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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La buona morte

Anni fa, a Napoli, durante “Galassia Gutenberg”, una Guida – pur ben congegnata nell’illustrare quel pregevole festival letterario – in una sua pagina, fra le regioni italiane ne indicava una chiamata Vaticano. Grave errore, non c’è dubbio. Forse (se proprio era destino che la cappellata dovesse crudelmente colpire il redattore) meno grave sarebbe stato indicare l’Italia come uno dei quartieri del Vaticano.
Anche qui uno svarione geografico, ma non politico. Perché cospicua parte delle disgrazie del nostro paese sta nella dipendenza che i governi d’ogni tendenza, dalla dittatura alla democrazia, hanno avuto e, temo, avranno nei riguardi d’oltre Tevere.
Tante proposte di leggi non passano in Parlamento (e, peggio ancora, altre sono approvate) in ossequio alla volontà delle tonache.
Inoltre, anche fuori delle leggi, sono imposti comportamenti che obbligano pure i non credenti a conformarsi ad usi lontani dal loro pensiero.
"Sono centinaia le segnalazioni arrivate allo sportello laicità dell’Uaar, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – scrive Michele Sasso su l’Espresso – “attacchi alla laicità sono all’ordine del giorno anche dove dovrebbe essere un valore condiviso: nelle scuole".
Uno dei temi morali che è fortemente contrastato dalle gerarchie cattoliche (ma anche le altre religioni monoteiste non scherzano) è l’eutanasia.
Si assiste, però, anche ad alcune coscienze che, aldilà delle religioni si pongono in modo ragionato fuori dei dettami di questa o quella fede; un esempio recente QUI.
Il tema, quindi, è più dibattuto di anni fa e in Italia esiste anche l’Associazione Exit (nome acconcio quant’altri mai) che promuove plurali attività per sostenere una morte dignitosa in questo sostenuta ieri e oggi da Margherita Hack a Levi Montalcini, da Stefano Rodotà a Umberto Veronesi, giusto per citarne solo i primi che ricordo.

Sull’argomento ho speso più letture, ma tra i libri il migliore, a mio avviso, finora è stato scritto da Andrea Tarabbia, è intitolato La buona morte Viaggio nell’eutanasia in Italia, l’ha pubblicato la casa editrice Manni.
Tarabbia è nato a Saronno, in provincia di Varese, nel 1978. Ha pubblicato i romanzi “La calligrafia come arte della guerra” (Transeuropa, 2010), “Marialuce” (Zona, 2011) e “Il demone a Beslan” (Mondadori, 2011), il saggio "L'indagine sulle forme possibili” (Aracne, 2010) e l’e-book “La patria non esiste” (Il Saggiatore, 2011).
Nel 2012 ha curato e tradotto “Diavoleide” di Michail Bulgakov per Voland ed è uscito “Il cimitero degli anarchici” (Franco Angeli), scritto per l’Archivio di Stato di Regione Lombardia. Nel 2013: il racconto “La ventinovesima ora”, pubblicato in versione e-book nella collana Mondadori Xs.
Per sei anni è stato membro della redazione della rivista “Il primo amore”.
Conduce in Rete un sito web molto ben strutturato, v'invito a visitarlo.

Ad Andrea Tarabbia ho rivolto alcune domande.
Com’è nata l’idea del libro, quale la principale motivazione?

Ho ricevuto un giorno una telefonata da Agnese Manni, che mi ha proposto di fare questo libro sulla base del fatto che mi conosceva e sapeva che, in passato, quando stavo nella rivista “Il primo amore”, avevo promosso insieme alla redazione alcune iniziative legate ai testamenti biologici. Nel nostro piccolo, ci eravamo battuti per la legalizzazione dell’eutanasia. Ho subito accettato la proposta, perché mi sembrava di avere delle cose da dire sull’argomento e, soprattutto, perché speravo che il lavoro di ricerca per il libro mi aiutasse ad andare ancora più a fondo nella questione e mi facesse incontrare – come poi è avvenuto – persone con cui da tempo desideravo parlare. Mi sembrava poi che mancasse un libro che guardasse all’eutanasia, al fine vita, dal punto di vista per così dire umano e letterario anziché medico o giuridico: era dunque una specie di sfida. Ci ho messo un po’ della storia della mia vita e della mia famiglia, i libri che amo, il mio rapporto con la morte: mi sono in qualche modo messo a nudo. A volte penso che La buona morte, al di là delle cose che racconta in merito al tema che tratta, sia anche la messa su pagina, forse ingenua, di una poetica: è sicuramente il mio libro più autobiografico, meno trasfigurato – ed è curioso che tutto questo sia venuto fuori in un libro che parla del dolore e della morte degli altri.

Qual è il confine che separa il suicidio dall’eutanasia?

È difficile rispondere: credo che entrambi abbiano in comune il dramma di non sapersi più riconoscere come persone. Parlo spesso nel libro dei malati terminali come delle persone prigioniere di un corpo che non sentono più come il loro, che non riconoscono: una specie di guaina soffocante che ha smesso di funzionare e, quindi, di permettere alla persona di riconoscersi come tale. Questo è ciò che ho capito studiando e incontrando i familiari di chi ha vissuto i suoi ultimi anni invocando l’eutanasia ed è, secondo me, insieme al dolore e alla consapevolezza dell’ineluttabilità di una fine terribile, la vera tragedia, la cosa insopportabile che rende disumano e lontano dalla pietà ogni discorso contro il trattamento eutanasico.
Se invece con suicidio intendi il suicidio assistito, ti rispondo con una frase che Beppino Englaro mi ha ripetuto spesso: «Suicidio assistito significa: “Non ce la faccio più, aiutatemi a morire”. Eutanasia significa: “Non ce la faccio più, uccidetemi”»
.

Nel libro sono citati i termini “vita biologica” e “vita biografica”. Quale la differenza? E a quali conclusioni porta considerare la ”vita biografica”?

Usavo questi termini riprendendo un’intuizione di Giorgio Cosmacini, che invocava la dicitura “testamento biografico” al posto di “testamento biologico”. Non c’è in ballo solo una questione di terminologia, ma il riconoscimento del fatto che siamo più ampi della nostra sfera biologica: una grave malattia non inficia la nostra vita solo a livello biologico, ma si mangia la nostra persona, azzera la nostra biografia, ci rende diversi da quello che siamo o che pensiamo di essere. A livello biologico si può sopravvivere anche molti anni con un male terribile. A livello biografico no. È di nuovo, se ci fai caso, il discorso a cui alludevo nella risposta precedente: il punto di non ritorno va fissato nell’istante in cui la malattia ci impedisce di riconoscerci ancora come una persona e, dunque, di considerare la nostra vita “umana”, meritevole di essere vissuta.

Qualora si riuscisse ad organizzare in Italia un referendum sull’eutanasia, credi che otterrebbe il quorum necessario? E, se sì, quale sarebbe il risultato?

Esistono ricerche che dicono che l’opinione pubblica italiana è pronta ad affrontare il tema e che in larga maggioranza voterebbe a favore dell’eutanasia. La sensazione che ho è che siano molto ottimistiche, ma i dati in possesso di Associazioni come la Coscioni o la Exit dicono questo.

Andrea Tarabbia
La buona morte
Pagine 176, Euro 16.00
Manni Editori


Meglio se taci


Mi pare che appartenga ad Altan: “Qualche anno fa l'Italia era sull'orlo dell'abisso. Da allora abbiamo fatto un decisivo passo avanti”.
In questo rovinoso ruzzolare, per citare uno dei tanti livelli dove trovare lo straziato stivale, è quota 49. Lì “Reporter sans Frontieres” pone il paese nella classifica di libertà di espressione. Ci precedono, per fare alcuni nomi: Andorra, Giamaica, Ghana, Samoa, Romania, Haiti, Niger.

Sulla stampa, oltre al fenomeno della censura, esiste quello dell’autocensura che è molto più vasto del primo e difficilmente quantificabile perché chi firma articoli di quella specie, è pronto a giurare d’averlo fatto giustamente e liberamente.
Diversa la situazione in Internet? Sì, qui l’autocensura è limitata alle testate di alcuni quotidiani e settimanali cartacei che hanno un’edizione web, o ad agenzie collegate in chiaro oppure sotterraneamente, agli organi del potere centrale.
La situazione è, quindi, buona? Per niente.
A spiegarlo c’è un ottimo, e necessario, libro edito da edito da Baldini&Castoldi: Meglio se taci Censure, ipocrisie e bugie sulla libertà di parola in Italia.
Ne sono autori: Alessandro Gilioli e Guido Scorza.
Gilioli è giornalista a «l’Espresso» e autore del blog Piovono rane, uno dei più seguiti d’Italia. Ha scritto diversi libri sia di politica sia legati ai temi del web e dei suoi effetti socioculturali.
Scorza è avvocato, docente di diritto delle nuove tecnologie e presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione, oltre che blogger per il «Fatto quotidiano» e commentatore per «Wired», «l’Espresso» e «Punto Informatico».

Perché l’Italia sta così mal conciata sulla libertà d’espressione, lo spiegano gli autori già presentando il libro: “Siamo in un Paese in cui non puoi fare il giornalista se non hai una tessera dell’Ordine, ma per avere la tessera devi fare il giornalista. Siamo un Paese in cui un’autorità amministrativa può chiudere un sito web senza nemmeno passare da un giudice”.
Siamo passati dalla dittatura che vietava ad una democrazia che dissuade. In mille modi. Perfino secondo l’umore del momento di un funzionario. Sia chiaro – e questo è sottolineato nelle pagine – non siamo nelle condizioni della Corea del Nord, della Russia, o di certe nazioni musulmane, ma in un paese in cui disposizioni e decisioni sussurrano all’orecchio “Meglio se taci”.
Il libro è un’inchiesta basata su casi molto concreti e su vicende realmente avvenute anche se a leggerne pare talvolta d’assistere a uno sketch di varietà tanto ne è ridicolo lo svolgimento.
Non citerò quei casi lasciando a chi comprerà il libro, il gusto della lettura, ma citerò, invece, un passaggio del volume che con straordinaria chiarezza indica il ritardo culturale dei nostri governanti (quelli d’oggi al governo con Renzi), un ritardo che è alle origini di mancate leggi, direttive ioneschiane, e frequentissime distorte decisioni.
‘Ai giovani italiani manca una formazione digitale’, dice il presidente di Google Eric Schmidt. Gli risponde piccato il ministro alla Cultura Franceschini: ‘In ogni paese ci sono vocazioni: magari un ragazzo italiano potrà andare negli Stati Uniti a insegnare storia medievale e uno americano venire qui a insegnare informatica’.
“Che cosa c’è” – scrivono gli autori – “di fuori luogo nella reazione di Franceschini? La contrapposizione: conoscenze digitali versus conoscenze umanistiche. Un dualismo che forse risente ancora dei cascami gentiliani; la convinzione – antica e oggi perfino un po’ buffa – che l’immersione nel mondo digitale debba essere alternativa (anziché complementare) a una formazione umanistica. Chissà che risate si sarebbe fatto ascoltando una corbelleria simile, uno come Steve Jobs, da sempre convinto dell’intreccio profondo fra comunicazione digitale e scienze umane […] Il secondo errore di Franceschini è ancora più imbarazzante, dal punto di vista logico: perché confonde conoscenze preambolari di base e conoscenze verticali di settore. Trovate, ad esempio, oggi un giovane storico del medioevo, che non sia in grado di fare una ricerca in Internet […] In altri termini: la formazione digitale di cui parlava Eric Schmidt non è una materia, ma una premateria, è una precondizione per qualsiasi materia. È un’alfabetizzazione di base”.

Meglio se taci è un libro che non può mancare a chi vuol capire il momento storico in cui vive l’informazione in Italia; essenziale, poi, a chi lavora nelle redazioni della carta stampata, delle radiotv, del web, anche per i tanti orientamenti legali che contiene.

Alessandro Gilioli
Guido Scorza
Meglio se taci
Pagine 160, Euro15
Baldini&Castoldi


Marlene Dietrich


“… la gente stupida mi infastidisce. Ci sono ammiratori che mi adorano e mi credono una dea. Io li trovo stupidi. Chi sono io per essere guardata con tale ammirazione? Cos’ho fatto per meritarlo? Se proprio vogliono adorare qualcuno, che sia un medico o un brillante scienziato. Non una persona di spettacolo. Non potrei mai essere amica di qualcuno che sia così stupido da adorarmi”.

Sono parole di Marie Magdalene "Marlene" Dietrich (Berlino, 27 dicembre 1901 – Parigi, 6 maggio 1992), una delle più celebrate figure del secolo scorso.
Parole tratte da un’intervista rilasciata nel 1965 a Clive Hirschhorn, contenute in un libro pubblicato dalle Edizioni Clichy intitolato Marlene Dietrich Il fascino crudele, curato dalla raffinata penna di Luca Scarlini (drammaturgo, storico dello spettacolo, grande studioso dell’opera di Giorgio Manganelli – qui il suo sito web), autore di un saggio introduttivo al volume che è intercalato da dichiarazioni della Dietrich e da una cospicua documentazione fotografica.

La Dietrich: allieva di Max Reinhardt, indimenticabile interprete del film “L’angelo azzurro” prima pellicola tedesca sonora, antinazista, una figlia amatissima avuta dal matrimonio con l’aiuto regista Rudolph Sieber, la prima attrice a volere un’assicurazione delle proprie gambe, una vita in cui mai nascose la sua bisessualità, una vita che vedrà gli ultimi anni straziati da una paralisi e una fine attribuita a un infarto che la colpì nel sonno.

A Luca Scarlini – già altre volte ospite di Cosmotaxi, ad esempio qui e qui – ho rivolto alcune domande.
Qual è la cosa che più t’intriga della figura di Marlene Dietrich?

Il fatto di aver giocato tra le immagini complementari di diva e casalinga.
L'ammirazione per una figura che ha saputo passare dalla condizione di star a quella di attrice, mettendo a segno varie interpretazioni magistrali nella seconda parte della sua carriera. La simpatia per la signora che ha detto no ai milioni di Goebbels e Hitler
.

La Dietrich è solo un’icona del XX secolo o anche una brava attrice?

A mio parere era una attrice compiuta fin dall'inizio: nella sua adolescenza c'era il mito di Max Reinhardt, fondatore della regia teatrale, di cui aveva frequentato la scuola e era stata allieva. Prima de L'angelo azzurro, la signora aveva una sua personalità in varie riviste, spesso a tema erotico, in cui cantava i salaci couplets del compositore Misha Spoliansky. Il dato iconico è quello creato da lei con von Sternberg e celebrato dai fotografi di moda (da Horst a Beaton).

Dietrich e la Garbo, di 4 anni più giovane, aldilà delle voci che le vogliono amanti segrete, rivaleggiarono sullo schermo. Quali aspetti di donne e d’attrici le differenziano?

Dietrich giocava tutto sull'esposizione: da qui la sua lunga pratica come cantante, dal tempo di guerra, in giro per tutti i fronti a cantare per le truppe, fino all'età anziana, tra Las Vegas e il Tivoli di Copenaghen, spesso accompagnata da Burt Bacharach. Fino all'ultima prova in Gigolò di David Hemmings, dove compare accanto a David Bowie si è messa sempre in scena. Garbo ha sempre puntato sul distacco dalla propria immagine, fino al ritiro precoce dagli schermi.

A cura di Luca Scarlini
Marlene Dietrich
Pagine 144, Euro 7.90
Edizioni Clichy


Come nascono le medicine (1)

L'ultima volta che sono andato dal dottore mi ha dato tante medicine che, una volta guarito, sono stato male per un mese intero”.
Così esclamava Groucho Marx.

Potrebbero dirlo in tanti anche perché s’ingozzano di farmaci e se escono da uno studio medico senza una ricetta, ma soltanto con buoni consigli, si sentono defraudati.
Nel rapporto pubblicato a gennaio 2015 dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) si legge che nei primi nove mesi del 2014 la spesa per i medicinali acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche è stata pari a 108,8 euro pro capite, in crescita del +5,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; in media ogni giorno sono utilizzate 159,4 dosi ogni mille abitanti in aumento del +4,3% rispetto all’anno precedente.
Siamo, quindi, un popolo vorace di farmaci anche se esiste pure, innegabilmente, una “povertà farmaceutica”, persone che non possono permettersi di spendere per la propria salute così come evidenzia una ricerca della Fondazione Banco Farmaceutico che nota come per determinate patologie, come quelle di natura psichiatrica (la cui incidenza negli ultimi decenni è aumentata) molti farmaci non sono coperti dal Ssn.
Insomma, chi può spendere, o ricevere assistenza dal Ssn, consuma troppo, e chi è in difficoltà economiche talvolta non ha sufficiente copertura sanitaria.
Peggio non potrebbe andare.

Ma come arrivano in farmacia i circa 13.000 tipi di medicamenti? Come sono testati? Chi li approva? Fino a quale punto possiamo fidarci della loro efficacia?
A queste e a tante altre domande, scientifiche e commerciali, risponde in modo chiaro un libro pubblicato da Zanichelli nella preziosa collana Chiavi di lettura diretta da Lisa Vozza che è anche coautrice con Maurizio D’Incalci del volume intitolato Come nascono le medicine La scienza imperfetta dei farmaci.

Maurizio D'Incalci, dirige il Dipartimento di Oncologia dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. Il campo della sua ricerca è la farmacologia di composti antitumorali, ha contribuito all'identificazione, allo studio del meccanismo d'azione e allo sviluppo preclinico e clinico di diversi farmaci che sono oggi utilizzati nella terapia clinica dei tumori. E' autore di 475 pubblicazioni scientifiche e numerosi capitoli di libri, è nel comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, nel comitato scientifico dell'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), di diverse altre fondazioni e comitati etici di istituti scientifici nazionali ed esteri.

Lisa Vozza, Chief scientific officer presso l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro (AIRC), è una scrittrice e curatrice di libri di divulgazione scientifica. Per AIRC fa in modo che ogni progetto sottoposto all'Associazione sia valutato da almeno tre scienziati, scelti per competenza in un gruppo di circa 600 revisori internazionali. Per Zanichelli ha scritto nel 2007 “Nella mente degli altri” con Giacomo Rizzolatti; nel 2009 “I vaccini dell’era globale” con Rino Rappuoli nel 2009 (Premio letterario Galileo 2010).
In passato ha lavorato per le edizioni europee di Scientific American.
“Piccoli equivoci fra noi animali” è in preparazione per il 2015 con Giorgio Vallortigara.
Il suo blog Biologia e dintorni riscuote successo sia presso gli insegnanti sia presso gli studenti.

Segue ora un incontro proprio con Lisa Vozza.


Come nascono le medicine (2)

A Lisa Vozza – in foto – ho rivolto alcune domande.

Il sottotitolo del vostro libro recita “La scienza imperfetta dei farmaci”.
Perché quella scienza è imperfetta?

Tutte le scienze sono imperfette per definizione, soggette sempre a risultati incerti e provvisori. La scienza dei farmaci lo è di più perché opera su un corpo, quello umano, che non ci viene consegnato come una macchina progettata da un ingegnere, con le istruzioni per la riparazione dei guasti. In verità non sappiamo neppure molto di quel corpo quando è sano. Poi non c'è un corpo uguale all'altro, né una malattia uguale all'altra. E quindi i farmaci, che con quei corpi devono interagire, non sono soltanto difficili da inventare, ma anche da interpretare. L'effetto che vedo dipenderà dal farmaco, dalla storia naturale della malattia o dall'effetto placebo o nocebo? La statistica aiuta un po': se vedo lo stesso effetto ripetuto tante volte, in un grande numero di persone che hanno la stessa malattia, senza grandi effetti tossici, qualcosa vorrà pur dire di buono. Si tratta però di approssimazioni, tentativi, stime. Mai di certezze.

È vero o è falso che i farmaci generici sono meno buoni dei farmaci di marca?

È falso. La cattiva fama è dovuta soprattutto al nome infelice, che suscita sfiducia. Da poco rinominati «equivalenti», avranno più fortuna? Perché sono proprio uguali per legge, a parte gli eccipienti: contengono infatti la stessa dose dello stesso principio attivo e funzionano nello stesso modo, ma costano almeno il 20% in meno del prodotto di marca. Si possono produrre dopo che è scaduto il brevetto del farmaco di marca: da quel momento ogni azienda ha diritto di produrre e commercializzare il farmaco generico la cui proprietà intellettuale non è più protetta. In Italia i farmacisti sono obbligati a proporre la versione generica di un farmaco che ha il prezzo più basso e questa scelta sta portando il nostro Sistema sanitario nazionale a risparmiare cifre importanti.

Fidarsi, o non troppo, della trasparenza dei dati sugli studi clinici?

Quando sono trasparenti c'è probabilmente da fidarsi. Il problema è che trasparenti gli studi clinici lo sono un po' negli Stati Uniti, dove la FDA (Food and Drug Administration) può permettere l’accesso alla documentazione su un farmaco dopo avere valutato le motivazioni di chi ne fa richiesta; in Europa invece i dossier presentati alla European Medicines Agency (EMA) sono segreti, per evitare problemi di concorrenza sleale. L’iniziativa AllTrials, guidata dall’epidemiologo inglese Ben Goldacre, si batte per la pubblicazione obbligatoria dei risultati di tutte le sperimentazioni cliniche autorizzate, incluse quelle che hanno ottenuto dati negativi. Un'utopia? Forse.

Ho letto che un altro problema è l'immensità della documentazione…

Sì. Ad esempio, nel 2013 una grande azienda farmaceutica americana ha presentato la richiesta di approvazione per un sonnifero alla FDA. La richiesta, in formato elettronico, pesava la bellezza di 41 gigabyte (tutti i testi di Wikipedia stavano, sempre nel 2013, in 9,2 gigabyte!). Pur potendo accedere alla documentazione, chi mai potrà farsi un'idea coerente e completa, e in un tempo ragionevole, di tutto quello che sta là dentro?

È lecito chiedersi che senso abbia questa documentazione più che enciclopedica.?

In parte è una tutela che cercano le aziende farmaceutiche e gli enti regolatori contro ogni incognita. Un tentativo comprensibile anche se irrazionale, perché nessuno studio potrà mai individuare tutti gli effetti rari di un farmaco. Dietro questa ricerca affannosa di ogni eventualità c'è però l'ansia di ognuno di noi. Dopo tutto, quelle regole severe di approvazione dei farmaci ce le siamo date noi, come società. Da sani vogliamo infatti farmaci perfetti, che guariscano e non lascino traccia alcuna del loro passaggio. Da malati però vogliamo farmaci subito, anche se imperfetti, perché non possiamo aspettare. E allora, come la mettiamo? È un po’ come volere la botte piena e la moglie ubriaca: dobbiamo decidere che cosa è più importante. E riflettere sulle nostre contraddizioni di mammiferi paurosi e “impazienti”.

Pur essendo il nostro un popolo di accaniti consumatori di farmaci allopatici, è diffusa la convinzione che l’omeopatia abbia il vantaggio, rispetto alle altre cure, di non essere pericolosa; consigli omeopatici, infatti, sono presenti spesso nei media, anche talvolta con rubriche fisse. L’omeopatia… crederci?

Che i prodotti omeopatici siano o non siano pericolosi nessuno lo sa e nessuno lo può dire perché non sono testati. E non sono testati perché, da quel poco che si sa, non contengono alcun principio attivo da testare. Secondo i principi della teoria, i prodotti omeopatici dovrebbero contenere infatti una diluizione talmente estrema del principio attivo da non racchiudere nulla se non eccipienti. Arrivano quindi in farmacia senza alcuna verifica sulla loro presunta efficacia, sicurezza e contenuto. Se però una persona malata che ha bisogno di cure prende un medicinale omeopatico, anziché un farmaco efficace che potrebbe risolvere il suo problema, la sua situazione curabile può aggravare, a volte addirittura fino alla morte per mancanza di cure adeguate.

Maurizio D’Incalci
Lisa Vozza
Come nascono le medicine
Prefazione di Silvio Garattini
Pagine 230, Euro 12.90
Zanichelli


A lezione di razzismo (1)

È in corso, fino all’otto marzo, al Museo Ebraico di Bologna la mostra A lezione di razzismo Scuola e libri durante la persecuzione antisemita in Italia.
È curata da Pamela Giorgi primo ricercatore dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) di Firenze e da Giovanna Lambroni, storica dell’arte e borsista della Fondazione fiorentina Ambron Castiglioni, nonché, in questa edizione, da Vincenza Maugeri (direttrice del Museo bolognese).
Tutti i materiali esposti provengono dall’Archivio storico dell’Indire; da Pamela Giorgi, in questo video è tracciata, in sintesi, una storia dell’Archivio.
Con le date presenti, siamo alla terza edizione della mostra che, in seguito, conoscerà una nuova tappa al Museo Ebraico di Firenze.
Tra i numerosi documenti esposti al pubblico, figurano, oltre ai Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 5 settembre 1938, i registri di classe della scuola elementare “Regina Elena“, che testimoniano l’esclusione dei bambini ebrei dall’istituto fiorentino: conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze, i registri sono riproposti insieme a quaderni e album dei piccoli studenti negli anni del fascismo, tra cui anche quelli di alcuni alunni ebrei alla vigilia delle leggi razziali che fanno parte del fondo Materiali scolastici dell’Archivio Storico dell’Indire.

Ecco un avvenimento – risultato dalla fruttuosa collaborazione tra Indire e Fondazione Ambron Castiglioni – che raccoglie quel monito di Primo Levi il quale, in “Se questo è un uomo”, scrive: L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria. Avvenimento di grande rilevanza civile che centra due volte l’obiettivo: perché riflette su com’è possibile diffondere disprezzo e ostilità proprio nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza in cui è più facile impadronirsi dei cervelli; perché è proposto in un momento in cui c’è un riacutizzarsi del razzismo e del negazionismo.
Dietro la documentazione esposta – sorridenti fumetti, colorate pagine di libri scolastici – c’è il ghigno di astuti manipolatori ben coscienti di ciò che progettavano e realizzavano.
Altro merito della mostra consiste nel riflettere su responsabilità italiane. La politica antisemita, infatti, è spesso confinata nella Germania hitleriana quasi non fossero esistite in Italia le leggi razziali determinando la perdita dei diritti civili per 58mila nostri connazionali, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio 1938, firmato da 10 scienziati italiani (i nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari), sorretti da altre 329 firme; per sapere come agirono consiglio la lettura del volume di qualche anno fa "I dieci" scritto da Franco Cuomo che così conclude le pagine: Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono. In prima persona. Perché lo furono.

Segue ora un incontro con Pamela Giorgi.


A lezione di razzismo (2)

A Pamela Giorgi - in foto - ho rivolto alcune domande.

Su quali sentimenti fece prevalentemente leva il fascismo per suggestionare le scolaresche?

Già due anni prima della guerra di conquista dell’Etiopia il regime si era alacremente adoperato nella propaganda: iniziata in corrispondenza dell’apertura dell’anno scolastico e conclusasi poi con la fine dello stesso, quando il 9 maggio 1936 si erano celebrati i festeggiamenti per la vittoria del’Impero. Cito questo fatto per portare un esempio di quell’azione pedagogica formidabile adottata dal regime fascista per inculcare un sentimento razzista negli alunni: vittime non erano ancora gli ebrei, ma i sudditi delle colonie.
Nei fumetti (come il celebre ‘Il Balilla’), nelle copertine dei quaderni di scuola, nelle illustrazioni dei diari scolastici, nei libri di testo e di lettura sono molteplici le immagini dell’ariano fascista, civile, acuto e laborioso, in contrapposizione all’africano selvaggio e indolente. Uno per tutti, il piccolo ‘Pancetta nera’ riprodotto su delle vignette nelle copertine dei quaderni e protagonista della saga che lo vedeva ‘adottato’ da un gruppo di camice nere che si impegnavano ad educarlo e renderlo migliore.
Si trattò di un modello pedagogico martellante e teso ad esaltare la superiorità della stirpe, del genio italico e della religione cristiana
.

Quali furono i media di allora più usati nella campagna antisemita? Si conoscono oggi, e come operarono, gli autori di quei testi tesi a diffondere il razzismo?

L’azione razzista e, poi, quella specificatamente antisemita non si limitarono alla legislazione contro il ‘meticciato’ e poi contro gli ebrei, giungendo alla loro espulsione dalla scuola come da tutte le pubbliche istituzioni e alla ‘bonifica’ degli autori ebrei dal mondo editoriale. La politica razziale fu veicolata, anche, con una serie di modalità che videro coinvolti: i percorsi scolastici, i libri di testo (a onor del vero occorre segnalare un primo esordio di razzismo coloniale già negli anni Ottanta dell’Ottocento, con l’idea della civilizzazione delle razze ‘inferiori’), la letteratura e i periodici per l’infanzia, la radio (si ricorda che nel 1933 era nato l’ente Radio Rurale, grazie ad esso tutte le scuole furono dotate di un apparecchio a prezzo imposto destinato alle zone di riunione collettiva e alle scuole) e il cinema.
Quanto agli autori dei testi, certo, si conoscono e sono numerosi. Essi operarono per rafforzare il sentimento razzista, esaltando la storia, la cultura, la religione, il corpo degli italiani a scapito di tutti i ‘diversi’. Recitava “Il secondo libro della razza” rivolto alle quinte classi elementari:
“L’evidente inferiorità di alcune razze specialmente quella che si è convenuto di chiamare negroide […] Secondo la loro indole inalterabile, gli ebrei, pur essendo in Italia un’infima minoranza, mirarono tenacemente a minare la coscienza nazionale…”. E così via in moltissimi altri testi divulgati tra i fanciulli ed i giovani.

Trovi che ci fu colpevole ascolto da parte degli insegnanti a quella campagna oppure si trattò di sottovalutazione e lassismo all’italiana?

Furono numerosi gli insegnanti che, rispondendo alle sollecitazioni dei loro presidi e in ottemperanza alle circolari ministeriali che si susseguivano, spinsero l’acceleratore sullo svolgimento di temi di tipo marcatamente razziale. Il fine era quello, producendo la definizione dell’Altro, di rafforzare l’unità della Nazione fascista. E’ difficile scindere questi aspetti didattici da quelli più strettamente persecutori.
Di sicuro, anche quando non assolutamente allineato e complice, l’atteggiamento del corpo insegnante fu molto conformista e si distaccò poco dalle direttive del regime.
Non lo voglio dire io, cito al proposito le parole di un ex alunno insigne della scuola italiana di quegli anni, Don Lorenzo Milani:
“Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri si erano dimenticati di dirci che gli Etiopici erano migliori di noi, che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini […] Quella scuola vile, preparava (consciamente o inconsciamente) gli orrori di tre anni dopo […] preparava milioni di morti.
Parole contenute in "Lettera ai giudici".

Per lungo tempo, dopo la fine della guerra, in Italia, ci fu silenzio sulla storia del fascismo e sulle sue malefatte. Poi, dapprima in Francia, poi in altri paesi – Italia e Germania fra le prime – si è profilato – sul tema antisemita, un negazionismo sempre crescente.
In questo fenomeno, ci vedi l’eco di quei lontani insegnamenti razzisti o pensi che altre, e nuove, siano le ragioni e le fonti su cui indagare per capire quest’allarmante rigurgito?

Con la tua domanda cogli un punto centrale del ragionamento fatto con l’altra curatrice della mostra, Giovanna Lambroni (quando quasi due anni fa abbiamo dato il via al nostro progetto): visualizzare bene le origini complesse dei processi di esclusione, come fa la nostra mostra, aiuta forse a comprendere come questi non nascano in un attimo né, forse, scompaiono davvero all’avvicendarsi dei regimi. I fatti contemporanei dimostrano che l’aggressione alle minoranze, il mancato rispetto verso l’escluso e il diverso si annidano anche all’interno del nostro Occidente di oggi, che ha costruito la sua identità sui valori di dignità umana, libertà, democrazia e uguaglianza.

A Lezione di razzismo
Museo Ebraico di Bologna
Via Valdonica 1/5
Per prenotazioni e visite guidate per le scuole:
Patrizia Panigali - Aula didattica MEB
didattica@museoebraicobo.it
tel (+39) 051.6569003; fax (+39) 051.235430
Fino all'8 marzo
Ingresso libero


Storia di un marsigliese


Il marsigliese è Jean-Claude Izzo (Marsiglia, 20 giugno 1945 – ivi, 26 gennaio 2000) autore della trilogia (“Casino totale”, “Chourmo”, “Solea”) che ha come protagonista l’investigatore (poliziotto nel primo romanzo) Fabio Montale, e d'altri due titoli: “Marinai perduti” e “Il sole dei morenti”.
Di questo straordinario scrittore (anche poeta, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore) ne abbiamo un’accurata biografia in un libro, appassionato e lucido al tempo stesso, scritto da Stefania Nardini e intitolato senza cosmesi proprio Jean-Claude Izzo.
Questo volume è apparso nel 2010 presso Perdisa, ed è ora ripubblicato in un’edizione aggiornata dalle edizioni e/o che di Izzo hanno stampato anche la raccolta di racconti “Vivere stanca” e gli scritti inediti “Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo”
Stefania Nardini, giornalista e scrittrice, è romana innamorata delle due città dove ha trascorso parte della sua vita: Napoli e Marsiglia. Vive tra l’Umbria e la Francia.
Alcuni suoi racconti compaiono su internet, riviste letterarie e antologie.
È autrice di “Roma nascosta” (Newton Compton, 1984), del romanzo “Matrioska” (Pironti, 2001). Nel 2009, sempre con Pironti, “Gli scheletri di via Duomo”, noir ambientato nella Napoli anni ’70.
Le Edizioni e/o hanno pubblicato, da lei firmato nel 2013, Alcazar, ultimo spettacolo.

Jean-Claude Izzo (figlio di Gennaro Izzo, un immigrato italiano originario di Castel San Giorgio e di Isabelle, una casalinga francese figlia di immigrati spagnoli) è legato, come più non si potrebbe, a Marsiglia di cui dice: “Marsiglia non è una città per turisti. Non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c'è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l'eroe è la morte"
Uomo dagli amori tumultuosi, notevole in lui fu pure la passione politica che lo vide intrecciare complessi e polemici rapporti con la Sinistra francese: dapprima tra i pacifisti cattolici di Pax Christi, poi, nel Partito Socialista Unificato, e, infine, iscritto al Partito Comunista Francese con il quale ruppe nel 1978.
Pur essendo largamente definito autore noir, alcuni avanzano l’ipotesi (come di recente, ad esempio, Luciano Del Sette su “il Manifesto”) che tale definizione non calzi fino in fondo a Izzo. La sua scrittura avrebbe una valenza che supera i “generi”. Il giallo e il nero sarebbero usati da quest’autore come efficacissimo pretesto stilistico più che come preferenza di scelta espressiva.
Sia come sia, leggendo Izzo si ha l’impressione d’ascoltare quei racconti nei bar notturni dove accanto alla verità c’è qualche innocente bugia, il protagonista di quelle narrazioni, fra un bicchiere e l’altro, però è sempre una creatura che osserva una vita addolorata.
Biografia di Izzo, scrivevo in apertura a proposito del libro di Stefania Nardini, ma biografia che scorre su accurati fondali di contesto storico e culturale che meglio fanno capire gli anni che lo scrittore francese attraversò. Ecco un esempio: Nel 1929, quando Gennaro Izzo partì, George Simenon, che fino allora firmava con uno pseudonimo, aveva pubblicato il primo romanzo con protagonista Maigret, il commissario della polizia di Parigi. André Breton, invece, aveva già inventato il surrealismo, e Jacques Prévert ammaliava il mondo con la sua banda, meglio conosciuta come “Saint Germain des Prés”.
Il libro – intercalato da illustrazioni di Ivana Stoyanova – è impreziosito da alcune poesie di Izzo tradotte per la prima volta in Italia e alcuni brevi testi in prima pubblicazione mondiale.

Stefania Nardini
Jean Claude Izzo
Illustrazioni di Ivana Stoyanova
Pagine 160, Euro 14.00
edizioni e/o


Contro (la) natura


Tempo fa intervistai il filosofo ed epistemologo Gilberto Corbellini e gli chiesi perché sono in tanti a esaltare il “naturale”, dal cibo alle medicine.
Mi rispose: "Questa idea o percezione è un autoinganno, nel senso che la nostra mente è naturalmente predisposta a farci credere che il passato fosse meglio del presente. O che quel che è giudicato “naturale” sia per definizione superiore o più buono e giusto. Il che non è vero, da nessun punto di vista, e basterebbe conoscere un po’ di storia per rendersene conto. Vogliamo discutere e mettere a confronto le condizioni di vita oggi nei paesi sviluppati (ma anche in quelli sottosviluppati) rispetto anche soltanto a mezzo secolo fa, in termini di mortalità infantile, aspettativa di vita alla nascita o a qualunque età, disponibilità di cure mediche, alfabetizzazione, tassi di omicidio, benessere economico, libertà individuali, eccetera? E più si va indietro nel passato, cioè alle condizioni di vita più vicine alla cosiddetta Natura, più il paragone diventa insostenibile”.
Già, perché se oggi stiamo meglio lo dobbiamo proprio a quanto siamo riusciti a fare, attraverso scienza e tecnologia, dominando aspetti della Natura che ci conducevano (o ci conducono) in sciagure.
Eppure parecchi, semmai edificando sulle spiagge, votando per inquisiti, torturando gli animali per sperimentare nuovi cosmetici, si appellano alla natura.
Altri ancora (telefonino all’orecchio e telecomando in mano) piangono lacrime su improbabili tempi andati, dove tutto era, manco a dirlo, naturale.
Articoli, convegni, programmi radiotv, chiacchiere al bar, esaltano tutto quanto è “naturale”.

Un libro che di questo tema tratta lo ha pubblicato Marsilio, ed è intitolato Contro (la) natura Perché la natura non è buona né giusta né bella.
Ne sono autori Chicco Testa e Patrizia Feletig.
Chicco Testa è un manager che è stato segretario nazionale e presidente di Legambiente ed ex presidente di Enel. Giornalista pubblicista, interviene su numerosi quotidiani italiani dal «Corriere della Sera» al «Il Sole 24 Ore». È autore del libro “Tornare al nucleare? L'Italia, l'energia, l'ambiente” (Einaudi 2008; nuova edizione aggiornata, con Patrizia Feletig, Baldini Castoldi Dalai 2010) e del pamphlet ebook “Chi ha ucciso le rinnovabili? (con Giulio Bettanini e Feletig 2013).
Patrizia Feletig è laureata in Economia e Commercio. Dopo esperienze nella finanza si è occupata di comunicazione collaborando con giornali, radio e tv.

Come scrivevo righe sopra, le pagine di “Contro (la) natura” affrontano lo strano convincimento che tutto ciò che è naturale è buono, tutto il resto cattivo o da diffidare. Questo libro è uno di quelli che spiega perché tale convinzione è profondamente errata. Spinge a considerare, ad esempio, gli errori di chi giudica i cibi geneticamente modificati nemici dell’umanità. E qui ricordo anche le parole di un grande scienziato dei nostri giorni qual è Umberto Veronesi: “Gli ostracismi alle staminali, alla fecondazione assistita e agli Ogm mi fanno paragonare questi nostri anni al Seicento, quando al genio di Newton, Cartesio e Galileo si affiancò una profonda regressione culturale. Tanto per fare un esempio furono mandate sul rogo migliaia e migliaia di donne accusate follemente di stregoneria. Oggi non bruciamo più le donne, ma in tv sono tornati gli esorcisti, la superstizione”.
Testa e Feletig, in modo caustico, ricordano tanti scriteriati comportamenti in tal senso, come la medicina new age che rasenta il farsesco “… quando non si rifà addirittura al mesmerismo – pratica che pretendeva di guarire sbloccando il fluido magnetico in circolazione nell’organismo (sbeffeggiata persino nell’opera mozartiana ‘Così fan tutte’) – sconfina in genere in rituali esoterici o si avvicina all’indottrinamento mistico”.
Posso testimoniare al proposito che sono raggiunto spesso da una newsletter che si chiama, con involontaria comicità, “Non Terapia”.
Ancora un illuminante passaggio dalle pagine del volume col quale mi piace concludere questa nota: Voi potete amare la natura, ma la natura non ama voi. Nemmeno vi odia sia chiaro. I sentimenti non le appartengono.

Chicco Testa
Patrizia Feletig
Contro (la) natura
Pagine 128, Euro 10.00
Marsilio


Fisica per non fisici

Ha scritto Fernando Pessoa: “Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo. Il fatto è che pochi se ne accorgono”.
Colpa degli studenti? Forse. Ma anche responsabilità d'insegnamenti paludati e astratti che fanno apparire le scienze come lontane dal mondo in cui viviamo.
La Fisica, ad esempio, propone una delle più affascinanti avventure del pensiero umano con ampie ricadute su quanto facciamo (oppure pensiamo se sia o no possibile fare): da un viaggio in mongolfiera ai viaggi nel tempo, dai risultati dell’osservazione del malcerto passo di un ubriaco alla sorte del punteggio nel lancio dei dadi.
Se incontriamo, quindi, qualcuno che stuzzicando la nostra curiosità e spiegando in modo sintetico e chiaro certi contenuti, ecco che la Fisica diventa amica e non una tortura mentale.
Un libro eccellente in tal senso l’ha pubblicato l’Editore Salani, è intitolato Fisica per non fisici.
L’autore è Guido Corbò che, dopo il successo avuto con Il fisico in salotto propone ai lettori questo suo nuovo lavoro centrando ancora una volta l’obiettivo di rendere comprensibile con semplici, efficaci, esposizioni, cose complesse, illustrandole talvolta con un pizzico d’umorismo.
L’autore insegna Fisica Generale all’Università La Sapienza di Roma dove, presso il Dipartimento di Fisica, svolge la sua attività di ricerca nel campo della fisica teorica delle alte energie.
Ha al suo attivo pubblicazioni sulle maggiori riviste internazionali specializzate nel settore; ma si è anche interessato d’informazione e divulgazione scientifica collaborando a quotidiani come Il “Corriere della Sera”, alla trasmissione televisiva di Piero Angela “Quark”, e come dimostrano i suoi più recenti titoli pubblicati da Salani. Fisica a parte, è pilota sportivo e appassionato velista.
Fisica per non fisici è strutturato in tre parti.
La prima riguarda la “fisica classica”; la seconda è dedicata alla “meccanica quantistica”; la terza è riservata alla “Teoria della Relatività”.
A Guido Corbò ho rivolto alcune domande.

Tanta parte del nostro mondo concettuale e sensoriale è governato dalle cosiddette scienze dure. Matematica, Fisica, Chimica. Ma non sono soltanto i giovani studenti ad arretrare di fronte ad esse, sono temute, sgomentano parecchi, pure molti adulti.
Perché? Quali le origini di quel timore?

Credo che il motivo risieda principalmente nel fatto che l'apprendimento di queste scienze richiede molto studio e capacità di ragionare. Spesso le persone sono spaventate e imbarazzate all'idea di dover mettere alla prova le loro capacità intellettuali e allora preferiscono occuparsi di argomenti sicuramente più semplici. In più c’è da dire che, soprattutto nella cultura italiana, le materie scientifiche sono spesso considerate aride, incapaci di fornire un vero arricchimento spirituale. Ciò non stimola certamente l’interesse per tali materie.

Perché in Italia abbiamo ben pochi divulgatori nelle materie scientifiche, e pochissimi veramente in gamba?

I risultati che si ottengono con la ricerca scientifica sono i titoli principali per progredire in una carriera accademica; quindi anche brillanti studiosi non si occupano della divulgazione che per loro sarebbe un’"inutile" perdita di tempo.

Da esperto in comunicazione scientifica, dedicata specialmente a noi meno provvisti di conoscenze della fisica, può spiegare in sintesi la differenza tra la visione relativistica e quella quantistica?

La Relatività e la meccanica quantistica sono gli schemi attraverso i quali possiamo descrivere e interpretare una grande quantità di fenomeni. Si tratta di due distinte teorie: la relatività riguarda fenomeni nei quali, in un modo o nell'altro, sono coinvolte velocità prossime a quella della luce; la meccanica quantistica descrive quello che succede nel mondo dell'infinitamente piccolo: quello degli atomi e delle particelle elementari. D'altra parte, in questo mondo atomico e subatomico, si verificano fenomeni nei quali intervengono velocità elevatissime; ed ecco che per descrivere tali fenomeni è necessario l'intervento della relatività. In questo senso possiamo dire che le due teorie si completano a vicenda. Così, nell'ambiente scientifico, si sente parlare di "meccanica quantistica relativistica".

Uno dei maggiori campi di ricerca dei fisici teorici è la fusione delle due teorie. E’ possibile o impossibile, a suo giudizio, conseguire quel risultato?

Nella risposta precedente mi riferivo a quella che viene comunemente chiamata relatività ristretta, formulata da Einstein nel 1905. Quella che necessita ancora di essere messa in accordo con le previsioni della meccanica quantistica, è la relatività generale, anch'essa elaborata da Einstein e pubblicata nel 1916. Questa è di fatto la teoria della gravitazione che amplia quella elaborata da Newton verso la fine del Seicento. Ebbene, ancora non è chiaro come possano essere descritti i fenomeni quantistici della gravitazione. Riuscire a formulare la cosiddetta gravità quantistica è uno dei più interessanti e difficili problemi che vengono attualmente affrontati da molti fisici teorici. Ovviamente non sappiamo se e quando avremo la soluzione di questo problema. Allo scopo, come concludo nel mio libro, occorre seguire la via di un intenso studio sostenuto da una grande passione!

Guido Corbò
Fisica per non fisici
Pagine 263, Euro 16.00
Disponibile in e-Book Euro 9.99
Salani Editore


La stenografa


Il libro che presento oggi – ed è obbligatorio ringraziare l’Editrice Piemme per averlo pubblicato essendo un grande documento storico – nasce da un’indignazione.
Per alcuni decenni l’autrice Vivien Spitz (1924 – 2014) si è portata dentro l’orrore cui dettagliatamente era stata costretta a conoscere perché stenografa in vari processi celebrati a Norimberga. Poi si è trovata di fronte i negatori dell’Olocausto e da allora ha speso i restanti anni della sua vita a testimoniare su giornali, radio, tv, aule universitarie, quanto conosceva delle turpitudini esercitate su prigionieri di guerra, oppositori politici, disabili, ebrei, zingari, omosessuali.
In particolare il volume La stenografa racconta quanto venne fuori delle atrocità commesse dai medici nazisti nei campi di concentramento.
Com’è possibile che donne e uomini che avevano prestato il giuramento di Ippocrate compissero tante nefandezze rivelatesi del tutto inutili ai fini scientifici?
C’è una tremenda data – spiega l’autrice – all’origine del massacro. Dopo la presa del potere di Hitler nel 1933, fu autorizzata una “Corte Superiore per la Salute ereditaria”.
Così ebbe inizio il degrado della medicina tedesca, le diaboliche sperimentazioni, l’assassinio di migliaia di persone. Molti crimini (specialmente sterilizzazioni senza consenso), quindi, risalgono a ben prima del periodo bellico, quando il 15 ottobre 1939 Hitler ordinò la Gnadentod (“morte misericordiosa”) e si ebbe l’uso del gas per la prima volta a Poznan in Polonia. Già tre anni prima psichiatri e medici d’altre specializzazioni avevano praticato cose orribili.
Per scrivere La stenografa, Spitz ha lavorato su una trascrizione riassunta delle 11.538 pagine di registrazioni degli stenografi provenienti dagli archivi nazionali.
L’elenco delle sperimentazioni alle quali furono sottoposti uomini, donne, e bambini, è raccapricciante: simulazione di ambienti a 21.000 metri d’altezza senz’ossigeno; inoculazione di malattie quali malaria, tifo, tetano, epatite; sezionamento senz’anestesia di arti; ferite sulle quali veniva soffiato gas mostarda; giorni e giorni senza cibo con forzate bevute d’acqua di mare, e altre atrocità.
Anche se le più terribili azioni avvennero nella Germania hitleriana, anche se la sfera professionale che registrò la più alta percentuale di membri del Partito nazista fu la medicina, non è, purtroppo, soltanto in terra tedesca dov’è possibile registrare tradimenti della scienza medica al servizio di dittature.
Frederick R. Adams nel Prologo alle pagine di Vivien Spitz ricorda che nel libro “Medicine Betrayed”, sponsorizzato dalla British Medical Association nel 1992, sono segnalati (oltre a quelli già noti del periodo staliniano) nuovi “abusi psichiatrici in Unione Sovietica, in Romania e a Cuba, dove i dissidenti politici erano considerati malati mentali da internare”. Inoltre sono ricordate violenze praticate da medici in Giappone perpetrate a danno di persone dai comportamenti non coerenti con le correnti abitudini e gli usi comuni, vengono citate amputazioni punitive fatte da altri medici in conformità a leggi islamiche.

Nella Prefazione, scrive il Premio Nobel Elie Wiesel che conobbe l’autrice: “Quando penso ai medici nazisti e ai carnefici medici, perdo la speranza. Per riacquistarla nuovamente penso agli altri, a quei medici-vittime. Rivedo i loro sguardi ardenti, i loro volti lividi. Perché alcuni seppero onorare il genere umano, mentre altri vi rinunciarono con disprezzo? Si tratta di scelte. Una scelta che appartiene ancora a noi, ai soldati in uniforme e ancora di più ai medici […] Sono forse troppo ingenuo nel credere che la medicina sia ancora una professione nobile che sostiene i più alti principi etici? Per gli ammalati, i medici rappresentano ancora la vita. E per tutti noi, la speranza.

Vivien Spitz
La stenografa
Prefazione di Elie Wiesel
Prologo di Frederick R. Abrams
Traduzione di Martina Lunardelli
Pagine 364, Euro 17.50
E-book Euro 9.99
Edizioni Piemme


A proposito di paesaggio

Tra le novità apportate da Franco Iseppi (in foto) da quando ha assunto la presidenza del Touring Club Italiano c’è quella di pubblicare all’inizio di ogni anno un librino, con temi legati al viaggio e all’ambiente presenti nell’imponente archivio di scritti di cui è fornito il Club.

Nel 2010: Italo Calvino, Castelli di delizie e castelli del terrore;
Nel 2011: Valentino Bompiani, Le “cose assenti”;
Nel 2012: Dino Buzzati, Grandezza e miseria dei viaggi;
Nel 2013: Giulio Carlo Argan, Roma - le ragioni di una visita.
Quest’anno è stato pubblicato un dittico dal titolo A proposito di paesaggio; il primo brano è un redazionale che (il lettore viene avvertito) si deve a Umberto Bonapace, geografo e curatore per il Touring della serie “Capire l’Italia” del 1977.
Il secondo scritto è uno stralcio dalla stessa serie firmato da Paola Sereno nel 1981.

Scrive Iseppi nella presentazione: Dedichiamo, quest’anno, il nostro piccolo “non libro” al paesaggio, data l’importanza del tema in sé e considerato il rilievo che sta assumendo nella coscienza collettiva per come, indipendentemente dall’insieme delle normative in vigore, viene mortificato, abbandonato distrutto e disastrato con tutte le relative conseguenze […] I due testi che presentiamo, scorrevoli e pacati, ci ricordano che il paesaggio, come più volte osservato, è per lo più opera dell’uomo che da sempre vuole soddisfare le sue esigenze. È avvenuto per millenni e può continuare ad avvenire se ogni intervento è sorretto da una adeguata consapevolezza culturale e ispirata al bene comune delle attuali e future generazioni. I due testi qui pubblicati sono anche augurali. Nel 2014, purtroppo, sembrano avere il colore dei sogni e il sapore dell’utopia, anche se, volendo, un’altra Italia è ancora possibile.

A proposito di paesaggio
Touring Club Italiano
Pagine 24, s. i. p


La lingua restaurata


Con una bella copertina appositamente ideata da Emilio Isgrò, con il suo famoso stile abrasivo, la casa editrice Manni presenta il più recente libro di Valerio Magrelli intitolato La lingua restaurata e una polemica con un’altra dizione che scrivo in corsivo come un sottotitolo ma che proprio tale non è: Otto sonetti a Londra.
Magrelli è fra i massimi poeti contemporanei; traduttore finissimo (due esempi per tutti: Le nozze di Figaro e Dove lei non è). Autore di grandi prose, per ricordarne alcune: indagatore di pagine inquiete in Nero sonetto solubile); protagonista di se stesso fra luci al crepuscolo come in Addio al calcio, come nello straordinario Geologia di un padre.
Nel 2002 l'Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli.

Costretto a viaggiare (si legga La vicevita o allorché osserva quelli del Gran Tour che attraversano Roma in Magica e velenosa) viene da chiedersi: è Magrelli un viaggiatore? Non so. Ma il viaggio lo intriga. Il turismo proprio no.
La lingua restaurata è un libro anfibio che attraversa i territori della prosa, del teatro e della poesia; "libro-ornitorinco" (copyright Carlo Boccadoro).
Gli spunti che s’intersecano sono un viaggio a Londra, un dialogo con Machiavelli e otto sonetti che raccontano la storia sentimentale del restauro di un dipinto del Settecento.
“Londra abbonda troppo di nebbie e di gente seria. Se siano le nebbie che producono la gente seria o se sia la gente seria che produce le nebbie non saprei dire”, scriveva Oscar Wilde. Sta di fatto che, fendendo nebbie e passando attraverso gente seria (e, forse, talvolta un po’ seriosa), Magrelli produce dodici ritratti in 3D di luoghi e personaggi londinesi con un andamento che va dalla pensosa meditazione di marca settecentesca al graffiante scatto interpretativo del fumetto.
Londra gli si manifesta tra lussi e muffe, ma anche con tanti italiani, giovani e giovanissimi, emigrati.
Da qui un dialogo con Machiavelli (era già accaduto in “Il Sessantotto realizzato da Mediaset”, ma qui con l’immaginaria figura del fiorentino è proprio Magrelli a parlare nei costumi del personaggio chiamato “Tenerissimo”) che vede intrecciarsi prosa e versi (preziosi gli acrostici PD – PDL – SILVIO). Mi piacerebbe vedere realizzato quel dialogo scenico in forma di music hall intitolato “Le Larghe Offese”, battuta appartenente a uno di quegli acrostici.
Infine i sonetti di cui vi ho riferito prima in un raffinato gioco di rimandi fra testo e traduzioni ritradotte.
Un libro scintillante, fatto di sguardi da sorpresa fanciullesca e scatti di indignatio.

Valerio Magrelli
La lingua restaurata
Pagine 94, Euro 10.00
E-book (Epub) Euro 5.99
Manni Editori


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