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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La donna serpente


“I pettegolezzi, quando invecchiano, diventano miti”.
Così diceva lo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec. E vai a dargli torto!
Gli esempi non mancano, ma oggi ve ne offro uno di grande forza, me lo suggerisce un bellissimo libro, edito da Dedalo, è intitolato La donna serpente Storia di un enigma dall’antichità al XXI secolo
Autrice: Angela Giallongo.
È Ordinaria di Storia dell’educazione presso l’Università di Urbino. Le sue ricerche vertono principalmente sulle problematiche educative informali: esperienze sensoriali e gestuali, comportamenti sentimentali e immaginario nelle società pre-moderne.
Con Dedalo ha pubblicato anche Il bambino medievale e L'avventura dello sguardo.

La donna serpente racconta la leggenda di Medusa. E la sua eco attraverso il tempo, dall’antichità al XXI secolo, che trasmessa da scrittori e artisti ne ha plasmata l’orrifica visione che conosciamo.
Ai più distratti ricordo che secondo il gossip di un tempo lontano, Poseidone, innamoratosi di Medusa, la sedusse (… o stuprò?) nel tempio di Atena. Quest'ultima, profondamente irritata dall’affronto subito (… come a dire “se proprio devi fare certe cose valle a fare fuori di casa mia”), aveva tramutato la fanciulla in un orribile mostro (… e perché non il reo Poseidone?): le mani trasformate in pezzi di bronzo; il corpo pieno di scaglie; i denti in zanne di cinghiale; i capelli in serpenti (… insomma non troppo carina), inoltre, tanto per gradire, il suo sguardo trasfigurava in pietra chiunque la guardasse negli occhi.
Medusa fu uccisa da Perseo, che le mozzò la testa e per non fissarla rischiando di diventare - è il caso di dirlo - di sasso, guardando la sua immagine riflessa sul suo scudo lucido come uno specchio, donatogli dalla dea Atena. E qui siamo agli effetti speciali degni della Light and Magic di un George Lucas dell’epoca.
Quando tagliò il capo, dal collo della Gorgone uscirono due figli che aveva generato (evidentemente trascurando ogni tecnica anticoncezionale) dopo la notte con Poseidone.

La Giallongo, con una scrittura colta e scorrevolissima, fa attraversare al lettore le metamorfosi di Medusa divenuta nel tempo il prototipo della sub-umanità femminile, onnipresente nell’immaginario delle società premoderne che avevano incasellato la sua occhiata raggelante fra le teorie più diffuse sulle mestruazioni, Echidna, Melusina, le Gorgoni, le Amazzoni, Eva, la Pulzella velenosa, bestiacce come la Catopleba fino alla tenebrosa bambinaccia del film “The Ring”, Sadako-Samara.
L’autrice richiama l’attenzione “sulle rielaborazioni medievali di quella leggenda e sulle vie che hanno conferito alla credenza nella pericolosità dello sguardo femminile, trascinandola nella nascosta spirale delle mestruazioni […] Con gli insegnamenti della tradizione cristiana e della Chiesa medievale è aumentata la paura dello sguardo. Nell’Europa cristiana, quando prese corpo il sistema che favorì la caccia alle streghe, si rispettò con i teologi, i chierici e i medici l’idea che l’occhiata, impregnata di funesti veleni, di una donna potesse impedire la conoscenza, corrompere la salute, far ingiallire i sentimenti, in una parola, provocare la morte”.
Meglio i tempi nostri con Piero Focaccia che senza timore di un certo sguardo femminile non esita a invitare addirittura al ballo una straniera che lo fissa dicendole: “Permette signora, / mi guarda da un’ora / sarà che stasera si è accorta di me”.
Tra i meriti del libro c’è da registrare (oltre alla massiccia documentazione sui secoli passati dal Medio Evo all’800), anche un’ampia ricognizione con le citazioni del mito di Medusa nei nostri anni dove perfino “l’immaginazione post-moderna si sforza attraverso l’oracolo Google di resuscitare sulla pubblica piazza dell’informazione l’arte di decifrare questa inafferrabile figura. Medusa è una star su Internet. Sulla rete con il suo nome compagnie cinematografiche, case editrici, ditte che vendono occhiali, siti che ne conservano la fama durevole, forum e blog”.

Gran bel libro, un appassionante viaggio in una di quelle leggende che – come ricorda la Giallongo – Gaio Sallustio Crispo (I secolo a.C.) definì “cose che non accaddero mai ma che esistono da sempre”.

Angela Giallongo
La donna serpente
Pagine 256, Euro 22.00
Edizioni Dedalo


Zibaldoni e altre meraviglie

In quest’epoca delle “pisicotecnologie” – felice definizione di Derrick de Kerckhove – si assiste a una rivoluzione forse superiore a quella che accadde con Gutenberg.
La scrittura, non solo d’informazione, ma anche creativa, si è evoluta per tempi, stili e forme in un modo che perfino chi professionalmente pratica la Rete non sempre ha colto. Si nota, infatti, in molti siti, un modo di scrivere che altro non è che la vecchia pagina su cellulosa trasposta in formato elettronico.
C’è ancora troppo amore per la carta tanto che mi càpita di ricevere comunicati di taluni i quali nati con una propria rivista sul web, esultano nell’annunciare “finalmente” il loro passaggio alla carta stampata; come dire: possedevamo un aereo e ora, “finalmente”, un carretto. Tutto questo mentre Arthur Sulzberger Jr, editore e presidente del “New York Times”, annuncia che quel famoso giornale più non sarà stampato, vivrà solo on line e l’Enciclopedia Britannica dopo 244 anni d’edizione cartacea esiste adesso esclusivamente in versione web.
C’è, però, chi ha capito da tempo le nuove tendenze della nostra epoca, mi riferisco a una delle riviste storiche del web letterario italiano: Zibaldoni e altre meraviglie (in foto il logo) che a dieci esatti dalla pubblicazione del suo primo editoriale (dicembre 2002), riprende le pubblicazioni con un sito rinnovato nella forma e nei contenuti.
Ne ho appreso notizia da Brunella Antomarini, da tempo amica di questo sito, della quale ricordo suoi due libri d’estremo interesse: L'errore del maestro e Pensare con l'errore.

Tornando a “Zibaldoni”, con il nuovo sito è proposto il progetto di editoria digitale “ZiBook”.
Gli “ZiBook” sono ebook in formato EPUB, MOBI e PDF, scaricabili dal sito della rivista e reperibili sugli store online.

CLIC! per conoscere i nomi dei redattori.


Giornata della Memoria


Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti.
E un’ondata di cruente certezze fu tra le cause dell’Olocausto.
Oggi, invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi revisionismi oppure a stanche ritualità commemorative che di certo non aiutano a capire e interpretare quei fatti.
La data per la “Giornata della Memoria” che si celebra oggi fu scelta per ricordare il 27 gennaio 1945, quando le truppe dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz).
Lì scoprirono l’atroce campo di concentramento e liberarono i pochi superstiti. La scoperta d’Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista, della Shoah. Shoah, in ebraico significa “annientamento”; indica lo sterminio di oltre sei milioni d’ebrei ed è da preferire questo termine a “olocausto” per eliminare qualunque idea di perniciosa, e sviante, religiosità insita in quest’ultimo.
I nazisti non furono soli nel commettere quel crimine contro l’umanità, furono aiutati da molti governi collaborazionisti e, prima ancora, dal fascismo italiano che il 6 ottobre 1938 promulgando le leggi razziali determinò la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio dello stesso anno, firmato da 10 scienziati italiani, sorretti da altre 329 firme; per sapere chi erano e come agirono consiglio la lettura di un volume che segnalai tempo fa in queste pagine web: I dieci .

Ben vengano le numerose manifestazioni indette per oggi che, però, rischiano di diventare una Giornata, appunto, solo una Giornata. Consegnandosi così a ritualità che, come tutte le ritualità, spesso svuotano di significato ciò che si ricorda. Preferirei che invece di una Giornata con tanti avvenimenti in cartello, la Shoah fosse ricordata, attraverso piccole, quotidiane cose. Perché tutti i giorni avvengono misfatti a sfondo razziale (con preoccupante crescita anche in Italia) che sono molto gravi e, spesso, trattati dai media con spazi inadeguati.
Del resto, perché meravigliarsene? Il nostro è un paese in cui il presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi alla vigilia di una Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager e ha definito “luoghi di villeggiatura” i paesi in cui il fascismo confinò gli oppositori.

Tante le iniziative che quest'anno, a partire dal 20 di gennaio, in Italia accompagnano questa celebrazione della consapevolezza e del ricordo.
Nella Sinagoga di Ostia Antica, per esempio, torna anche quest’anno l’appuntamento biennale con “Arte in memoria”, la rassegna d’arte contemporanea, a cura di Adachiara Zevi, organizzata dall’Associazione Culturale Arteinmemoria. Protagonisti di questa settima edizione sono gli artisti Alice Cattaneo, Sigalit Landau, Hidetoshi Nagasawa e Michael Rakowitz: sono loro ad aver realizzato delle opere site specific, pensate per quella che è la più antica Sinagoga d’Occidente, risalente al I sec. d.C. e appartenente all’area archeologica degli Scavi di Ostia.


Cinema irlandese


Quel poco che sappiamo in Italia del cinema irlandese, anche perché scarsamente distribuito, si deve a Susanna Pellis, profonda conoscitrice di quella cinematografia.
Ha ideato, e dal 2007 dirige, la IrishFilmFesta, unico festival italiano dedicato a quel cinema, che si svolge ogni anno a Roma.
Laureata in Lettere e Cultrice di Storia del cinema all'Università Sapienza di Roma, ha pubblicato i libri Breve storia del cinema irlandese(Lindau 2002); Cinema dall'Irlanda (Onyx 2008); il saggio ‘Cinema irlandese’ (in Cineuropa - Storia del cinema europeo, Lithos 2009) e, sul tema, ha prodotto diversi altri interventi scritti e audiovisivi.

A Susanna Pellis (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quando nasce il cinema irlandese? E perché è fatto il nome di James Joyce circa la storia delle origini delle prime sale?

Come in tutta Europa, il cinema è arrivato in Irlanda a fine Ottocento, con le prime proiezioni delle pellicole dei fratelli Lumière; mentre la prima casa di produzione indigena, la Film Company of Ireland, è stata aperta nel 1916. Il nome di James Joyce è invece legato alla prima sala cinematografica dell’isola, il cinema Volta, aperto a Dublino nel 1909 su iniziativa dello scrittore. Tanto per la Film Company of Ireland che per il cinema Volta si è trattato, però, di avventure molto brevi.

E’ possibile datare la nascita del cinema irlandese moderno e, se sì, in quali anni e con quali nomi?

Dopo decenni di false partenze, il cinema irlandese ha visto l’emergere della prima generazione di registi, indipendenti e per lo più autodidatti, dalla metà degli anni Settanta: si tratta di Bob Quinn, Joe Comerford, Cathal Black, Kieran Hickey, Pat Murphy, Thaddeus O’Sullivan, i cui film sono di forte impatto socio-politico, e in qualche occasione anche sperimentali.
Ben diversa, più regolare ma assai meno politicizzata, è la produzione successiva, che prende slancio dagli esordi di Neil Jordan e Jim Sheridan all’inizio degli anni Novanta e dall’apertura dell’Irish Film Board, l’ente governativo avviato nel 1993 con il compito di sostenere l’industria cinematografica locale
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La drammatica storia politica dell’Irlanda nel XX secolo ha avuto conseguenze – circa la produzione e la censura – sulla cinematografia di quel paese?

La censura ha segnato pesantemente tutta la storia culturale dell’Irlanda. Le grandi difficoltà incontrate dal cinema irlandese per emergere sono infatti arrivate più dall’interno che dall’esterno, dal momento che lo Stato conservatore formatosi dopo l’indipendenza del 1921 ha cercato per lunghi anni – di concerto con la Chiesa cattolica – di ostacolare tanto la diffusione dei film stranieri quanto la produzione dei film locali.
Per molti decenni il cinema è stato considerato una minaccia non solo dall’establishment irlandese, ma anche da quello nordirlandese: infatti questa situazione, per motivi e in termini diversi, si è ripetuta anche in tempi più recenti, quando i film sui Troubles hanno iniziato a denunciare le gravi responsabilità e i molti crimini britannici in Nord Irlanda
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Esiste una cifra tematica o stilistica che rende riconoscibile il cinema irlandese nel panorama della cinematografia occidentale?

Per anni, il cinema irlandese ha sentito la necessità di raccontare la Storia del paese, che in passato era stata falsata nelle pellicole inglesi o romanticizzata in quelle americane. Si è trattato quindi spesso di film storico politici, la cui cifra stilistica dominante è stato un aspro realismo. Molto diverso è il cinema irlandese contemporaneo, che si caratterizza proprio per la varietà stilistica e tematica. Oggi stanno emergendo filmmakers come Lenny Abrahamson, Kirsten Sheridan, Ken Wardrop, i fratelli McDonagh, in grado di unire alla capacità di scrittura e di direzione degli attori (che sono, va detto, la vera ricchezza di questo cinema) una cura formale e un talento visionario assai rari nel cinema irlandese precedente. Nel miglior cinema irlandese contemporaneo sceneggiatura, recitazione e messa in scena formano un amalgama perfetto.

Gradirei conoscere, in sintesi, un tuo bilancio della più recente edizione dell’IrishFilmFesta da te diretta svoltasi, come nei precedenti anni, a Roma, alla Casa del Cinema…

Il bilancio della sesta edizione di IrishFilmFesta è davvero molto positivo, sia perché i film sono stati apprezzatissimi e tutti gli incontri sono stati di ottimo livello (interviste, masterclass, conferenze), sia perché è ormai evidente che il festival è in costante crescita e ha un suo pubblico che lo attende e lo segue con attenzione. Anche la nostra unica sezione competitiva, il concorso cortometraggi, riscuote ampio consenso fra gli spettatori e sempre maggiori richieste di partecipazione da parte dei cineasti irlandesi.
Per come sono orientati il mercato cinematografico mondiale e la distribuzione in Italia, festival come il nostro rappresentano ormai occasioni uniche di vedere opere che non arrivano quasi ma in sala, e le poche volte che lo fanno sono snaturate dal doppiaggio.
Se avessimo più mezzi economici potremmo offrire al pubblico queste opportunità con maggior frequenza (più giorni, più repliche, più sale, più città). Perciò sarebbe tempo – lo affermo senza nascondere una sfumatura polemica - che qualche sponsor italiano si rendesse disponibile a fare un piccolo investimento su questo festival, invece di riversare le proprie risorse, anche quando sono enormi, sempre e solo altrove
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Costruttori di Babele


Devo a Mauro Pedretti la conoscenza d’un libro straordinario frutto di un’esperienza altrettanto straordinaria. Roba che conforta quelli come me depressi dal numero di romanzi che ci colpiscono quotidianamente in modo spietato con tanti editori che ormai usano lettori e recensori come scudi umani.
Mi riferisco a una rara esplorazione della fantasia: Costruttori di Babele Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, pubblicato da Elèuthera
Ne è autore Gabriele Mina. Nato nel 1973 a Savona, è insegnante e antropologo. Attraverso pubblicazioni e progetti multimediali, si è occupato dei rituali del tarantismo mediterraneo, della storia del corpo e della rappresentazione del diverso, dell’arte irregolare. Ha curato, fra gli altri, i saggi Ossessioni. Un antropologo e un artista nel manicomio di Collegno (Besa, 2009) e Elephant Man. L'eroe della diversità dal freak-show al film di David Lynch (Le Mani, 2010).
Titoli che, se leggete le note contenute nei links, vi daranno già un’idea di Gabriele Mina e dei suoi singolari interessi da esploratore della pluralità del fantastico osservato rigorosamente nella realtà.
Il libro s’avvale di saggi e interviste del curatore e di Enrica Bruno – Cristina Calicelli – Luisa Del Giudice – Eva di Stefano – Katia Esposito – Emanuela Iovino – Bruno Montpied (tradotto da Carlo Milani) – Daniela Rosi – Bianca Tosatti – Roberta Trapani.

I “Costruttori di Babele” sono artisti irregolari che hanno realizzato – fuori o ai confini dell’ufficialità e del mercato dell’arte – un proprio universo immaginario.
Hanno prodotto opere, sul micro e sul macro, più rara la misura media, destinate alla distruzione: giardini d’apparenti delizie, campanili bonsai, illusori castelli, case allucinate fino a quell’enigmatico muro – largo 180 metri e alto 2 – nel manicomio di Volterra sul quale Nannetti Oreste Fernando (noto come NOF) incise con le fibbie delle cinture delle divise da internato una labirintica storia in una lingua, fatta d’immagini e parole, sulla quale s’è soffermata l’attenzione di molti studiosi e artisti italiani e stranieri.

V’invito a vedere questo videoclip - autore Guido Lotti - che nella sua brevità e velocità ritrae l’anima provvisoria di tante gioiose fatiche di questi ingegneri del tempo perduto.
Esiste in Rete anche un sito web dedicato a questi edificatori utopici.

A Gabriele Mina ho rivolto alcune domande.
Come nasce in te l’interesse per questo scenario babelico?

Un intreccio di percorsi differenti. Mi interessa l’arte irregolare, le storie marginali, la costruzione dello spazio: in altri libri sono finito per occuparmi della giurisprudenza ottocentesca delle case cosiddette “fantasmatiche”, oppure dell’esposizione dei corpi mostruosi nei ‘freak shows’ e negli spazi della medicina ufficiale. Molto ha fatto l’incontro, ormai diversi anni fa, con Mario Andreoli, straordinario costruttore babelico che da cinquant’anni trasforma con materiali di scarto la sua collina in un universo di luci. Più di tutto mi premeva evidenziare quanto sul bordo della strada non si trovino solo le consuete ripetizioni dell’arte tradizionale, testimoniate dai rassicuranti musei contadini, ma la reinvenzione dei modelli, la singolarità creativa, l’immaginazione “abusiva”.

Esiste, oppure non c’è, qualcosa che unisce questi autori da te visitati?

Ogni storia ha una sua specificità, tanto più per questi creatori autodidatti. Tuttavia un quadro di insieme si può definire: sono per lo più operai e muratori della piccola provincia italiana, costruiscono intorno o sopra la propria casa con materiali poveri e reinventivi. Si dedicano per decenni alla loro opera, finendo spesso per essere visti come personaggi stravaganti. Sono costruttori di grandi sogni – torri, tombe monumentali – in cui si riflette il desiderio di un prestigio sociale e la messa in scena di un immaginario (ad esempio: il presepe, l’universo, il carnevale). Sono utopie personalissime, delle quali sono gli architetti e i narratori migliori, tuttavia sanno anche essere dei forti segni sul territorio, interni alla cultura e non, come è stato inteso altrove, estranei ad essa, quasi fossero isolati visionari.

Mi auguro che ci sia un futuro a questa ricerca.
Se sì, su quale percorso lo prevedi? Con quali approdi?

Babele è stata un detonatore: grazie al libro e al sito, ora le segnalazioni si moltiplicano, tanto che è difficile riuscire a seguire tutte le vicende. Nei limiti del possibile continuerò l’archivio eccentrico, in dialogo con altri: mostre, video, incontri... Sta per uscire un disco che “Ars Populi” (gruppo ligure con cui collaboro) ha voluto dedicare a queste storie. Penso a dei cantieri babelici: scegliere un determinato territorio ed esplorarlo attraverso tali siti, che, per la loro unicità, ci sollecitano circa il loro problematico destino e il paesaggio in cui sono inseriti. Sabato 11 maggio a Tuscania sarà inaugurata la Casa-Museo di uno straordinario scultore, Pietro Moschini: è un’esperienza nata dall’incontro fra Mario Ciccioli, artista che lavora sul territorio naturale e umano di Tuscania, e il sottoscritto, antropologo. L’idea è quella di attraversare il viterbese attraverso questa chiave irregolare, con l’ambizione non solo di proporre itinerari nuovi, ma anche uno sguardo differente.

A cura di Gabriele Mina
Costruttori di Babele
Illustrazioni in b/n e a colori
Pagine 232, Euro16.00
Elèuthera


The Golden Temple

Settimane fa recensendo il libro Videoculture ho trovato il nome di Enrico Masi autore di un saggio, dedicato al carattere pervasivo della cultura video, contenuto in quel volume.
Masi, però non è solo un saggista ma anche un regista che agisce attraverso la Caucaso Factory, e che con il film documentario The Golden Temple ha ottenuto un caloroso successo alle Giornate degli autori al Festival cinematografico di Venezia 2012.

A Enrico Masi ho rivolto alcune domande.
Quando e come nasce la “Caucaso Factory” E con quali obiettivi espressivi?

La Caucaso nasce nel 2004. Ricordo esattamente il momento. Eravamo io e Riccardo Bacchi, in viaggio nella Georgia del nord al confine con l'Ossetia, territori che dopo sono stati dilaniati dalla guerra con la Russia. Viaggiavamo su una Lada Niva fuoristrada, scendendo verso Tbilisi da uno dei passi più imponenti che abbia mai visto. Il gruppo intorno alla Caucaso nasce però ancora prima (1999 - 2003) da esperienze sopratutto di sperimentazione musicale e si fortifica fino a stabilizzarsi nel 2009, anno in cui realizziamo in maniera collettiva “Giussano”, il documentario sulla Lega Nord che è stato proiettato in 30 città italiane. Dal 2008 abbiamo uno studio di produzione stabile in centro a Bologna. Gli obiettivi permanenti e in evoluzione del gruppo ruotano attorno alla creazione. Siamo autori, musicisti, performer, produttori, il gruppo è in crescita.

Le tue origini cinematografiche ti hanno fatto approdare all’antropologia visuale.
Puoi, in sintesi, raccontare questo percorso?

Ho scoperto il lavoro di Pierre Bordieu e di Chris Marker, quello di Jean Rouch e Raymond Depardon, tutti autori francesi e sono cresciuto con il cinema di Herzog e Pasolini. Shooting Postmoderno è un progetto di saggio cinematografico che ho iniziato a Londra nel 2006, parlando con un cipriota nel quartiere di Newington Green. La ricerca è generazionale, volevo produrre un affresco, salvare il cambiamento vissuto negli anni '2000, non solo il propagarsi della tecnologia, ma anche la fragilità umana, il rintocco di una campana del tempo inesorabile. Il cinema mi sembrava una macchina potente per tentare questo racconto, un approccio dinamico al testo, al suono, utilizzare la fotografia e il movimento per un'opera plurima, che si trasforma e lascia solo una traccia di sangue sullo schermo, o nella memoria dello spettatore e dei compagni di viaggio che mi hanno aiutato.

“The Golden Temple”: il tuo primo lungometraggio…

Prima di tutto è il mio approccio alla città di Londra, dove mi sono trasferito per vivere con la mia compagna Sophie Westerlind, artista che mi ha accompagnato in tutto il percorso del film, sostenendomi nella difficoltà di affrontare un tema così ampio. La storia delle olimpiadi, il comportamento umano, il lavoro, la comunicazione del grande evento, la mutazione urbanistica e l'architettura che riflette la storia.
Il tempio d'oro del capitalismo. La compresenza di 3 energie nello stesso luogo, questo mi ha attratto fin dall'inizio.
Il consumo, la preghiera e il divertimento. Consumerism, Worship and Leisure. Era evidente. Ho cercato di raccontare questa compresenza, e ho trovato in Mike Wells un amico, una persona con cui capirmi in una nuova cultura, che mi ha guidato in quella selva diversa. Lo abbiamo stampato in 16mm alla fine e stiamo per presentarlo, come oggetto fisico di memoria, di un anno energetico che non si ripeterà, ce ne saranno altri, ma non quello, questo per me è il risultato importante
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Perché hai definito “The Golden Temple” una “metafora del presente”?

Comprendere il presente è un tentativo dell'uomo, e nemmeno di tutti gli uomini, non siamo nemmeno sicuri dell'utilità della comprensione, o se fosse possibile, ma cerchiamo risposte e sopratutto raccontiamo storie, per esistere, per il gusto di farlo, per il piacere della creazione, e per la visione. Sembrerebbe tutto incentrato in fondo sulla visione, ma anche la cecità produce visione, in musica e parola, dunque una metafora del presente, può essere necessaria per la sua proposta, per una rilettura che impasta ulteriormente la scacchiera dove ci muoviamo, e ci offre un'altra sfida strategica e un'altra opportunità di vedere, di annusare. Con Khalid avevo teorizzato una categoria diversa da quella di realtà, e l'avevo nominata “realità”.Questa distinzione in francese non esiste.

Su You Tube, una videointervista con Enrico Masi la trovate con un CLIC!

L’Ufficio Stampa della Caucaso Factory è affidato a Erika Gardumi
Tel. +39 051 0563855 – Cell. +39 328 1614015 – Fax 051 0563856
Rizoma | Studio Giornalistico Associato


Dan Oki al Filmstudio

Certamente Filmstudio è stato il primo centro a Roma (altrettanto certamente fra i primi in Italia) per la promozione del cinema di qualità; agisce a Trastevere dal 1967.
Attraverso proiezioni, prime di film indipendenti, rassegne e retrospettive (nuovo cinema, cinema sperimentale, storia del cinema), festival, incontri, letture, video d'autore, eventi, Filmstudio, dalla sua nascita, si proponeva di creare una struttura nuova nel nostro paese dove potessero essere mostrati liberamente, con una programmazione giornaliera, il cinema d'arte e quello di sperimentazione, dove avere l'opportunità di vedere classici della storia del cinema fortunosamente recuperati, film dell'avanguardia storica sconosciuti in Italia, cinema sperimentale, cinema indipendente italiano, europeo e americano, nuovo cinema e film delle cinematografie emergenti.
Filmstudio ha inventato un nuovo modello di associazione di cultura cinematografica: un centro di ricerca e di elaborazione culturale dove sperimentare nuove proposte artistiche e critiche e approfondire i rapporti del cinema con le altre arti e gli altri media.

In questo collaudato canale di comunicazione Filmstudio – con Complus Events e Homevideo – presenterà nei prossimi giorni una retrospettiva cinematografica a cura di Piero Pala dedicata a Dan Oki: Esplorazioni interiori e legami sociali.
Dan Oki (in foto), è lo pseudonimo di Slobodan Jokić (Zara, 1965), è regista e sceneggiatore; assisterà alle proiezioni.
Ha realizzato tre lungometraggi, una serie di documentari e venti film sperimentali. I suoi film sono stati prodotti in Croazia, Paesi Bassi e Stati Uniti e proiettati ai festival internazionali di tutto il mondo. I film di Oki hanno vinto numerosi premi internazionali, tra cui il Grand Prix Videoex 2000 a Zurigo. È professore associato di cinema presso l'Accademia di Belle Arti a Spalato (Umas) e presso l'Accademia di Arte Drammatica di Zagabria.
Intuì la propria vocazione artistica fin dall’età di 14 anni quando ricevette in regalo dal nonno una cinepresa Super 8 mm.

Oki, smantellando i codici e la struttura della finzione cinematografica – scrive Piero Pala – sempre più orientati a condurre lo spettatore al trascinamento emotivo e all’identificazione e proiezione dei personaggi, ordisce un principio di estraniamento concettuale dove l’elaborazione della scrittura filmica determina una messinscena asciutta ed una recitazione altrettanto impassibile. L’impronta artistica di Oki conferma il perdurare di una originalità di pensiero, di un’indagine visiva poliedrica, che non risale ad una esclusiva corrente cinematografica o movimento artistico, ma è da ricondurre a un’autonomia concettuale e a un disinteressato rapporto con i meccanismi dell’industria culturale, al fine di raggiungere un esito estetico immune dagli stereotipi dell’intrattenimento ma, allo stesso tempo, in grado di pervenire a un linguaggio ispirato ed efficace anche se non persuasivo. In Oki l’immagine non è mai unicamente cristallizzata nello spazio filmico ma palesa una propria esistenza nelle tradizioni sapienziali che conservano e tramandano le tecniche per il conseguimento dell’evoluzione interiore, quale strumento appropriato per affinare l’esplorazione al di fuori di se stessi.

Filmstudio
Via degli Orti d’Alibert 1/c – Roma (Trastevere)
Retrospettiva cinematografica delle opere di Dan Oki
Venerdì 25 - Sabato 26 - Domenica 27 Gennaio
Info: mail: info@complusevents.com; tel. 333 735 8983


La storia del mondo in 100 oggetti


La data del finito di stampare è luglio 2012, ma pur non essendo, quindi, recentissimo segnalo questo splendido La storia del mondo in 100 oggetti di Neil MacGregor – edito in Italia da Adelphi – perché è un evergreen e perché uscito con un prezzo impegnativo (specie di questi tempi) di 49 euro, è oggi acquistabile con uno sconto del 25% rendendosi così più avvicinabile.

Non si tratta di una storia delle invenzioni (intendiamoci, di libri così ce ne sono anche di ottimi), ma di un modo diverso d’affrontare la storia di noi umani attraverso la biografia delle cose.
L’autore è stato il direttore della National Gallery, e dal 2002 è alla guida del British Museum.
Scrive nell’Introduzione: In questo libro si viaggia indietro nel tempo e si attraversa il globo, per vedere come gli esseri umani hanno dato forma al mondo e dal mondo sono stati a loro volta plasmati nel corso degli ultimi 2 milioni di anni […] Quella che emerge è una storia inconsueta, con poche date epocali, battaglie famose o avvenimenti celebri. Ma pur non essendo al centro dell’attenzione, gli eventi canonici – la nascita dell’Impero romano, la caduta di Baghdad distrutta dai mongoli, il Rinascimento europeo, le guerre napoleoniche, la bomba di Hiroshima – sono presenti, di riflesso, nei singoli oggetti […] Se si vuole raccontare la storia del mondo intero, non ci si può servire solo dei testi, perché una larga fetta della popolazione mondiale, per lungo tempo, non ne ha prodotti. La scrittura è una delle conquiste più tarde dell’umanità, e molte società alfabetizzate hanno continuato a registrare i propri interessi e le proprie aspirazioni non solo per iscritto, ma anche attraverso gli oggetti, inoltre, come sappiamo, la storia la scrivono i vincitori, specie quando sono gli unici in grado di farlo. I vinti, spesso hanno a disposizione solo gli oggetti per fornire la propria versione.

Alle origini del libro c’è una mostra imperniata sull’idea di raccontare la storia della civiltà umana sulla Terra attraverso 100 oggetti – da una pietra da taglio abbandonata in Tanzania due milioni di anni fa a una carta di credito islamica emessa nel 2009.
Sfida da far tremare più di un curatore, raccolta da Neil MacGregor che le ha aggiunto un’ulteriore difficoltà: ha cioè pensato di descrivere i 100 oggetti, tutti provenienti dalle collezioni del British Museum, alla radio, in altrettante puntate da un quarto d'ora l'una trasmesse tre anni fa dalla BBC. Per farlo, ha sostituito alle immagini un numero equivalente di storie, raccontate con la sua voce, ma anche lasciando la parola a una folla di studiosi, esperti, artisti. Risultato? Un successo enorme – accompagnato da discussioni accesissime su ogni media possibile, e persino da scommesse su quale sarebbe stato il prossimo oggetto incluso –, che ha incoraggiato MacGregor a riversare tutto il materiale trasmesso in queste affascinanti pagine.

In inglese, su You Tube si trova una presentazione fatta da MacGregor di questo suo straordinario lavoro.

Neil MacGregor
La storia del mondo in 100 oggetti
Traduzione di Marco Sartori
Pagine 706, Euro 36.75
Adelphi


Archivio Spatola

Uno dei personaggi che ha rinnovato lo scenario espressivo italiano sia come autore e sia come agitatore culturale è stato Adriano Spatola.
A lui (in foto) si deve, inoltre, alla fine degli anni ‘60, la scoperta di allora giovani autori che trovarono pubblicazione nelle edizioni Geiger fondate con il fratello Maurizio.
E proprio Maurizio Spatola è il protagonista oggi di un’assidua, attenta, partecipe (ben oltre il legame familiare) attenzione e storicizzazione dell’opera di Adriano.
Ne è testimonianza la fondazione di un prezioso Archivio con sezioni dedicate ai libri delle Edizioni Geiger, alla rivista Tam Tam e ai libri pubblicati come suoi supplementi, inoltre sono lì presenti documenti storici concernenti sempre la Neoavanguardia letteraria e artistica.

Ora, Maurizio Spatola informa sulle più recenti attività dell’Archivio da lui curato con un breve comunicato che qui rilancio.
Annuncio di aver messo in rete sul mio sito web il primo numero della rivista di poesia sonora "Baobab", fondata nel 1978 da mio fratello Adriano, con la partecipazione di Corrado Costa, Giovanni Fontana, Giulia Niccolai e F. Tiziano, pubblicata dall'editore di Reggio Emilia Ivano Burani. Si possono ascoltare dieci brani sui venti inseriti all'interno della prima audiocassetta. Potete utilizzare questo link.

Per contatti con Maurizio Spatola: 333 – 39 20 501 e (+39) 0185 – 43 5 83.
Via Usodimare 11/8, 16039 Sestri Levante (Genova)


Exit


Non sono iscritto a partiti o sindacati. Non è un merito. Non è un demerito
Sono, invece, convinto sostenitore di Associazioni quali: Amnesty International, Medici senza Frontiere, Lega Antivivisezione, Unione Atei e Agnostici Razionalisti, Exit.
Quest’ultima (in foto il logo), forse meno nota al grande pubblico (perché assai spesso oscurata dai media), si batte per il diritto ad una morte dignitosa, in altre parole per chi afflitto da malattie incurabili ha deciso di porre fine ai propri tormentati giorni.

Ne è Presidente Emilio Coveri e oggi ha riferimenti in Grecia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Russia, Repubblica Ceca, Brasile, Romania, Repubblica d’Irlanda, Bulgaria; nel frattempo Exit lavora all’espansione verso i paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania).
Adesso soltanto cinque nazioni al mondo consentono legalmente la “dolce morte”: Belgio, Lussemburgo, Olanda, Svizzera, e lo stato americano dell’Oregon.
Ho, quindi, accolto con gioia la notizia che il 21 Dicembre scorso, Exit, Centro Studi e Documentazione sull'Eutanasia, ha partecipato, a Roma, al Palazzo della Cassazione alla presentazione della “Proposta di Iniziativa Popolare sull'Eutanasia”. Tale atto formale sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale con il titolo: "Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia".
Saranno, poi, necessarie 50.000 firme per andare avanti.
E’ questo un tema che vede schierato contro in prima fila il Vaticano, ma non è unanime tra i cattolici l’oscurantista posizione d’oltre Tevere. Si calcola, infatti, che un eventuale referendum in Italia vedrebbe una larga maggioranza a favore dell’autodeterminazione ultima su vivere in condizioni impossibili o lasciare la vita senza sofferenze.
Quando scoppiò il caso Englaro, ad esempio, perfino un gruppo di sacerdoti in Friuli e Toscana si espressero contro il pensiero del Vaticano; per leggere: CLIC!

Exit – Italia
Mail: exit-italia@fastwebnet.it
Tel: 011 – 77 07 126
Corso Monte Cucco 144
10141 Torino


Due racconti della Cvetaeva

Alla prolifica produzione di Antonio Castronuovo va aggiunta una recente pubblicazione – della quale ha curato revisione e postfazione – dedicata a Marina Cvetaeva.
Della poetessa moscovita, nata nel 1892 e morta suicida il 31 agosto del 1941, si conosce l’opera poetica ma decisamente meno nota è la sua scrittura in prosa.
Castronuovo ci propone due narrazioni inedite finora in Italia: Il racconto di mia madre e Il fidanzato ed è la prima a dare titolo al librino che appare nelle Edizioni Via del Vento.

Vita tempestosa quella della Cvetaeva (in foto) che durante la rivoluzione bolscevica scrisse versi inneggianti allo zarismo, poi emigrò in Francia dopo l’incontro fatale con un uomo del quale scrisse: “Nella primavera del 1911 in Crimea ospite del poeta Max Volosin incontro il mio futuro marito, Sergej Efron. Abbiamo 17 e 18 anni. Decido che non mi separerò da lui mai più in vita mia e divento sua moglie”.
Efron, dapprima fra i “bianchi” poi entrerà nella famigerata polizia segreta Gpu; pur non essendoci prove certe pare abbia collaborato a due omicidi fra i quali l’uccisione del figlio di Trotsky.
Nell'agosto del 1939, Efron, percorrendo fino in fondo il suo destino di uomo bello e dannato, sarà fucilato.
E’ lo stesso anno in cui Marina vedrà l'amatissima sorella deportata nel gulag. Ma le sue sofferenze non erano finite perché anche sua figlia sarà arrestata e deportata.
Lei s’impiccherà nel ’41 e mai è stata rintracciata la sua tomba.

Nei due racconti (“Il fidanzato” del 1933 e “Il racconto di mia madre” del 1935) – scrive Castronuovo – scorre la bella energia dei sentimenti al limitare tra l’innocenza e l’aspra scoperta della vita. Marina scrisse una volta a Vasilij Rozanov di non credere all’esistenza di una vita ultraterrena, di possedere una natura incapace di pregare e rassegnarsi, e al contrario di provare una febbrile brama di vivere. Ma si poteva definire vita quella in cui dominava l’indifferenza? Marina non lo tollerava: “Ogni volta che vengo a sapere che un uomo mi ama mi stupisco, che non mi ama mi stupisco, ma più di tutto mi stupisco quando è indifferente nei miei confronti".

Marina Cvetaeva
Il racconto di mia madre
Traduzione di Elsa Marini e Gigi Corsini
Postfazione di Antonio Castronuovo
Pagine 36, Euro 4.00
Via del Vento Edizioni


Da quella prigione


Da anni lo sguardo sapiente di Marco Belpoliti fissa cronaca e storia del nostro paese riuscendo a illuminare scenari semantici e sociali di tanti avvenimenti e personaggi che hanno segnato il nostro tempo.
Lo fa anche in questo libro edito da Guanda intitolato Da quella prigione Moro, Warhol e le Brigate Rosse.
Belpoliti, saggista e scrittore, ha curato le opere di Primo Levi e pubblicato diversi titoli: “Settanta”, “Crolli”, “La prova”, “Diario dell'occhio”, “L'occhio di Calvino”
Nel catalogo Guanda: RisentimentoLa canottiera di BossiPasolini in salsa piccanteSenza vergognaIl corpo del capoIl tramezzino del dinosauro.
Condirettore della rivista-collana Riga (Marcos y Marcos), insegna all’Università di Bergamo e collabora a La Stampa e a L'Espresso.
E' condirettore di Doppiozero.

Da quella prigione esce a quasi trentacinque anni dall’uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse. Gli storici, gli studiosi e gli interpreti dell’avvenimento hanno analizzato il sequestro, le lettere, le vicende dell’esecuzione, ma non le due immagini scattate allo statista con una macchina Polaroid. Lo fa Belpoliti in questo saggio in forma di trittico, che è anche un racconto, un documento e un’indagine della nostra storia recente.
“Per la mia generazione” – così l’autore in un Post Scriptum – “nata negli anni Cinquanta, che ha attraversato gli anni Settanta sull’onda della contestazione studentesca, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro hanno segnato uno spartiacque decisivo. L’immagine del corpo afflosciato è stata uno choc incomparabile […] queste pagine nascono da quel trauma e fanno parte di un ragionamento che porto avanti da oltre trent’anni”.

A Marco Belpoliti ho rivolto alcune domande.
Come indica il sottotitolo del tuo libro, nelle pagine si trova un parallelo fra mondi assai diversi: Andy Warhol e gli appartenenti alle Br. Perché?

Perché Warhol ha lavorato con le Polaroid, ne ha fatto uno strumento di identificazione e insieme di spossessamento dei suoi soggetti pittorici; il parallelo corre sul filo di questo procedimento, dal momento che l’uso di questa tecnica ha delle conseguenze anche teoriche sull’uso stesso del media fotografico. I sequestratori di Moro, come gli autori dei sequestri di persona della malavita, usano le Polaroid come strumento di comunicazione; nel caso delle Br si tratta di una tecnica pubblicitaria non troppo lontana nel metodo da quella di Warhol, nel libro entro più nei dettagli, ovviamente. Un parallelo semiotico, se si può dire, ma anche antropologico e politico.

Scrivi: “Nella ‘prigione del popolo’ Moro ha, nonostante tutto, incontrato il reale, per quanto nella forma ultima e terribile della morte, mentre i sui sequestratori […] l’hanno clamorosamente mancato”. Perché ciò è avvenuto?

Perché Moro ha riflettuto su se stesso e sulla politica italiana nel momento estremo, ha sancito la sua verità con il sangue; una confessione e una lotta estreme che è mancata ai brigatisti; noi non sappiamo ancora cosa è davvero accaduto nel covo dove lo tenevano prigioniero; Moro ha avuto la forza della verità che è mancata ai suoi carnefici. Si nascondono ancora.

Nel libro sono frequenti le citazioni di “Buongiorno, notte” e l’ultimo capitolo è dedicato interamente dedicato a quell’opera di Marco Bellocchio.
Che cosa ti ha particolarmente colpito in quel film?

La capacità di trattare una vicenda così oscura e intricata in modo così immaginativo, poetico, trovando una strada per comunicarci una verità che va al di là di quella effettuale, facendoci capire a fondo cosa è stato quel sequestro, non solo per i protagonisti (vittime e carnefici), ma anche per noi, gli spettatori impotenti.

Marco Belpoliti
Da quella prigione
Pagine 80, Euro 8.90
Guanda


Dentro Facebook

Che cos’è Facebook?
Wikipedia così ne traccia il profilo: “È un servizio di rete sociale lanciato nel febbraio 2004, posseduto e gestito dalla corporation Facebook, Inc. Il sito, fondato a Cambridge negli Stati Uniti da Mark Zuckerberg e dai suoi compagni di università Eduardo Saverin, Dustin Moskovitz e Chris Hughes, era originariamente stato progettato esclusivamente per gli studenti dell'Università di Harvard, ma fu presto aperto anche agli studenti di altre scuole della zona di Boston, della Ivy League e della Stanford University. Fu, poi, aperto anche agli studenti delle scuole superiori e a chiunque dichiarasse più di 13 anni di età. Da allora ha raggiunto un enorme successo: è diventato il secondo sito più visitato al mondo, preceduto solo da Google; è disponibile in oltre 70 lingue e nell'ottobre 2012 contava circa 1 miliardo di utenti attivi che effettuano l'accesso almeno una volta al mese, classificandosi come primo servizio di rete sociale per numero di utenti attivi”.

Facebook è un fenomeno per la cui imponenza ha già raccolto gli studi di molti sociologi. E anche molte riserve e critiche.
Potete trovarne recenti tracce nel trascorso 2012 QUI (16 ottobre) oppure QUI (22 novembre).

L’Editore Fazi ha mandato in libreria un volume intitolato Dentro Facebook Quello che non vi hanno mai raccontato.
E' stato scritto da una che aveva raggiunto livelli di alta responsabilità in quella famosa Compagnia: Katherine Losse.
Dopo gli studi in Letteratura inglese alla Hopkins University di Baltimora, Katherine Losse si trasferisce in California e nel 2005 entra a far parte di Facebook come membro del team d'assistenza ai clienti. In pochi anni riesce a farsi strada e passa dal ruolo di responsabile dell’internazionalizzazione di Facebook a quello di ghost-writer di Zuckerberg. Nel 2011, demotivata e scettica nei confronti degli obiettivi della compagnia, abbandona il social network per scrivere il suo libro di memorie.
Perché vogliamo sapere quali dei nostri "amici" sono usciti insieme nel week end e quello che hanno fatto? Perché abbiamo autorizzato Facebook a mediare la nostra vita privata? Sono alcune delle domande che l’autrice ci pone in questa autobiografia raccontandoci i suoi cinque anni trascorsi nel cuore del social network. In fuga da un dottorato in Letteratura Inglese alla John Hopkins di Baltimora, Losse, al verde e senza prospettive di carriera accademica, arriva in California e sale per caso a bordo della squadra di Facebook. Nel 2005 il sito era una giovane startup di Silicon Valley, e Losse, all'epoca carica di speranze, era l'unica donna in una compagnia d’informatici nerd a loro agio solo tra algoritmi ed entità scalari. Eppure riesce inaspettatamente a bruciare le tappe di una brillante carriera che la porta dal dipartimento di assistenza clienti a diventare l'autrice dei testi di Mark Zuckerberg. Intanto la compagnia accumula milioni di utenti e si lancia alla conquista del mondo. Ma gli uffici di Facebook assomigliano a una confraternita di Harvard: gli informatici, pensano solo a raccogliere dati, nel disprezzo, secondo Losse, della sensibilità degli utenti e, mentre la missione dichiarata del sito è quella di connettere la gente, i suoi dipendenti sono sempre più soli e alienati.
Su tutto, un fiume di soldi sembra fugacemente materializzare il sogno americano. Ma Losse è sempre più convinta essere finita in un incubo.
I segnali che non la convincevano, racconta nel volume, li raccolse quando sentiva ripetere da Zuckerberg all’inizio delle riunioni “Facebook è una compagnia tecnica”.
Alla Losse la cosa sembrava strana. Perché tecnica e non sociale?
Si rese conto che il motivo era profondo, Zuckerberg non voleva essere classificato nel “sociale” bensì nella comunità tech, cioè nel mercato. Un luogo appetito dai giovani managers di cui, pericolosamente per lui, stava facendo incetta MySpace.
Progressivamente ha la consapevolezza di non essere il portavoce del capo ma il suo ventriloquo.
Durante una visita in Brasile, si sente dire dagli addetti alla sicurezza che la scortano: “Zuckerberg è il pacco, e lei e gli altri siete i lacci. Proteggiamo voi perché proteggiamo lui, non viceversa”.
Breve: la Losse se ne va da Facebook. Ora se è possibile che questa ex dirigente dimessasi forzi qualche tono per la delusione provata, è pur certo che la lettura della sua cronaca è molto interessante perché fa luce su qualcosa che nella nostra epoca può da più di qualche ingenuo essere vissuta come un tempio, una nuova religione della comunicazione di cui Zuckerberg (al quale va, comunque, riconosciuta genialità) è il Papa.

Katherine Losse
Dentro Facebook
Traduzione di Nicola Vincenzoni
Pagine 230, Euro 14.50
Fazi Editore


Come i servizi segreti usano i media


Winston Churchill diceva: “I panni dei servizi segreti si possono, anzi si devono lavare più spesso degli altri; ma, a differenza degli altri, non si possono mettere ad asciugare alla finestra”.
In Italia, da anni c’è un signore che sbircia quella finestra e riesce a vedere le trame dei tessuti stesi.
Quel signore è Aldo Giannuli.
Nato a Bari, nel 1952, è ricercatore di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università statale di Milano.
È stato consulente parlamentare nelle commissioni d’inchiesta sulle stragi (dal 1994 al 2001) e sul caso Mitrokhin (dal 2003 al 2005).
Fra il 1996 e il 2008, è stato consulente giudiziario in diversi processi, fra cui quelli per le stragi di piazza Fontana, via Fatebenefratelli, piazza della Loggia, e per i casi riguardanti Enrico Mattei, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci, Mauro De Mauro.
Ha collaborato con quotidiani (il Manifesto, Liberazione, Quotidiano dei lavoratori) e settimanali (Avvenimenti, Rinascita). Collabora con L’Unità ed è redattore di Libertaria.
Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Uscire dalla crisi è possibile (Ponte alle Grazie, 2012), 2012: la grande crisi (Ponte alle Grazie, 2010), Come funzionano i servizi segreti (Ponte alle Grazie, 2009), L’abuso pubblico della storia (Guanda, 2009), Bombe a inchiostro. Storia della controinformazione, 1969-1979 (BUR, 2008), Dalla Russia a Mussolini, 1939-1943 (Editori Riuniti, 2006), Storia dell’Ufficio affari riservati (2 volumi, allegato all’Unità, 2005), Le internazionali anticomuniste (2 volumi, allegato all’Unità, 2005).
È salito alla ribalta delle cronache giornalistiche quando, nel novembre 1996, ha scoperto una gran quantità di documenti non catalogati dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, nascosti nell’ormai rinomato “archivio della via Appia”.
Il suo più recente libro, pubblicato da Ponte alle Grazie, è Come i servizi segreti usano i media, laddove esplora le tecniche usate dall'intelligence per influenzare e interpretare l'informazione.
Si legge d’un fiato tanto appassionante e tesa si rivela lo svolgersi delle pagine.

Ad Aldo Giannuli ho rivolto alcune domande.
È inevitabile che i servizi passino le notizie che loro interessano ai media?

Che le notizie emesse dai servizi filtrino nei mass media è del tutto logico ed inevitabile. E’ ovvio che i servizi abbiano interesse a diffondere determinate informazioni e questo può avvenire anche all’insaputa dei redattori che le ricevono per tramiti che nascondono la vera origine della notizia o consapevolmente, attraverso uno scambio diretto di informazioni fra un uomo dei servizi ed un giornalista. Contrariamente a quello che si può pensare, la cosa più pericolosa è la prima, perché nel secondo caso il giornalista ha più mezzi per valutare la fonte da cui viene e, pertanto, può fare accertamenti più mirati e scrupolosi.
Le notizia peggiore è che la disseminazione occulta tende a crescere, tanto per effetto della deprofessionalizzazione dei giornalisti (d’altra parte, con media che si sostengono con il lavoro di giovani precari oberati di lavoro e pagati 5 Euro al pezzo, cosa si può pretendere?) sia per la crescita del canale internet che è la prateria ideale per tutti i giochetti dei servizi. O si crede che internet lo usino solo i “nemici del potere”
?

Esiste oppure no un’area politica che è più sensibile alle voci di dentro dei servizi?

Direi di no: ciascun partito (fra quelli che contano ed hanno la possibilità di infilare propri uomini nei servizi) cerca di costruire una cordata di riferimento da cui attinge notizie e cui accorda protezione. Da questo punto di vista l’esperienza della vigilanza parlamentare (il Copaco istituito con la riforma del 1978) è stata assolutamente deludente ed ha favorito il fenomeno delle cordate trasversali. Si tratta di una forma di controllo che va totalmente ripensata.

Marcello Marchesi a fine anni ‘60 diceva “In Italia i servizi segreti sono pubblici e i servizi pubblici sono segreti”.
Secondo te, che sei uno dei massimi esperti di cui disponiamo in materia, i nostri agenti sono professionalmente all’altezza dei loro compiti o sono bravi soltanto a intrallazzare con le segreterie politiche, i media, gli industriali?

L’Italia non è diversa dagli altri paesi da questo punto di vista ed i servizi hanno tutti i difetti di qualsiasi branca della PA, compreso il pressappochismo, la propensione a lavorare poco, il carrierismo ed anche una certa quota di cialtroneria. James Bond esiste solo a cinema. Questo non vuol, dire che, come in ogni ramo della PA, non ci siano anche elementi che svolgono il loro lavoro con competenza professionale, capacità e (persino!) con onestà.

Per visitare il sito web di Aldo Giannuli: CLIC!

Aldo Giannuli
Come i servizi segreti usano i media
240, euro 13.50
Ponte alle Grazie


Coaching Mourinho


Ha scritto Jorge Luis Borges: “Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì rinasce la storia del calcio”.
Poetica immagine che ben si presta ad aprire, come sto facendo, una nota su di un libro che di calcio si occupa, ma, come vedremo, non solo di calcio.
Il volume, pubblicato da Vallardi, è intitolato Coaching Mourinho però non è solo un'opera per chi è curioso di conoscere la filosofia di quest’allenatore e il modo in cui prepara le partite, perché sa anche rivolgersi a chiunque voglia dirigere un'impresa, contiene, infatti, lezioni sulla leadership, la strategia e la conduzione di un team. Non a caso è stato scritto da Juan Carlos Cubeiro – in collaborazione con Leonor Gallardo – vale a dire dal maggior esperto spagnolo di leadership e coaching; ha scritto numerosi libri e il suo blog Hablemos de talento è assai visitato.
Naturalmente, nel volume di Mourinho si parla molto, della sua biografia, di curiosi episodi, dei suoi ingaggi stellari e del suo carattere che alterna colorita estroversione a sprezzante mutismo, tenerezze nascoste (a dire il vero, molto nascoste) e le tante durezze manifestate frequentemente.
Una cosa è certa: José Mourinho non lascia indifferenti, nel bene e nel male.
Il messaggio degli autori è chiaro: osservate Mourinho, ripercorrete attraverso questo libro tutti i suoi successi (e insuccessi), tutte le polemiche, tutti i suoi colpi di genio dentro e fuori del campo, prendete esempio dal suo modo di agire, e così anche voi potrete vincere le partite che vi propongono o proponete.
Senza dimenticare, aggiungo io, che Bufalino diceva “I vincitori non sanno che cosa si perdono”.
C'è chi considera José il più grande allenatore di calcio di sempre mentre la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (Iffhs) lo classifica come il migliore allenatore degli ultimi dieci anni.
Nelle pagine di “Coaching Mourinho” leggiamo che il trainer portoghese: “… condivide con Spartaco il suo spessore carismatico. Con Attila lo spirito combattivo, instancabile. Con Tokugawa Leyasu il senso scacchistico del guerriero. Con Riccardo Cuor di Leone la sua presunta semplicità contro il mondo, la sua teatralità e il piacere di recitare una parte in pubblico. Con Hernán Cortés l’idea del guerriero come giocatore. Con Napoleone la capacità intellettiva, unendo l’università al calcio”.

Solo applausi da parte degli autori? No. Viene tratteggiata anche la sua figura fuori del rettangolo di gioco.
Ricordano, infatti, anche chi lo critica come John Carlin “… Mourinho è talmente prepotente e gradasso che pensa di essere al di sopra di qualsiasi legge umana o divina; i suoi successi nel calcio lo hanno fatto arrivare a credere di trovarsi al di là del bene e del male […] Ormai non scatena più tanta divisione come prima: quello cui si assiste oggi è piuttosto un rifiuto generalizzato. Lo sostengono solo quelli degli ‘Ultras Sur’ che applaudono quando gli altri lo fischiano che sono leali a questo lider maximo le cui tendenze politiche, com’è noto, sono – curiosa casualità – di taglio fascista”.
Anche il critico Carlos Boyero gli si scaglia contro: “Mourinho è un individuo molto pericoloso. E conosce i metodi per tirar fuori il peggio dalla gente”.
Né più tenero è il regista Daniel Sanchéz Arévalo il quale ha dichiarato che darebbe in un suo film a Pep Guardiola un ruolo tipo Dexter e a Mourinho quello di Joker.

Aldilà del personaggio José, con i suoi meriti sportivi e i suoi demeriti personali, il libro mi ha fatto pensare anche al calcio come, in parte, è ridotto oggi (e in Italia ne sappiamo più di qualcosa), spettacolo spesso di scellerate gesta che vanno dall’esibizione del razzismo all’imbroglio truffaldino.
Ho aperto questa nota con una citazione di Borges e con lo stesso Borges la chiudo.
“Come? Lei crede ancora al tifo e agli idoli?... Ma dove vive, Don Domeq? … Non esiste punteggio, né formazioni, né partite. Oggi le cose succedono solo alla televisione e alla radio. La falsa eccitazione dei locutori non le ha mai fatto sospettare che è tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio è stata giocata tanto tempo fa… Da allora il calcio, è un genere drammatico, interpretato da un solo uomo in una cabina e da attori in maglietta davanti al cameraman” (da ‘Esse est percipi’, 1967).

Juan Carlos Cubeiro
Leonor Gallardo
Coaching Mourinho
Prefazione di Risto Mejide
Traduzione di Cristiana Omarini
Pagine 192, Euro12.90
Vallardi


Grandezza e miseria dei viaggi

Con la Presidenza di Franco Iseppi, il Touring Club Italiano si è dato una nuova immagine che, ancora meglio dei suoi pur gloriosi anni trascorsi, lo inserisce in una visione del turismo aderente ai nostri giorni, incontrandone le nuove esigenze.
Iseppi (ricordo orgogliosamente che fu mio compagno di viaggio nella taverna spaziale che gestisco sull'Enterprise… via, il Presidente del Touring non poteva sottrarsi alle emozioni di un viaggio nello Spazio), sta agendo con i suoi collaboratori efficacemente sui tradizionali canali di comunicazione e di politiche turistiche non mancando – per citare il più recente esempio – di far sentire la sua voce contro disposizioni che pregiudicano il nostro paesaggio.
Su di un altro cursore il Touring sta portando alla luce parti tratte dal suo prezioso archivio letterario e fotografico.
Già due anni fa pubblicò uno scritto di Italo Calvino – “Castelli di delizie e castelli del terrore” – composto per il Touring; l’anno scorso rinnovò quella felice esperienza con un altro testo, “Le cose assenti”, di Valentino Bompiani.
Ora ha pubblicato un’altra chicca: Grandezza e miseria dei viaggi di Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972).

Scrive Franco Iseppi in Prefazione: Il nostro volumetto augurale quest’anno è stato recuperato tra i tanti testi di autori importanti custoditi in biblioteca, rappresenta una testimonianza preziosa e autorevole pubblicata da uno storico periodico, “Le vie d’Italia”, che per cinquant’anni (dal 1917 al 1967) ha diffuso con tirature di tutto rispetto il pensiero ‘dinamico’ del Touring e di tanti illustri autori […] E’ con commosso orgoglio che riproponiamo quanto scriveva per noi, più di sessant’anni fa, col suo prezioso stile sobrio e poetico, Dino Buzzati, e quanto con altrettanta lungimiranza pubblicava il Touring sulla prestigiosa rivista destinata ai suoi numerosissimi associati.

Dino Buzzati – in foto – è tra gli scrittori italiani che vanta un grandissimo numero di traduzioni, e, pure avendo avuto in Italia largo successo, da qualche tempo è sceso su di lui un velo d’oblio. Eppure è un autore che oltre ai pregi stilistici ha tratti di assoluta modernità. Faccio un esempio che, purtroppo, non si trova in molte bibliografie buzzatiane.
È vero che il nome “graphic novel” per indicare quel genere verbovisivo l’ha coniato Will Eisner nel 1978, ma in Italia possiamo vantare un precedente proprio grazie a Buzzati che con “Poema a fumetti” (1969) fece tutto da solo, sceneggiatura e disegni.

Dino Buzzati
Grandezza e miseria dei viaggi
Pagine 16, s.i.p.
Edizioni Touring Club Italiano


Burroughs 1 e 2


Lo scrittore statunitense William Burroughs (St. Louis, 5 febbraio 1914 – Lawrence, 2 agosto 1997), è stato un protagonista del rinnovamento letterario del secolo scorso sia per contenuti sia per linguaggio.
Ora la Casa Editrice Mimesis ha pubblicato due libri d’estremo interesse dovuti a Riccardo Gramantieri.
Quest’autore, laureato presso le facoltà d’ingegneria e di psicologia di Bologna, si occupa di letteratura e fantascienza. Ha pubblicato Metafisica dell'evoluzione in A.E. van Vogt (Bologna, 2011) e Ipotesi di complotto, paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento (con Giuseppe Panella, Chieti 2012).

I due libri cui prima mi riferivo sono Blade Runner, un film e William Burroughs Manuali di sopravvivenza, Tecniche di guerriglia.
Mi soffermo su quest’ultimo titolo perché credo sia uno dei più estesi studi che esistano, almeno in Italia, sull’autore nordamericano, un saggio d’estrema importanza dove Gramantieri riesce a far scorrere su due cursori paralleli lo studio della vita e delle opere di Burroughs, la loro interrelazione, la puntuale e approfondita analisi stilistica della scrittura.
A farla breve, credo che chiunque in futuro vorrà approfondire uno studio su Burroughs dovrà passare per questo libro.
Il volume, inoltre, è corredato da un’Appendice che riporta la trama dei romanzi, la cronologia delle opere, una ricca bibliografia, e un Indice dei nomi (cosa questa che mai mi stancherò di raccomandare ai tanti autori e editori che, spesso, trascurano quest’importante area d’apparato in un testo saggistico).

A Riccardo Gramantieri ho posto alcune domande.
“Blade runner, un film”. Avvertito qualche lettore distratto che il libro non è la sceneggiatura del famoso film di Ridley Scott, ti chiedo di spiegarci come stanno le cose…

Questo libretto di William Burroughs è il soggetto per un film mai realizzato, ispirato da un romanzo di Alan Edward Nourse chiamato “The Bladerunner”, tradotto anche da noi quasi trent’anni fa come “Medicorriere”. Il più celebre “Blade runner”, il film di Ridley Scott con Harrison Ford, sappiamo invece che è stato tratto da un romanzo di Philip Dick il cui titolo originale, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” era ben poco attraente per i produttori ed il regista. Scott e lo sceneggiatore ottennero da Burroughs il permesso per utilizzare il suo titolo. Ma solo quello. La storia raccontata nel famoso film, come sappiamo, è quella di Dick.

In che cosa risiede l’originalità della letteratura burroughsiana?

Direi che la più grande innovazione di Burroughs consiste nella tecnica letteraria. I romanzi degli anni Sessanta e Settanta sono i più rappresentativi della tecnica e degli intenti dello scrittore. Il romanzo deve avere una funzione pedagogica. Deve servire a qualcosa. Non deve solo raccontare una storia. Anzi, la storia è marginale, quello che importa è il messaggio. Per questo, molti romanzi di Burroughs possono definirsi manuali di sopravvivenza: avvertono il lettore di stare in guardia perché i tempi che sta vivendo (erano gli anni Sessanta) sono pieni di insidie. Egli incita il lettore a non farsi abbindolare dai media. L’idea che la televisione e i giornali indirizzino il pensiero verso idee prestabilite, è un tema classico della fantascienza degli anni Cinquanta. Burroughs porta il discorso alle estreme conseguenze. Non solo scrive fantascienza per rappresentare in maniera allegorica i suoi tempi, ma la scrive in modo che solo i lettori attenti possano comprendere le sue parole. Utilizzando le tecniche del cut-up e del fold-in, una specie di collage di parole fa in modo che non tutti possano decifrare il suo messaggio di ribellione. Quando in “Nova express” scrive ‘prigionieri della Terra uscite fuori’, come se parlasse da un altro mondo, incita i propri lettori alla ribellione, a quella che potremmo definire una guerriglia semiotica.

Quali intonazioni contenutistiche e stilistiche la cultura cyberpunk deve a Burroughs?

Il modello principale del cyberpunk è stato il film “Blade runner” di Scott, che con le sue strade al neon ha fornito le scenografie di molti romanzi del genere. Ma sicuramente da William Burroughs proviene l’idea sia della città multietnica e post-coloniale, sia l’idea dei giovani ribelli contro il sistema. Se pensiamo alla città di Chiba City inventata da William Gibson in “Neuromante”, non possiamo non pensare all’Interzona del Pasto nudo. I guerrieri informatici alla “Johnny Mnemonic”, sempre di Gibson sono una variante tanto dei ragazzi selvaggi, quanto delle bande di “Blade Runner” di Burroughs. Proprio la virtualità dei cyberpunk, con l'invenzione di un corpo elettronico senza sesso, può ben dirsi una evoluzione informatica della mutazione sessuale descritta da Burroughs.

Tre domande in una. Ci spieghi la posizione di Burroughs riguardo a correnti come la Dianetica? Fu oppure no, poi, un seguace di Scientology? E quale fu la sua posizione riguardo al cristianesimo?

Burroughs, come altri scrittori della sua generazione, fu molto attratto dalle scienze alternative che emersero nel dopoguerra. Fra i vari movimenti alternativi di quei tempi, sicuramente la Dianetica fu una delle più seguite. Il manuale di Hubbard, quando venne pubblicato nel 1950, fu un vero caso editoriale. Era la psicanalisi per tutti. Burroughs, che era sensibile ad ogni teorie della mente, e che non aveva ottenuto alcun risultato dalla scienza ufficiale, alla fine degli anni Cinquanta, quando la Dianetica si era già trasformata da diversi anni in Scientologia, non esitò a provarla. La trovò talmente efficace, che nel 1959 la consigliò senza indugio al problematico amico Allen Ginsberg. Nel 1967 la consiglia anche all’altrettanto problematico figlio Billy. Per Burroughs, che sulla Scientologia scrisse diversi articoli e la rappresentò anche allegoricamente nei romanzi (la’ ‘logos police’, la polizia del linguaggio), il problema non era la teoria o l’efficacia, quanto la struttura di Scientology e la sua segretezza.
In merito al cristianesimo, Burroughs è decisamente critico. Non tanto verso la figura di Gesù, che considera uno dei tanti maghi-profeti del suo tempo, quanto della chiesa come istituzione, che ha creato nei secoli una situazione di monopolio religioso, e quindi di controllo

Riccardo Gramantieri
William Burroughs
Pagine 296, Euro 18.00

A cura di Riccardo Gramantieri
William Burroughs
Blade Runner, un film
Pagine 82, Euro 8.00

Mimesis


Diciannove rompicapo morali


Il filosofo francese Ruwen Ogien è un tipo fatto apposta per creare imbarazzi con le sue proposte di filosofia morale sperimentale attraverso la quale impone crudeli esercizi.
Potrete conoscerli leggendo un suo libro, di recente edito da Laterza dal titolo di lunghezza settecentesca: Del profumo dei croissants caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana Diciannove rompicapo morali, in quarta di copertina la domanda “E’ più difficile essere un mostro o un santo”?
Ougien è direttore di ricerca al Cnrs; sue pubblicazioni in italiano: "Pensare la pornografia. Tutti la consumano nessuno sa cos’è” (titolo, a dir la verità, un tantino presuntuoso), Isbn 2005; “La filosofia morale”, Il Mulino, 2006.

Ecco alcuni esperimenti mentali proposti dall’autore.
“È lecito giustiziare un innocente per evitare una sicurissima strage voluta da una folla scatenata che pretende sia scovato l’autore di un barbaro assassinio?”.
“Sono sempre la stessa persona se tutte le mie cellule sono state ricostruite in modo identico all’originale o se tutti i miei organi sono stati sostituiti?”
“Siamo in un pronto soccorso, è lecito per il medico di turno far morire un pedone imprudente per non lasciar morire cinque persone gravemente ferite che hanno bisogno di urgenti cure?”.
“Cambieresti la tua vita reale, contrassegnata da frustrazioni e fallimenti, con una vita piena di tutte le esperienze che si possono desiderare, ma completamente artificiali, prodotte da mezzi chimici o meccanici?”.

Sia chiaro, non sono previste risposte a quiz, ma al lettore è richiesto di seguire i ragionamenti dell’autore che c’invita ad attraversare gli impervi sentieri che s’inerpicano fra psicologia, morale personale ed etica sociale.
Ougien combatte principalmente lo pseudomoralismo e il massimalismo etico specie di stampo religioso e così dice:
Questo libro non ha la pretesa di insegnare a vivere, né l’intenzione di insegnare la storia delle idee morali dalle origini ad oggi, in ordine cronologico.
La sua ambizione è molto più modesta: mettere a disposizione degli interessati una sorta di scatola di attrezzi intellettuali per affrontare il dibattito morale senza lasciarsi intimidire dai paroloni (“Dignità”, “Virtù”, “Dovere”, ecc.) e dalle grandi dichiarazioni di principio (“Non bisogna mai trattare nessuno come un semplice mezzo”, ecc.). Se non lo avesse già fatto qualcun altro, avrei potuto intitolarlo Antimanuale di etica o Piccolo corso di autodifesa intellettuale contro il moralismo.
Poiché si tratta di un libro di filosofia e non di un romanzo poliziesco, credo che nessuno rimarrà deluso se “uccido la suspense” dichiarando subito quali sono le mie idee principali.
Sono riassumibili in due assunti.
1. Non è vero che le nostre credenze morali sarebbero prive di valore se non fosse possibile farle riposare su un principio unico e incontestabile (Dio, la Natura, il Piacere, i Sentimenti, la Ragione, ecc.): in etica, si può fare a meno dei “fondamenti”.
2. In campo etico, ammettere una certa forma di pluralismo delle dottrine e dei metodi è l’opzione più ragionevole
.

Per una scheda sul libro: QUI.

Per uno sguardo all’Indice del volume: CLIC!

Ruwen Ogien
Del profumo dei croissants caldi…
Traduzione di Gianluca Valle
Pagine 272, Euro16.00
Disponibile anche in e-book: Euro 9.99
Editori Laterza


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