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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Raw


Apprendo sempre con piacere di un nuovo spettacolo di Marco Solari e Alessandra Vanzi (in foto) perché rappresentano una grande stagione del teatro di ricerca e i due, ancora oggi, a differenza di molti gruppi d’un tempo, riescono ad avere fantasia ed entusiasmo per innovare.
La scena italiana ha un grosso debito con Alessandra e Marco e spero che un giorno si decida a non essere insolvente come lo è stata fino a oggi.
Una buona testimonianza, almeno fino al 1994, del loro originale lavoro si può avere con il Cd-Rom Percorsi cifrati.
A loro mi lega anche il ricordo di un ardito viaggio spaziale che ci vide insieme tanti anni fa.
Ai più distratti ricordo che sono attivi dagli anni Settanta come attori, autori, registi prima nel gruppo della Gaia Scienza, poi con la “Compagnia Solari Vanzi” e ora come direttori artistici dell'Associazione Temperamenti.

Nella loro più recente creazione, Alessandra Vanzi e Marco Solari con Patrizia Bettini, assieme ai musicisti Alessandra Parisi, Piergiorgio Faraglia (voci e chitarra), Mauro D’Alessandro (percussioni), improvvisano un Raw Magazine, una rivista 'cruda'.
Perché il termine “raw” in inglese questo significa: crudo, non cotto, naturale.
Lo abbiamo scelto – affermano nel programma di sala – per condividere con gli spettatori materiali non raffinati, grezzi, appena sbozzati. Il vocabolo viene anche usato in fotografia digitale per indicare immagini senza compressioni, quindi senza perdita di definizione.
Dichiarazione nella linea stilistica del loro teatro che sempre è stato caratterizzato dalla scrittura scenica, un teatro nel quale parola, movimento, immagine e suono trovano un equilibrio in opere originali dove l'attenzione alla contemporaneità e alle trasformazioni del presente sono condotte nel segno anfibio dell’invettiva e del gusto per il paradosso.

Questi frammenti tra aforismi, incubi e riflessioni, a partire da testi da loro scritti o scelti, sono una sorta di prologo allo spettacolo Valle Giulia, dove accanto alla Vanzi ritroviamo Alessandra Parisi e scorrono interventi video di Adi Gianuario.

Marco Solari (testo, scena e regìa) così dice: Valle Giulia è un luogo inevitabilmente mitico, ma in questo lavoro non c’è nessuna riattualizzazione rituale. No, quello a cui si assiste è un gesto assurdo del quale sono stato una volta spettatore attonito, il gesto di una donna che portava da mangiare a una miriade di uccelli. Attorno a lei, che tirava fuori da grossi sacchi di plastica neri pezzi di pane recuperati nei bar e nei ristoranti, volavano e si posavano cornacchie e passeri, gabbiani e merli, storni e ballerine. Sotto gli occhi di pappagalli verdi.
Mentre assistevo a questa strana scena, ho fatto qualche disegno e me ne sono andato. Poi è venuto questo monologo.
Così sono pensieri violenti rabbiosi ironici amari quelli che escono dalla donna, tutta presa nel suo compito e nella misurazione del tempo: del prima e del dopo, cioè dell’ora, della trasformazione delle cose e dei rapporti, una prefigurazione dell’incerto futuro
.

Ufficio Stampa
Giulia Contadini, 333 – 34 83 517; giuliacontadini@gmail.com
Vita Ragaglia, 342 – 10 51 604; vita.ragaglia@gmail.com

“Raw” e “Valle Giulia”
Teatro Sala Uno
Piazza di Porta San Giovanni, 10 - Roma
Biglietto intero euro 13 - ridotto euro 8
Info: 06 98182993 – info@salauno.it
06.3611669; temperamenti@fastwebnet.it
Tutti i giorni alle 21.00, la domenica alle 18.00
Dal 2 al 7 aprile 2013
Poi in tournée


History of Violence


Questo il titolo della mostra fotografica di Claudio Cravero in corso alla Oblom, galleria d’arte fondata nel dicembre 2011 da Fabrizio Bonci e Caterina Scala nel quartiere torinese di San Salvario.
L’esposizione è a cura di Daniela Fargione, per leggere la sua presentazione: CLIC!

Ebbi il piacere di ospitare Cravero tempo fa nella sezione Nadir di questo sito; cliccare QUI per vedere alcuni lavori e leggere anche un suo autoritratto biografico e artistico.

In foto: HofV, 2008

Ho chiesto a Cravero una dichiarazione su questa serie di lavori in mostra.

Il progetto nasce nel 2008 in un momento di grande disagio personale. Una violenza interiore che ho riversato attraverso la fotografia su immagini che evocano situazioni di violenza, presenze umane che a volte non si sa se vittime o carnefici. Il coltello come trait d'union del primo periodo, oggetto del quotidiano che allo stesso tempo attrae e impaurisce… in un raptus di follia riuscirei a controllarmi? o sarei oggetto di cronaca come il consueto vicino di casa gentile, educato e simpatico che nessuno sospettava capace di atti violenti? Violenza tra le mura domestiche, violenza a cui ci siamo assuefatti tra un piatto di pasta e una pubblicità; per me un esercizio terapeutico e il tentativo di esorcizzare la morte. Una seconda parte dove il coltello scompare per rendere le immagini ancor più evocative di una violenza non manifesta in modo esplicito, ma ancora più dura. Il tutto poi attraversato dalle mie passioni per il cinema di Cronenberg, Lynch, Kubrick e la pittura del Caravaggio e Vermeer, dove la luce diventa linguaggio.

CLIC per visitare il sito web di Claudio Cravero.

History of Violence
di Claudio Cravero
a cura di Daniela Fargione
Galleria Oblom
Via Baretti 28, Torino
Info: info@galleriaoblom.it
333 – 84 38 768
Dal martedì a venerdì 16 - 20
Fino al 13 aprile


Geni di mamma

Ogni biografia, o quasi, comincia con il nome del padre. Il padre è quello che, almeno secondo la Bibbia, emerge dal suo eterno far niente, in sei giorni combina i guai e le meraviglie che tutti sappiamo. E poi passa il resto del tempo ad arrabbiarsi con gli uomini (di più con le donne, ma mi riferivo agli esseri umani in generale). Non solo: sparisce tra le nubi quando c’è davvero bisogno di lui (>Padre, padre, perché mi hai abbandonato?<), salvo poi rifarsi vivo per giudicare ciò che è stato fatto in sua assenza. E infliggere punizioni un po’ a casaccio […] Ora sarà più che probabile che in un futuro non ci sarà più bisogno neanche di un utero materno e che la nascita di un bambino scorrerà tra dna digitalizzati e incubatrici in biomateriali, ma, a oggi, del padre si è imparato più o meno a fare a meno (e spesso con sollievo). Della madre proprio no. Se sia un vantaggio, magari, lo giudicheremo alla fine. […] E di una cosa possiamo essere certi: basta scorrere un qualsiasi bigino della religione e della storia e la prima cosa che salta all’occhio è che, in barba a tanto onore, il padre, quello vero, non c’è. Tant’è che, non trovando di meglio, sia gli antichi greci, favoleggiando su Dioniso e Alessandro Magno, sia gli indù, con Yudisthira, sia i cristiani con Gesù, piazzarono il padre in cielo, invisibile ai più. E misero saldamente la madre sulla Terra. Dopodiché cancellarono le madri dagli altari e dalla storia. Ed è proprio di questo che andiamo a parlare”.

Citazione un po’ sul lungo, ma non ho resistito a darvi il folgorante inizio di un nuovo libro di Valeria Palumbo che studia 17 casi di madri poco note di figli celebri e del rapporto che li legò.
Geni di mamma Storie di madri ingombranti per figli stravaganti questo il volume mandato in libreria dalle Edizioni Odradek.

Valeria Palumbo, caporedattore centrale de L’Europeo, collabora con vari giornali e siti Internet, tiene lezioni universitarie, conduce reading teatrali e incontri a festival storici e letterari. È membro della Società italiana delle storiche e della Società delle letterate.
Per conoscere la sua estesa, e valorosa, bibliografia e altre documentazioni, c’è in Rete il suo ben articolato sito web.
Cosmotaxi stima molto questa scrittrice e spesso si è occupato dei suoi libri: La perfidia delle donne; Svestite da uomo; Le figlie di Lilith; L'ora delle ragazze Alfa.

In “Geni di mamma” si assiste a uno studio condotto, com’è stile della Palumbo, con una scrittura veloce e puntualissima che collega rigorosamente documentazioni mai abbandonandosi alle perniciose invenzioni di tanti romanzi storici (… e quanti di quelli, oggi di moda, spietati ci affliggono!) e sempre riservandoci il suo frizzante punto di vista critico. Quest’autrice, fra quelle che giustamente si battono per rilevare il ruolo delle donne nelle società di ieri e di oggi, ha una singolarità: delle donne non ne fa agiografia e quando si tratta di suonargliele non si risparmia, ma proprio per questo fa risaltare vieppiù il loro ruolo, sia nella vita artistica o politica sia in quella di relazioni familiari, perché non tende a consegnare loro ad ogni costo le palme del martirio.
Lo fa anche in questo suo più recente libro, dove indaga chi furono e quali rapporti ebbero con le loro madri Alfieri, Borges, Čajkovskij, Calvino, Freud, Hardy, Hugo, Lenin, Leopardi, Manzoni, Mazzini, Mendelssohn, Modigliani, Proust, Rossini, Schopenhauer, Schumann.

Per dare qui un esempio della bravura della Palumbo, mi soffermerò su di un solo caso, quello di Freud. Caso scivoloso assai in cui era facile cadere in cupi psicologismi e acrobatiche interpretazioni. L’autrice, invece, pur riportando con sintetica precisione quanto Freud riferisce sui suoi rapporti con la genitrice, non si risparmia qualche sorridente riflessione.
Per ognuna delle coppie studiate c’è, per chi voglia approfondire, una mirata bibliografia. Inoltre, i capitoli sono scanditi da scritti (lettere, poesie, brani di prosa) di altri autori che riguardano, ovviamente, le loro madri.

Valeria Palumbo
Geni di mamma
Pagine 172, Euro 18.00
Edizioni Odradek


Per amore della fisica

Ha scritto Fernando Pessoa: “Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo. Il fatto è che pochi se ne accorgono”.
Se, però, quei tanti avessero preso parte alle lezioni tenute al MIT da Walter Lewin una parte di loro avrebbe visto la bellezza dei numeri, il fascino della scienza.
Ci dà l’occasione di conoscere Lewin un libro scritto da lui con Warren Goldstein direttore del Dipartimento di Storia al College of Art and Science della University of Hartford.
Il volume pubblicato dalle Edizioni Dedalo è intitolato:Per amore della fisica Dall’arcobaleno ai confini del tempo.
Questo professore alto quasi un metro e novanta, magro, zazzera grigia spettinata, vestito con noncuranza, roba da far pensare al Doc Brown di “Ritorno al futuro”, prepara le sue lezioni come un attore provandole da solo più volte nell’aula dove le terrà, facendo capire le cose più dure da capire nei suoi affollatissimi incontri usando mezzi semplici espressi in una lingua ancora più semplice e spesso divertente.

La maggior parte degli studenti delle scuole superiori e dell’università - scrive Lewin - detesta la fisica perché di solito questa materia viene insegnata come un complicato set di formule matematiche. Non è questo l’approccio che utilizzo al MIT, e non è l’approccio che utilizzato in questo libro. Qualsiasi pioniere della fisica ha cambiato il modo in cui guardiamo il mondo […] noto un legame affascinante tra la fisica e l’arte; anche l’arte pioneristica rappresenta un nuovo modo di vedere, un nuovo modo di osservare il mondo. Forse vi sorprenderà sapere che per buona parte della mia vita sono stato ossessionato dall’arte moderna almeno quanto lo sono stato della fisica: sono innamorato di entrambe! .
Dimostra il suo attaccamento alle arti affermando di avere capito la fisica attraverso la musica, dedicando anche un capitolo al suono e intitolandolo “Le armonie di corde e fiati”.
In questo libro spazia dai misteri del magnetismo, ai raggi X dallo Spazio dalle catastrofi cosmiche ai buchi neri, ponendo domande che coinvolgono subito l’interesse dell’ascoltatore o del lettore.
Perché i tramonti sono rossi? Perché il cielo è blu? Perché le nuvole sono bianche? Perché riusciamo a bere con una cannuccia? Qual era il suono del Big Bang? Cos’è il magnetismo? Perché dopo un fulmine l’aria ha un odore così particolare? Cosa c’è alla fine dell’arcobaleno?
Le risposte sono date con un metodo narrativo e se deve ricorrere a dei numeri, ecco che sfodera cifre che avvincono l’attenzione come fa quando parla dei fulmini dicendoci che in media si verificano sulla Terra ogni anno circa 16 milioni di temporali, vale a dire più di 43000 ogni giorno, circa 1800 l’ora che producono circa 100 lampi al secondo, più di 8 milioni di lampi ogni giorno.
La semplicità e il brio delle sue lezioni si ritrovano in queste pagine di “Per amore della fisica” facendo scoprire a chi legge il mondo in cui viviamo e che conosciamo, ma che non guardiamo con l’ottica di un fisico.

Walter Lewin
con Warren Goldstein
Per amore della fisica
Traduzione di Valeria Lucia Gili
Editing scientifico di Elena Ioli
Pagine 360, Euro 16.00
Edizioni Dedalo


Il colombo è andato alla toilette


Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da tempo non recensisco romanzi (né poesia stampata, ma quella sonora o video sì), chi volesse sapere perché basta che clicchi QUI.
Riservo solo un interesse per i racconti perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza altro che scrivere romanzi o romanzoni.
Non è un caso che nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupi largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, a Tzvetan Todorov ad altri ancora. “Toccherà a Genette” - scrive Francesco Muzzioli (Le teorie della critica letteraria, 1994) – “con ‘Discorso sul racconto’ sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione breve uscendo dalla mera sequenza delle funzioni narratologiche […] Todorov, ad esempio, arriverà addirittura nella compilazione di una “grammatica” del Decameron, a tradurre l’intreccio in formule algebriche”.
Insomma i racconti m’interessano, ma mica tutti, solo in quelli in cui vi scorgo una scintilla d’immaginazione capace d’illuminare in poche (meglio se pochissime) pagine angoli di vissuti vertiginosi, profili d’enigmatici personaggi, storie semplicissime e fatali.
Una che sa scrivere trasfigurando il reale in immaginario e capace di fare anche il percorso inverso è Cristiana Minelli di cui già mi occupai in occasione della pubblicazione del suo racconto Pacco di Natale.
Ora gli editori Greco & Greco mandano in libreria Il colombo è andato alla toilette e altri racconti che è una felice conferma delle capacità funamboliche di questa scrittrice. Nata a Modena nel 1965, ha lavorato a Comix, il Giornale dei Fumetti e collaborato con quotidiani e riviste. Nel 2005 ha vinto il Premio Letterario della sua città. È responsabile dell’ufficio stampa della Galleria civica di Modena e redattrice del magazine “civico 103”.
Nel volume, anticipati da una “Ballata dell’archivista” seguono racconti ispirati a installazioni di arte contemporanea, altri a scene di caccia in cui le arti visive pure c'entrano e passando attraverso la più lunga narrazione che dà titolo al libro, si arriva allo splendido “Christmas Blues”, quasi un sogno acidista, che si conclude riflettendo sul fatto che “ci sono persone che se ne vanno per sempre per non tornare nemmeno in sogno. Ce ne sono altre che passeggiano a lungo per i viali del tempo perduto, consapevoli che non si può più tornare indietro. Dal backstage della vita mischiano le carte all’infinito, dispensando suggestioni, sogni, fantasie. Si nutrono di nostalgia e la regalano a chi, senza di essa, non avrebbe più la scusa per continuare a vivere”.

Oggi alle 15.00 a BUK, festival della piccola editoria di Modena ospitato al Foro Boario di via Bono da Nonantola, il libro di Cristiana Minelli sarà presentato dal narratore e saggista Roberto Barbolini.
In quest’occasione Andrea Casoli proporrà, sempre edito dalla casa editrice Greco & Greco, “Il Dizionarietto rompitascabile degli Editori Italiani, compilato da uno dei suddetti” di Angelo Fortunato Formiggini – editore modenese che, neanche a farlo apposta, fa capolino a pag. 134 de “Il colombo è andato alla toilette”.

Per una scheda sul libro: CLIC!

Cristiana Minelli
Il colombo è andato alla toilette
Pagine 218, Euro 10.50
Greco & Greco


Floema

Ho conosciuto Daniele Poletti in occasione di 1000 e una nota per John Cage, fatta nel centenario della nascita del musicista americano (1912 – 1992).
Una performance di scritture fra carta e web promossa e realizzata da dia•foria maiuscola rivista in Rete di arti e letteratura – attualmente archiviata presso la Biblioteca Nazionale di Roma, la Fondazione Bianciardi a Grosseto, la Biblioteca Poletti di Modena, la Biblioteca Gino Baratta di Mantova e l’Archivio Gozzano in Piemonte – cui lavorano con Poletti Fernando Anateti, Pierfrancesco Biasetti, Walter Catalano, Stefano Pocci.

Ora, in seno a dia•foria sono nati due nuovi spazi.
Uno dedicato alle scritture di ricerca chiamato Floema curato da Daniele Poletti e Fernando Anateti.
Un altro, chiamato Calaverna dove troveranno posto riflessioni di carattere filosofico curate da Pierfrancesco Biasetti e da Walter Catalano.
I due termini spiegati dal Dizionario.
Calaverna è un termine meteorologico che indica il sottile strato di ghiaccio che si forma su ciò che è esposto al freddo intenso.
Floema è un termine botanico che indica l’insieme dei tubi cribrosi che servono nella pianta alla circolazione delle sostanze nutritive.
Floema si dedicherà all’esplorazione della parola e noto con piacere che si apre con il fonoscrittore Gian Paolo Guerini che ebbi il piacere di ospitare tempo fa nella sezione Nadir di questo sito.
V’invito a leggere l’interessante presentazione, e dichiarazione d’intenti espressivi, di Floema.


La Biblioteca


La Casa Editrice Einaudi annuncia una nuova collana: La Biblioteca.
È presentata come segue.

In un’epoca di conoscenze frammentarie, specialistiche o superficiali, è tanto più necessario recuperare equilibrate visioni d’insieme e autorevoli punti di vista critici. La collana «La Biblioteca» intende proporre al lettore generale così come allo studioso una serie di volumi dedicati alle fondamentali tematiche della storia, della storia delle idee e dei processi culturali, della storia della scienza, dell’arte e della fotografia.
Ogni volume ricostruisce con slancio narrativo l’epopea di grandi civiltà del passato, getta luce su momenti cruciali dell’evolversi delle vicende umane, ripercorre le parabole di protagonisti e correnti delle arti e delle scienze. Gli autori, selezionati tra i massimi specialisti internazionali dei singoli argomenti, uniscono all’indubbia competenza scientifica uno stile di scrittura avvincente, in grado di trasmettere il piacere della lettura stemperando il sovraccarico del sapere accademico
.

I primi volumi.

Ian F. W. Beckett, “La prima guerra mondiale”, 350 pagine, 30.00 euro.

Tradotto da Chiara Veltri, lo storico Ian Beckett isola dodici eventi cruciali della prima guerra mondiale. Soffermandosi su episodi sia celebri sia pressoché dimenticati, l’autore racconta la storia della Grande Guerra da una prospettiva inedita, sottolineando di volta in volta il ruolo del caso come quello della strategia, episodi giganteschi come solo apparentemente poco rilevanti, la dimensione sociale come quella militare e l’evento di lungo periodo come quello che esaurisce rapidamente la sua portata storica.


Steven Nadler, “Un libro forgiato all’inferno ”, 300 pagine, 30 euro.

Nel 1670 comparve anonimo il Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza. Il libro fu subito condannato come empio e blasfemo sia dalla Chiesa protestante sia da quella cattolica: un’opera sovversiva, la più pericolosa mai pubblicata. Questo nuovo volume di Steven Nadler, tradotto da Luigi Giacone, è appunto la storia di un libro sulfureo e dannato. Ma qual era il messaggio contenuto in quelle pagine? Che la Bibbia è un’opera umana, da leggere in una prospettiva storico-filologica, per trarne l’insegnamento fondamentale: «ama il tuo prossimo»; che Dio è la Natura, non la Chiesa con i suoi settarismi e le sue interferenze politiche; che la sovranità dello Stato proviene da una delega e pertanto va esercitata in nome del benessere comune; che la filosofia, la ricerca del retto sapere, è parte di quel benessere e che perciò a ogni cittadino deve essere consentito «non solo pensare quello che vuole, ma anche dire quello che pensa».


Volumi di prossima pubblicazione:

Jon Heilbron, “Galileo”
Robert Louis Wilken, “I primi mille anni. Storia globale del cristianesimo”
Tomaso Montanari, “La libertà di Bernini”


Fluxus e Poesia visiva

La Fondazione Berardelli dedica il nuovo appuntamento espositivo a due movimenti che fortemente hanno segnato la scena artistica degli anni Sessanta e Settanta e che continuano a influenzare il nostro presente. La mostra, a cura di Melania Gazzotti con la collaborazione di Maddalena Carnaghi, rende omaggio al cinquantesimo anniversario appena trascorso di Fluxus e a quello della Poesia visiva italiana che si celebra quest'anno.
L'esposizione rappresenta inoltre un'occasione per il pubblico di conoscere una parte inedita della collezione della Fondazione che offre, non solo testimonianza delle ricerche verbo-visuali, ma anche dei più significativi movimenti d'avanguardia degli anni Sessanta e Settanta. Il nucleo di opere raccolte riguardanti Fluxus, visti i punti di tangenza con le sperimentazioni tra parola e immagine, è tra i più rilevanti.

In foto: Lamberto Pignotti, L’essere e il nulla, 1967

Esposte opere Fluxus di Eric Andersen, Joseph Beuys, George Brecht, Giuseppe Chiari, Jean Dupuy, Milan Knizak, George Maciunas, Gianni Emilio Simonetti, Daniel Spoerri, Endre Tot, Ben Vautier. Una sezione della mostra presenta testimonianze fotografiche, più di 40 scatti originali, che ritraggono gli artisti appartenenti all'avanguardia internazionale nel corso di performance e happening. Due sale sono dedicate a due tra i più significativi esponenti italiani di Fluxus: Gianni Emilio Simonetti, di cui sono esposti dipinti, oggetti, assemblage e serigrafie, e Giuseppe Chiari, musicista fiorentino, che ha contribuito con le sue ricerche sul suono, il rumore, le partiture e la scrittura anche allo sviluppo della Poesia visiva.

Per il movimento italiano sono proposti collage di Vincenzo Accame, Luciano Caruso, Nanni Balestrini, Ugo Carrega, Gianni Bertini, Giovanni Fontana, Emilio Isgrò, Lucia Marcucci, Stelio Maria Martini, Eugenio Miccini, Anna Oberto, Luciano Ori, Michele Perfetti, Lamberto Pignotti (questo mese ospite della sezione Nadir di Nybramedia), Sarenco, Luigi Tola e William Xerra, insieme con una selezione di documenti – manifesti, inviti, volantini, fotografie – e pubblicazioni dell'epoca.


Ancora la Fondazione Berardelli la troviamo – insieme con Collezione Denza Brescia, Collezione Palli Prato, Frittelli Arte Contemporanea Firenze – tra i prestatori per la mostra al Muvi di Viadana che ricorda i 50 anni della poesia visiva con una mostra dedicata al Gruppo 70, movimento artistico fiorentino fondato da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti nel maggio del 1963, nel corso di un convegno, tenutosi a Firenze, dal titolo “Arte e comunicazione”. Ne hanno fatto parte pittori, poeti e musicisti interessati a sperimentare l’interdisciplinarità tra le arti e a comprendere i fenomeni delle comunicazioni di massa.
In esposizione saranno presenti opere degli esponenti del nucleo originario di artisti visivi appartenenti al Gruppo 70 composto, oltre che da Miccini e Pignotti, da Lucia Marcucci, Ketty La Rocca e Luciano Ori.
In occasione di questa mostra sarà realizzato un catalogo con testi di Claudio Cerritelli, Melania Gazzotti, Roberto Pedrazzoli edito da Tre lune.

“Fluxus vs Poesia visiva”
Fondazione Berardelli
Via Milano 107, Brescia
Info: 030 – 31 38 88
Fino al 6 aprile 2013

"Il Gruppo ‘70"
Al Muvi di Viadana
Info 0375 – 82 09 31
galleria@muviviadana.org
Fino al 5 maggio 2013


Videogaymes


Spesso in Cosmotaxi mi sono occupato di videogames, sarà perché m’intriga quel loro modo di proporre un intercodice tecnologico fra immagine, letteratura, arti visive, cinema, sia quando sono umoristici sia quando sono distopici, sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago.
Come definire un videogioco?
Secondo Paola Carbone, da me intervistata tempo fa: “Il videogioco può essere inteso come un ‘dispositivo tecnosociale’, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia. Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione… un luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio”.
Di sicuro i videogames stanno progressivamente ottenendo non solo sempre più pubblico ma pure riconoscimenti sul suo essere uno strumento espressivo di valore; una testimonianza maiuscola in tal senso si ha dalla recente notizia dell’inserimento di 14 videogiochi nella collezione stabile del MoMA di New York.
Le Edizioni Unicopli, nella collana Ludologica diretta da Matteo Bittanti e Gianni Canova, propongono un interessante saggio su di un particolare aspetto (se non sbaglio finora non trattato, almeno in Italia) del videogiocare: Videogaymes L’omosessualità nei videogiochi tra rappresentazione e simulazione (1975-2009).
L’autore è Luca de Santis, sceneggiatore, ha scritto per il teatro, per la radio, per MTV, Co­medy Central, Endemol, Dahlia TV e alcuni network statunitensi. Ha pubblicato per Comix, Azimut e Kappa Edizioni. La sua graphic novel In Italia sono tutti maschi (Kappa Edizioni, 2008) con illustrazioni di Sara Coleone è stata tradotta in molti paesi, vincendo diversi premi, ad esempio nel 2009 il “Micheluzzi” al Comicon di Napoli come "Miglior fumetto dell'anno". Editor e studioso di morfologia della narrazione, struttura della sceneggiatura e sviluppo del personaggio, de Santis unisce il suo lavoro con la passione per i videogiochi, fondando Geekqueer la prima comunità italiana di videogiocatori lgbt (acronimo di lesbian, gay, bixesual, transessual).
Sessismo e omofobia li ritroviamo in molti videogiochi, anche se progressivamente hanno trovato spazio anche games per gay. L’analisi di de Santis condensata in questo volume ha richiesto circa due anni di lavoro, visionando quasi 8000 giochi coin-up e su console, giocando ai videogames in cui la presenza gay fosse rilevante.
Dalle pagine apprendiamo, ad esempio, che il gioco preferito dalla comunità lgbt è “World of Warcraft”, seguito da “Final Fantasy XI” e “City of heroes” e inoltre che la stessa comunità ritiene che il 52% dei videogiocatori eterosessuali sia ‘ostile’ (il 14% ‘molto ostile’) nei loro confronti. Tale ostilità si manifesta attraverso un linguaggio offensivo e una rappresentazione di stereotipi degradanti. Al 42% dei gaymer è capitato di aver vissuto esperienze omofobe in rete spesso o frequentemente.

Questo è un libro che può essere vantaggiosamente letto anche da chi non è interessato ai videogames perché è uno studio sociologico che, attraverso l’analisi di un mezzo espressivo assai diffuso, documenta orientamenti della nostra società e anche i tentativi di contrastare le derive sessiste che spessissimo vanno a braccetto con il razzismo.
Scrive Bittanti in prefazione: Il lavoro di Luca de Santis porta in primo piano fenomeni a lungo ignorati perché considerati irrilevanti o “estranei” a una forma espressiva che, ancora oggi, è spesso considerata “puro intrattenimento” dove “puro” si riferisce a una presunta “neutralità" ideologica del videogame. L’idea che il gioco digitale sia “mero disimpegno” è attivamente promossa dai reparti marketing e si estrinseca in commenti quali “E’ solo un gioco”. Questa retorica maschera l’ideologia del “divertimento elettronico”, una retorica che la stampa specializzata, da sempre subordinata al mercato, riproduce pedissequamente. In realtà, il videogioco è un artefatto culturale complesso.

Il volume si avvale d’imponenti apparati: un supporto iconografico, bibliografia, sitografia, ludografia e filmografia.

Luca de Santis
Videogaymes
Prefazione di Matteo Bittanti
Pagine 164, Euro 15.00
Edizioni Unicopli


La Collezione Gorini (1)

Come sa chi generosamente legge queste pagine web, Cosmotaxi si interessa ai piccoli musei e ne ha visitati alquanti trovando sempre, dal più frivolo al più dotto, spunti che invitano alla riflessione su temi singolari, o sulla società che li ha visti nascere oppure su primordi di tecniche poi sviluppatesi nel tempo.
E’ il caso della “Collezione anatomica Paolo Gorini” che si trova a Lodi città che ha dato i natali a nomi della letteratura e dello spettacolo, ad esempio la poetessa Ada Negri e il cantautore Ricky Gianco, e pur non essendo nati lì ha dato lunga ospitalità a molti altri. Un nome per tutti: Fanfulla da Lodi, l’intrepido combattente della disfida di Barletta avvenuta il 13 febbraio 1503.

In foto: Piazza Broletto, sede dell’Amministrazione Comunale, dello Iat e della Pro Loco.

Molti anni della sua vita li trascorse a Lodi anche Paolo Gorini.
Noto in alcuni ambienti scientifici è ignoto a molti. Contunuate a leggere e, forse, per la singolarità del personaggio, non ve ne pentirete.
Nacque a Pavia il 28 gennaio 1813.
La sua esistenza fu presto funestata dalla morte del padre travolto da una carrozza. Grazie all'aiuto finanziario di alcuni colleghi del genitore, Gorini terminò i propri studi ottenendo la laurea dottorale in Filosofia e Matematica presso il Collegio Ghislieri di Pavia frequentando anche corsi di Medicina e Chirurgia.
Arrivò a Lodi nel 1834 (dove morirà nel 1881) assumendo la cattedra di Fisica e Scienze Naturali presso il Liceo comunale della città.
Uomo dalle plurali curiosità, tombeur de femmes, vicino agli ambienti della Massoneria, patriota di idee democratiche (la cosa gli costò un breve esilio), fu un grande studioso della geologia e del corpo umano.
Da geologo intervenne con relazioni ancora conservate a convegni internazionali e nel 1837 scrisse il libro "Sull'origine delle montagne e dei vulcani". Famosi i suoi esperimenti di vulcanologia, tanto che alle sue eruzioni laviche simulate in laboratorio assistettero anche Alessandro Manzoni e re Umberto I con la regina Margherita di Savoia.
Come s’è detto, studiò il corpo umano, ma soprattutto dopo… il decesso.
Già perché Gorini fu “preparatore di cadaveri” (espressione decisamente sinistra) e di parti anatomiche secondo un procedimento segreto da lui stesso inventato e sperimentato.
Ecco perché esiste a Lodi, con i suoi 131 reperti, il Museo Gorini – successivamente chiamato Collezione anatomica Paolo Gorini – istituito nel 1981 dall’anatomo-patologo Antonio Allegri.
Ma accanto a questa attività di stimato imbalsamatore (si occupò della salma di Mazzini e dello scrittore Rovani) fu tra i protagonisti dello studio sulla cremazione. La sua applicazione scientifica, insomma, passò dal conservare al distruggere.
Ottenne risultati ammirati pietrificando corpi che finivano col rassomigliare a statue e, quindi, confinando con l’arte.
Altrettanto famose diventeranno le sue tecniche di cremazione dei corpi.
Altre informazioni sulla vita e l'operato di Gorini nella seconda parte di questo servizio.


La Collezione Gorini (2)


Paolo Gorini (in foto il monumento dedicatogli a Lodi) è ricordato da un grande scrittore italiano: Carlo Dossi che ne parla nel suo monumentale diario intimo intitolato “Note azzurre” dal colore della copertina dei quaderni in cui registrò circa quarant’anni della sua vita.
Moltissimo si deve poi al docente universitario Alberto Carli, conservatore museale della Collezione e autore di una poderosa monografia: Paolo Gorini. La fiaba del mago di Lodi - introduzione e cura di Matteo Schianchi - Edizioni Interlinea, alle cui pagine sono debitore di larghe parti di questo servizio.
Se Dossi s’interessò a Gorini non è un caso, egli fu un rappresentante della scapigliatura e lo scienziato Gorini a quell’epoca appartenne.
“Nel romanzo Vita di Alberto Pisani” – scrive Carli – “Carlo Dossi trasfigurava Paolo Gorini nel personaggio tanto inquietante quanto umoristico, del ‘mago’ Martino […] In Italia, nella seconda metà del XIX secolo, i veri maghi erano gli scienziati […] Il ritratto di Paolo Gorini nel ruolo di mago coincide anche con la voce popolare. Nel soprannominare “mago” lo scienziato, i lodigiani erano impermeabili al risvolto esoterico dell’appellativo”.
E Schianchi a proposito di un certo clima culturale dell’800 che allunga le proprie luci e, soprattutto, le proprie ombre fin dentro il ‘900 : “… le figure che scrutano il corpo nelle sue profondità assumono ancora un’aura di maghi o stregoni, individui che fanno cose misteriose e pericolose, che studiano cose di cui non ci si deve occupare, fonte di pericolo per l’ordine divino e naturale delle cose. Un immaginario si costruisce attorno a queste figure, come dimostra il sottile filo rosso che lega le creazioni di Frankenstein, le sperimentazioni di Gorini, la figura del dottor Moreau del romanzo “L’isola del dottor Moreau” di Wells, le attività dei protagonisti di film come “Il Gabinetto del dottor Caligari” (1919), “Nosferatu” (1922)…”.
A questo punto è opportuno citare ancora Ciarli invitandovi a leggere una sua intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto.

Ma veniamo alla figura di Gorini come studioso della cremazione, cosa questa che gli attirò le ire delle autorità ecclesiastiche (... ma tu guarda che novità!) e fu all’origine di una serie di censure e perfino atti persecutorii. La rivista “L'Amico Cattolico” lo definì un materialista (evidentemente quanto erroneamente ritenendo tale dizione offensiva), nel 1863 le monache di S. Anna rifiutarono a Gorini la permanenza nella casa dove egli abitava, e nel 1882 si opposero alla proposta della Giunta municipale di posare sullo stesso edificio la lapide commemorativa dello scienziato.
Anni di lavoro spesi sulla conservazione delle sostanze organiche, convinsero Gorini che il suo metodo di pietrificazione, molto costoso, non avrebbe potuto avere che rare applicazioni. Così, sul principio degli anni Settanta del XIX secolo, spinto dall'invito ripetuto di Agostino Bertani e di Gaetano Pini, Paolo Gorini affrontò la questione della cremazione. A muoverlo in questa nuova avventura scientifica, era la repulsione nei confronti della decomposizione. Lo scienziato scriveva: «quanto poi succede nella sepoltura è senza confronto più tristo e più ributtante di ciò che sarebbe accaduto al cadavere lasciato sopra la terra; e lo strazio di quelle misere carni dura, come si è fatto notare, un tempo lunghissimo […]. È una cosa orribile il rendersi conto di ciò che succede al cadavere allorché sta rinchiuso nella sua prigione sotterranea».

Wikipedia ricorda che i cimiteri erano, per i fautori della ‘morte laica’, veri ricettacoli di infezioni e poteva essere provato, grazie alle nascenti discipline della batteriologia e della microbiologia, “che il processo della decomposizione poteva causare l'inquinamento dell'acqua e dell'aria nelle aree circostanti i sepolcri”. Se l'editto napoleonico di Saint Cloud, del 1804, veniva esteso anche all'Italia due anni dopo la sua promulgazione, riservando gli spazi extra moenia per la costruzione dei cimiteri e promuovendo di fatto la più moderna separazione tra le città dei vivi e quelle dei morti, la cremazione e la sua riscoperta avvennero ad opera dei philosophes dell'Encyclopédie. In Italia la cremazione venne approvata e concessa nel 1888 e i Comuni furono obbligati a cedere gratuitamente l'area necessaria alla costruzione dei crematori. È interessante, allora, ripercorrere alcune tappe del pensiero goriniano sulla cremazione, a partire dalla lettera ad Antonio Olioli il 4 febbraio 1874, quando Gorini non aveva ancora trovato il suo metodo semplice ed economico di “abbruciare i cadaveri visibile all'Esposizione di Milano 1881” (Vedi l’opera precedentemente citata “La fiaba del mago di Lodi”), dove accanto alla sincera descrizione delle difficoltà incontrate (“… occorrendo un apparecchio troppo caro ed essendo assai costosa anche l'operazione…) non si nega la certezza che (“… non passerà lungo tempo che si vedrà la cremazione andar sostituendosi alla vecchia maniera di trattare i cadaveri…).
Tuttavia, il vero anno di svolta nella storia della cremazione avvenne proprio nel 1874 quando lo scienziato sperimentò un nuovo sistema di distruzione dei corpi attraverso la combustione, progettando il primo forno crematorio moderno, grazie al quale incontrò un successo insperato. Un primo forno goriniano fu costruito presso il cimitero di Riolo nel 1877. Poi si ebbero altre costruzioni a Milano, Varese, Roma, Londra, Parigi.
Nonostante la città di Lodi gli avesse dedicato una via sin da quando era ancora in vita, Paolo Gorini morì in povertà, nel 1881.

Nel concludere questa nota, consiglio di cliccare QUI per una videointervista ad Alberto Carli che ben riassume le imprese di Gorini e lo sfondo socioculturale nel quale avvennero.

Cosmotaxi ringrazia Francesca Gavezzotti dello Iat di Lodi e Luigi Schiavini della Pro Loco che con la loro preziosa collaborazione hanno permesso la realizzazione di questo servizio.

Collezione Anatomica "Paolo Gorini"
Piazza Ospitale 10, Lodi
0371 – 40 92 38, per apertura, costi e visite guidate.


Grazie Brontosauro!


Il titolo di questa nota è di un libro dedicato a un grande biologo, parafrasando l’intitolazione di uno dei suoi libri: “Bravo, Brontosauro” (Feltrinelli, 1992).
Il volume, pubblicato dalle Edizioni Ets, è a cura di Francesca Civile – Brunella Danesi – Anna Maria Rossi e sulla copertina si legge:
Grazie Brontosauro! Per Stephen Jay Gould.

E’ Stephen Jay Gould (New York, 10 settembre 1941 – New York, 20 maggio 2002), infatti, che è studiato attraverso saggi firmati, oltre che dalle curatrici, da Giambattista Bello, Marcello Buiatti, Andrea Cavazzini, Stefania Consigliere, David Gianfranco Di Segni, Marirosa Di Stefano, Fabio Fantini, Marco Ferraguti, Elena Gagliasso, Paola Gallo, Alberto Gualandi, Joachim Langeneck, Maria Turchetto, Federica Turriziani Colonna.

Fra i nomi noto quello dell’epistemologa Maria Turchetto, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che a dieci anni dalla morte dello scienziato, raccogliendo segnali a lei pervenuti da studiose e studiosi dell’opera di Gould organizzò nel 2012 un convegno internazionale di studi.
Allora, da me intervistata così rispose:

Gould è un personaggio amatissimo. Amato dai biologi, perché ha riformulato la teoria dell’evoluzione facendola uscire dalle secche della cosiddetta Sintesi Moderna; dai filosofi, per la sua grande cultura e sensibilità ai problemi metodologici; dagli scienziati sociali, per il suo impegno civile contro gli usi ideologici della biologia; dai non addetti ai lavori, per le sue doti di scrittura e comunicazione che hanno permesso a tutti di comprendere le nuove strade imboccate dalla ricerca.
Il sottotitolo del convegno è “Natura, Storia, Società” e intende valorizzare la grande sensibilità filosofica, storica e sociale di Gould: la sua visione della scienza come impresa razionale in divenire e immersa in contesti sociali, il suo interesse per gli intrecci tra cultura generale, ideologie e pratiche sociali nella formazione dei concetti biologici
.

A cura di
Francesca Civile
Brunella Danesi
Anna Maria Rossi
“Grazie Brontosauro!”
Tavole fuori testo di Tommaso Eppesteingher
Pagine 232 , Euro 18.00
Edizioni Ets


La forza dell'assenza


Con piacere apprendo di una due giorni dedicata al cinema di Claudio Sestieri (in foto) organizzata dalla Cineteca Nazionale e dal Sindacato Critici.
E’ intitolata La forza dell’assenza e vedrà l'intervento di Patrizia Pistagnesi, Bruno Torri, Vito Zagarrio che dialogheranno con Sestieri.

Questo sito ha avuto il piacere di averlo ospite per il suo film Chiamami Salomè e anche in occasione della pubblicazione del libro Le seduzioni del destino.
Nei due giorni di proiezione figura pure una curiosità: il primo film girato da Sestieri (in Super8 e oggi rieditato in digitale), allorquando frequentava la prima classe liceale, è intitolato “Il vuoto”.

Ecco il comunicato della Cineteca Nazionale.

Ripensare cinematograficamente agli anni Ottanta non solamente come decennio effimero, ma come un insieme di esplorazioni disincantate nel medium espressivo con spirito postmoderno, significa anche (ri)scoprire cineasti come Claudio Sestieri. Avendo Michelangelo Antonioni come nume tutelare da una parte - non è un caso che si è laureato in Storia del Teatro e dello Spettacolo con una tesi su Antonioni - e come faro ipotetico i falsi movimenti di wendersiana memoria e le tribolazioni sentimentali di tanto cinema francese coevo, Sestieri ha realizzato una serie di film che hanno spesso preannunciato per milieu fisico-esistenziale (appartamenti vuoti e freddi, città (ri)viste come non luoghi, simili a un trattato audiovisivo di Marc Augé) diversi successi internazionali, in primis quel Sesso, bugie e videotapes (1989) di Steven Soderbergh: già in Dolce assenza (1986) il video era lo strumento delle nostre ossessioni e delle nostre assenze comunicative. Sestieri, che si è sempre mosso con molta dimestichezza tra cinema e televisione e che per alcuni anni è stato critico cinematografico («Avanti!», «Tempo Illustrato»), non ha dubbi in proposito nel rivedere i suoi lavori come dei gialli dei sentimenti senza vittime né colpevoli e percorsi tematicamente dall'assenza. Forse perché la presenza è troppo ingombrante per poter conoscere le persone. Meglio l'assenza.
L'omaggio a Claudio Sestieri, curato dalla Cineteca Nazionale insieme al Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (Sncci) e a Rai Teche, vuole essere anche un ricordo dell'avv. Gianni Aringoli: da giovanissimo co-regista insieme a Sestieri di alcuni cortometraggi, distributore de L'uomo di marma di Wajda, infine per quasi vent'anni patron del Premio Capalbio
.

Per il programma in dettaglio e le schede dei film: CLIC!

La forza dell'assenza
Cinema Trevi
Vicolo del Puttarello 25, Roma
Info: salatrevi@fondazionecsc.it
06 – 67 81 206
19 e 20 marzo '13


Un video di Marta Roberti

Già in altre occasioni ho avuto modo di parlare su queste pagine web di Marta Roberti (in foto), che credo sia oggi un’importante voce nello scenario della videoart italiana.
Una dichiarazione di poetica, biografia, ed esemplificazioni del suo lavoro, le trovate su questo stesso webmag nella Sezione Nadir.

Segnalo adesso un suo nuovo video intitolato sarà stato.
Poiché la scheda che vedrete è in inglese (le parole della colonna sonora, però, le sentirete in italiano), per chi non conoscesse quella lingua, eccone la traduzione.

Le atmosfere e le scene di questo video si ispirano a due casi clinici di Freud: il piccolo Hans e l'uomo dei lupi.
La narrazione prova a ricalcare il flusso di coscienza di un nevrotico, la cui patologia risale a traumi infantili, che sta narrando a Freud il suo disagio psichico. Il titolo indica che il tempo è stato trattato come memoria, e che le cose sono state descritte come ricordi.
'Sarà stato' è composto di centinaia di disegni incisi su fogli di carta ricalcante di grafite nera.
Da un archivio di fotografie di momenti di festa o di vita quotidiana appartenenti a differenti famiglie anonime, ho ritagliato i personaggi realizzando dei collage, mescolando madri, padri e figli e trasformandoli in disegni
.

Cliccare QUI per vedere “sarà stato”.


L'Archivio Spatola

Da anni, Maurizio Spatola fratello di Adriano ha fondato un Archivio di poesia sonora e visiva che va arricchendosi di novità provenienti dall’area della Neoavanguardia letteraria e delle arti visive.
Ora l’Archivio segnala l’arrivo di dieci brani sonori di cinque poeti futuristi, dall'Antologia “Futura” (1978) a cura di Arrigo Lora Totino, con le immagini del catalogo “Intrapresa” di quello stesso anno: QUI.

Dell’attività dell’Archivio e delle Edizioni Geiger – fondate nel 1968 da Adriano e Maurizio Spatola – si parlerà al Mart di Trento venerdì prossimo 15 marzo in un incontro col pubblico con una presentazione di Mariarosa Mariech.
Maurizio Spatola illustrerà quella lontana esperienza alla quale collaborarono, tra gli altri, Franco Beltrametti, Mirella Bentivoglio, Gerald Bisinger, Julien Blaine, Irma Blank, Corrado Costa, Giuliano Della Casa, Giulia Niccolai, Seiichi Niikuni, Claudio Parmiggiani, C.A. Sitta, Timm Ulrichs, Franco Vaccari, Paul Vangelisti, William Xerra.

Archivio Spatola, via Usodimare 11/8, 16039 Sestri Levante (Genova)
Tel. (39) 0185 – 43 583; Mobile 333 – 39 20 501


Per le antiche scale


La difesa del paesaggio è uno dei temi più trascurati nel nostro Paese. Purtroppo ad avere colpe non sono soltanto gli amministratori pubblici, ma spesso i cittadini stessi che danneggiano, per incuria o per interesse speculativo, un patrimonio che oltre a meritare rispetto culturale è anche, spesso, per la collettività fonte di reddito perché attrae turismo.
Non tutti, per fortuna, hanno, però, un atteggiamento passivo.
Ecco, ad esempio, a La Spezia, un Comitato che si è formato per difendere un monumento storico in pericolo: la Scalinata Cernaia (in foto, uno scorcio).
Ho appreso la notizia da Anna Maria Monteverdi (la ricordo autrice di un maiuscolo libro: Nuovi media, nuovo teatro presentato con mio grande piacere in queste pagine) che segnala, tra le iniziative per difendere l’antica scala, una lettera dell’editrice Irene Giacché.
Ne pubblico alcuni stralci:

… per anni il “Comitato di difesa della Cernaia” ha tentato di ottenere solo il restauro conservativo e non lo smantellamento della più antica scalinata storica della città costruita nel 1904 e alberata l’anno successivo con le bellissime piante centenarie che si possono vedere ancora oggi.
La scalinata, pavimentata sulle fasce laterali in pietra locale (arenaria), scolpita a mano, presenta a tratti delle possenti rampe a tenaglia, ammirate dai turisti che vanno al castello e che la percorrono d’estate per cercare un po’ di refrigerio sotto gli alberi. E proprio a tale scopo l’amministrazione del 1904 decise di alberarla: per ombreggiare la scalinata nella stagione estiva oltreché per “tenere su il monte”.
Queste motivazioni: “ombreggiare” e “tenere su il monte” non sembrano motivazioni importanti per i nostri amministratori e per i brillanti tecnici che li consigliano, se con insistenza hanno ribadito l’intenzione di smantellare completamente l’opera e “rimontarla” (tecnica che non mi pare possa definirsi come restauro), oltreché di abbattere tutti gli alberi centenari esistenti. Questo nonostante la scalinata sia vincolata dallo Stato con legge apposita (Codice dei Beni Culturali) perché ultra-settantenne, che prevede in questi casi il solo restauro e non lo smantellamento dei gradini o degli alberi. Peraltro, un’altra legge la vincola sotto il profilo paesaggistico e un’altra ancora sotto quello idrogeologico […] Il “Comitato Cernaia”, composto da cittadini innamorati della città storica, ha cercato soluzioni tecniche alternative arruolando fior di consulenti, storici, paesaggisti, ingegneri, architetti e non ultimo il comandante regionale della Forestale, tutti concordi nel dire che la soluzione dello smantellamento è illegittima e che le nostre proposte erano non solo fattibili ma soprattutto auspicabili ed avrebbero salvato un monumento unico nella nostra storia
.

Cosmotaxi si augura che il Sindaco e la sua Giunta raccolgano questa volontà dei cittadini e conservino al meglio questo pezzo di storia spezzina.


Lettere a Rina

Esistono scrittori che pur avendo avuto grande successo con significativi riconoscimenti che nulla avevano a spartire con mode momentanee, con gli anni vedono appannarsi la propria figura nelle cronache letterarie, scende su di loro una nebbia che rende incerti i contorni della loro opera. Càpita in ogni paese e, quindi, anche in Italia.
Uno degli autori cui è capitato questo destino è Giovanni Arpino (1927 – 1987).
Vinse il Premio Strega nel 1964 (allora tanto prestigioso quanto anni dopo più non lo è stato) con "L’ombra delle colline"; il Premio Campiello nel 1972 con "Randagio è l’eroe"; il SuperCampiello nel 1980 con "Il fratello italiano".
Importante è stata la sua presenza nel nostro cinema, basti pensare a “Divorzio all'italiana” (Pietro Germi, 1962) tratto dal suo romanzo “Un delitto d'onore”.
Sceneggiatore con Italo Calvino, Suso Cecchi D'Amico e Mario Monicelli di “Renzo e Luciana”, episodio di Boccaccio '70, tratto da ‘L'avventura di due sposi’ di Calvino, diretto da Monicelli nel 1962.
Dal suo racconto “Il buio e il miele” è stato tratto il film ‘Profumo di donna’ (1974) di Dino Risi con Vittorio Gassman; ci sarà poi nel 1993 una nuova edizione per lo schermo interpretata da Al Pacino.
È stato anche un nome di rilievo nel giornalismo sportivo, da quella passione deriva nel 1977 il romanzo "Azzurro tenebra"; nel 1978 segue i Mondiali in Argentina per il quotidiano torinese La Stampa.

Ben venga, quindi, la riproposizione del suo nome fatta dall’editore Nino Aragno con pagine particolari, un epistolario finora ignoto: Lettere a Rina 1950 - 1962.
Missive scritte a Caterina Brero, fidanzata prima e poi sua moglie che oggi leggiamo raccolte dall’amorosa e puntualissima cura di Alberto Sisti e Rosella Zanini.
I curatori precisano che si tratta di un corpus di 167 lettere manoscritte su vari supporti, spesso di recupero. Il libro si avvale anche di un’appendice con materiale eterogeneo (poesie, lettere ad altri destinatari), materiali comunque legati alle altre lettere.
Pur essendo pagine intime, non pensate per la pubblicazione, agli amanti della prosa d’Arpino non sfugge quella varietà di registri che illumina altre sue pagine invece meditate per l’editoria libraria o giornalistica: dall’ironico all’appassionato al grottesco.
Ma, aldilà di lampi di scrittura, una domanda s’impone: sono belle o meno belle queste lettere? Così risponde Giovanni Tesio nell’Introduzione: “… questione quasi oziosa, poiché ci troviamo qui di fronte a delle lettere che contengono più di una pagina di grande intensità (anche letteraria) ma che riescono alla fin fine belle proprio in quanto non facilmente classificabili, frutto di smanie e di urgenze, di furie e di impeti piuttosto che di calma e freddezza, di pensosità o di calcolo stilistico”.

Giovanni Arpino
Lettere a Rina
A cura di Alberto Sisti
e Rosella Zanini
Introduzione di Giovanni Tesio
Pagine 390, Euro 15.00
Nino Aragno Editore


il Delfino

L’Editoriale Scienza è una delle pochissime editrici che ha capito come vanno fatti, oggi, i libri per i ragazzi fino alle soglie dell’adolescenza.
In uno scenario dei media dove sensorialità e interattività ci coinvolgono, non è, infatti, pensabile d’offrire ai giovanissimi (che frequentano internet, videogames, cinema 3D) pagine ancora fitte di scritto, qualche foto e qualche disegnino.
Una recente, indovinata, pubblicazione di Editoriale Scienza è la conferma di una felice linea espressiva: un libro interattivo, ricco di alette da sollevare, veloci quiz, mini storie, giochi divertenti, foto, tutto per informare su di un intelligente mammifero acquatico: il Delfino, titolo delle pagine di Delphine Grinberg (non crediate che il nome dell’autrice sia una riprova del detto “nomen omen” perché ‘delfino’ in francese si dice ‘dauphin’) più che accompagnate, armonizzate dalle vivaci illustrazioni di Pierre Caillou.

Il delfino è un cetaceo di simpatico aspetto, a noi umani sembra sempre sorridente, che fin dall’antichità ha ispirato narrazioni fantastiche.
Come si apprende sfogliando un Dizionario di miti e leggende: Apollo si trasforma in delfino per guidare i cretesi a Corinto; Nettuno seduce e sposa la figlia di Nereo grazie ai delfini; Eros cavalca i delfini per attraversare il mare; Ulisse fa dei delfini la sua guida e sarà proprio un delfino a salvare suo figlio Telemaco.
Nell’antichità, sia Atene sia Roma consideravano sacri i delfini.
In Grecia, il loro nome era associato al culto di Apollo a Delfi. Nei miti dell’antichità i delfini sono considerati messaggeri di Apollo con la funzione d’intermediari tra l’Olimpo e i mortali.
A Roma Plinio il Vecchio, Plinio il giovane, Plutarco e altri scrittori, filosofi e viaggiatori dell’epoca descrivono scene d’amicizia tra uomini e delfini.
Ai nostri giorni, c’è chi sostiene, in area di pet therapy, che la delfinoterapia sia paragonabile all’ippoterapia. Resta in me l’insoluto interrogativo di come sia possibile procurarsi un delfino con la stessa facilità di un cavallo al maneggio; quando mi darò alla delfinoterapia saprò dirvelo, al momento neppure all’ippica mi sono dato, anche per scansare il derisorio senso figurato di quell’espressione.

Tanti gli interrogativi che Grinberg pone ai suoi piccoli lettori.
Un delfino sa o no individuare le prede nascoste sotto la sabbia?
E' vero o falso che i suoi salti possono raggiungere i 7 metri d’altezza?
E' capace di dormire a pelo d’acqua?
Respira sott’acqua?
Può essere di colore rosa?
La mamma allatta il suo cucciolo?
Squali e delfini possono essere amici?

Un libro che istruisce giocando coinvolgendo sguardo, tatto, curiosità.

Delphine Grinberg
il Delfino
Illustrazioni di Pierre Caillou
Traduzione di Liviana Poropat
Pagine 32, Euro 12.90
Editoriale Scienza


Ruba come un artista

Spesso si dice che un buon libro deve far sorgere delle domande nel lettore.
Curioso, e non meno meritevole, è un libro che proponendosi risposte fa nascere altre domande in chi legge.
È il caso di un volume pubblicato da Vallardi intitolato Ruba come un artista con lo sfacciato sottotitolo: Impara a copiare idee per essere più creativo nel lavoro e nella vita.
L’autore è Austin Kleon.
Esperto di comunicazione, pensiero creativo e visivo; è stato bibliotecario, web designer, pubblicitario.
Cresciuto in Ohio, oggi vive ad Austin, Texas, ed è spesso impegnato in conferenze sulla creatività nell'era digitale. Tra le sigle di cui è consulente figurano Pixar e Google.

Le pagine si aprono con un folgorante aforisma di Picasso: “L’arte è furto”, seguito da un pensiero di T. S. Eliot “I poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano amalgamando ciò che hanno preso in un sentire unico, assolutamente diverso da ciò da cui è stato tratto”.
Non crediate, però, che “Ruba come un artista” sia il solito manuale per avere successo nella vita in 7 giorni o come diventare miliardario in 99 ore. Klein affronta un problema serissimo: che cos’è la creatività, specie oggi dove comunicazione, arte, economia, etica, più non sono separate, ma agiscono e interagiscono creando connessioni e risultati fino a ieri imprevedibili.
Esiste oppure no un’originalità in ogni tipo di creazione?
Parecchi ne dubitano.
Un esempio illustre: Henry Poincarè, matematico e filosofo, all’interno del suo libro ‘Scienza e Metodo’ pubblicato nel 1906 - come scrive Roberto Rapaccini - ritiene che “la creatività nasca da elementi preesistenti nella mente umana che si combinano in maniera rinnovata ed originale, producendo come risultato utilità e/o bellezza”.
Per Borges, ad esempio, neppure Omero è originale.
Daniele Luttazzi, difendendosi da un’accusa di plagio, ha ricordato che Joyce diceva di essere più che contento di passare alla storia come un “paste and scissor man”, uomo con le forbici, uomo copia e incolla.
Del resto, aldilà delle strade filosofiche, sui sentieri delle pratiche artistiche risultati straordinari sono stati ottenuti da tanta parte delle avanguardie storiche con i readymades, e in era informatica grazie alle tecniche digitali, oggi è possibile fondere una traccia vocale di un brano con le parti strumentali di un altro, è il concetto base della Bootleg Culture, fenomeno che ha avuto riconoscimenti e successo da Festival quali Transmediale di Berlino e Sonàr di Barcellona.

“Ruba come un artista” è ricco di citazioni e aforismi, ma quello che sto per citare, manca. Ed è, forse, quello che meglio illustra la finalità delle pagine di Kleon. E’ di Isidore Ducasse, meglio noto come Lautréamont, adorato dai surrealisti, che ha scritto: Il plagio è necessario, il progresso lo implica.

Austin Kleon
Ruba come un artista
Traduzione di Antonello Galimberti
Pagine 160, Euro 10.00
Vallardi


A dismisura d'uomo (1)


Dopo “L’occhio barocco” (cui Cosmotaxi dedicò un servizio), Michele Rak (in foto) dà alle stampe per l’Editrice Due Punti un altro gioiello saggistico che ancora indaga sul Barocco; titolo dell’opera: A dismisura d’uomo.

Dal quarto di copertina: Questo libro ricostruisce la favolosa storia della festa barocca a Napoli e Roma. Le famiglie, le comunità religiose, i gruppi confezionavano e comunicavano attraverso le feste l’immagine della propria identità. Un’imponente serie di abiti, di armi, di oggetti, di percorsi, di musiche venivano preparati per le parate, gli ingressi trionfali. Illusori circhi, teatri, portali, statue e altre architetture venivano bruciate dai fuochi pirotecnici o distrutte dall’assalto alle cuccagne.
La festa era allestita con il lavoro di letterati, musicisti, ingegneri, sarti e architetti, e registrata con cura nelle relazioni dei cronisti, nelle stampe degli illustratori, nei quadri dei pittori. La festa è la dimensione universale attraverso la quale la città moderna del Seicento ha imparato a riconoscersi nei miti aristocratici e popolareschi, nella retorica della religione, nella diplomazia di corte e nella politica internazionale, nelle rivoluzioni scientifiche e estetiche.
La festa è stata per circa due secoli l’occasione che ha dettato in pubblico le parole d’ordine per la trasformazione della cultura.

Per visitare il sito web dell’autore: QUI.

Segue ora un incontro con Michele Rak.


A dismisura d'uomo (2)


A Michele Rak ho rivolto alcune domande.
Che cosa, dopo “L’occhio barocco”, ti ha fatto intraprendere questa nuovo lavoro sullo stesso secolo?

“A dismisura d’uomo” è un lavoro su un genere della comunicazione e dello spettacolo: la festa barocca, ideata nelle città europee per comunicare l’arrivo di un personaggio politico, la ricorrenza di un santo, le grazie da rendere per un pericolo che la collettività ha evitato come il terremoto o la peste o la penuria. Questo libro mette insieme e riscrive una parte degli studi sull’argomento svolti durante la ricerca nelle università di Napoli, di Palermo e di Siena e trasmesse a generazioni di studenti. Il Barocco è ancora considerato in Europa la chiavetta d’avvio della Modernità: dopo la Misura umanistica e rinascimentale il Barocco scopre che è necessaria la Dismisura per comunicare con le nuove folle urbane, con la loro domanda di informazione e di partecipazione, con le loro incontrollabili pulsioni. La festa è organizzata da tutti i gruppi sociali – dalle piccole alle grandi corti, dalle comunità religiose alla Parte di Popolo – per rendere note le loro intenzioni e inscrivere sulle colonne di cartapesta, sugli stendardi, sugli abiti le parole d’ordine che tutti i festanti devono conoscere. È un evento che attrae lo storico che vi vede il crogiolo della Modernità. Come è possibile non studiarlo?

Perché – come scrivi – “novità”, “fantasia”, “ingegno”, “esperimento” sono i termini dominanti nelle teorie del Seicento?

Il Barocco è il momento delle nuove scienze: dall’astronomia alla fisica, dal corpo umano alle macchine per ricordare o per scrivere poesia, la novità è il termine con cui si vendono i primi libretti popolari e avvisi a stampa, progenitori dei giornali. La fantasia è uno dei termini con cui si intende capire il complesso moto creativo che produce la comunicazione delle arti e, tra queste, della letteratura. Ma a partire dalla struttura del corpo umano e delle sue pulsioni. L’ingegno è necessario perché il Barocco è un’epoca della ideazione e costruzione di macchine, appunto ingegni, e di una concorrenza della facoltà della mente, ancora l’ingegno, che ha più effetto della ragione quando si voglia comunicare. Tutto questo nel clima della ristrutturazione del sistema delle scienze. A partire da Della Porta e Galileo e da molti altri. Come potevo non interessarmene?

Quale la principale caratteristica della festa barocca?.

La festa barocca è un’opera multipla. È composta di molte arti e generi diversi: architettura, musica, poesia, pittura. Il pubblico segue un percorso attraverso strade decorate con pareti di stoffe e tappeti, altari sfarzosi, tele retro-illuminate con storie sacre e profane, statue di cartapesta, d’oro e d’argento, mostre di suppellettili preziose, quadri, archi trionfali, spazi con rappresentazioni sacre e profane, pedane con bande di musicisti. È anche un percorso in cui sono previsti premi: lancio di monete dai balconi delle famiglie, fontane che gettano olio e vino, cuccagne con salami, prosciutti, pani, maialini molti veri e molti di cartapesta dipinta accuratamente anche dai migliori pittori. La festa è un evento di comunicazione orientato a raccogliere l’attenzione di tutta una città, allora la seconda città d’Europa dopo Parigi. Lungo il percorso abili letterati, pittori e scultori riproducono le fattezze dei committenti e le parole d’ordine del momento – la pace sociale, l’abbondanza, la sconfitta di remoti nemici e altro. Il percorso si conclude nell’ebbrezza del fuoco artificiale che distrugge i grandi monumenti di cartapesta, che dà i brividi delle cannonate, delle esplosioni e degli incendi ma dove nessuno si fa male. Troppo vario e divertente tutto questo per non studiarlo. Il mio nuovo lavoro in Europa richiede di portare anche questi studi come traccia dell'identità italiana.

La sterminata bibliografia, suddivisa cronologicamente, è curata da Lorenza Gianfrancesco.

Michele Rak
A dismisura d’uomo
Pagine 496, Euro 30
Due Punti Edizioni


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