Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
mercoledì, 30 aprile 2014
Lampi di luce
Esistono piccole località che riescono a profilare un’attività culturale da fare invidia a centri urbani più attrezzati. Un esempio è Dozza – fa parte dei Borghi più belli d'Italia – che, oltre ad essere famosa per la Biennale dei Muri Dipinti, propone anche tante altre cose. La più recente riguarda la luce e, più precisamente, quella artificiale prodotta da artefatti. Domenico Rea, anni fa, invocava da un suo titolo: “Gesù, fate luce”, ora se il Nazareno – comprensibilmente affaticato dalle note vicende pasquali – volesse rispondere a quel lontano appello, ecco che può avvalersi di questa mostra presso la Rocca Sforzesca di Dozza: Lampi di luce Torce e lanterne fra Otto e Novecento – a cura di Patrizia Grandi – un’eccezionale selezione di oltre 200 pezzi provenienti dalla Collezione Giovanni Dal Prato che dal 1990 si dedica al tema e ha costruito una raccolta di prim’ordine. In esposizione oggetti ingegnosi ed estrosi che dalla fine dell’Ottocento illuminarono la vita quotidiana dei nostri bisavoli offrendo un’alternativa più sicura e funzionale alle candele e alle luci a petrolio. Sono gli anni incalzanti del progresso di fine Ottocento inizio Novecento, contrassegnati dal contagioso entusiasmo d’inventori e imprenditori, entusiasti degli sviluppi di due storiche invenzioni, la lampadina di Edison e la pila di Volta. È nel 1896 a New York che l’inglese David Misell brevetta la prima lanterna elettrica portatile per poi migliorare l’idea iniziale fino ad inventare la prima torcia elettrica di forma tubolare, la Flash Light (ovvero “Lampo di Luce” poiché le batterie generavano bagliori di pochi secondi) prodotta nel 1898 dall’Ever Ready di Conrad Hubert. Uomo d’affari russo emigrato in America, Hubert all’epoca vendeva nel suo negozio oggetti alla moda come le spille da cravatta luminose che consentivano di leggere a teatro; erano piccole spiritose testine di animali, clown o anche teschi che s’illuminavano grazie ad una pila azionata da un interruttore. La mostra parte proprio da questi primi esemplari di luci portatili, un’ottocentesca Flash Light (termine presto adottato dalla lingua inglese per indicare la torcia elettrica), una serie di spille luminose dei primi cataloghi della Eveready e di altri marchi storici come l’americana Yale. Un ricco assortimento di pile, lanterne, accumulatori che ci riporta agli anni pionieristici della torcia, in cui vi fu una vera e propria corsa al brevetto per accaparrarsi fette sempre più ampie della crescente domanda di questi nuovi oggetti del comfort. Il tema del design è una delle chiavi di lettura della mostra, ma l’altra è senz’altro quella della tecnologia indirizzata a migliorare il funzionamento della pila portatile. La pubblicità storica esalta la durata delle batterie, la potenza delle lampade, l’ingegnosità di asole che consentono di appendere la pila ad un bottone mantenendo libere le mani, di fasce da stringere attorno al capo permettendo alla luce di assecondare lo sguardo, di appositi ganci applicabili alla bicicletta rendendone possibile l’uso come fanale, d’interruttori scorrevoli al posto di quelli a fermaglio, di pile segnaletiche per ferrovieri e marinai, di torce da lavoro o per uso militare, di lumi di cortesia applicati al rasoio da barba o alla penna, di graziosi oggetti luminosi per le borsette delle signore e divertenti giocattoli per i bambini. Tutto ciò è documentato dall’esposizione nella Rocca Sforzesca di Dozza. Il racconto è reso più immediato da memorabilia, manifesti, locandine, cataloghi di vendita, inserti su riviste che con gusto pittorico ed efficaci slogan trasmettono l’entusiasmo che accompagnò la produzione di questo nuovo oggetto capace di migliorare in modo determinante il quotidiano. Una sezione introduttiva mostra sistemi d’illuminazione precedenti con ottocentesche lanterne ad alcool, eleganti lumi a candela, lanterne a petrolio poi superate dalle lampade a incandescenza. La mostra porta avanti il filone espositivo legato al collezionismo storico cui va ricondotta una ormai lunga serie di esposizioni (nove finora) tenute annualmente alla Rocca dal 2006 fra cui si ricordano quelle legate ad oggetti d’uso come “Storie di Bicicletti, Biciclette e affini”, “Moliendo Café”, e a strumenti come “L’Ippocrate moderno”, “La musica automatica”. Sul filo di un’impostazione in cui le opere dialogano con la pubblicità storica, con memorie d’antiquariato, con oggetti delle arti applicate e del design vintage narrando, istruendo e divertendo al tempo stesso. Lampi di luce Torce e lanterne fra Otto e Novecento dalla collezione Dal Prato a cura di Patrizia Grandi Rocca Sforzesca, Dozza Info: rocca@comune.dozza.bo.it Tel./fax 0542 – 67 82 40 Fino al 24 agosto ‘14
martedì, 29 aprile 2014
Agonia della Francia
Va dato merito all’editore Neri Pozza d’avere pubblicato il volume Agonia della Francia di Manuel Chaves Nogales, autore poco conosciuto da noi ma notissimo negli anni ’30 in Spagna, “periodista” allora stimato e popolare. Nel 1922 lavora a "El Heraldo de Madrid". Nel 1931 assume la direzione di "Ahora", giornale repubblicano vicino al presidente Manuel Azaña. Nel 1934 pubblica "El maestro Juan Martínez que estaba allí", in cui narra la storia di uno scapestrato ballerino di flamenco, travolto dalla Rivoluzione d’Ottobre mentre era in tournée in Russia. Famosa una sua intervista al ministro nazista Goebbels definito “ridicolo e impresentabile” che gli costò l’iscrizione nelle liste dei ricercati dalla Gestapo quando Hitler occupò Parigi. Neppure i comunisti, però, lo amavano non dimentichi d’essere stati apparentati da Chaves ai fascisti (“la peste del comunismo y del fascismo”.) E' del 1935 "Juan Belmonte, matador de toros”, la biografia dell’allora indiscusso re della tauromachia. Famoso un altro suo titolo “A sangre y fuego. Héroes, Bestias y Mártires de España” stampato in Cile nel 1937. Fuggendo da una Spagna dove riteneva di essere diventato “perfettamente fucilabile”, approdò in Francia nel 1937, con moglie e tre figli, a Montrouge, sobborgo operaio alle porte di Parigi . La Francia lo deluderà e in “L’agonia della Francia”, Manuel Chaves Nogales analizza la capitolazione di quel paese dinanzi al nazismo, concludendo che la causa principale fu “l’indifferenza disumana delle masse”. La Francia, scrive, non era solo la Francia, “era anche il mito della democrazia, della libertà, dei Diritti Umani”, e quando rinuncia a questo ideale compie un suicidio, vittima della sua miseria spirituale. Nell’acuta Introduzione Marco Cicala: “… l’attualità del suo libro risiede proprio nella diagnosi, meticolosa e drammatica, dell’assetto fragile su cui riposa ogni società. Incluse – e forse soprattutto – quelle che, spessissimo a torto, consideriamo le più evolute. Le nostre […] Nell’Agonia della Francia, l’autore mostra il grande collasso di una nazione come risultato d’una catena di micro-collassi morali. Lesioni spesso impercettibili, che avevano aperto una crepa nell’umanità dei comportamento ordinari, nel linguaggio quotidiano dei media, come in quello dei bar” Queste righe non possono essere lette senza un brivido se pensiamo ai nostri giorni in Italia. Chaves Nogales in “Agonia della Francia”: Il paese reale valeva ancor meno della sua rappresentanza politica. Il popolo francese era diventato indegno del suo regime democratico, l’elettore valeva meno del deputato, l’amministrato meno dell’amministratore, il lettore meno dello scrittore, l’industriale, il commerciante, il finanziere meno del direttore generale e del ministro del suo settore e, in generale, il governato meno del governante. In esilio a Parigi dal 1936 al 1940, anno in cui sfugge alla polizia nazista, va a Londra, dove muore nel 1944. Aveva 47 anni. Conclude Marco Cicala: “Manuel Chaves Nogales è sepolto a Londra, cimitero di Kew. Senza neppure una tomba. 'I resti stanno da qualche parte in mezzo a queste due lapidi', mi dice la biografa indicandomi una foto, 'Sa, la zona fu molto bombardata'. Non c’è pace per tipi come Chaves”. Manuel Chaves Nogales Agonia della Francia Introduzione di Marco Cicala Traduzione di Hado Lyria Pagine 185, Euro 16.50 Neri Pozza Editore
lunedì, 28 aprile 2014
minimum fax ha vent'anni
Ha 55 anni meno di Batman, 30 meno di Mafalda, è una creatura di carta che parla ai lettori da 20 anni: è la casa editrice minimum fax. In realtà, ne nasconde qualcuno di anni, perché ricordo di aver dedicato a quella sigla (allora agiva veramente via fax, una sorta di rivistina) a RadioRai un servizio su quella singolare pubblicazione più di vent’anni fa. Se non fui il primo, certamente meno vanto d’essere stato tra i primi a parlare di loro. Sia come sia, mm festeggia quest’anno i vent’anni e sia così. Mi è pervenuto un comunicato stampa che volentieri rilancio. Dopo oltre 500 titoli pubblicati dagli editori Marco Cassini e Daniele di Gennaro, quest'anno minimum fax si presenta, dall’8 al 12 maggio, al Salone del Libro di Torino (Stand G 102 nel Padiglione 2) con importanti novità e nuovi assetti interni, a partire proprio dal ruolo operativo dei due editori. Marco Cassini, oltre che direttore editoriale del marchio indipendente di recente nascita Edizioni SUR, si concentrerà sul rilancio dei corsi di formazione (editoria e scrittura) che minimum fax, attraverso l'associazione emme effe, promuove da anni; dello sviluppo ulteriore dell'attività della libreria minimum fax a Roma; e dell'organizzazione del festival La grande invasione, la cui seconda edizione è prevista a Ivrea i prossimi 30 maggio - 2 giugno. Daniele di Gennaro, dopo aver consolidato e strutturato l'attività legata al comparto audiovisivo di minimum fax media, rafforza la sua presenza nella casa editrice come responsabile editoriale di minimum fax. Il 2014 segna anche l'ingresso di nuove figure professionali nella squadra minimum fax: la direzione editoriale, affidata negli ultimi anni a Martina Testa, verrà ridefinita da un nuovo coordinamento editoriale guidato da Daniele di Gennaro affiancato dal nuovo editor della narrativa straniera, Mirko Zilahi, anglista, critico, editor e traduttore di classici e contemporanei - e da Dario Matrone, responsabile della redazione e della collana Minimum Fax Musica, in forze alla casa editrice sin dal 2004. La casa editrice si rafforza inoltre con l'arrivo di Tiziana Bello che, proveniente da Mondadori, affiancherà Lorenza Pieri all'ufficio Diritti, e di Maura Romeo alla direzione commerciale, per consolidare ulteriormente il lavoro di proposta e relazione con librai, promozione e distribuzione. Per eleganza dell’estensore di quel comunicato, è lì assente una figura che contribuisce con un ruolo di primo piano al successo di minimum fax: si tratta di Alessandro Grazioli dell’Ufficio Stampa, cordiale e puntualissimo, un gran professionista. E visto che ci siamo ecco QUI le novità che segnala.
martedì, 22 aprile 2014
Che cosa significa insegnare? (1)
Secondo il Dizionario insegnare è la Trasmissione di conoscenze e di esperienze con cui si istruisce qualcuna/o in una disciplina o, più in generale, si forniscono stimoli alla crescita psicologica e intellettuale della persona. Mica facile. Un lavoro tanto complesso (quanto malpagato), una responsabilità non da poco, dove sono in scena una pluralità di energie cognitive nel rapporto fra chi insegna e chi apprende. In foto: Antonio Canova, particolare da “Insegnare agli ignoranti”, 1795-1796, gesso, mai tradotto in marmo, cm 120 x 124, Gipsoteca Canoviana, Possagno. "Ciò che l'insegnante è, è più importante di ciò che insegna", diceva Soren Kierkegaard. Già, ma chi è oggi l’insegnante e in che cosa consiste il suo lavoro intellettuale, sociale, politico? Un libro che si pone queste e altre domande l’ha pubblicato Cronopio, titolo: Che cosa significa insegnare? Ne è autrice Eleonora de Conciliis. Nata a Napoli nel 1969, insegna filosofia e storia in un liceo napoletano ed ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento di Filosofia morale; ha svolto attività di ricerca presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli e l’Università degli Studi di Salerno, collabora con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal 2006 è caporedattrice della rivista di filosofia on line Kainòs . Oltre a saggi e articoli su Canetti, Baudrillard, Foucault e Bourdieu, ha pubblicato monografie su Simmel, Kafka e Benjamin, e i volumi " Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione " (2006); "Pensami stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia" (2008); "Il potere della comparazione. Un gioco sociologico" (2012). Muovendosi a cavallo tra filosofia e sociologia, da alcuni anni si occupa delle nuove forme che sta assumendo il processo di soggettivazione nella società contemporanea. In Che cosa significa insegnare?, l’autrice in apertura indica il cursore sul quale scorreranno le pagine: Questo libro mette in scena un indisciplinato andirivieni tra le bassezze del mondo scolastico e l’etere rarefatto della filosofia, accostando con una certa disinvoltura ermeneutica il pensiero di Foucault alla sociologia di Bourdieu. Pagine dense, ricche di un sapere filosofico che lontane da ogni astrazione si misurano costantemente con il rapporto pedagogico, con il conflitto fra insegnare ed educare, con il procedere dell’accademia che non vuole rinunciare a vivere in un’arcadia sanguinosa. Segue ora un incontro con l’autrice.
Che cosa significa insegnare? (2)
A Eleonora de Conciliis ho rivolto alcune domande. Quale la principale motivazione che ti ha spinto a scrivere questo libro? Il libro è stato scritto dopo un seminario di taglio genealogico sul rapporto tra pedagogia e politica a partire dal filosofo Michel Foucault e dal sociologo Pierre Bourdieu, che ho tenuto l’anno scorso nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici; data la straordinaria risposta degli alunni e dei colleghi in termini di meraviglia, curiosità, e a tratti anche resistenza di fronte alla messa a nudo degli aspetti inconsci e inconfessabili dell’insegnamento (nonché dell’apprendimento) che funzionano nel sistema scolastico, in particolare nelle scuole superiori, ho capito di aver toccato un nervo scoperto della società contemporanea e del rapporto tra le generazioni, e ho deciso per così dire di lanciare un sasso nello stagno, cioè di scrivere un libro politicamente scorretto sulla scuola italiana e sulle cause profonde della sua crisi. Perché hai scelto un titolo che fa il verso a Heidegger? Heidegger è stato un grande Maître, un maestro carismatico dotato agli occhi dei suoi allievi di un’aura quasi magica, un filosofo abissalmente lontano dal mondo ‘basso’ della scuola, dalla sua concretezza lavorativa. Ma “Che cosa significa pensare?” è il titolo di un corso speciale che tenne nel ’51-52, quando gli fu concesso di tornare a insegnare dopo la seconda guerra mondiale, un corso nel quale si interroga, seppur di passaggio, sul ruolo e la funzione dell’insegnante; a me serviva per applicare all’insegnamento il gioco semantico che egli compie a partire dal verbo “heissen”, che in tedesco vuol dire ‘significare’ ma anche ‘chiamare’, e porre così la doppia questione: ‘che senso ha insegnare?’; ‘chi, o che cosa chiama l’insegnante a insegnare?’. Che cos’è, in altri termini, la vocazione didattica? E in riferimento alla domanda sollevata dallo stesso Heidegger: si può insegnare a pensare?… In fondo, è questa la sfida di chi insegna, e non solo filosofia. In che cosa consiste quella da te definita “insensatezza” nella figura dell’insegnante oggi in Italia, e non solo in Italia? L’insegnante italiano medio, soprattutto in quanto dipendente statale malpagato e spesso precario, si pone oggi drammaticamente la questione: ‘che senso ha il mio lavoro?’. Egli opera infatti in una società e al servizio di uno Stato che di fatto non conferisce più alla scuola, come istituzione, il valore formativo ‘alto’ che le ha conferito nei primi secoli della modernità, e nella quale perciò, nonostante la retorica politically correct espressa dai vari ministri, diminuisce la spesa per l’istruzione pubblica a favore di quella privata e cresce l’indifferenza dei discenti e delle loro famiglie verso il messaggio culturale veicolato dai docenti. Anche fuori dell’Italia, indipendentemente dall’efficacia e dall’aggiornamento della sua didattica, l’insegnante, soprattutto se di discipline umanistiche, lavora insomma con programmi e valori ancora ottocenteschi, ma è obbligato a valutare i suoi alunni con criteri sempre più tecnicamente ‘oggettivi’ e quantitativi. Ciò produce effetti ‘schizofrenici’, effetti di “insensatezza”, e finisce coll’occultare la funzione politica, nonché critica che l’insegnante può svolgere proprio nei confronti dello Stato. Che cos’è cambiato con le nuove tecnologie nel rapporto fra docente e discente? Se per ‘nuove tecnologie’ intendi l’introduzione massiccia, nelle scuole di ogni ordine e grado, dell’informatica e dell’uso di internet, direi che essa corrisponde ad esigenze economiche più che didattiche (è un affare per un certo settore produttivo) e riflette quella che si potrebbe definire, sulla scia di Agamben (si pensi al suo Che cos'è un dispositivo?, 2006), un’inconscia ‘divinizzazione’ dei dispositivi digitali (che esigerebbe dunque una loro ‘profanazione’ politica). Se da un lato infatti i nostri alunni, i cosiddetti ‘nativi digitali’, sono ormai incapaci di vivere senza ‘messaggiare’ e dormono con lo smartphone acceso sotto il cuscino, dall’altro i docenti, cosiddetti ‘migranti’ dal sistema alfabetico a quello digitale, sono ormai obbligati ad adottare le nuove tecnologie nella didattica e a combattere con l’effetto-distrazione che esse producono sui ragazzi, con conseguente indebolimento della capacità di concentrazione e vistosa destrutturazione del linguaggio. Il cervello post-alfabetico dei nostri alunni viene modificato rapidamente dall’uso del digitale, ma non sappiamo ancora con quali effetti a lungo termine. Così come non siamo ancora in grado di capire se il rapporto ‘formativo’ tra docente e discente resterà fondamentale o diverrà superfluo e obsoleto. Eleonora de Conciliis Che cosa significa insegnare? Pagine 172, Euro 12.00 Cronopio
Senza titolo per il 25 aprile
Il 25 aprile è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia nonostante l’amore e l’odio suscitati ancora ribollino sotto la pelle dei nostri giorni. Da una parte, cioè, si afferma che le ideologie sono crollate, dall’altra ideali di libertà e acidi rancori rivivono anche presso generazioni venute al mondo da poco. Insomma la voglia di scannarsi resta. Si dice, giustamente, che vent’anni di berlusconismo hanno ottuso coscienze e slanci, ma il primo colpo tirato alla Resistenza, a mio avviso, risale all’amnistia del 22 giugno 1946 promulgata da Togliatti (allora Ministro di Grazia e Giustizia) che produsse il primo affronto ai combattenti per la libertà che videro uscire dalle galere fior di repubblichini, un “liberi tutti” di cui ancora oggi si risentono le conseguenze. Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dalle associazioni partigiane e dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro successive amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti. Ecco perché volendo ricordare il 25 aprile, ho scelto un avvenimento senza trombe e pennacchi. A Milano, al Teatro di Ringhiera (nell’immagine una foto di scena), la Compagnia teatrale bielorussa TeatralnY Kvadrat rappresenterà per tre giorni Senza titolo Racconto di musica, gesto e parola, per non dimenticare. Drammaturgia, regia, scene e costumi di Anna Sulima. Per una scheda dello spettacolo: CLIC. “Senza Titolo” per dire dell’indicibilità della Shoah, qui vissuta attraverso documenti e ricordi del ghetto di Minsk e dei lager. A ideare e produrre l’avvenimento, Claudio Facchinelli e Rosana Rosatti. A loro ho rivolto due domande. Li sentirete rispondere con una voce sola, prodigi della tecnologia di cui Cosmotaxi dispone a bordo. Da quali specificità nasce il vostro interesse per il paesaggio storico e culturale bielorusso? Non tutti hanno consapevolezza che le case storte dai colori improbabili, con i violinisti appollaiati sul tetto, che popolano i quadri di Chagall rappresentano gli “shtetl”, i villaggi ebraici della Bielorussia, ove lui era nato, dove la presenza ebraica era fra le più cospicue di tutta l’Europa orientale. Negli anni trenta, sullo stemma della repubblica socialista sovietica di Bielorussia, il motto marxista “Proletari di tutti i paesi, unitevi”, era riportato in russo, bielorusso, polacco, e yiddish le quattro lingue ufficiali. Quel mondo ove si era sviluppata, oltre alla lingua e la letteratura propria degli ebrei ashkenaziti e la musica klezmer, non esiste più: i nazisti hanno ucciso circa 800 000 ebrei bielorussi, su due milioni che erano, e oggi ne sono rimasti poche decine di migliaia. Quando abbiamo assistito, a Minsk, a “Senza Titolo”, uno spettacolo realizzato da una compagnia di giovani, TeatralnY Kvadrat, che avevano deciso di evocare col linguaggio del teatro la tragedia della Shoah, abbiamo pensato che questa era un’occasione, non solo per far memoria di quel mondo, ma anche per riflettere su cosa sarebbe successo nel caso la seconda guerra mondiale avesse avuto un diverso esito. Com’è strutturato il programma? Per realizzare questo obiettivo, oltre alle tre repliche (venerdì 25 e sabato 26 aprile alle 20.45, domenica 27 alle 16), allo scopo di inserire lo spettacolo nel suo contesto storico e culturale, si è organizzato un incontro che si terrà alle 17.30 di sabato, prima della rappresentazione serale. Ad esso parteciperanno il primo consigliere dell’ambasciata di Bielorussia a Roma, esponenti della comunità ebraica di Minsk, ed altri esperti. Senza titolo Teatro di Ringhiera Via Pietro Boifava 17 / Milano Tel. Biglietteria 02 84892195 mail prenotazioni@atirteatroringhiera.it Dal 25 al 27aprile
Auguri Batman!
Giurano in molti d’aver visto volare l’uomo pipistrello sul cielo della Fiera di Roma durante la kermesse “Romics”, appuntamento annuale con tutti gli appassionati di fumetti e di cosplay. Pare che Batman volteggiasse agilmente senza dimostrare i 75 anni compiuti in questo 2014 che vede il compleanno anche di un altro famoso personaggio, Mafalda, che compie cinquant'anni. Inizialmente (1939) – scrive lo storico dei fumetti Franco Fossati – protagonista di storie spesso cruente (in realtà dietro la sua maschera si nasconde il miliardario Bruce Wayne, uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo), ha scelto di combattere il crimine in seguito a un dramma personale: l’uccisione dei genitori da parte di un ladro. Questo personaggio diventa meno cupo solo in seguito, con l’apparizione del giovane Dick Grayson, un acrobata da circo. Anch’egli orfano e vittima della delinquenza, che da quel momento lotterà al suo fianco come Robin. Irriducibili avversari, molto ben caratterizzati, sono Joker, il Pinguino e la Donna Gatto. Con il passare del tempo le avventure sono state continuate da decine d’autori perdendo u po’ del loro fascino. Tanto che alla metà degli anni Ottanta si è deciso di correre ai ripari affidando a Frank Miller la realizzazione di un nuovo Batman in un’atmosfera che si rifà all’atmosfera gotica delle primissime storie. Gli autori di Batman, nel ’39, furono Bill Finger e Bob Kane, ma è quest’ultimo, da quasi tutti (vedremo tra poco il perché di questo “quasi”), ritenuto l’autentico padre di Batman. La cultura pop si è esercitata su questo personaggio che ha conosciuto fortuna su più media, non solo su carta, ma alla radio, alla tv, al cinema e nei videogames. È stato anche chiacchierato ipotizzando una sua omosessualità. Ad esempio, nel 1954, lo psicologo Fredric Wertham asserì nel saggio “Seduction of the Innocent”: «Solo chi è completamente all'oscuro dei fondamenti della psichiatria moderna e della psicopatologia sessuale può ignorare la subdola atmosfera che pervade le avventure di un uomo adulto come Batman e del suo giovane "amichetto" Robin». Seguì nel tempo altro gossip. Fino all’altro ieri, nell'estate del 2005, quando il pittore Mark Chamberlain mise in mostra una serie di acquerelli raffiguranti Batman e Robin in esplicite pose omoerotiche. Frank Miller, al proposito vede, invece, il rapporto tra Batman e Joker come «un incubo omofobo», riferì di vedere maggiormente il personaggio come un uomo che sublima le sue pulsioni sessuali attraverso la lotta al crimine, concludendo: «Sarebbe più "sano" se fosse veramente gay». Come accade a molti personaggi immaginari, la loro figura trova eco nella realtà, e così ecco un libro di Marc Tyler che, contrariamente a quanto creduto, afferma che non già Bob Kane, che passa per il principale autore di Batman, ma proprio il trascurato Bill Finger sia l’autentico padre del Cavaliere Oscuro. Sarebbe stato, infatti, proprio Finger a trovare il nome di Gotham City, dell’alter ego miliardario Bruce Wayne, a ideare la maschera con le orecchie da pipistrello, fino a inventare lo stesso nome di Batman. Indagine storica di poco conto? Scherzo letterario? Macché! Roba serissima che finisce in tribunale perché lì presero a duellare gli eredi dei due autori senza riuscire a trovare la verità. Riuscì difficilissimo, infatti, trovarla. Mica vero che chi cerca trova. Batman in un albo dice: "Robin è un grande: non troverei mai i calzini senza di lui".
mercoledì, 16 aprile 2014
Cue Press per il teatro
La nascita è datata 5 ottobre 2012, dopo un anno e mezzo di lavoro preparatorio. Stiamo parlando di Cue Press (in foto il logo) la prima casa editrice digitale italiana interamente dedicata al teatro, il cui progetto prevede il recupero di opere non più disponibili o difficilmente reperibili, e di nuove rilevanti proposte. Questa doppia linea editoriale può contare sulla collaborazione di studiosi e drammaturghi della scena nazionale. In lingua inglese “cue” significa “battuta, battuta iniziale, attacco, imbeccata, suggerimento”. Il termine gioca con l'omofonia tra “cue” e “queque” che significa “coda, fila di persone”. “Cue Press”, dunque, corrisponde all'esclamazione: “Fate la calca!”. Cue Press è fondata da Mattia Visani, che dopo aver pubblicato i suoi studi per la Ubulibri di Franco Quadri, ha cominciato quest’avventura editoriale con l’intento di realizzare una della maggiori “biblioteche multimediali” dedicate al teatro, e che oggi conta di un catalogo con quasi cinquanta titoli avvalendosi della collaborazione di autori contemporanei che, contribuendo con le loro opere, hanno accolto con entusiasmo l’innovativa e articolata proposta di Cue Press. Tutte le pubblicazioni saranno presto edite in modalità print on demand (stampa su richiesta). Parte importante del progetto editoriale è legata anche alla traduzione, in più di una lingua, dei testi proposti all’interno del catalogo e alla loro distribuzione sul mercato estero. Il libro, allo stato attuale, è presentato in un formato duplice: la prima versione, che attualmente rappresenta quella di punta della casa editrice, è stata progettata per la piattaforma iOS di Apple, fruibile attraverso iPad, iPad mini e Mac, facilmente scaricabile dall’iTunes store; la seconda versione sarà proposta in formato ePub, pensata per ogni tipo di utenza e per tutti i dispositivi di lettura. Grazie all’intesa con Chia Lab Studio di comunicazione bolognese e partner del progetto, Cue Press sarà nelle condizioni di seguire lo sviluppo tecnologico delle proprie pubblicazioni ben oltre i formati finora proposti. Da quest’anno, infatti, la casa editrice sbarcherà sulla piattaforma di editoria digitale che Chia Lab sta ultimando, una delle più evolute piattaforme, è detto, per la lettura su strumenti tecnologici. Ufficio Stampa: le Staffette; lestaffette@gmail.com Raffaella Ilari +39.333.4301603 Marialuisa Giordano +39.338.3500177
martedì, 15 aprile 2014
Don Pasta sul NYT
Era ora! Era ora che la fama di Don Pasta (in foto) varcasse l’oceano e anche gli americani imparassero ad apprezzare questo nostro elettrico performer enogastronomico. Un articolo apparso, infatti, sul New York Times (per leggere: CLIC) ne illustra e celebra le gesta musicali e di etnogastronomo alla ricerca e rivalutazione delle tradizioni culinarie contadine e della working class come dimostra il suo Artusi Remix.
Ha scritto Food Sound System che ha ricevuto recensioni a destra e a manca… veramente a destra poche, più a manca et pour cause. È autore per Stampa Alternativa di un volume dal titolo perentorio “La parmigiana e la rivoluzione” di cui vi propongo un esilarante trailer. Il regista Jonathan Nossiter (diventato famoso con Mondovino, dieci anni fa e a febbraio di quest’anno a Cannes con Natural Resistence ammira Don Pasta: “Non si prende troppo sul serio. Ma non sottovaluta il potere del senso dell’umorismo in rapporto all’attivismo politico”. Riportando quella frase il NYT conclude l’articolo sul Nostro scrivendo: “Don Pasta ha dichiarato che in un mondo caratterizzato da una corsa alla crescita dei costi, la gente che condivide il pane insieme e si offre reciprocamente cibo è il cuore della civiltà, parola che riassume in sé i significati di civilizzazione e coscienza civile. ‘Organizziamo un dibattito fra me e qualche rappresentante della City di Londra e vediamo chi dei due ne sa più di civiltà’, dice provocatoriamente".
lunedì, 14 aprile 2014
Gesù lava più bianco
Diceva il mio amico Marcello Marchesi "La pubblicità è il commercio dell'anima". Figuratevi poi se la pubblicità proprio l’anima propone come brand! Con il suo corredo di promesse su futuri destini siano punitivi oppure gratificanti. Perché “Le promesse, le grandi promesse, sono l’anima della pubblicità”, così la pensa Samuel Johnson, e, sarà un caso, anima e pubblicità qui le ritroviamo cheek to cheek. Il Cristianesimo è stato mosso da una grande idea di marketing modulata attraverso i secoli e su quel binario ancora oggi viaggia. È questo il tema di un libro straordinario che traccia la storia della religione cattolica proprio osservandola attraverso le tecniche pubblicitarie da essa usate. Uscito anni fa, oggi è nelle librerie in una nuova edizione aggiornata fino a Papa Bergoglio: Gesù lava più bianco come la Chiesa inventò il marketing, edito da minimum fax. L’autore è Bruno Ballardini. Nato a Venezia nel 1954, si è laureato in Filosofia del Linguaggio con Tullio De Mauro e ha studiato composizione e musica elettronica sotto la guida di Franco Evangelisti. Ha militato nelle grandi multinazionali della pubblicità e oggi è uno dei più apprezzati consulenti di marketing e comunicazione strategica. Alla professione affianca la ricerca e l’attività di saggista. È stato docente di Tecniche della comunicazione pubblicitaria all’Università di Salerno e di Roma. Attualmente insegna Scrittura Giornalistica presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Roma. Ballardini individua 5 punti strategici di marketing, con cui spiega il successo planetario della Chiesa cattolica. Wikipedia così li sintetizza: 1 - un logo riconoscibile da tutti: la croce 2 - punti vendita ai quattro angoli del pianeta: le chiese 3 - campagne di marketing e pubblicità per secoli sapientemente orchestrate dalla Casa-Madre 4 - un amministratore delegato riverito: il Papa 5 - un prodotto "superiore" distribuito gratuitamente: la dottrina. A muovere questa macchina di comunicazione fu Paolo di Tarso, il primo product manager della Multinazionale del Sacro. Articolò “un dispositivo persuasorio in due passaggi fondamentali appropriandosi, nella prima fase, del potenziale colpevolizzante del mito. Noi avremmo perso l’Eden perché siamo i discendenti del primo peccatore, colui che proprio per questo venne scacciato dal Paradiso. Dunque, geneticamente, siamo peccatori anche noi (Rm 5,12). Ma nella seconda parte della sua geniale strategia di comunicazione Paolo legò indissolubilmente questo incidente al riscatto del peccato originale grazie al sacrificio di Gesù (Rm 5,19; 1 Cor 15,22). Fu questo il passaggio fondamentale che avrebbe fatto scattare il senso di colpa nel target. Da quel momento l’episodio venne citato come case history giustificando la morte dell’adepto come della bontà della Marca, della buona fede dei suoi rappresentanti, e in definitiva insinuando la necessità di contraccambiare con una fede illimitata e incondizionata, come in un immane potlatch. Ballardini studia ogni angolo di questa millenaria Marca celeste (dai “jingle” cioè gli inni sacri alla “festa aziendale” cioè il Giubileo) e le sue fatiche contro i vari competitors dalle antiche sette fino alle “religioni fai da te” dei nostri giorni. La nuova edizione si avvale di un capitolo in cui la figura di papa Francesco è studiata come un riposizionamento del Marchio in crisi rafforzandolo attraverso il ritorno ai valori originari. Gesù lava più bianco è un libro imperdibile per chi vuole studiare e capire il Cristianesimo. “Religione” – scriveva Giacomo Leopardi nel “Zibaldone” – più atta ad atterrire che a consolare”. Bruno Ballardini Gesù lava più bianco Pagine 220, Euro 10.00 minimum fax
Born Digital
Il Link Art Center è un centro multifunzionale che promuove la ricerca artistica con le nuove tecnologie e la riflessione critica sui temi dell’età dell’informazione, attraverso l’organizzazione di workshop, seminari, conferenze e mostre, l’attivazione di partnership con realtà private e istituzionali, e un intenso lavoro di networking con analoghe realtà internazionali. Il LAC è agito dai soci fondatori Domenico Quaranta (direttore artistico), Fabio Paris (managing director), Lucio Chiappa (Marketing & Communication Manager), e da Matteo Cremonesi. Collaborano con loro: Chiara Pariani e Susanna Scotti. Mi è pervenuto un comunicato che volentieri rilancio. “Martedì 15 aprile partirà una iniziativa sperimentale che abbiamo ideato per sostenere l'attività della nostra istituzione. Si tratta di Born Digital, un'asta online ospitata dalla piattaforma americana Paddle8, che ha già collaborato a iniziative analoghe per istituzioni prestigiose come The Kitchen, Performa e The Phillips Collection, tra le altre. Paddle8 è già attiva da tempo in Europa, ma il Link Art Center è la prima istituzione italiana ad aver cercato la sua collaborazione. L'iniziativa si presenta doppiamente sperimentale: perché si affida unicamente a una piattaforma online, senza prevedere alcun evento parallelo; e perché si concentra su un'area della pratica artistica - quella che risponde ai temi e ai linguaggi dell'età dell'informazione - che ha tradizionalmente un rapporto difficile con il mercato, sfidandone le regole e introducendo nuovi formati. Lungi dall'essere solo un evento di mercato, l'asta diventa quindi un evento educativo e informativo, un dialogo con il mondo del collezionismo a cui si sforza di proporre nuove soluzioni. Per andare incontro a esigenze diverse, le opere si attestano su un prezzo di partenza contenuto, che varia dai 100 ai 15.000 euro. Consideriamo l'adesione degli artisti contattati un primo fattore di successo dell'iniziativa: grazie ai suoi 33 partecipanti con più di 50 opere, Born Digital non è più solo un'asta, ma una grande mostra online che ripercorre quasi cinquant'anni di storia dell'arte in Europa, dalla Computer Art al tanto discusso Post Internet. Il nostro primo grazie è tutto per loro, gli artisti che ci hanno così generosamente sostenuto in questa impresa. Il nostro secondo grazie, invece, è per voi: per l'attenzione che sceglierete di dedicarci in queste prossime due settimane. Attenzione è tutto quello che chiediamo, e non è poco in un'epoca strabordante di segnali comunicativi. Partecipare all'asta è uno dei modi per manifestarla, ma non è l'unico. Se volete sostenerci, fate girare la voce; condividete l'evento e le opere, scrivete articoli, parlate di noi, esplorate il nostro sito, continuate a comprare (o a scaricare gratuitamente) i libri che pubblichiamo: ve ne saremo grati. Partecipando all'asta, andrete a sostenere in primo luogo il lavoro degli artisti e, in seconda battuta, il lavoro di Paddle8 e del Link Art Center, a cui andrà il 20% dei ricavi. Da parte nostra, cercheremo di restituire quanto ci avete dato continuando a regalarvi idee e progetti. Vi invitiamo dunque ad essere con noi per l'opening "virtuale" di martedì 15 aprile. Un'anteprima dell'evento è comunque disponibile sito di Paddle8 sin da ora”.
venerdì, 11 aprile 2014
Joel e Ethan Coen (1)
I fratelli Joel Coen (St. Louis Park, 29 novembre 1954) ed Ethan Coen (St. Louis Park, 21 settembre 1957), hanno girato finora 16 film dal primo Blood Simple - Sangue facile (1984) fino al più recente A proposito di Davis (2013). Hanno vinto numerosi premi tra cui 4 Oscar: migliore sceneggiatura originale per “Fargo” e miglior film, regia e sceneggiatura non originale per “Non è un paese per vecchi”. Un ottimo libro su di loro è stato pubblicato recentemente da Marsilio: Joel e Ethan Coen a cura di Giacomo Manzoli, (in foto), che firma uno splendido saggio introduttivo dedicato all’estetica, all’etica e alla politica dei due fratelli del Minnesota. Seguono, in ordine d’apparizione nelle pagine, studi di Giulia Carluccio e Riccardo Fassone (Blood Simple – Sangue facile); Paolo Noto e Guglielmo Pescatore (Mr. Hula Hoop); Ilaria A. De Pascalis (Fargo); Alice Autelitano (Il grande Lebowski); Leonardo Gandini (L’uomo che non c’era); Michele Fadda (Non è un paese per vecchi); biografia, filmografia e bibliografia di Valentina Cappi.
Giacomo Manzoli è docente di Storia del cinema presso il corso di laurea DAMS dell’Università di Bologna. Ha pubblicato decine di saggi in volumi e riviste, italiani e stranieri, dedicati in particolare alla circolazione di forme e idee fra cinema popolare e cinema d’autore. Fra i suoi lavori, "Voce e silenzio Nel cinema di Pier Paolo Pasolini" (Pendragon 2001) e "Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione" (Carocci 2012). Dal quarto di copertina. “Joel e Ethan Coen sono due cineasti geniali che hanno saputo rilanciare la tradizione del cinema indipendente fondendo assieme la bizzarria del B-movie, la graffiante acutezza dell'umorismo yiddish e l'epica narrazione della grandezza e del declino, estetico e morale, dell'impero americano. Scrittori e registi d’intelligenza diabolica, specie nell'inventare un catalogo di personaggi assurdi ed emblematici al contempo, hanno fin qui attraversato tutti i generi e i toni, alternando commedie grottesche e scatenate a teoremi politico-sociologici, nel segno di un doloroso e straniante senso del tragico”. Segue ora un incontro con Giacomo Manzoli.
Joel e Ethan Coen (2)
A Giacomo Manzoli ho rivolto alcune domande. Quali sono gli elementi che ti portano ad aprire il tuo saggio definendo i Coen "i cineasti che da trent’anni incarnano meglio di altri lo spirito del cinema indipendente americano"?
Perché si tratta di due registi capaci di muoversi con grande agilità fra le ragioni dell’industria e istanze assolutamente personali, che rendono i loro film perfettamente riconoscibili sia dal punto di vista stilistico sia sotto il profilo della poetica. Senza per nulla assoggettarsi al mercato, sono però stati capaci di realizzare film ad alto budget e film che hanno incassato e ottenuto il plauso dell’Academy, per non parlare della loro abilità nel gestire lo star system e nell’utilizzare i divi in maniera estremamente creativa. Per ragioni generazionali, sono stati capaci di mantenere intatto il cordone ombelicale con il grande cinema indipendente americano degli anni Settanta e la creatività scatenata del cosiddetto cinema “postmoderno”. Che poi, come abbiamo cercato di spiegare nel libro, in realtà si tratta di un cinema che descrive e racconta gli esseri umani che vivono calati nella dimensione della postmodernità. Quale linea ti sei dato nello scegliere temi e autori che hai chiamato a scrivere i saggi che corredano il volume? Per quanto riguarda gli autori, si tratta di colleghi, studiosi o critici, che conosco da tempo e che stimo, con i quali mi era capitato di parlare diverse volte e di cui sapevo che condividevano la passione per i Coen. La scelta dei film da analizzare – posto che la stessa collana costringeva a limitare la scelta a 6 analisi al massimo – è il frutto di una dolorosa “contrattazione”. Nel senso che ho provato a stilare una lista delle opere che mi parevano più rappresentative e ad offrirne la trattazione all’autore che mi pareva più adatto. In metà dei casi la cosa è stata accettata, mentre negli altri casi abbiamo discusso e deciso di cambiare il film o invertire l’attribuzione del saggio. L’edizione del libro precede il più recente film dei Coen “A proposito di Davis”, ecco perché questa produzione non appare nel volume. Vorrei conoscere il tuo giudizio. Sì, il film è citato in filmografia, ma quando il libro è stato consegnato avevo potuto vedere solo una pessima copia pirata, quindi non mi è parso il caso di trattarlo direttamente, anche perché non c’era nessuna stratificazione di discorsi critici o altro. Ho quindi avuto l’opportunità di vederlo come si deve, sia in lingua originale sia in versione doppiata. Difficile darne un giudizio fondato anche adesso. Non è diplomazia, è che i film dei Coen, molto spesso, è difficile capirli fino in fondo quando li si vede per la prima volta. Mi è sembrato un film doloroso e originalissimo. E’ un film che ricostruisce gli albori della beat generation prima che l’industria culturale se ne appropriasse e la rivestisse di una patina mitica e spettacolare. Dunque un film sul randagismo, sul non avere più una casa (che è poi una delle ossessioni dei Coen: avere o non avere una casa, un posto dove andare, dove tornare o da dove scappare), un musical implicito, filologicamente impeccabile, un film fatto di scene madri, accensioni improvvise, con saggi magistrali di recitazione e costruzione del personaggio. E, in questo, John Goodman è solo la punta dell’iceberg. Tuttavia, come detto, i film dei Coen lavorano alla distanza, insinuandosi nella mente dello spettatore, perciò ci vuole tempo per coglierne tutta la ricchezza. A cura di Giacomo Manzoli Joel e Ethan Coen Pagine 192, Euro 12.50 Marsilio
mercoledì, 9 aprile 2014
Mondo piccolo
“Il più piccolo dei più piccoli oggetti piccoli conosciuti, misura appena 10 alla -35, più o meno la lunghezza di Planck (che è la più piccola misura oltre la quale il concetto di dimensione perde ogni significato fisico)”. Non mi addentrerò in quell’universo perché non ho le nozioni per farlo, ma ho aperto questa nota con quella citazione scientifica per completarla con un'altra letteraria. Un momento delle avventure di Lemuel Gulliver, quando, in seguito a un naufragio, arriva nell'isola su cui si trova Lilliput. L'isola è abitata dai Lillipuziani, minuscoli uomini alti 15-20 cm, che lo legano al terreno mentre sta dormendo sul lido. Lilliput fa da opposto, nell’opera di Jonathan Swift, a Brobdingnag, un'altra isola visitata in seguito da Gulliver, occupata da esseri umani giganteschi. Adesso è ora di nominare il libro pubblicato da Laterza, è intitolato Mondo piccolo Spedizione nei luoghi in cui appena entri sei già fuori. L’autore è Valerio Millefoglie. Nato a Bari nel 1977, ha pubblicato per Baldini Castoldi Dalai “Scontrini. Racconti in forma di acquisto” (con Matteo B. Bianchi, 2004) e “Manuale per diventare Valerio Millefoglie” (2005); per Einaudi “L’attimo in cui siamo felici” (2012). Performer e musicista, ha inciso il disco “I miei migliori amici immaginari” (quiet, please!/ EMI 2011) e il singolo “No la borsa ma la vita” (quiet, please! 2013). Fra il micro e il macro, Millefoglie sceglie il primo dei due mondi e racconta di luoghi piccoli piccoli disseminati nel mondo: dall’Italia all’Ungheria, dalla Polonia all’Inghilterra, dalla Georgia al Giappone. Ed ecco una chiesa minuscola (sta a Nona, un isolotto a pochi chilometri da Zara) dove gli sposi pronunciano il “sì” uno per volta perché in due non ci si sta, per non dire del prete che officia fuori, così come fuori della chiesetta stanno testimoni e invitati. Forse un modo di coppia per provare la solitudine che verrà. Sapevate che Bologna è una città matrioska? Sì, lo è. Sotto i portici di Via Piella, cioè in pieno centro, c’è una finestrella che affaccia su di un canale che ricorda Venezia. L’affollamento delle carceri è un problema drammatico anche nei grandi istituti di pena, ma non lo è per il carcere dei Cappuccini della Repubblica di San Marino che possiede soltanto sei celle e non tutte sono occupate. In questo carcere più piccolo del mondo i detenuti prima di andare a letto si chiudono nelle celle da soli “… perché al mattino la luce ci sveglierebbe troppo presto”. Tutti, o quasi tutti, sappiamo che il Po è il fiume più lungo d’Italia (652 chilometri… sì, lo ammetto per scrivere quella misura ho sbirciato su Wikipedia), ma se ci chiedono qual è il più corto? Chi fa quella domanda, ovviamente, è una carogna. La risposta in “Mondo piccolo” c’è. Si chiama Aril, sta nella frazione di Cassone, a Malcesine in provincia di Verona. Lunghezza: centosettantacinque metri. Suicidi, zero. Ironia della sorte, quel minuscolo fiume, sfocia nel lago italiano più grande, quello di Garda. Il libro di Millefoglie è utile anche se volete fare una cenetta intima a due. Proprio per due commensali soltanto è un ristorante a Vacone in provincia di Rieti. Nelle pagine di Valerio Millefoglie ci sono tante altre cose: il teatro più piccolo, lo zoo più piccolo, l’isola più piccola, l’albergo per un letto solo, il cinema in un’automobile, la discoteca in cui in dieci si è già in troppi. Valerio Millefoglie Mondo piccolo Pagine 152, Euro 12.00 Laterza
martedì, 8 aprile 2014
Smack! Smack! Smack!
In Italia, ancora oggi si esce da una scuola dove non c'è vergogna nell'affermare “no, di matematica non so nulla!”, ma c’è da arrossire a non conoscere qualche verso di Carducci o Foscolo. Per non dire poi del nostro stesso corpo. Quanti di noi, anche fra i più giovani, sanno dove si trova il pancreas? Qual è la funzione del fegato? Che cosa sono le sinapsi? Eppure è tutta roba che ci portiamo addosso, così come addosso ci portiamo i nostri organi sessuali e le loro pulsioni. Su questo viene detto poco o male e appena qualche insegnante si spinge ad un’illustrazione più precisata, non è raro che insorgano associazioni di menti giurassiche biliose, consiglieri comunali o deputati ringhiosi, genitori arrabbiati oppure dubbiosi o perplessi. E se tutto questo manca, ecco la signora Paola Binetti che, pur cambiando casacca in Parlamento, è costante nell’allarmarsi sul tema dell’educazione sessuale. Anche di recente. Lei, che com'è d'uso tra i soli membri numerari di sesso femminile dell'Opus Dei, dorme su una tavola di legno (come, interrogata sull’argomento, non ha smentito) e opera la mortificazione corporale indossando un cilicio e autoflagellandosi con un frustino di corda… insomma robe da sito porno che toglie ogni autorità (specie in materia di sesso) a quanto pronuncia una persona dedita a quelle tenebrose pratiche. Il Parlamento, però, dovrà fare i conti con le indicazioni della sezione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che invita a trattare l’argomento fin dalla scuola primaria. Ecco anche perché è importante e tempestiva una recente pubblicazione di Editoriale Scienza intitolata gioiosamente Smack! Smack! Smack! Tutte le risposte alle prime domande sull’amore e la sessualità. Autrici: Delphine Godard – Nathalie Weil – Stéphane Nicolet. Com’è tradizione dell’Editrice… a proposito, quest’anno ha ricevuto il Premio Infanzia - Piccolo Plauto... il libro ha una grande vivacità tipografica qui ancora maggiormente rimarcata con un sapiente uso della coloristica, scritte a rilievo, più di 30 alette da sollevare per trovare risposte che istruiscono divertendo; un apparato visivo che su carta regge alla sfida con gli altri mezzi di comunicazione d’oggi come la tv o i videogiochi. Circa i contenuti sono tratteggiati attraverso frasi brevi, semplici, esplicite senza mai essere pruriginose, sfatando luoghi comuni sia fisici sia sociali. È questo il migliore fra i libri che ho visto dedicati all’educazione sessuale per i ragazzi; è suggerito da 9 anni in su, ma visto le asinerie sul tema che si ascoltano in giro, mi sentirei di suggerirlo anche a qualche adulto.
Per meglio conoscere il volume, utile uno sguardo all’Indice. Per un assaggio di lettura e un allegro trailer del libro: CLIC! Delphine Godard Nathalie Weil Stéphane Nicolet Smack! Smack! Smack! Traduzione di Laurence Di Gaetano Pagine 48, Euro 16.90 Editoriale Scienza
lunedì, 7 aprile 2014
Cronache di scienza improbabile
È in corso a Pisa, negli spazi di Palazzo Blu, la mostra “Balle di Scienza, storie di errori prima e dopo Galileo” visitabile fino al 29 giugno. Se non riuscite a vederla, don’t panic please!... confortatevi acquistando Cronache di scienza improbabile di Pierre Barthélémy recentemente edito da Dedalo. L’autore è un giornalista francese indipendente, animatore di uno dei blog più influenti nel panorama d’Oltralpe, «Passeurs de sciences». Ha collaborato alla rivista scientifica «Science et vie» e attualmente è responsabile della rubrica di scienza umoristica nel supplemento «Science» del quotidiano «Le Monde». Con "Cronache di scienza improbabile" ha vinto il premio Le goût des sciences del Ministero dell’Istruzione e della Cultura francese. In queste cronache sono riportate ricerche contemporanee che, secondo alcuni, mai si sarebbero dovute intraprendere (ad esempio, calcolare la temperatura del paradiso e dell’inferno). Altri, invece, pensano che non ci siano mete assurde in campo scientifico perché dalla più bislacca idea è possibile nasca una luce che illumini perfino un’area diversa dalla quale si era partiti. Sia come sia, le pagine di Barthélémy riportano domande che alcuni scienziati (o aspiranti tali) si sono poste dandosi risposte che, con tutto il rispetto per i loro generosi sforzi, spesso sono irresistibilmente comiche. Fatale pensare (del resto, è lo stesso autore che lo invita a fare) al Premio IgNobel che annovera tra i premiati del 2013 – come riferisce Caterina Visco – un gruppo di ricercatori giapponesi guidato da Masanori Niimi dell'Università Teikyo di Tokyo; ha ricevuto il premio per la Medicina, in virtù di uno studio su un gruppo di topi che avevano subìto un trapianto di cuore. I ricercatori hanno scoperto che gli animali, la cui aspettativa media di vita post operatoria è sette giorni, ne sopravvivevano 27 ascoltando “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Impossibile non menzionare, infine, anche i vincitori del premio per la Pace. Il riconoscimento è andato pari merito al premier bielorusso Alexander Lukashenko e alla sua polizia di Stato. Il primo per aver reso illegale applaudire in pubblico e alla seconda per aver arrestato un uomo con un solo braccio accusandolo di aver applaudito. Barthélémy, ovviamente, sposa la tesi di quelli che accettano d’esaminare ogni ricerca per quanto improbabile possa apparire, basti pensare che in un caso, seppure finora il solo, un vincitore del premio IgNobel è stato anche insignito del Premio Nobel. Si tratta di Andrej Gejm, Nobel per la fisica 2010, premiato con l'Ignobel nel 2000, insieme a Sir Michael Berry, per la loro dimostrazione della rana volante, derivante dalle ricerche sulla levitazione diamagnetica. Gejm, poi, ha vinto il Nobel per le proprie ricerche sul grafene. Ed ecco sfilare nelle pagine di “Cronache di scienza improbabile” una serie d’interrogativi che hanno dato luogo a ricerche e relazioni pubblicate, talvolta, anche su serie riviste scientifiche. Leggere sulla seggetta in bagno fa bene o male alla salute? Qual è la velocità con cui cammina la Morte? Lo sbadiglio della tartaruga è contagioso? Si può giocare a calcio su Marte? E pattinare sulla Luna? Il ciclo mestruale fa guadagnare più mance alle ballerine di lap dance? I toporagni bolliti e poi inghiottiti senza masticarli sono indigesti? Non pochi hanno affrontato prove durissime per verificare i risultati della loro ricerca, perfino sfiorando la morte come il medico giurista rumeno Nicolae Minovici che eseguì su se stesso varie prove d’impiccagione per riferire che cosa si provava a essere appesi per il collo. Alla fine della lettura del libro di Barthélémy, non meravigliatevi se vi sembrerà d’udire una risata proveniente dall’aldilà. È quella del grande Alfred Jarry inventore della Patafisica definita “Scienza delle soluzioni immaginarie”. Pierre Barthélémy Cronache di scienza improbabile Traduzione di Anna Della Chiara Illustrazioni di Marion Montaigne Pagine 144, Euro 14.00 Edizioni Dedalo
venerdì, 4 aprile 2014
Questioni di famiglia
Questioni di famiglia Vivere e rappresentare la famiglia oggi, questo il titolo della mostra in corso alla Strozzina il Centro di Cultura Contemporanea a Palazzo Strozzi. Nell’occuparmi nel tempo di questo Centro, credo d’avere esaurito gli aggettivi per lodarlo. Diretto da Franziska Nori, con la sua guida, fin dalla nascita nel 2007, è diventato una delle ribalte più avanzate nello scenario espositivo italiano. Ne è conferma anche questa mostra che vede undici artisti internazionali (Guy Ben-Ner, Sophie Calle, Jim Campbell, John Clang, Nan Goldin, Courtney Kessel, Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, Trish Morrissey, Hans Op de Beeck, Chrischa Oswald, Thomas Struth) che permettono di investigare immagini, dinamiche e strutture che definiscono il concetto di famiglia nel mondo contemporaneo.
I due curatori della mostra Franziska Nori (in foto) e Riccardo Lami, così scrivono in catalogo. La mostra propone un’analisi delle dinamiche e delle immagini che caratterizzano una famiglia e ciò che si nasconde dietro di essa. Obiettivo della mostra non è capire “che cosa è la famiglia”, ma interrogarsi su “cosa fa la famiglia”, come essa funziona nella sua rappresentazione e nella decostruzione dei suoi meccanismi, dei suoi valori e dei suoi significati […] Creare una mostra collettiva su questo argomento ha significato l’esigenza di produrre un campo partecipativo di esperienze, immagini e simboli che esprimono uno strabismo concettuale: da una parte una coralità di prospettive autobiografiche individuali e soggettive, dall’altra una ricerca di significati condivisi su quei legami culturali, morali, etici, biologici che ancora nel mondo contemporaneo definiscono e individuano una famiglia. Una riflessione sulla solo apparente naturalezza di questo concetto può trovare un interessante punto di partenza nell’articolo 29 della Costituzione italiana, dove si afferma che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”. Parallelamente l’articolo 16 della Dichiarazione Universali dei Diritti dell’Uomo afferma che “la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”. Tuttavia, come provocatoriamente afferma la sociologa Chiara Saraceno, “non vi è nulla di meno naturale della famiglia”. La disputa su “cosa è famiglia” si accompagna infatti alla ricerca sociologica che, secondo diversi approcci e prospettive, ha individuato la famiglia come luogo primario di socializzazione, di trasmissione culturale e simbolica, ma anche come luogo di disuguaglianze e contraddizioni […] In funzione dell’esperienza della mostra da parte del visitatore, “Questioni di famiglia” diviene una piattaforma di stimoli diversi per riflettere sulla tematica della famiglia in forma interdisciplinare spingendosi anche oltre le opere degli artisti coinvolti. Parte della mostra è una sala dedicata alla rappresentazione della famiglia nei media e nella letteratura con una ampia selezione di filmati e libri che hanno segnato la costruzione dell’immagine della famiglia, dai grandi romanzi ottocenteschi alle recenti serie televisive. Una “biblioteca di famiglia” sarà consultabile dai visitatori che potranno anche partecipare al progetto ‘A voce alta’, una serie di letture in mostra di testi teatrali e di narrativa sul tema della famiglia da “Medea” a “Le correzioni”. Riflettere su come gli artisti affrontano questo tema non comporta solo domandarsi cosa sia la famiglia attraverso i loro occhi. Significa investigare come essa sia una risorsa, una materia prima, un fenomeno sociale e culturale che ancora oggi costituisce un ruolo fondamentale per ogni individuo e nella costruzione della vita della collettività. Ufficio Stampa: Alessandra Santerini, T. +39 335 6853767, alessandrasanterini@gmail.com Lavinia Rinaldi,T. +39 055 3917122 l.rinaldi@palazzostrozzi.org Chiara Costa, T. +39 349 1981349, chiara.a.costa@gmail.com Questioni di famiglia A cura di Franziska Nori e Riccardo Lami CCCS Palazzo Strozzi, Firenze Info: 055 - 39 17 11 Fino al 20 luglio ‘14
mercoledì, 2 aprile 2014
La biblioteca di Gould
Mentre tanti in questo momento fra autori, editori, uffici stampa, si stanno affannando per vincere lo Strega, la letteratura sta da tutt’altra parte. Ne è una dimostrazione un vertiginoso libro stampato dalla valorosa editrice L'orma che ha pubblicato La biblioteca di Gould Una collezione molto particolare dello scrittore belga Bernard Quiriny (Bastogne, 1978). Docente di filosofia e diritto all’Université de Bourgogne, collabora come critico con alcune delle più importanti riviste francesi tra cui «Le Magazine Littéraire». Nel 2013 “La biblioteca di Gould” ha ricevuto il Gran Prix de l’Imaginaire. L’orma ha – credo unica casa editrice in Italia – la benvenuta abitudine di dare notizia anche su chi ha tradotto. Qui hanno lavorato Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Sono studiosi di letteratura francese. Hanno scritto su Proust e Michaux e la loro opera di traduttori per Adelphi, Fazi, Ponte alle Grazie, Rizzoli e altri editori è stata premiata con alcuni tra i più prestigiosi riconoscimenti di settore. Con Quiriny, abbiamo uno dei casi maiuscoli di metaletteratura, attraverso la rappresentazione di un bibliomane, Pierre Gould, possessore di una ben strana biblioteca che dà all’autore – voce narrante delle meraviglie che va scoprendo – l’occasione di dedicare ogni capitolo alle particolarità delle varie sezioni. Gould, giocatore di scacchi che ha inventato la bizzarra variante trasformista, “ha sempre avuto un’inclinazione particolare per gli autori di secondo rango, i discreti, gli eccentrici, i piccoli maestri, i dimenticati, i discepoli di un altro, gli eredi di una scuola passata di moda, i provinciali, gli esiliati, i dilettanti illuminati, quelli che si sono arenati da tempo e quelli che si sono proprio persi, gli inattuali, i modesti, e tutti quelli che si trovano solo spostando i monumenti letterari che li nascondono nelle biblioteche”. Un tipo così non può che custodire orgogliosamente volumi insoliti appartenenti a famiglie di carta dove serpeggia ora una calma, ora una sfrenata follia. Ed ecco libri che si scrivono da soli secondo lo stile desiderato, che possono essere letti solo se il lettore è in smoking, libri che eccellono per noia, libri matrioska, libri di cui non si conserva memoria di ciò letto il giorno prima, e viaggi, tanti viaggi attraverso città dove ci sono resurrezioni di massa, amanti che dopo l’amplesso si ritrovano scambiati l’uno nel corpo dell’altra, dov’è possibile cambiare nome 24 ore su 24, sicché un tale può chiamarsi Nixon all’ora di pranzo e Breznev all’ora di cena. “La biblioteca di Gould” è per lettori lontani da Moccia, Tamaro, e tanti altri romanzieri che instancabilmente macchiano pagine e ritirano premi letterari in Italia. Insomma, siamo anni luce lontani dalle tecniche narrative tradizionali. Sono stati fatti accostamenti con Borges, Jarry, Vila-Matas, Bolaño. Credo che tra quei nomi ricorrenti, manchino Perec e Queneau. Anche se poi Quiriny ha una sua cifra stilistica personale per cui la letteratura fatta di letteratura si proietta in rifrazioni originali nel confronto fra voce narrante e il personaggio protagonista, dov’è sotteso un frequente scambio di ruoli o la fusione in una sola creatura nelle cui vene scorre un sornione inchiostro. Bernard Quiriny La biblioteca di Gould Traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco Pagine 192, Euro 14.85 L’orma Editore
martedì, 1 aprile 2014
Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill
Questo sito si occupa raramente di narrativa, quasi mai di quella contemporanea, oggi, quindi, non si tratta di un’eccezione perché protagonista è un autore classico: Mark Twain. Inoltre, questo webmag ha tutte le sue sezioni intitolate con termini spaziali – dall’astronave Enterprise a Cosmotaxi – e Twain appare anche in un doppio episodio di Star Trek; è rappresentato come un anziano impiccione che prima crede quelli dell'Enterprise una minaccia per l’umanità, ma poi li aiuta nel completare una pacifica missione. Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, Missouri, 30 novembre 1835 – Redding, Connecticut, 21 aprile 1910), è uno degli scrittori americani che appartengono alla storia letteraria di tutto il nostro pianeta. Fu un oppositore instancabile del razzismo, animalista, sostenne il movimento laburista, i diritti delle donne e delle minoranze, ateo (ricordo al proposito la raccolta dei suoi racconti sotto il titolo Paradisi. Sarebbe interessante stilare un catalogo (se già non è stato fatto), della presenza dei cavalli nella letteratura o che per effetto di cronaca poi nella letteratura sono entrati. Me lo fa pensare il libro di oggi che vede protagonista un destriero. Il libro si chiama Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, l’editore è Mattioli 1885, l’autore lo avrete capito è Twain. Esce nella raffinata traduzione di Livio Crescenzi il quale nell’Introduzione spiega che l’occasione del racconto nasce dalla richiesta dell’attrice americana Minnie Maddern Fiske di un testo che l’aiutasse nella campagna che stava conducendo contro i combattimenti di tori in Messico; sperava che il grande Mark scrivesse qualcosa di simile a “A Dog’ s Tale”, racconto tornato utile agli antivivisezionisti. Forse rimase delusa perché il testo si conclude in una corrida in Spagna, ma resta comunque un libro che ben serve la causa animalista. La prima edizione è del 1906, in quegli anni un altro cavallo attirò attenzione internazionale (… ah! quel catalogo), si chiamava Hans, dicevano che sapesse contare – si veda il libro di Vinciane Despret. Scrive Crescenzi a proposito dei bizzarri ingredienti che compongono il racconto di Twain: … l’illustre e flemmatico cavallo di Buffalo Bill, Soldier Boy, parla in prima persona, si considera ben istruito, molto educato, sebbene usi spesso parole di cui ignora il significato, ma che predilige per la loro lunghezza, l’unica cosa importante per le parole. Indiani; animali parlanti dai lignaggi più bislacchi (fossili, cani generici figli di coyote e gatti selvatici, batteri plantigradi circonflessi vertebrati…) e dai nomi che “fanno slogare la mascella” (Famine e Pestilence, Sour-Mash, Sardanapalus, Potter, Shekels) un’incantevole bambina Cathy Allison […] le cui sorti sono indissolubilmente legate a quelle di Soldier Boy, il cavallo di BB che quest’ultimo le regala e che segue la piccola in Spagna, dove subisce una fine ignominiosa. Racconto che, com’è nello stile dello scrittore, unisce momenti umoristici ad altri nerofumo; in queste pagine, infatti, a volte si sfiora l’horror della letteratura, del cinema e dei fumetti dei nostri anni. Mark Twain Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill Traduzione di Livio Crescenzi Pagine 108, Euro 9.90 Edizioni Mattioli 1885
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