prima d’essere belle o brutte, sono inutili. Non è soltanto il progressivamente sempre più superato supporto cartaceo a renderlo inutile, ma la sua forma stessa di composizione che, invece, oggi – preconizzata da Italo Calvino – trova, e troverà, nuova espressione in questo tipo di letteratura. Uno che molti anni fa, con vertiginosa operazione su carta - introvabile pubblicazione di Lerici, ma io mi vanto di possederla - aveva capito come sarebbero andate le cose, fu il francese Marc Saporta con "Composizione n. 1" (1962), cofanetto con pagine sciolte da mescolare come carte da gioco e che comunque disposte davano una storia compiuta, sempre diversa, determinando di volta in volta il destino del protagonista. A doverla dire tutta credo che i nuovi romanzi, oggi, siano i videogames interattivi. Ma c’è un genere di narrativa che mi piace su carta ed è la graphic novel per la contaminazione parola-immagine del suo linguaggio verbovisivo. Il nome l’ha coniato Will Eisner nel 1978, ma uno slancio patriottico mi fa dire che in Italia possiamo vantare un precedente in “Poema a fumetti” (1969) di Dino Buzzati che fece tutto da solo, sceneggiatura e disegni. In che cosa la graphic novel si distingue dal fumetto? Ecco una buona, sintetica, definizione di Benedetta Tobagi: “Si distingue dal fumetto perché non è seriale, o lo è raramente, non ha limiti di lunghezza né vincoli di forma, esibisce una complessità narrativa e una profondità psicologica sconosciuta ai ‘comics’ perciò trova posto in libreria anziché in edicola”. Un recente, maiuscolo, esempio di graphic novel la fornisce una casa editrice che i lettori lontani da Tamaro e Moccia assiduamente frequentano. Si chiama 80144 – direttore editoriale: Paolo Baron – la cui prima collana è stata "Toilet" qui spiegata dal suo inventore che in un minuto fa pure una microlezione di marketing (non condivido soltanto il fatto che a un certo punto dica “è triste”, no Paolo quello che tu hai fatto supera ogni tristezza, è gioia; triste trovo i cocktail promozionali delle cosiddette grandi editrici). Alcuni altri titoli di 80144: La mia banda suona il porn; Babbo Natale è strunz; S'hanno fatto 'a batmobile; Cerco casa non un cesso; Se il mondo finisce a dicembre non pago Equitalia. Veniamo, s’è fatta ora, alla graphic novel di cui prima scrivevo. Si chiama Suburbans ed è nata dalla collaborazione tra diversi artisti americani uniti sotto la sigla T.I.N.A. comics lab. Lo spunto narrativo va ricercato nei lontani anni ’80 del XX secolo quando, a Napoli, fu avvistato un topo enorme, una bestia di venti chili, molti quotidiani ne diedero notizia. Da allora, lo stesso avvistamento si è ripetuto in diverse, grandi metropoli. Da New York a Parigi, il fenomeno ha assunto i connotati della leggenda metropolitana. Oggi, così s’immagina, una creatura, a metà tra uomo e topo, molto agile e aggressiva, vive nascosta tra i vicoli di Napoli, in fuga da un boss della mala cui ha ucciso il figlio. Quell’essere è uno sfregio della natura che si crede un mutante e, in mezzo a puttane, spacciatori e assassini, sopravvive grazie a piccoli espedienti, immerso in un clima di povertà e di degrado tra le luci livide di un luogo distopico. Per un assaggio dello stile grafico di Suburbans guardate questo trailer: CLIC! A concludere: una short (e stort) story. “Cartoni animati con un topo?... che idea orribile. Terrorizzerebbe tutte le donne incinte!”. Così disse Louis Meyer, capo della MGM, nel rifiutare il personaggio di Topolino nel 1927. Aveva torto e perse un buon affare. Non fate come lui, e non perdetevi questo Topolone. Suburbans Soggetto, sceneggiatura , disegni: T.I.N.A. Traduzione: Ernesto Carbonetti – Paolo Baron – Kain Malcovich Grafica e lettering: François de Gerard Editing: Claudia Fanti – Francesca Giannetta – Virginia Strino Presentazione di Marco Ricompensa Supervisione: Paolo Baron Pagine 128, Euro 12.00 Edizioni 80144
giovedì, 13 dicembre 2012
Jazztales al Music Inn
Un grande critico letterario, qual è Filippo La Porta, e uno che da anni appartiene alla storia del jazz, Marcello Rosa, hanno ideato una performance in quattro parti che si svolgerà al famoso Music Inn diretto da Nicola Stilo. Titolo e sottotitolo: In a sentimental mood Percorso musical-letterario novecentesco attraverso quattro sentimenti (e altrettanti concerti). Ai più distratti ricordo che per una documentazione in Rete sui due non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma non resisto a un richiamo patriottico di questo sito dove troverete QUI un recente incontro stellare con La Porta; per una sua idea sulla letteratura e sui lettori, vi consiglio quest'intervista. Per quanto riguarda Marcello Rosa: biografia e sue dichiarazioni con un CLIC; per ascoltare un brano un RICLIC. A Filippo La Porta ho chiesto una presentazione di “In a sentimental mood”. Ecco la sua risposta. Il jazz non è mai retorico né sdolcinato: ha un modo intenso ma “asentimentale”, e comunque non patetico, di raccontare i sentimenti. Può essere molto lirico, perfino struggente, ma non cerca lacrime facili, non segue schemi prestabiliti, non è prevedibile né lineare. Anche i momenti più effusivi sono spezzati dal fraseggio dell’improvvisazione, obbediscono a un ritmo stringente, e soprattutto appaiono così instabili da potersi sempre ribaltare all’improvviso nel contrario. Proviamo a indagare quattro sentimenti o tonalità affettive fondamentali in una passeggiata dentro il jazz e la letteratura del secolo scorso, da Scott Fitzgerald a Kerouac, da Céline a Perec, da Marinetti a Cortazar, da Langston Hughes a Ralph Ellison, da Pavese a Fenoglio. Sapendo naturalmente che si tratta di sentimenti che coincidono con stati d’animo spesso intercomunicanti: ad esempio in un gospel è difficile separare il momento gioioso dal lamento, in un assolo di Parker non sempre distingui tra rabbia e istinto ludico. Ricordo poi il passaggio di una straordinaria lettera del pittore Giorgio Morandi al pianista Thelonious Monk dopo aver assistito a un suo concerto al Lirico di Milano, nel 1961: Ma la tecnica è un incidente, mai un progetto, poiché è proprio il discorso artistico, quello più vero e profondo, che mette in crisi la relazione tra il nostro sguardo e la realtà di tutti i giorni, giocando d’anticipo sul pensiero dell’autore… La sua musica, se mi permette signor Monk, mi sembra di questa qualità, in grado di cogliere l’essenza di un discorso musicale calato non tanto nella capacità dell’autore di dare dignità allo strumento, quanto piuttosto del servirsene per metterlo da parte, lasciando il suono come unico protagonista della scena… Ecco, sulla scena resta il suono, e cioè il sentimento vissuto in quell’attimo lì, non programmato e indipendente da ogni strumento, senza abbellimenti e senza ricerca di effetti. Nei quattro incontri saranno proposti standard del repertorio jazzistico e brani originali, ispirati ai diversi sentimenti del ciclo e scanditi da brevi letture e raccordi letterari. Il quintetto è formato da: Filippo La Porta: voce narrante e percussioni; Marcello Rosa: trombone e storytelling; Paolo Tombolesi: piano; Stefano Cantarano: contrabbasso; Ettore Fioravanti: batteria. Il programma: Domani, 14 dicembre: Felicità, ore 22.00 Venerdì, 21 dicembre: Gioco, ore 22.00 Malinconia e Rabbia saranno i temi delle due date di gennaio ora in via di definizione, per conoscerle: QUI Ufficio Stampa: Giorgia Mileto, giorgia.mileto@tiscali.it “In a sentimental mood” Music Inn Largo dei Fiorentini, Roma Info: 06 - 68 80 67 51
mercoledì, 12 dicembre 2012
Women in Fluxus
Dopo aver ricordato che il 12 dicembre è una delle date nere, in tutti I sensi, della storia italiana perché quel giorno nel 1969 ci fu la strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano, passo a ricordare che oggi è il 12.12.12 data palindroma (può essere letta da sinistra a destra o viceversa) ed è occasione idonea per parlare di un movimento artistico qual è Fluxus in cui prevalente è il dato di fluidità del tempo, dell'arte, della vita, dell'inconsueto e del suo opposto, dell'incontro e dello scacco, con un'attitudine teorica orientata sul concettuale. "L'arte deve essere divertente,occuparsi di tutto ed essere accessibile a tutti",sosteneva George Maciunas, iniziatore di Fluxus che ha avuto la caratteristica di realizzarsi attraverso l'nterdisciplinarietà. I suoi attori, infatti, hanno agito usando plurali strumenti (talvolta contemporaneamente nelle performances): dal video alla musica, dal teatro alla fotografia, dalla danza al cinema in una fusione che Dick Higgins chiamò "Intermedia". Altra caratteristica di Fluxus è stata la massiccia presenza di artiste in quel movimento. E qui arrivo a spiegare il titolo di questa nota segnalando una delle mostre più belle che io abbia visto quest'anno: Women in Fluxus & Other Experimental Tales. L'esposizione è frutto di un progetto prodotto e promosso dalla Fondazione Palazzo Magnani in collaborazione con l'Archivio Bonotto, l'Archivio Pari&Dispari di Reggio Emilia, e altri partners pubblici e privati. Il lavoro è stato realizzato da un Comitato scientifico e organizzativo coordinato da Elena Zanichelli e composto da Luigi Bonotto - Federica Boragina - Silvia Cavalchi - Rosanna Chiessi -Federica Franceschini - Gianni Emilio Simonetti. Avde Iris Giglioli, Presidente della Fondazione Magnani scrive: E' una mostra che proprio qui, in questo territorio, infatti, tra Reggio Emilia e Cavriago, ebbe vita per un ventennio uno dei poli del gruppo, intorno all'attività editoriale e di organizzazione di eventi Pari&Dispari di Rosanna Chiessi. Qui arrivano tutti i grandi protagonisti europei di Fluxus, proponendo, all'insegna di Tutto è arte, azioni dirompenti che restano ancora ben vive nei racconti di paese. E, per sottolineare il taglio critico scelto dalla mostra di Palazzo Magnani, non a caso a guidare a Cavriago questa colonia di artisti e intellettuali è stata una donna Rosanna Chiessi. Dopo il passaggio del Living Theatre a Reggio Emilia (Anni '60) Rosanna Chiessi, infatti, sperimenta la sua personale commistione tra arte e vita in diverse forme, ospitando artisti/e, costruendo nuovi rapporti sociali di collaborazione e aprendo le porte a inedite forme di creatività. Correvano gli anni '70, quando nuove forme artistiche performative, prescindendo da regole morali della società, erano votate alla messa in discussione dalla precarietà del concetto di normalità. Come prima s'è detto, alla compagine Fluxus parteciparono, per la prima volta nella storia dell'arte, tante artiste provenienti da luoghi e percorsi disparati. Ad esempio, da Yoko Ono e Charlotte Moorman ad Alison Knowles, da Shigeko Kubota e Takako Saito, a Mieko Shiomi, oltre a figure che incrociarono Fluxus nel corso di un percorso artistico e teorico individuale, come Kate Millet (femminista ed attivista), Simone Forti (coreografa e musicista) e Carolee Schneemann (artista sino ad oggi molto discussa per aver trattato temi tabù. In mostra sono presenti oltre ad opere scelte di singole artiste, diverse documentazioni di azioni ed eventi, riprese video, fotografie, dischi, partiture, documenti cartacei, riproduzioni di volantini e materiali riguardanti le serate Fluxus. Il catalogo (144 pagine, euro 25) è pubblicato da Skira. Ufficio Stampa Palazzo Magnani: Federica Franceschini 0522 - 44 44 08; f.franceschini@palazzomagnani.it Women in Fluxus & Other Experimental Tales Palazzo Magnani Reggio Emilia, Corso Garibaldi 29 Per informazioni e prenotazioni: Email. info@palazzomagnani.it Tel. 0522 - 44 44 46 Fino al 10 febbraio 2013
martedì, 11 dicembre 2012
Scritture creative
Sia Socrate sia Platone non amavano la scrittura, ne diffidavano, sostenendo che danneggiasse la memoria non costringendola a ricordare e che, inoltre, la filosofia fosse un'arte orale. Chissà se oggi aggirandosi fra noi tra smartphone, tablet, computer portatili… s’incaponirebbero ad aver ragione? Ammetterebbero d’aver toppato? Le tante cose accadute dalla loro epoca ai nostri giorni sarebbe stato impossibile tramandarle attraverso le generazioni. La scrittura s’è affermata e non soltanto sul piano cronachistico, narrativo, poetico ma pure in quello scientifico. Evolvendosi su supporti diversi (pietra, legno, cuoio, carta) e trascorrendo, da Gutenberg ai nostri giorni attraverso un passaggio d’enorme rilevo: dalla scrittura stampata sequenziale a quell’elettronica reticolare. E se una parte della nostra memoria l’abbiamo delegata alle macchine, io sono fra quelli che credo siamo in buone mani informatiche “per la pluralità delle copie” come afferma Herbert Crowser “che ci garantiscono fino alla fine dell’umanità la conservazione della memoria degli e sugli umani”. Che, poi, alcune cose combinate dagli umani sarebbe, forse, meglio dimenticarle, è altro discorso. Il problema, semmai, è diventato un altro ancora: si scrive troppo e, spesso, troppo male. Questo accade sia nella fiction e sia nella redazione di testi informativi trascurando quanto raccomandava Joseph Pulitzer: "Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce". Ma perché l’uomo scrive? Perché, e per chi, tanto impetuosa è in lui la voglia di scrivere. Buona risposta la dà Rino Gaetano che canta: "Io scriverò se vuoi perché cerco un mondo diverso: / con stelle al neon e un poco d'universo / mi sento un eroe a tempo perso". D’accordo. Ma scrivere male no. Chi lo fa è fetente e spia, e non è figlio di Maria. Da qui il sorgere di tante scuole di scrittura laddove servirebbero di più scuole di lettura. Scuole di scrittura creativa (ne vedo tante!) tenute su da gente che dovrebbe tornare alla scuola dell’obbligo. Perché, invece, apprezzo la nuova collana della Zanichelli che proprio Scritture creative si chiama, con sprezzo del pericolo visto lo sputtanamento di quella ormai malfamata dizione? Presto detto. Per tre ragioni. La prima: ogni volume è specificamente dedicato a una precisa materia e non ha la presunzione di dettare leggi universali su come scrivere su tutto e tutti. La seconda: i libri sono affidati a veri specialisti della comunicazione che lavorano, e si sono affermati, proprio nel campo in cui danno i loro consigli di scrittura. La terza: perché ogni autore, ciascuno per il settore di competenza, nel dare orientamenti e direttrici di lavoro, non fornisce soltanto una lezione di scrittura ma anche una di lettura poiché il timone editoriale vuole una rotta che attraversi testi famosi riportati nelle pagine di tutti i volumi, dalle quali attingere esperienze e fare esercitazioni. Volumi pubblicati: “Scrivere nella Rete. Facebook, Twitter, Blog & Co.” di Stefan Porombka, edizione italiana a cura di Chiara Marmugi e Daria Biagi “Scrivere idee. Annotazioni e appunti” di Hanns-Josef Orthell tradotto da Carolina D’Alessandro. “Scrivere giorno dopo giorno. Il diario” di Christian Schärf, traduzione di Marina Pugliano. “Scrivere una canzone” di Alfredo Rapetti Mogol in arte Cheope e Giuseppe Anastasi. Una curiosità di questo volume, collegandovi a questo sito, lette le istruzioni, potrete sottoporre un vostro testo agli autori. I due promettono. “Li esamineremo e premieremo il più bello”. A Cheope ho chiesto: nello scrivere una canzone qual è la prima cosa da fare e la prima da non fare? La sua risposta è stata, nella sua estrema brevità, illuminata e illuminante: La prima cosa da fare è mettersi a nudo e scrivere con sincerità, la prima da evitare è scrivere in modo incomprensibile agli altri. “Scrivere la natura” è di Davide Sapienza e Franco Michieli. Michieli è geografo e giornalista, Sapienza è traduttore ed editorialista, si dedica a nuove forme di narrativa legate alla natura e al viaggio. Ho chiesto loro: nello scrivere di Natura, quale la principale difficoltà? Questa la sapiente risposta data dai due autori che rispondono entrambi con una voce sola: prodigi della tecnologia di bordo di Cosmotaxi. La difficoltà è che il cervello umano cerca di farci scrivere ciò che esso si illude di essere e vedere, e non di quello che appena fuori vive libero e indipendente nell'universo. Per scrivere la natura non abbiamo regole. Perché complicare un compito che esige umiltà? Noi ce lo somministriamo per via empatica. Le regole fisse riducono l'immensità della natura della quale siamo parte a contorni antropocentrici: visione troppo piccola. Come uscire dall'inghippo? É il passaggio chiave: non se ne esce, si sta dentro, si deve comprendere l'appartenenza alla natura. Sintonizzare la propria voce con quella della natura, ascoltando e poi scrivendo. La sfida? Sii vero con quello che risuona rispetto a ciò di cui sei parte, la natura madre. Ogni volume della collana è di circa 160 pagine; costo uguale per tutti i libri: euro 15.00 Elogio a parte lo merita Miguel Sal che ha ideato l’efficacissimo progetto grafico.
domenica, 9 dicembre 2012
Qui fresca l'acqua mormora
Da questo verso di Quasimodo ha preso titolo un convegno su cultura e simbologia delle acque, condotto da Anna Calderone dell’Università di Messina; Cosmotaxi si è particolarmente interessato ad una relazione tenuta da un’amica di questo sito da molto tempo: l’antropologa Paola De Santis Ricciardone. Ecco alcune sue pubblicazioni: Antropologia e gioco (1994); Il tipografo celeste (1997); Nemici immaginari (1996); Ultracorpi.
Titolo del suo intervento al convegno: Il mare invisibile. Paesaggio e degrado. Intervento centrato sul territorio calabrese. La Calabria vanta il triste primato di avere l’unica (almeno finora) giunta regionale della storia italiana finita interamente sotto inchiesta. Nel rapporto 2012 di Legambiente sulle ecomafie, in quella terra sono stati commessi – riferendo, ovviamente, solo quelli accertati – 3.982 reati, ed è in Italia seconda soltanto alla Campania in testa con 5.327 infrazioni. Fin qui i dati essenziali che insieme con comportamenti non solo dovuti alla delinquenza (ben) organizzata, ma a colpevole indifferenza dei cittadini stessi, fanno della Calabria “una sintesi dell’Italianismo” per citare un passaggio della relazione di Paola De Sanctis Ricciardone. A lei ho rivolto la seguente domanda: nella tua relazione hai citato l’artista slovena Marjetica Potrc che al MAXXI di Roma espose l’installazione “Casa permanentemente non finita” (in foto). Perché hai scelto quell’opera per commentare il degrado del territorio calabrese? L'ho scelta perché mi è parsa un'opera perfetta per rappresentare una tipologia globale di costruzione abitativa spontanea che infesta il tessuto urbano di molta parte del mondo, a Caracas come al Cairo o a Scalea. La Potrč ha poi colto due elementi ricorrenti di questa tipologia, la sua permanente non finitezza e quella capacità di coniugarsi con una tecnologia interna estremamente avanzata. Quando passeggio per i sentieri desolati della diarrea urbana calabrese - ma si potrebbe dire la stessa cosa della Campania o della Liguria - vedo un fiorire di padelle satellitari, di antenne, e dalle finestre di sera filtra sempre la luce azzurrognola di monumentali TV al plasma. Se si valica poi la soglia di quelle brutte e anonime case, spesso non intonacate, dai perenni pali in attesa di future utopiche sopraelevazioni, magari trovi cucine che manco Phillippe Starck avrebbe potuto immaginare per il suo ristorante “Ma Cocotte” a Parigi. Certo, la Potrč ci parla di tipologie solo formalmente simili tra loro, in realtà molte di quelle "case permanentemente non finite" sono costruite in uno stato di necessità abitativa, come avveniva da noi nel dopoguerra. Oggi l'Italia invece è affetta da una atavica quanto antieconomica (e inutile) bulimia di cemento, coltivata in una proterva indifferenza nei confronti dei luoghi e dei paesaggi più belli. La malattia sociale più grave che oltraggia con i suoi sfregi i nostri territori, a mio avviso, è un diffuso analfabetismo visuale ed estetico, che impedisce di "leggere" e quindi di rispettare i nostri paesaggi culturali che un tempo generavano uno stato di ebetudine stuporosa nei viaggiatori. Questa malattia, una vera e propria infezione trasversale, colpisce indistintamente politici locali e nazionali, le nostre tante malavite dai pittoreschi nomi, e - ahimè - anche tanti bravi ed onesti cittadini comuni. Presso l’Editore Giorgio Bretschneider sono stati pubblicati gli atti del convegno interdisciplinare “Qui fresca l’acqua mormora…”
venerdì, 7 dicembre 2012
Bacon a Firenze
A Firenze, è in corso la mostra Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea a cura di Franziska Nori (direttrice del Centro di Cultura Contemporanea 'Strozzina', a Palazzo Strozzi) e Barbara Dawson (che dirige la Dublin City Gallery The Hugh Lane). E’ proposto il lavoro di artisti contemporanei che investigano il tema dell’esistenza nel rapporto tra individuo e collettività. Le loro opere danno forma a stati d’animo e interrogativi che l’essere umano si pone nel rapporto con la sfera personale, il corpo e il mondo. La mostra trova il suo punto di partenza in un nucleo di lavori del grande Francis Bacon, la cui opera entra in dialogo con il lavoro di cinque artisti internazionali contemporanei (Nathalie Djurberg - Adrian Ghenie - Arcangelo Sassolino - Chiharu Shiota - Annegret Soltau) che condividono l’interesse di Bacon nella riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo e la rappresentazione della figura umana. I dipinti di Bacon in mostra sono affiancati da una selezione di materiali provenienti dall’archivio dell’artista: ritratti fotografici, riproduzioni di grandi capolavori del passato, still da film, immagini tratte da libri e riviste. Questo materiale, utilizzato da Bacon come strumento di lavoro per la creazione delle sue opere, è presentato in mostra grazie alla collaborazione del CCC Strozzina con la Dublin City Gallery The Hugh Lane, che dal 1998 possiede la ricostruzione autentica e perfettamente conservata dell’ultimo studio londinese dell’artista. A Franziska Nori – qui in una foto scattata da Cesare Cicardini – che in pochi anni ha reso il CCCS un’importante ribalta delle arti visive internazionali in Italia, ho rivolto due domande. Che cosa rende Bacon un protagonista della condizione esistenziale nell’arte contemporanea? Le riflessioni preparatorie alla cura della mostra ruotavano attorno alla domanda sul perché le opere di Francis Bacon avessero ancora una così forte risonanza oggi. La sua opera è emblematica per la generazione che ha vissuto il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. La nostra ricerca si proponeva di scoprire se quell’esperienza dell’assurdo di Bacon ha un’eco ancora nel mondo contemporaneo come esperienza esistenziale individuale e collettiva. Le opere di Bacon sono spesso indicate come rappresentazioni del concetto dell’assurdo, come esperienza filosofica di una Weltanschauung astratta. Tuttavia l’artista sembra puntare soprattutto a un approfondimento esistenziale del sé autobiografico. Punto di partenza della mostra è una serie di dipinti di Francis Bacon affiancati da una selezione di materiali originali del suo studio come fotografie, disegni, pagine di cataloghi o di riviste che l’artista accumulava nel tempo e poi utilizzava come fonti di ispirazione. Questi documenti entrano in rapporto tra loro nelle opere di Bacon, quasi come tracce che continuamente e quasi ossessivamente riemergono nelle sue tele. La mostra esordisce presentando opere pittoriche appartenenti a diversi momenti del lavoro di Bacon, che affrontano alcune delle tematiche centrali della sua opera, in primo luogo la figura umana, rappresentata in uno stato di isolamento all’interno di spazi svuotati, deformata e contorta su se stessa. In mostra – come ho già detto nella presentazione – anche Nathalie Djurberg, Adrian Ghenie, Arcangelo Sassolino, Chiharu Shiota, Annegret Soltau. Quali cose accomunano questi cinque artisti, pur provenienti da diversi paesaggi culturali, da renderli dialoganti con Bacon? La mostra in un certo senso osa sottoporre il lavoro di Bacon a una verifica della sua attualità, attraverso il confronto con cinque artisti che in modo diverso a livello formale, di scelta di linguaggi e di sensibilità sono caratterizzati da un’attitudine di ricerca simile o paragonabile nell’intensità quasi ossessiva del lavoro di questo maestro dell’era moderna. Ciò che accomuna gli artisti presenti in mostra è una profonda lucidità nel trattare tematiche, spesso dolorose, dell’esistenza. La commistione tra figurazione e astrazione, i corpi trasfigurati, il riferimento a elementi autobiografici, l’utilizzo di diverse fonti iconografiche, la tensione e l’isolamento come metafore della vita dell’uomo sono elementi fondamentali anche nel lavoro dei cinque artisti contemporanei. Il corpo, la memoria, l’identità sono i temi degli artisti presentati che investigano il tema dell’esistenza dando forma a stati d’animo e interrogativi che l’essere umano si pone nel rapporto con la sfera personale e il mondo esterno e che ci guida ad una riflessione di carattere esistenziale sul vivere contemporaneo. Uffici stampa: Alessandra Santerini, T. +39 335 6853767, alessandrasanterini@gmail.com Chiara Costa, T. +39 349 1981349, chiara.a.costa@gmail.com Lavinia Rinaldi, Palazzo Strozzi, T. +39 055 3917122, l.rinaldi@palazzostrozzi.org Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea CCCS Strozzina, Palazzo Strozzi, Firenze Informazioni: 055 2645155; news@strozzina.org Fino al 27 gennaio 2013
giovedì, 6 dicembre 2012
:due punti Edizioni
Da anni Cosmotaxi non fa servizi sui tanti saloni, fiere, festival e festini sui libri, so bene che nessuno piangerà per questo, ma mi riservo il diritto di una scelta per quanto trascurabile da molti, giustamente, possa essere giudicata. Tra le cose che più mi tengono lontano dai banchi fieristici, c’è quell’aria, per me irrespirabile, da parte delle grandi case di mostrarsi quali esempi di nobiltà culturale mentre promuovono libri di presentatori tv, pseudo giornalisti noti per le loro sguaiataggini e romanzieri (meglio ancora se giallisti) in fitte schiere che intrepidi volano dove li porta il cuore o, senza altimetro, addirittura alcuni metri sopra il cielo. Né respiro meglio con i tanti, piccoli e medi editori, che tengono a far sapere che ce l’hanno con l’industria culturale… industria culturale?... avercene! In Italia mi sembra di vedere un suk d’idee usate e marchi espressivi contraffatti. Si salvano in pochi, pochissimi per spingermi a visitare quei luoghi espositivi. Perciò dico: caro luogo, scusa ma ti voglio scansare. Una casa che stimo è :due punti Edizioni (… tra i suoi meriti non cerca testi di narrativa, evviva!) che anche quest’anno partecipa con un originale stand (E20), d’ambientazione ospedaliera, a “Più libri più liberi” (Roma, 6 – 9 dicembre). Da quest’Editrice ho ricevuto un comunicato che volentieri rilancio. Partendo dalla riflessione avviata con il progetto di editoria digitale hypercorpus e con il pamphlet “Fare libri oggi 2.0. Essere editori oggi”, presentato in anteprima alla fiera, il titolo del nostro allestimento sarà “La cura: dei libri”. Un tema che, trattato ironicamente in chiave “sanitaria” con uno stand trasformato in clinica da campo, vuole portare all’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori i destini di un settore editoriale in crisi di nuovi modelli ispiratori, prima che economici. La “ricetta” proposta da :duepunti, guarda contemporaneamente al passato e al futuro: vuole far riemergere il senso originario di un lavoro che non può esaurirsi nel“fare libri”, ma deve scegliere per sé un ruolo da protagonista in ambito culturale. L’editore deve selezionare e ispirare le nuove voci, far emergere nelle proprie pubblicazioni il valore delle competenze editoriali e della storia del suo marchio, leggere il presente e porre dei punti di domanda, guardare alle nuove tecnologie non con paura, ma con la curiosità verso le nuove possibilità che esse offrono al proprio lavoro. Una volta di più va ricordato come “i libri non siano di carta” e che il cuore della professione di un editore è la trasmissione del sapere, con ogni mezzo a disposizione. I numeri della crisi sono noti a tutti; in ambito editoriale a un’offerta macroscopica – circa 40.000 nuovi titoli l’anno (dati Istat relativi al 2010) – accreditabili in massima parte alla concentrazione dei grandi gruppi – corrisponde una selezione più accurata e attenta della proposta dei piccoli editori. La maggior parte dei volumi pubblicati affoga nel marasma dei grandi magazzini del libro, pilotato dai cervelli elettronici e dagli indici di rotazione che non lasciano al libro più di un mese di vita sullo scaffale delle librerie. :duepunti ha rifiutato questo modello che viene da un mercato drogato, nei numeri e nelle pratiche, e dal prossimo gennaio – a chiusura di contratto con il proprio partner distributivo – avvierà un ambizioso programma di fidelizzazione con le librerie indipendenti sul territorio. :duepunti è infatti consapevole dell’importanza di restituire al libraio un ruolo centrale nella filiera del libro (che così torna ad essere “corta”) come animatore culturale e prezioso “lettore che lavora per i lettori”, capace di essere non solo interprete commerciale dei gusti e delle mode, ma soprattutto garante di qualità per la propria clientela. Il futuro del libro corre certamente in rete e allo stesso tempo trova stimoli nei momenti di aggregazione promossi dalle librerie; si pensi al successo della manifestazione Letti di notte e al circuito delle librerie indipendenti costituitosi attorno ad esso. :duepunti edizioni aderisce all’Odei (Osservatorio degli editori indipendenti) che nei giorni di “Più libri più liberi” renderà pubblico il lavoro svolto da oltre un anno insieme al suo manifesto. Per sapere come e dove sarà reso pubblico quel lavoro: CLIC! :duepunti Edizioni via Siracusa, 35 – 90141 Palermo Contatti mail tel. (+39) 091 7300553 | fax (+39) 091 6258614
mercoledì, 5 dicembre 2012
Elogio della penna stilografica
Nel Fedro, Platone fa raccontare a Socrate il mito di Teuth, il dio inventore della scrittura; qui Platone, che vive in un'epoca che sta abbandonando l'oralità come trasmissione della conoscenza, esprime tutta la sua diffidenza verso la scrittura. Immaginava, però, pur rammaricandosene, che la scrittura si sarebbe affermata. Così è avvenuto usando più supporti. E più strumenti. Fra quelli agiti, la penna stilografica conosce gli inizi della sua storia moderna nel 1780 quando Scheller ne sviluppa un prototipo di bronzo e corno. Con l’aiuto del Wikizionario, riferisco che si passa, quindi, al 1809 quando viene brevettato un prototipo di quello che in futuro evolverà nella penna a sfera. Ma è solo molto più tardi, nel 1929, che la Pelikan realizzerà il rivoluzionario caricamento a stantuffo, che a lungo è rimasto nelle stilografiche moderne l'unico contendente per la cartuccia di plastica, che pure ha origini europee, essendo stata creata dalla filiale francese della Waterman. Quanti usano oggi la penna stilografica? Non moltissimi, ma, forse, più di quanti ne immaginiamo. Io non ne impugno una da oltre vent’anni, ma tanti di noi conoscono più persone che ne fanno profittevole uso. Un libro di recente edito da Ghenomena ha per titolo Elogio della penna stilografica, ne è autore Giuseppe Neri. Nato a S. Apollinare (Frosinone), vive e lavora a Roma. Ha collaborato, giovanissimo, a Il Mondo di Pannunzio, a Tempo presente, a Nord e Sud, a Il Messaggero e a numerosi altri giornali e riviste. E' stato direttore dei programmi culturali di RadioRai. Ha pubblicato: “L'uccello di Chagall” (1983), finalista al Premio Viareggio, opera prima; “Verso il terzo millennio” (1987); la raccolta di racconti “L'ultima dogana” (1990), Premio Selezione Piero Chiara; “Bolero” (1999); “Il sole dell'avvenire” (2003); “Il letto di Procuste” (2005). Conobbi Neri nel 1975 e ho avuto la fortuna di lavorare con lui a RadioRai quando dirigeva i programmi culturali delle tre reti radiofoniche pubbliche. Questo suo recente libro è, infatti, una raccolta di “pezzi” appartenenti a una rubrica da lui tenuta per due anni all’interno del contenitore “Lampi”, da lui ideato, che andava in onda su Radio3. Scritture tutte fatte – ne sono testimone oculare – con la sua amata stilografica. Scritture anfibie perché pur essendo vergate a mano su foglio tengono conto del linguaggio radiofonico. Brevi, scattanti, comunicative, avrebbero avuto l’approvazione dell’ingegner Gadda poiché in linea con le auree raccomandazioni che il Gran Lombardo espresse nel suo “Norme per la redazione di un testo radiofonico”. In pratica, quegli scritti sono doppiamente godibili: lo sono oggi su carta come lo furono all’ascolto. Elogio della penna stilografica si compone di una serie di riflessioni sul costume, sulla letteratura, sulla comunicazione culturale nei media, note critiche che lampeggiano su tic, mode, usi e abusi di comportamenti, spesso riprovevoli, riflessioni che resistono al tempo trascorso perché ancora attuali. La cosa non deve sorprendere perché una delle caratteristiche di Giuseppe Neri è, sia nelle sue opere di narrativa sia in quelle giornalistiche, quella di rintracciare fili della memoria per ricavarne amare chiavi di lettura di un presente che, colpevolmente, s’infutura nel personale come nella società. Il titolo di questo volume, però, non tragga in inganno, non si tratta di pagine rivolte a rimpianti. In un’epoca come la nostra – scrive Neri nella Prefazione – in cui il personal computer è entrato in ogni casa e l’informatizzazione ha raggiunto traguardi notevoli, un titolo come questo, “Elogio della penna stilografica”, rischia di apparire ingenuo, corrivamente polemico o, peggio ancora, provocatorio […] L’elogio della stilografica però non significa necessariamente la demonizzazione della scrittura elettronica, ma deve essere considerato come una metafora. E qual è il significato di questa metafora applicata al mondo culturale odierno? […] rimanda all’idea di un onesto lavoro artigianale, alla ricerca solitaria e febbrile dell’artigiano-scrittore che attende pazientemente al suo lavoro, che interpreta, modifica, corregge, rifinisce il suo manufatto, nella consapevolezza che solo con la paziente dedizione e nel silenzio perseverante ci si può avvicinare se non alla perfezione (che non è di questo mondo) ad una riconosciuta e onorevole compiutezza. Giuseppe Neri Elogio della penna stilografica Pagine 70, Euro 12.00 Edizioni Ghenomena
Allarme per diritti in pericolo
Una sala vuota, un sipario calato, non è un’immagine allegra. Neppure quanto sto per comunicare lo è. Dagli Uffici Stampa dell’Istituto Nazionale per la Comunicazione e del Nuovo Imaie ricevo un comunicato riguardante una lettera inviata al Presidente Mario Monti. Volentieri pubblico quella lettera. Meglio sarebbe stato se non ce ne fosse stata necessità. Roma, 4 dicembre 2012 Egregio Presidente Monti
in qualità di artisti, interpreti ed esecutori esprimiamo la nostra forte preoccupazione per la bozza di Decreto del Presidente di Consiglio dei Ministri, di attuazione dell’art. 39 del c.d. Decreto Liberalizzazioni (legge 27/2012), i cui contenuti rischiano di paralizzare l’intero funzionamento del sistema di gestione dei diritti connessi con un inaccettabile danno per l’intera categoria artistica. Se l’obiettivo della liberalizzazione era favorire il settore artistico e assicurare una gestione più efficiente e più economica dei diritti connessi, il rischio è che tale lodevole iniziativa sia ampiamente disattesa. La bozza del Decreto, come pubblicata sul sito internet del Dipartimento Editoria ed Informazione della Presidenza del Consiglio, apre le porta ad una concorrenza a tutto campo che rischia di tradursi in una vera e propria “giungla” dove la categoria artistica sarebbe penalizzata dal blocco dell’attività di riscossione e di ripartizione dei propri compensi oltre che vittima delle lotte tra le varie società di collecting e degli inevitabili contenziosi che si apriranno tra le collecting e gli utilizzatori I rischi sono: - la paralisi dell’azione di riscossione a causa della frammentazione degli enti che dovranno trattare i compensi con gli utilizzatori; - la paralisi dell’azione di ripartizione a causa dell’impossibilità di suddividere il compenso derivante dall’utilizzo di un’opera tra artisti iscritti a enti diversi e sottoposti a criteri di ripartizione diversi; - un’inaccettabile discriminazione tra aventi diritto a causa della prevedibili lotte che nasceranno tra le società di collecting per “accaparrarsi” gli artisti “più redditizi” a scapito degli artisti meno noti o commercialmente meno interessanti; Non ultimo, la bozza del Decreto, non interviene in merito ai diritti spettanti agli artisti aventi diritto non iscritti o non rappresentati da nessun ente, escludendoli, potenzialmente, da ogni forma di tutela. Siamo certi che non sia intento di questo Governo contribuire a generare questo scenario, mettendo a repentaglio l’azione di riscossione e distribuzione dei compensi spettanti ad una categoria che oggi, come mai prima, sta vivendo una momento di crisi sistemica. Facciamo, quindi, appello al Governo e, prima ancora, all’AGCM, affinché l’emanando DPCM definisca un regime normativo equo ed efficiente, capace di garantire la piena tutela dei diritti spettanti per legge all’intera categoria artistica e di assicurare il funzionamento “razionale e corretto” del sistema nel suo complesso. Confidiamo che, prima che si metta il punto alla definizione delle regole, si tenga conto veramente dei diritti di tutti gli artisti italiani e non solo di coloro che hanno alzato la voce più forte degli altri. Le firme: Claudio Baglioni, Lino Banfi, Luca Barbareschi, Paolo Belli, Edoardo Bennato, Eugenio Bennato, Attilio Berni, Franca Bettoja, Andrea Bocelli, Benedetta Buccellato, Cristiana Capotondi, Gianni Cavina, Giuseppe Cederna, Marco Columbro, Ugo Conti, Pier Cortese, Massimo Dapporto, Enzo Decaro, Carlo Delle Piane, Christian De Sica, Brando De Sica, Massimo Di Cataldo, Cristina Donà, Gianni Drudi, Drupi, Marco Ferradini, Isabella Ferrari, Finley, Alberto Fortis, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Eleonora Giorgi, Remo Girone, Lucrezia Lante Della Rovere, Barbara Livi, Marco Masini, Mita Medici, Mina, Luca Morino, Ennio Morricone, Franco Nero, Roberto Nobile, Maria Rosaria Omaggio, Claudia Pandolfi, Massimiliano Pani, Piotta, Daniela Poggi, Alessandro Preziosi, Alessandro Quasimodo, Primo Reggiani, Marina Rei, Mariano Rigillo, Andrea Roncato, Alberto Rossi, Antonella Ruggiero, Lunetta Savino, Giulio Scarpati, Edoardo Siravo, Gli Stadio, Tiromancino, Giammarco Tognazzi, Tosca, Franco Trevisi, Nicolas Vaporidis, Velvet, Carlo Verdone, Vittoria Zinny, Luca Ward, Massimo Wertmuller. Fin qui la comunicazione inviata. Per maggiori informazioni: Ufficio Stampa INC – Istituto Nazionale per la Comunicazione Elena Mastroieni, e.mastroieni@inc-comunicazione.it Tel 06.44160843 - 334.6788706 Ufficio Comunicazione Nuovo IMAIE Carla Nieri: Tel 06.46208158 E-mail: carla.nieri@nuovoimaie.it – comunicazione@nuovoimaie.it
martedì, 4 dicembre 2012
Marta Roberti a Filmmakerfest
A Milano, dal 30 novembre, è in corso uno dei più interessanti festival di nuovo cinema: Filmmakerfest. Nato nel 1980 è protagonista nel proporre ricerca, sperimentazione, innovazione nell’audiovisivo nei suoi plurali formati. Diretto da Luca Mosso – con un valoroso gruppo di critici e specialisti – ha ospitato le prime opere di Studio Azzurro, Silvio Soldini, Alina Marazzi, Michelangelo Frammartino, solo per fare alcuni dei tanti nomi. Da questa edizione 2012, Filmmaker rinnova il proprio fondo di produzione per giovani e giovanissimi registi, grazie a un’iniziativa dedicata alle donne con meno di 35 anni. Filmmaker Passion, questo il nome della sezione, è un tributo alle registe e un ragionato omaggio allo storico e critico cinematografico Silvano Cavatorta (1948 – 2011) sempre attento ai progetti cinematografici delle esordienti, sostenendole nella libertà e nell'urgenza dei loro film. Cliccare QUI per il programma di tutte le sezioni.
Filmmaker Passion (si avvale di una sigla di presentazione di Tekla Taidelli), vede, fra altre cospicue firme, quella di Marta Roberti recente ospite di questo sito. Per la sua biografia, una dichiarazione di poetica e opere: CLIC!; alle note nel link prima citato, manca il recente video presentato a “Vetrinale”: Scrivere, leggere, fare di conto. A Filmmaker Passion, Marta Roberti è di scena (mercoledì 5 dicembre, Spazio Oberdan, ore 20.30) con "sarà stato". In foto uno still dal video. In questo lavoro le atmosfere e le scene s’ispirano a casi clinici trattati da Freud che ha trascritto i ricordi e i traumi infantili di pazienti come il piccolo Hans e l'uomo dei lupi. Da questo filo principale si dispiegano altre molteplici narrazioni, in una modalità rizomatica che ricalca il flusso di coscienza di un nevrotico, la cui patologia risale a traumi infantili narrati a uno psicanalista, Freud, che riduce il discorso al triangolo edipico della mamma, del papà e del bambino. L’artista così presenta il video: ”sarà stato” è un assemblaggio d’immagini-ricordo e immagini-sogno dove i personaggi sono in preda a flash back, percezioni, memorie, traumi che più che provocare un'azione la arrestano e la differiscono. In “sarà stato” la narrazione non concerne una struttura di fondo che ha preceduto la realizzazione del video. Ho provato, invece, a generare una narrazione forzando al massimo il carattere di spettatore dei personaggi. Ognuno di loro appare affetto da qualcosa che provoca un differimento dell'azione, ogni personaggio sembra una lastra sensibile che sta registrando qualcosa che vede o sente. Definisco “rizomatica” questa narrazione perché non ha punti culminanti o un finale verso cui tendere. Così, infatti, Deleuze definisce il rizoma: ‘Il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura, mette in gioco regimi molto differenti e anche stati di non-segni’. “sarà stato” è composto di centinaia di disegni realizzati su carta ricalcante con cui ho riprodotto dei collage che ho composto con vecchie fotografie di famiglia in bianco e nero, e video trovati in internet, immagini da film, documentari e quadri. Da un archivio d’immagini di momenti di festa o della vita quotidiana d’innumerevoli famiglie anonime ho ritagliato alcuni personaggi che ho poi calato in altri contesti. Ho mescolato madri, padri, figlie e figli appartenenti a famiglie diverse: nelle foto di famiglie sconosciute si ha sempre la sensazione di trovarvi dei tratti famigliari, che una volta riconosciuti provocano un effetto de-personalizzante. Per dirla con le parole di Virginia Wolf "Sarà stata un'infanzia, ma non la mia infanzia". "sarà stato" video realizzato con il sostegno di Filmmakerfest regia, disegni e montaggio di Marta Roberti musica: Matteo Nasini voce: Rascia Darwish Italia 2012, blu-ray, b/n, 6’00" Filmmakerfest Milano Fino al 9 dicembre
lunedì, 3 dicembre 2012
L'Enciclopedia dei Record
L'idea di collezionare ogni possibile tipo di primato venne a sir Hugh Beaver (amministratore delegato delle birrerie Guinness di Dublino) il 4 maggio 1951 in seguito ad una vivace discussione di cui fu spettatore. "Perché non stampare" – pensò – "un volume adatto a rispondere anche alle più bizzarre domande"? Il libro uscì il 27 agosto 1955. Da allora è noto come il famoso Libro dei Primati. Cioè dei record. Non delle scimmie. Non avevo, però, visto finora un libro di simili intenti ideato per ragazzi dai 6 ai 10 anni (se esiste, porgo subito a quegli autori le mie scuse), ma certamente il più recente l’ha pubblicato Editoriale Scienza:L’Enciclopedia dei Record. Di sicuro, quindi, è il più aggiornato oltre ad avvalersi di una composizione verbovisiva di grande effetto che aiuta la memorizzazione delle notizie contenute in quel volume. Poiché è pensato per piccoli lettori, non vi troverete record ottenuti da pugili, barman, chirurghi, ma seguendo una precisa linea didattica le pagine spaziano su temi che possono incuriosire chi è nella più verde età. Testi di Delphine Grinberg con indovinatissime illustrazioni a colori di Rémy Saillard – Émile Hare – Manu Boisteau – Marie de Monti. La Grinberg è autrice di dodici libri d’esperienze scientifiche per ragazzi pubblicati in Francia dalle edizioni Nathan e dalla Cité des Sciences et de l’Industrie e, in Italia, da Editoriale Scienza, nella collana Scienza Snack che ha ricevuto il Premio Andersen 2009 come migliore collana di divulgazione in Italia. Impossibile, visto l’elevatissimo numero, fare riferimento alle domande (e risposte) contenute nei cari capitoli. Pesco a caso: Chi fu, e come fece, una bambina di 10 anni a salvare 100 persone? Quale delle nostre unghie cresce più velocemente? Dove si trova l’aria più umida della terra? Un capitolo, poi, è dedicato non ai record presenti ma a quelli ipotizzabili nel futuro e a notizie scientifiche curiose e istruttive: l’uomo potrà vivere fino a mille anni? Come si difende la coccinella? La sequoia smette mai di crescere? In questi giorni tanti di noi sono alle prese con il problema di che cosa far trovare sotto l’albero ai più piccoli senza per questo dover contrarre un mutuo. L’Enciclopedia dei Record mi pare una possibile soluzione. Per una scheda sul libro: CLIC! Delphine Grinberg L’Enciclopedia dei Record Traduzione di Hélène Stavro Illustrato a colori Pagine 96, Euro 12.90 Editoriale Scienza
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