Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 30 settembre 2016
Fellini & Fellini (1)
Torna oggi su Cosmotaxi un vecchio amico di questo sito: Italo Moscati. L’occasione è data dall’editore Lindau che ha mandato nelle librerie Fellini & Fellini L’inquilino di Cinecittà. Moscati è regista, scrittore, lo troviamo sceneggiatore (con Liliana Cavani, Luigi Comencini, Silvano Agosti, Giuliano Montaldo), produttore (Jean Luc Godard, Marco Ferreri, Glauber Rocha), è stato direttore del Museo d’arte contemporanea Pecci di Prato, docente di Storia dei Media all’Università di Teramo, tiene corsi in atenei italiani e stranieri. Per la sua intensa bibliografia e l’altrettanto densa filmografia, cliccare QUI. Tra i volumi nel catalogo Lindau: ricordiamo “Gioco perverso. La vera storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida”; “I piccoli Mozart. Wolfie e Nanneri una storia di bambini prodigio”; “Sophia Loren. La storia dell'ultima diva”; “Sergio Leone. Quando il cinema era grande”; “Pasolini. Vivere e sopravvivere”.
Segnalo oggi la recente uscita di Fellini & Fellini L’inquilino di Cinecittà dove Moscati con il suo stile che già conoscono i suoi lettori, riesce a fare una singolare saggistica in cui sono fuse biografia dell’artista e critica. Intreccia, infatti, episodi della vita del regista con riflessioni sulla sua opera, aneddoti picareschi con lampi d’intuizioni da studioso di cinema quale Moscati è. Esemplare al proposito le pagine che in poche righe mettono in parallelo la notizia della morte del padre arrivata al regista (che sta pranzando) con il vortice dei ricordi delle fatiche vissute con “Le notti di Cabiria” e la figura paterna che apparirà nel film “La dolce vita”. Biografia e saggio: operazione, brillantemente riuscita, assai lodevole perché difficile a farsi su di un personaggio come Fellini: geniale bugiardo, inarrivabile affabulatore, surreale e icastico. Dal quarto di copertina del volume. "Negli anni infantili trascorsi nella provincia romagnola, sul mare di Rimini, quando Charlot arrivava nei cinema e conquistava tutti con le sue comiche gentili, Federico Fellini coltivava un sogno. Erano gli ultimi anni '20 e i primi anni '30. L'eco della prima guerra mondiale era ancora nell'aria, nasceva Cinecittà e con essa un kolossal, Scipione l'Africano, girato con diecimila comparse, centinaia di elefanti e cammelli nella piana di Sabaudia appena bonificata dalle paludi. La radio trasmetteva strazianti canzoni d'amore che annunciavano una dolce vita raccontata da tante commedie eleganti ambientate nei grandi magazzini appena aperti nelle città. Una prima dolce vita che morì con la seconda guerra mondiale e il suo carico di lutti. Fellini si nascose a Roma. Aveva raggiunto la capitale per fare il cinema e Rossellini, il regista di Roma città aperta, gli diede l'occasione che lo portò a girare il primo film. Più vite cominciavano, mescolandosi a quella sognata a occhi aperti che è durata carica di premi, tra cui gli Oscar, fino al 1993". Segue ora un incontro con l’autore.
Fellini & Fellini (2)
A Italo Moscati (in foto) ho rivolto le domande che seguono. Che cosa Fellini principalmente ha dato al cinema italiano che fino a lui non aveva? Fellini ha dato tutto se stesso al cinema italiano e a tutto il cinema; come hanno sempre fatto i grandi ma anche i piccoli maestri della pellicola, fin dai tempi del muto. Che vuol dire, per quanto riguarda Federico, come il pubblico si è abituato a chiamarlo, confidenzialmente. Ecco il punto. La qualità felliniana sta nella confidenza, ossia di cercare se stesso attraverso i film e congiungersi con le gioie (poche) e le afflizioni (tante) degli italiani; con un’avvertenza di scelta di fondo, questa confidenza si è estesa al mondo degli spettatori - grazie agli Oscar, cinque: quattro ai film e uno alla carriera - sul piano delle riflessioni sui concreti vissuti. Ossia, le mediocrità e i sogni dei provinciali (Rimini cittadina universale) ad esempio “I vitelloni”; la bramosia dei brividi della contemporaneità, fra glamour e scandali, nella “Dolce vita”; infine, il sogno dei sogni, “Amarcord”, guardarsi negli specchi del ricordo, compiacersi, divertirsi, detestarsi e chiedere con felicità la sofferenza d’esistere. Nel mio libro “Fellini & Fellini. L’inquilino di Cinecittà”, cerco di delineare le due cittadinanze felliniane: quella passiva, decretata al cinema ci spinge nella totalità esistenziale, ma si tratta di spiccioli; quella attiva, ovvero la caccia alle storie, agli ambienti, ai temi e personaggi delle generazioni tra la prima guerra mondiale e l’approdo agli anni 90, in cui Federico morì, in cui finita la pace, finita la scoperta dell’eros gaudente, cominciava l’afflizione delle cronache contemporanee (le macerie e i corpi dei bombardamenti, terremoti amplificati dalla disumana insensatezza), lo smarrimento che si manifesta nella confusione filmica tra l’epica bellica e conflittuale dei kolossal, non solo americani, e l’epica dei migranti, barconi, corpi perduti nei mari e nei campi dei nuovi schiavi delle campagne non solo italiani. Bisogna dire che Fellini non è mai stato studiato, e approfondito in questo senso; è stato inteso come un birbante geniale, e lo è, un regista che vive in un cinema per metà vincolato al sentimentalismo abile, furbo, accattivante tipico nel nostro Paese, dominato dai media; e per l’altra metà dalla voglia celestiale di guardare tra le nuvole, cadendo nel vuoto degli slogan ideologici, politici, vacui innamoramenti delle idee di rivoluzione anticapitalista oggi impossibili in Occidente, abbracciando la generica misericordia la causa degli arrivi, senza sapere come gestirli, tra reazioni violente (i muri e non solo dei respingimenti). C’è un filo che unisce i film di Fellini? Se sì, in che cosa lo rintracci? Il pubblico occidentale, Europa e America, ama Fellini genericamente, come il poeta di una terra che è stata scoperta da Goethe e altri, ai tempi del grand tour, come un eden, un paradiso perduto, per la bellezza dei paesaggi, dell’arte e delle persone anche le più umili, nelle città e nelle campagne; il tutto nell’alone del cattolicesimo prodigioso nel perpetuare la grandezza dei papi della seconda parte del Novecento che stanno cercando di portare il mondo a Roma, mentre la Roma politica è sfigurata dal crimine e dalla trasandatezza, dall’insoddisfazione e dalla politica che balbetta. Fellini è stato scoperto all’estero dopo la seconda guerra mondiale (con le tracce del militarismo fascista, con la Liberazione degli Alleati e dei partigiani). E’ accaduto questo soprattutto grazie agli americani che si sono presentati come i principali liberatori, grazie anche al fatto che nelle truppe in Italia era forte la presenza degli italo-americani. Mentre gli aerei distruggevano parti di paesi e di città, costoro scoprivano le terre dei padri ormai inclusi nella società americani. Su queste premesse belliche e post belliche nacque a Roma la Hollywood sul Tevere, con “sbarchi” a Via Veneto, la strada della “Dolce vita” felliniana, dei grandi divi americani, da Gregory Peck a Liz Taylor. Intanto, Fellini inteneriva l’Accademia degli Oscar con “La strada”, nei primi anni 50: poesia di guitti, dolori, pene, speranze sognate, tutto quanto negli occhi di Gelsomina (Giulietta Masina, moglie di Fellini) e di Zampanò (possente Antony Quinn, “padrone” della tenera e innocente Gelsomina. Lo stile, i sensi, l’intelligenza di Fellini fu attiva e profonda. Dopo la “Dolce vita”, rendendosi conto come la capitale fosse invasa dall nuovo humus affaristico-politico, il regista con “Otto e mezzo” dimostrò di voler prendere le distanza dai film precedenti, ma era ormai diventato il riconosciuto maestro di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e gli attori anch’essi italoamericani (Bob De Niro). Federico cominciò a voltarsi e a cercare nei ricordi, ad esempio con i bellissimi “Amarcord” e “Roma” negli anni 70, la “sua” Italia viveva nel passato e in essa, deluso, incapace di immaginare un futuro. Il suo filo creativo cuciva il suo strepitoso costume di geniale clown. Italo Moscati Fellini & Fellini Pagine 268, Euro 24.00 Editore Lindau
martedì, 27 settembre 2016
Tempo & Denaro (1)
È in corso al Centro Trevi di Bolzano Tempo & Denaro” che si svolge nel contenitore chiamato Nel Cerchio dell’Arte. La mostra fino al 31 maggio 2017 accompagnerà i visitatori alla scoperta del tempo e del denaro nell’arte, da Giotto a Kentridge. Nel Cerchio dell’Arte, giunto alla sua IV edizione, è un contenitore concettuale e fisico come meglio si può notare in questo video. Offre un’esperienza sensoriale lungo un percorso tra dipinti, sculture, brani musicali, clip di film, voci, musiche, effetti sonori che avvolgono le opere prestate dal Museion di Bolzano, dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, dagli Uffizi di Firenze, da Capodimonte. Tutto per raccontare “la magia dell’arte a chi non ha avuto modo di avvicinarsi alla storia dell’arte”, come afferma Antonio Lampis direttore della Ripartizione Cultura Italiana della Provincia di Bolzano, ideatore del Cerchio dell’Arte. Curatrici di “Tempo & Denaro” sono Antonella Sbrilli e Maria Stella Bottai che incontreremo tra poco. Perché tempo e denaro? Perché sono presenze che danno ritmo e peso alla vita quotidiana dei singoli e delle collettività, ora stimolando ora angosciando. Come con raffinata ironia indica un’etimologia fantastica, esposta in mostra, creata dall’artista Maria Sebregondi, tratta dal suo “Etimologiario” pubblicato da Quodlibet: «orologio s. m. – strumento che informa delle ritmiche fluttuazioni dell’oro. Talvolta d’oro esso stesso, mirabile coincidenza tra sostanza e funzione, ci viene assegnato fin dall’infanzia affinché precocemente apprendiamo che il tempo è denaro». Nel corso dei secoli gli artisti si sono espressi – in tanti modi diversi – su queste due dorsali, a volte mescolandole, quando per esempio in un dipinto si vede una candela consumarsi mentre un cambiavalute conta i denari. Nell’arte contemporanea, il tempo entra nella natura stessa di molte opere, come video e performance che hanno una durata precisa e spesso affrontano argomenti collegati al valore del lavoro, dello scambio e del tempo stesso. La mostra al Centro Trevi si allaccia, come sentiremo fra breve, in un ponte ideale con la rassegna in corso a Roma al Museo Macro, dal titolo “Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea”. Hanno collaborato a quest’avvenimento Paolo Fenu e Nicola Mittempergher. La voce narrante della proiezione su multischermo è di Benedetta Conte. Video: Plasmedia. Postazioni interattive: Practix. “Tempo & Denaro” si avvale del patrocinio dato dal Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma e la collaborazione del MACRO di Roma. Segue ora un incontro con le curatrici.
Tempo & Denaro (2)
Come già detto nella nota precedente, Antonella Sbrilli e Maria Stella Bottai sono le curatrici di “Tempo & Denaro”. Sbrilli è professore associato di Storia dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, dove si occupa anche di Informatica per la storia dell’arte. Dal 2004 al 2006 ha coordinato la sezione Arte dell’Enciclopedia Treccani Ragazzi. Dal 2008 al 2012 è stata Presidente del corso di Laurea triennale in Studi storico-artistici. Fondatrice del vertiginoso sito web Dicono di oggi elogiato anche da Umberto Eco. Fra le sue più recenti curatele, con Ada De Pirro nel 2011, la mostra Ah, che rebus! e Dall'oggi al domani con Maria Grazia Tolomeo. Bottai, di se stessa dice: “Mi chiamo Maria Stella, ma tutti mi chiamano semplicemente Stella. Sono storica dell’arte e curatrice, dottorata alla Sapienza di Roma con una tesi sugli artisti finlandesi in Italia ai primi del Novecento. Collaboro con musei, università ed istituzioni”. Altre notizie sul suo sito web. A entrambe ho rivolto qualche domanda. Le sentirete rispondere con una voce sola, prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi. Come nasce questa mostra? Più che una mostra, “Tempo e Denaro” - come tutte le iniziative che si svolgono nel Centro Trevi di Bolzano all'interno dello spazio detto “Cerchio dell'arte” - è un complesso di esperienze proposte ai visitatori: in una sala, un grande cerchio di schermi accoglie gli spettatori al suo interno, proponendo un video multimediale avvolgente su un tema, che per l'anno 2016-17 è Tempo e Denaro; nella sezione approfondimenti e giochi, una serie di schermi e tavoli touch-screen permette di interagire in modo ludico con i contenuti connessi al video; infine - in una delle sale del Centro Trevi - si può godere dell'incontro con alcune opere originali, collegate sempre al tema. Da diversi anni – come in conferenza stampa ha spiegato Antonio Lampis ideatore dello spazio Nel cerchio dell'arte – il Centro Trevi investe nell'applicazione di novità tecnologiche che avvicinino un pubblico vasto a importanti temi culturali e artistici. L'avventura è iniziata nel 2012/13 con il progetto-pilota: un viaggio a ritroso nel tema della figura femminile così come è stata rappresentata e interpretata dagli artisti nei secoli, partendo dal contemporaneo per risalire ad epoche arcaiche. Le opere e gli artisti scelti per il video erano poi presenti nei giochi, negli esercizi di approfondimento, nelle sfide, nelle narrazioni che completavano il viaggio, insieme con due sculture, a compensare con le loro materie (legno e resine) la dimensione immateriale - ma altrettanto concreta - del video. Per l'edizione del 2016-17, la scelta del tema - come detto all'inizio - è caduta su Tempo e Denaro, due entità presenti non solo nella vita collettiva, individuale e politica, ma anche nella ricerca artistica, come diverse rassegne recenti testimoniano, da “Manifesta 11” di Zurigo, alla mostra “The Lasting”, in corso alla Galleria Nazionale di Roma, all'esposizione che hai ricordato prima: “Dall'oggi al domani. 24 ore nell'arte contemporanea” al Macro di Roma. Mostra, quest'ultima, collegata strettamente a Tempo & Denaro con un programma di scambi reali e virtuali fra le due sedi. “Tempo & Denaro” attraversa secoli di storia dell’arte, quali scelte avete operato? La scelta delle opere d'arte riprodotte nel video risponde al desiderio di coinvolgere gli spettatori in una riflessione sui punti di incontro fra queste due enormi tematiche: il Tempo, da sempre oggetto di allegorie - dalle personificazioni barocche alle danze delle ore di Poussin, o di Previati - e il Denaro, presente nel Vangelo (il tributo di San Pietro dipinto da Masaccio), alluso in diverse scene di genere fiamminghe, e presente anche in tante opere contemporanee, per esempio il dollaro di Andy Warhol. C’è anche il caso di opere in cui una candela si consuma accanto a un cambiavalute che conta i denari, a testimoniare il connubio fra le due entità. Via via che ci si avvicina al presente, il tempo entra nella natura stessa di molte opere, prima con la fotografia, poi con i film, i video, gli happening, le performance. Così come cambia l’idea del valore commerciale dell’opera d’arte. “Tempo & Denaro” non segue un ordine cronologico, ma si articola in sezioni (arte e misure del tempo; arte e lavoro; arte e finanza), in un montaggio ritmico di spezzoni di film, clip musicali, dettagli di opere pittoriche e plastiche, performance e materiali provenienti dal web. Lo schema delle giornate di lavoro negli affreschi di Giotto a Padova si collega al dipinto che Balla dedica alla giornata dell’operaio, passando per alcuni minuti del film Tempi moderni di Chaplin. Il ritmo di William Kentridge, in The Refusal of Time, dialoga con le foto delle transazioni in Borsa di Gursky e con i video delle aste milionarie dei quadri di Van Gogh. Nell’era digitale com’è cambiato il rapporto Tempo-Denaro? Come molti altri fenomeni, anche il denaro è diventato immateriale, una stringa di codice nel flusso incessante di dati. Ma anche se si parla oggi di tempo liquido e denaro virtuale, non è cambiato il loro scandire molti aspetti delle nostre vite: dalle scadenze dei pagamenti ai limiti mensili di utilizzo delle carte di credito, dai ritmi della Borsa al valore del tempo che ci si riserva fuori dalla sfera della produttività e della connessione. Diversi artisti si mostrano sensibili a queste trasformazioni, invitando - è il caso di una performance di Cesare Pietroiusti - a posare lo sguardo per alcuni minuti su delle banconote, in cambio del loro possesso, o a riflettere sulle tracce che lasciamo quotidianamente su ogni tipo di server, fra transazioni finanziarie, scadenze, impegni che raccontano la nostra giornata.
Tempo & Denaro (3)
Bolzano, delle città italiane, è fra quelle dalla più intensa attività culturale; se poi la consideriamo in rapporto alla popolazione residente di circa 100.000 abitanti, ecco che non mi sorprenderebbe che fosse la prima, e certamente fra le primissime, a figurare in Italia per offerta di arti visive, cinema, musica, teatro, ed eventi multidisciplinari. Largo merito di tutto questo va ad Antonio Lampis (in foto) Laureato in giurisprudenza presso l'Università di Trento, ha concluso gli studi con una tesi in Diritto regionale e degli Enti Locali. Ha seguito studi di management pubblico, di comunicazione sociale, economia, marketing e storia delle formazioni politiche. È direttore della Ripartizione "cultura italiana" della Provincia autonoma di Bolzano, e professore a contratto nella libera Università della stessa città, facoltà di scienze della formazione, cattedra di Marketing ed Event Management. Visit Professor all’Università Cattolica, allo IUAV, e master (TSM, DAMS). Nel tempo libero (poco) ama fare il dj. A lui ho rivolto alcune domande.
Nel decidere i suoi programmi qual è la prima cosa che stabilisce di fare e quale la prima che giudica assolutamente da evitare? Sono pur sempre un dirigente pubblico e quindi la prima cosa che considero è l'interesse pubblico e quello che cerco di evitare sono gli interessi strumentali o solo privati. Nell'organizzazione delle attività culturali ritengo prioritario allargare il ventaglio sociale delle persone che sono abitualmente in grado di confrontarsi con il lavoro degli artisti, senza mai giungere a banalizzarlo, ma comunque offrendo alcune chiavi di accesso per comprenderlo. Alto Adige per noi, Südtirol per i germanofoni, lei è riuscito a interessare e coinvolgere pubblici di due culture conviventi e diverse; quale chiave ha usato per ottenere questo successo? Qui abbiamo un livello altissimo di consumi culturali e una chiave per raggiungerli è stata quella di utilizzare in modo molto deciso la leva della comunicazione più avanzata. Inizialmente abbiamo puntato su uno shock quantitativo, poiché la quantità molto spesso è trascurata dagli operatori, sia in termini di budget sia in termini d’investimento delle risorse umane più qualificate. Molta comunicazione è stata realizzata attraverso le tecniche del marketing cosiddetto non convenzionale, come il marketing paritetico, i sistemi di guerriglia-marketing e anche attraverso una risorsa molto italiana, che è quella delle emittenti e delle tv private. Queste ultime raggiungono quella fascia di pubblici potenziali che Eurisko aveva definito "casa-lavoro-tv", cioè quel circa 20% di persone che non frequentano nessun tipo di approfondimento culturale. Per coinvolgerli abbiamo inserito aspetti d’informazione culturale qualificata e di presentazione del panorama culturale locale nei palinsesti televisivi, subito dopo il telegiornale di quartiere o provinciale che ha un picco d’ascolto molto alto, prima delle televendite o delle notti di soft porno. Inserendoci dopo il telegiornale locale a costi molto bassi, la popolazione "casa-lavoro-tv" poteva vedere trailers di teatro, reportage di mostre, poteva riconoscere il proprio territorio nelle mostre fotografiche e così via… …che cosa ha determinato quest’attività? Ha determinato un aumento dei consumi culturali molto rapido. La leva di marketing funziona se parallelamente s’inoculano momenti di apprendimento e momenti di informazione all’interno dei processi tradizionali della produzione artistica. Per meglio spiegarmi, abbiamo scoperto che una persona lascia il telecomando ed esce di casa più volentieri se ha l’idea non solo di provare delle emozioni (come arte e cultura snocciolano da secoli con grande maestria), ma contemporaneamente la possibilità d’imparare qualcosa, possibilmente in un contesto socializzante. Quando si riesce ad offrire queste due/tre opportunità nello stesso momento si ha una fidelizzazione del consumatore culturale. E’ a volte necessario modificare la relazione con "la magia dell’arte" inducendo gli artisti o qualificatissimi storyteller a raccontare, a fornire delle chiavi per entrare nelle opere, per uscire dalla stretta sequenza: “si apre il sipario, esce la cantante, arrivano le rose, si chiude il sipario”. Abbiamo costruito tanti format che partivano dai percorsi tradizionali (la mostra, la rappresentazione) introducendovi momenti di qualificato apprendimento o di informazione, anche in pillole, creando per tale via un enorme cambiamento nei consumi culturali. Ha anche giocato un ruolo importante la ricerca dell’interconnessione dei diversi interessi delle persone, per esempio portando gli sportivi alle mostre fotografiche sugli sport, i salutisti ad iniziative artistiche con sfondo in tali tematiche, favorendo cioè con ogni mezzo lo scambio di pubblici non solo tra generi artistici, ma anche tra diverse modalità di uso del tempo libero. Sono state queste tre leve, la comunicazione, l’idea di "provare un’emozione e insieme imparare qualcosa", che chiamiamo "scomposizione del modo tradizionale di presentare arte e cultura", e l’utilizzo più spesso possibile dell’"interconnessione d’interessi" che hanno contribuito ad una esplosione di consumi culturali ed anche a far sentire proprio il cambiamento a tanti cittadini. Questa è in brevissima sintesi la trasformazione di un piccolo territorio, che aveva un’enorme capitale identitario, ma molto tradizionalista, che ha una dinamica di confronto tra tre culture molto diverse caratterizzate da antiche tradizioni, ma anche da un grande bisogno di confrontarsi con la produzione culturale più contemporanea. Come nasce e come si presenta al visitatore il contenitore Nel cerchio dell’arte? I primi ragionamenti sono nati con il cognitivista Ugo Morelli ragionando sull'influenza nei meccanismi cognitivi ed in quelli di apprendimento e memorizzazione delle situazioni insolite, di scomodità, di paura. La sala immersiva e buia è stata pensata per quelle influenze. Nel cerchio dell’arte offre la possibilità di compiere inconsuete esplorazioni della storia dell’arte grazie ad avanzati sistemi tecnologici. Attraverso modalità coinvolgenti e interattive una sala circolare con un video “immersivo” racconta come la figura sociale e professionale dell’artista nel corso dei secoli ha lavorato su alcuni aspetti centrali della condizione umana. L’esperienza di “Nel Cerchio dell’arte” è costruita intorno a tre momenti: immersione, approfondimento, confronto con opere reali provenienti da importanti musei. L’immersione si ha con la videoproiezione circolare a 360° d’immagini montate in modo da poter raccontare aspetti di storia dell’arte su un tema che cambia in ogni edizione. Le immagini avvolgono completamente gli spettatori per circa 20 minuti con un forte coinvolgimento emotivo. Gli altri ambienti sono interattivi per approfondire la conoscenza degli artisti e delle opere viste nella proiezione circolare, grazie alle nuove tecnologie pensate per il pubblico adulto o composto da ragazzi. Nel Cerchio dell'Arte Via Cappuccini 28, Bolzano Tempo & Denaro a cura di Antonella Sbrilli e Maria Stella Bottai info: tel. 0471- 300 980 fino al 31 maggio 2017 Ingresso libero
lunedì, 26 settembre 2016
Lost and Found
Fra pochi giorni inaugura allo Spazio Aperto San Fedele la mostra Lost and Found del fotografo Francesco Giusti con il suo lavoro puntato su di un’aspra documentazione di realtà sociali. Curatrice è la critica d’arte Gigliola Foschi docente di Storia della Fotografia presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Di lei, Cosmotaxi segnalò qualche mese fa, un suo libro di grande spessore: Le fotografie del silenzio. In foto, uno scatto di Giusti in esposizione. Circa “Lost an Found", ecco la presentazione scritta da Gigliola Foschi. Come raccontare il dramma contemporaneo dell’esodo di migliaia e migliaia di migranti? Spesso i media ci inondano di immagini più o meno toccanti o cariche di pathos, dove si vedono sbarchi notturni sulle coste di Lampedusa o dell’isola greca di Lesbo, barconi stracarichi di persone e bambini disperati, colonne e colonne di gente in marcia… Si tratta certo di fotografie che documentano eventi tragicamente reali, ma che rischiano spesso di trasformare tali migranti in folle anonime e senza volto. Immagini che, proprio per questo, a volte vengono usate da una destra populista e senza scrupoli per fomentare la paura di una supposta invasione dell’Europa da parte di “milioni” di migranti. Anche senza prendere in considerazione l’utilizzazione impropria di tali fotografie (alcune addirittura manipolate per moltiplicare ad hoc il numero degli “invasori”) rimane il fatto che, nella maggior parte dei casi, esse non ci inducono a identificarci con tali persone perché ce le mostrano come una massa di disperati che arrivano e continuano ad arrivare senza sosta. Alla fine, sommersi da simili immagini ripetitive, rischiamo di non chiederci più chi sono queste persone in fuga, da quali situazioni politiche e sociali spaventose stanno scappando, quali viaggi terrificanti hanno dovuto intraprendere, come possiamo aiutarli a non abbandonare le loro case e l’affetto dei loro cari. Finiamo solo per domandarci quanti migranti stanno arrivando “da Noi”. Per sfuggire a questa dinamica perversa Francesco Giusti ha invece consapevolmente scelto altre vie per raccontare tali esodi. Nel 2011, in Libia – quando migliaia di lavoratori stranieri, a causa della “rivoluzione” contro Gheddafi, sono costretti a tornare nei loro paesi d’origine (tra cui circa 70.000 lavoratori del Bangladesh) – Giusti, con la ricerca In Case of Loss, non ci mostra le folle accampate al confine con la Tunisia e non cerca di realizzare immagini cariche di drammaticità. Invece fotografa con cura, uno ad uno, i pacchi su cui questi fuggitivi hanno attaccato le loro fototessere nel tentativo angoscioso di non perdere i loro bagagli durante il drammatico viaggio di ritorno. Silenziose, rispettose e anti-spettacolari, tali fotografie ci invitano così a guardare negli occhi tali lavoratori in fuga, e a vedere questi pacchi improvvisati come umili segni della loro cultura e di quel poco con cui, forse, riusciranno a tornare a casa. In seguito (fine del 2015), Giusti si reca sull’isola di Lesbo proprio nel periodo in cui è massiccio l’arrivo di migranti da Siria, Iraq e Afghanistan. E qui, con la ricerca The Rescue, compie una vera e propria opera di “salvataggio”. Anziché concentrarsi sulla tragicità degli sbarchi (come hanno fatto la maggior parte degli altri reporter presenti a Lesbo) Giusti, giorno dopo giorno, fotografa e raccoglie gli oggetti che tali migranti hanno perso e che lui ritrova quasi ovunque sull’isola: decine di foto-tessere e fotografie di famiglia, più o meno corrose dalla salsedine e dalle intemperie; poi pantaloni mezzo affondati nella sabbia; passaporti abbandonati; lettere... Anche in tal caso il suo lavoro, grazie a simili reperti recuperati (che l’autore fotografa con cura proprio lì dove li ha trovati) ci invita a vedere i migranti non più come ombre anonime e minacciose, ma come Persone con storie e affetti spesso simili alle nostre; ci spinge a immaginare la loro vita normale prima dei tragici eventi che li hanno obbligati a fuggire. Evocative, anticonvenzionali, intense e al contempo delicate, le sue immagini ci dimostrano come sia oggi possibile e sempre più necessario creare ricerche fotografiche che escano dalla logica ristretta dell’evento da documentare: immagini che spingono a chiederci “chi sono questi esseri umani?”, e non più soltanto “quanti ne stanno arrivando da noi?” . La mostra di Francesco Giusti è realizzata in collaborazione con il Festival della Fotografia Etica di Lodi e con l'Agenzia fotografica Prospekt. Spazio Aperto S. Fedele Francesco Giusti “Lost and Found” A cura di Gigliola Foschi Piazza San Fedele 4 - Milano Dal 29/9 al 29/10 2016 Dal martedì al sabato 16.00 - 19.00
venerdì, 23 settembre 2016
Il cinema di Paul Schrader (1)
La casa editrice Mimesis, nella collana "Cinema" ha pubblicato Paul Schrader Il cinema della trascendenza un’eccellente raccolta di saggi dedicata al regista americano a cura di Alberto Castellano. Saggista e critico cinematografico napoletano, ha scritto per circa 20 anni su “Il Mattino” di Napoli e attualmente collabora con “alias”(supplemento settimanale de “il manifesto”) e il periodico online “Filmdoc”. Autore di numerosi saggi e volumi dedicati a Franchi e Ingrassia, Douglas Sirk, Carlo Verdone, alla comicità e al doppiaggio, ha fatto parte della commissione di selezione della Settimana della Critica della Mostra del Cinema di Venezia dal 1997 al 2000 ed è stato professore a contratto di Semiologia del Cinema all’Università di Fisciano Salerno. Studioso e appassionato del cinema americano di genere, del cinema comico italiano di serie B, negli ultimi anni ha approfondito i modelli narrativi, gli stili, le correnti e gli autori di alcune cinematografi e asiatiche (Cina, Giappone, Corea, Iran). Nel 2010 è uscito per l’editore Gremese un libro su Clint Eastwood, riedizione aggiornata di una monografi a del 1988. Ha fatto parte di giurie Fipresci (La Federazione della Critica Internazionale) in numerosi festival (Venezia, Ginevra, Lecce, Cluj, Salonicco, Karlovy Vary, Lubiana, Rotterdam, Locarno)
La prefazione è di Salvatore Piscicelli, seguono interventi di Vito Attolini – Fabrizio Denunzio – Tonino De Pace – Ugo Brusaporco – Massimo Causo – Corrado Morra – Bruno Roberti – Gino Frezza – Fabio Maiello – Alessandro Canadè – Fabio Zanello – Roberto Silvestri – Mariangela Sansone – Alberto Morsiani – Vincenzo Esposito – Aurora Auteri – Goffredo De Pascale – Silvana Silvestri – Arianna Pagliara e della stesso curatore. Il volume si avvale di estesi apparati: una biografia di Schrader, la sua filmografia e una bibliografia che riporta libri, interviste e saggi sul regista. Dalla presentazione editoriale. “Il volume vuole restituire la statura e la complessità di uno dei più importanti autori americani della sua generazione, un cineasta fortemente influenzato dal cinema e dalla cultura europea, uno sceneggiatore rigorosamente indipendente ma capace di lavorare anche su committenza per alcuni generi e di muoversi con disinvoltura nel sistema hollywoodiano. Conosciuto più come sceneggiatore che come regista per aver scritto film di autori come Pollack (Yakuza), Scorsese (Taxi Driver, Toro scatenato, L’ultima tentazione di Cristo), De Palma (Complesso di colpa), in realtà Schrader fin dal suo film d’esordio Tuta Blu (1978) s’impone come un regista a tutto tondo, capace di ritagliarsi un percorso artistico ed espressivo intorno a temi profondi e stimolanti, di fare un cinema riflessivo e anche provocatorio segnato da una forte personalità autoriale. Il libro prova a (ri)leggere l’opera di Schrader attraversandola in lungo e in largo dalle angolazioni più diverse e sviscerandone i temi più evidenti ma anche i motivi più nascosti. Gli autori tracciano così un percorso interpretativo-analitico che apre l’universo del regista ad audaci e stimolanti chiavi di lettura ed esplora zone anche oscure ed enigmatiche del suo complesso rapporto con il cinema e con la realtà. E quindi: lo Schrader sceneggiatore, la religione, l’erotismo e il sesso presenti nel suo cinema, le colonne sonore, le infl uenze europee, lo spazio, il rapporto con la letteratura e con i generi, la rappresentazione delle fi gure femminili”. Segue ora un incontro con Alberto Castellano.
Il cinema di Paul Schrader (2)
Ad Alberto Castellano, (in foto), ho rivolto alcune domande. Quali le principali motivazioni che ti hanno portato a studiare l’opera di Schrader? Ho sempre seguito con un certo interesse il lavoro di Schrader a partire dalle sceneggiature che ha scritto per Scorsese. Poi mi incuriosirono i suoi esordi da regista con “Tuta Blu” e “Hardcore” alla fine degli anni '70 e quando poi realizzò nel 1980 “American Gigolo” ancora oggi il suo film più famoso e “commerciale” che fece storcere a non pochi il naso per il suo aspetto erotico alimentato dalla presenza di Richard Gere, fui stimolato a maggior ragione ad approfondire invece la continuità autoriale. Leggendo poi il suo famoso saggio su Ozu, Bresson e Dreyer ovvero “Il trascendente nel cinema” prima che fosse tradotto in Italia, ho avuto la conferma che si trattava di un grande intellettuale americano fortemente influenzato dal cinema e dalla cultura europea e di un vero autore indipendente. E tutti i suoi film fino all'ultimo li ho letti come tanti tasselli di un unico straordinario percorso artistico-esistenziale. Insomma poi mi è venuto naturale ipotizzare un libro dedicato a lui visto che in Italia (e non solo) non c'era. E così ho articolato un percorso critico che affrontasse un autore complesso da varie angolazioni grazie al contributo di saggisti di varie generazioni di alto profilo culturale. A beneficio di coloro che ancora non conoscono il tuo libro, puoi chiarire in sintesi che cosa s’intende per “cinema della trascendenza” in Schrader? Ho scelto il titolo “Il cinema della trascendenza” perché tutto il cinema di Schrader qualunque sia il genere o il modello narrativo o la tipologia del protagonista, nella pratica non può prescindere dai suoi concetti artistici e filosofici e dalle sue sofisticate riflessioni teoriche sullo stile trascendentale dei suoi amati Bresson, Ozu e Dreyer ma anche di altri autori, sul trascendente nel cinema, sulla rappresentazione del “sacro”, del “religioso”, della spiritualità” nel contemporaneo. Apri il tuo saggio introduttivo notando che Schrader vanta il primato (condiviso solo con Terrence Malick) di aver teorizzato il suo cinema prima di farlo, come accadde in Europa con i critici dei «Cahiers du Cinéma» diventati autori della Nouvelle Vague. Qual è la differenza fra il gruppo francese e il percorso di Schrader? Mentre i critici d'assalto dei “Cahiers” Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer e Rivette, futuri autori di punta della Nouvelle Vague, dalle pagine dell'agguerrita rivista rivendicavano più che altro un estremismo cinefilo e ipotecavano l'ossatura teorica di un “movimento”, Schrader e Malick hanno scritto audaci e originali saggi giovanili che non facevano presagire una carriera da registi, non volevano gettare le basi teoriche di un percorso cinematografico. Perché Schrader, ad eccezione di “American Gigolo”, non è noto al pubblico come regista e la stessa critica è più ricca d’elogi per la sua opera di sceneggiatore? “American Gigolo” è un'eccezione, è un film che arrivò nel momento giusto di un certo filone erotico americano sfruttando abilmente il sex appeal di un lanciatissimo Richard Gere, ma molti non si accorsero che l'autore citava Bresson e iniettava nel modello commerciale le sue opzioni culturali. Nonostante questo successo, il pubblico non accorse in massa ai successivi oggettivamente spiazzanti “Il bacio della pantera” e “Mishima” e anche gli altri suoi grandi film come “Lo spacciatore”, “Affliction” hanno comunicato quella cifra d'autore che alimenta preconcetti e diffidenze nella massa. La critica ha trovato più facile elogiare e apprezzare il lavoro di sceneggiatore di Schrader visto che i registi per i quali ha lavorato si chiamano Scorsese, Pollack, De Palma. Weir e mediamente non ha colto la personalità di un autore a tutto tondo anche in alcuni film di committenza. Solo pochi saggisti e sporadicamente hanno intuito la complessità stilistica, linguistica e morale di Schrader. Paul Schrader A cura di Alberto Castellano Prefazione di Salvatore Piscicelli Pagine 208, Euro 18.00 Mimesis
mercoledì, 21 settembre 2016
Fumetti senza Dio
Il bimestrale "L’Ateo" dell’Uaar - Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti - diretto da Francesco D’Alpa e Maria Turchetto nel suo più recente numero (107, in foto riprodotta la copertina) dedica lo speciale d’apertura ai “Fumetti senza Dio”. Piccante argomento trattato in un momento quanto mai opportuno perché la Chiesa si sta avvalendo di questo strumento espressivo per le tante Bibbie a fumetti con cui tenta di catturare l’attenzione dei piccoli lettori. Fumetti: pare che l’origine di quest’arte verbovisiva (“letteratura disegnata”, per Hugo Pratt), secondo alcuni – come riporta anche Wikipedia – risalirebbe alla preistoria, e specificamente alle pitture rupestri, che per prime mescolavano immagini per significare resoconti di vita quotidiana o idee oppure desideri. Più sensata mi sembra l’indicazione di chi ne individua l’origine nella “Biblia pauperum” dovuta, a Sant’Oscar vescovo di Brema prima del Mille e diffusa nel XIII secolo. Passerà, diciamo un po' di tempo... (anno ’77 del XX sec.) e avremo un’altra “Biblia pauperum”, icastica e caustica, irriverente anzichenò, tra stampe antiche e nuvolette, dovute al geniaccio di Lamberto Pignotti (con scritti di Eugenio Battisti, Umberto Eco, Pietro Favari, Mario Lunetta, Valerio Riva), roba che se riuscite a procurarvela mi ringrazierete. Amo i fumetti e specialmente la graphic novel che ha la particolarità di concludersi in un solo albo. Il nome “graphic novel” l’ha coniato Will Eisner nel 1978, ma uno slancio patriottico mi fa dire che in Italia possiamo vantare un precedente in “Poema a fumetti” (1969) di Dino Buzzati che fece tutto da solo, sceneggiatura e disegni. Nel bimestrale, dopo un brillante editoriale di Maria Turchetto (autrice nello stesso numero di una biblio-sitografia sul tema), vede interventi assai ben centrati di Paola Corna, Francesco D’Alpa, Maurizio Di Bona, Enrica Rota, e una parte (una seconda è promessa nel prossimo numero) della «Bible amusante» di Léo Taxil. Articoli su altri temi sono scritti da Nadia Somma, Anna Pompili, Enrica Rota. Inoltre, è possibile leggere un estratto dal libro di Raffaele Carcano Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola e un flash di Stefano Scrima. Recensioni di volumi, vignette, lettere dei lettori, contribuiscono ad animare le pagine. La rivista "L'Ateo" è in vendita nelle seguenti librerie al prezzo di 4.00 euro QUI la lista delle biblioteche in cui è possibile leggere la rivista. ……………………………………………………. Altra notizia circa l’Uaar. Dall’Associazione, ogni anno, a Venezia, al festival del cinema , viene assegnato il Premio Brian. Per l’edizione 2016 è stato assegnato al film La ragazza del mondo del regista Marco Danieli. Il premio consiste in un globo contenente una nuvola di filamenti d’oro con sferette di vetro policrome, preparato dal maestro Giovanni Corvaja. La giuria (Michele Cangiani, Paolo Ferrarini, Paolo Ghiretti, Maria Giacometti, Maria Chiara Levorato, Marcello Rinaldi, Maria Turchetto) “… in La ragazza del mondo ha apprezzato l’efficace e ben documentata rappresentazione e l’approccio critico al problema particolare — e raramente trattato — delle sette, nonché a quello più generale del condizionamento esercitato dalla religione”. Mi piace ricordare che questo è stato uno dei due soli riconoscimenti che ha avuto a Venezia il cinema italiano. QUI il trailer del film.
Storie dai titoli di coda
Nel corso dell’estate appena trascorsa è stato presentato Credits Storie dai titoli di coda, un nuovo magazine dal taglio originale con direttore responsabile Angelo Astrei che si avvale dell’art director Alessandro Rossi e del giornalista Nico Parente. ”Credits” è un progetto di editoria indipendente – spiega Astrei – nato in totale autonomia, autofinanziato e autodistribuito. Nucleo fondamentale del magazine è l’intento di trattare tutto ciò che nel cinema non si vede, dar spazio per la prima volta ai ruoli ritenuti secondari nel cinema. Nella lunga lista dei nomi che scorrono nei titoli di coda sono racchiuse le storie di professionisti e del cinema che è necessario raccontare. Nel numero 0 del magazine, dedicato alle maestranze, abbiamo scelto di raccontare 13 storie di persone e luoghi mettendo in luce quel qualcosa che è indispensabile per l’universo cinematografico ma che vive solo nell’ombra degli addetti ai lavori. Dice Alessandro Rossi: I testi e le foto non sono subordinati tra loro, ma si intrecciano realizzando un terzo piano di narrazione, raccontando la storia in modo differente. “Credits” è un semestrale monotematico in cui la veste grafica ha un ruolo fondamentale, grazie al lavoro di quattro fotografi e due illustratori. La carta che abbiamo utilizzato, per le 104 pagine che compongono il volume, è la CoralBook White, con interno da 170 grammi e copertina da 300. La sua qualità consente un’esperienza che, oltre ad essere visiva, è tattile e sensoriale. Ecco una pubblicazione che oltre ad interessare gli appassionati di cinema si occupa di figure troppo spesso colpevolmente trascurate pur essendo essenziali per la lavorazione di un film. Prezzo di copertina: 18 euro; la pubblicazione verrà distribuita attraverso il canale web, presentazioni ad eventi, incontri con il pubblico e mirati luoghi di vendita. L’Ufficio Stampa è guidato da Paolo Piersanti, +39 333 28 43 774, piersantipress@gmail.com, con la collaborazione di Gianluca Badii, +39 329 572 9887 e Vania Amitrano, +39 338 920 5566
lunedì, 19 settembre 2016
I ragazzi di Barrow
Oggi che viaggiamo nello Spazio, abbiamo raggiunto la Luna, si prepara il viaggio su Marte, può sfuggire l’animo che fu necessario per le esplorazioni del nostro pianeta. Viaggi spericolati, sì voluti dalla sete di conoscenza ma senza dimenticare le ragioni economiche e militari che li mossero. E li muovono. Ieri per terre e oceani e oggi nei cieli. Le cronache ricordano per primi gli Egizi, i Fenici, i Greci, i Romani e nel Medio Evo gli Arabi e i Vichinghi, poi le tante spedizioni delle Repubbliche Marinare e la più famosa fra tutte: quella di Colombo del 1492. Il colonialismo, pur con la sua avidità di dominio, contribuì dal XVII secolo in poi a nuove scoperte; si ricordano, ad esempio, nel secondo ‘700 i viaggi di James Cook che cartografò l’isola di Terranova, circumnavigò per primo la Nuova Zelanda.
Esistono poi figure meno note che, però, hanno avuto nei risultati, nel bene e nel meglio come nel male e nel peggio, un ruolo importante nello stimolare e organizzare spedizioni. Uno di questi fu l’inglese John Barrow (19 giugno 1764 – 23 novembre 1848). Grande promotore dei viaggi artici (senza mai parteciparvi a nessuno), tra cui quelli di John Ross, William Edward Parry, James Clark Ross e John Franklin. Si ritiene – ma la cosa non è provata – che sia stato lui a proporre Sant'Elena come nuovo luogo d'esilio per Napoleone in seguito alla battaglia di Waterloo del 1815. Una delle mete che principalmente si prefissò di fare raggiungere, e segnò tutta la sua vita, fu il famoso passaggio a Nord Ovest per collegare l’oceano Atlantico all’oceano Pacifico. A questo personaggio – nel 1804 nominato Secondo Segretario dell'Ammiragliato, una carica che mantenne per quarant'anni – Fergus Fleming (1959) ha dedicato un libro affascinante pubblicato da Adelphi: I ragazzi di Barrow. Fleming è nipote di Ian, il creatore di James Bond, e uno dei suoi libri, “The Man With the Golden Typewriter” (2015), è una raccolta di lettere dello zio negli anni in cui scriveva le avventure di Bond. È un autore dalla scrittura scattante, capace di tratteggiare in poche righe i caratteri psicologici dei tanti personaggi presenti nel volume e, ovviamente, per primo Barrow: “… aspetto anonimo, ma uomo ambizioso, intelligente e tenace”. Riuscirono le imprese di Barrow? Macché! Neppure una. Ancora Fleming: “Nelle sue missioni era sbagliato quasi tutto: le consegne, le navi, i rifornimenti, i finanziamenti e i metodi. Forse nessun altro nella storia dell’esplorazione, ha speso altrettanto per inseguire un sogno di così assoluta insensatezza”. Perché accaddero, quindi, tanti fallimenti pur non potendo definire Barrow un improvvisatore né un impostore? Probabilmente perché il sogno prevalse in lui sulla realtà. Eppure, fra tanti errori egli riuscì “a cartografare l’ignoto” e stimolò chi venne dopo a imprese che permisero di conoscere meglio il pianeta che abitiamo. L’autore, ha una strategia narrativa di grande efficacia perché d’ogni viaggio, pur attenendosi rigorosamente a documentazioni storiche, è capace, attraverso quanto càpita lungo pericolose traversate e travagliati approdi, di trasmetterne tensioni ed emozioni. La più vivida di queste descrizioni è quella che riguarda l’ultima spedizione affidata al Capitano Sir John Franklin. Le sue due navi, con 103 uomini d’equipaggio, rimasero intrappolate fra i ghiacci e più non se n’ebbero notizie. Per un secolo e mezzo furono fatte ricerche, furono trovati qui e là resti della spedizione, tra cui le tombe di tre membri dell'equipaggio. Nel 1854 l'esploratore John Rae, mentre si trovava vicino alle coste dell'artico canadese nei pressi dell'Isola Principe di Galles, raccolse da alcuni Inuit alcuni reperti della spedizione di Franklin e alcuni racconti sulla loro possibile sorte. Nel 1981, un gruppo di scienziati guidato da Owen Beattie professore di antropologia dell’University of Alberta, iniziò una serie di analisi scientifiche sulle tombe, sui corpi e sugli altri reperti lasciati dai membri della spedizione Franklin sull'isola di Beechey e di Re William. Costoro conclusero che quegli uomini erano molto probabilmente morti di polmonite o forse di tubercolosi e che il loro stato di salute poteva essere stato aggravato da un avvelenamento da piombo dovuto alla saldatura difettosa delle scatole di cibo in dotazione alla spedizione. È la conclusione cui arriva anche Fleming. Il Passaggio a Nord Ovest fu poi trovato dal norvegese Roald Amundsen che nel 1905-1906 a bordo della nave Gjöa compì la prima traversata del Passaggio, dalla baia di Baffin allo stretto di Bering. Fergus Fleming I ragazzi di Barrow Traduzione di Matteo Codignola Pagine 542, Euro 35 Adelphi
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