Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
lunedì, 31 ottobre 2016
Base al Quirinetta
Se abitate a Roma o per la città siete di passaggio fra il 5 e il 10 novembre, consiglio una puntata al Quirinetta, Caffè Concerto della Capitale che ospita, in un suo prossimo programma, Base: appuntamento dedicato all’esplorazione di suoni. Sei serate con protagonisti della scena sperimentale internazionale dal jazz all’elettronica, al modern classical. Il tutto organizzato da Viteculture. Di Mamo Giovenco è la direzione artistic… ops!... dimenticavo che non vuole essere definito “direttore artistico”. Perché? Leggete QUI. Sia come sia, così parò Giovenco: Per questo novembre abbiamo deciso di mettere l'ascolto alla base di tutto, per fermarsi e farsi rapire dal suono e trovarsi come fuoco di una prospettiva fatta di onde sonore e di intimità. La tecnica, la perfezione e l'imperfezione vengono sezionate e messe a nudo per essere così come sono. Serate che conosceranno crossmedialità, ad esempio, con i disegni dal vivo che traccerà, durante il concerto dei Dorian Gray, l'illustratore di Le Monde Marino Neri, oppure le immagini video che accompagneranno le note irruenti di Lubomyr Melnyk. Un brano dal comunicato stampa. “L'attenzione al suono, al suo scorrere e alle tante forme che le sette note possono assumere vivranno in un'esplosione di musica per una settimana unica e inedita al Quirinetta di Roma. Si avranno il jazz improvvisato e riottoso dei canadesi Bad Bad Not Good, l'elettronica mischiata alla psichedelia vintage di Dorian Gray And Blaine (ex Tuxedomoon), il "sound visionary" Makaya McCraven (in foto), il piano continuo di Lubomyr Melnyk, la fusione di musica elettronica e musica organica di Koop Oscar Orchestra, il cantautorato squisitamente newyorkese di Eleanor Friedberger”. Insomma non mancano motivi d’interesse. Ancora una cosa: guardate questo video della Koop Orchestra... bisogna avere solo sciroppo d’orzata nelle vene per non andare al Quirinetta! Ufficio Stampa HF4 Marta Volterra, marta.volterra@hf4.it 340.96.900.12 Quirinetta Via Marco Minghetti 5, Roma Sei serate di nuova musica Dal 5 al 10 novembre
Voci nell'ombra
Una decina d’anni fa uscì un libro di Klaas Huizing intitolato “Il mangialibri” in cui agiva un parroco del ‘700, Johann Georg Tinius, realmente esistito, appassionato di libri al punto d’arrivare alla rapina e all’omicidio per saziare la sua sete di volumi. Quando fu arrestato ne aveva raccolto ben 65mila. Non ricordo chi sia stato l’avvocato che difese Tinius, ma se quel parroco mi avesse chiesto consiglio, non avrei avuto esitazioni nell’indicargli Flaminio Gualdoni che avvocato non è, ma è tanto appassionato del libro in tutte le sue versioni, dalle più antiche alle più recenti, da ben difendere quel bibliomaniaco. Lo intervistai quando uscì la sua “Storia del libro” e si parlò anche dell’audiolibro a proposito del quale disse: “Appartengo alla schiera dei ‘non-apocalittici’: tutto ciò che le nuove tecnologie apportano, a partire dall’informatica al web all'audiolibro, aggiunge molto al leggere senza nulla sottrarre all’identità storica del libro. Né va dimenticato che nell’antichità si leggeva ad alta voce” . E sull’argomento scrive Valentina Simeoni “… sia nel mondo occidentale antico sia in molte culture odierne ad oralità̀ primaria, i testi sono fatti per essere ascoltati, e la lettura come atto visivo semplicemente non si dà. In questi casi essa si rivolge non tanto all’occhio quanto all’orecchio, il lettore è sostanzialmente un ascoltatore…”. Anch’io amo i libri. Eppure se qualcuno volesse regalarmi il libro che più mi piacerebbe avere è quello che al Victoria & Albert Museum fu esposto nel 1995 da William Gibson e Tennis Ausbaugh il cui testo su dischetto man mano che si legge si cancella per sempre.
Sia come sia, bene hanno fatto Tiziana Voarino e Felice Rossello direttori del Festival nazionale del Doppiaggio Voci nell'ombra – giunto con molti meriti alla XVII edizione – a inserire un premio destinato all’audiolibro. Tre giorni fa, a Savona, al Teatro Chiabrera, il Primo Premio è andato ad Alberto Rossatti, interprete di una pregevolissima incisione delle “Memorie di un pazzo” di Gogol edita dalla casa d’audiolibri Il Narratore. Rossatti, voce storica di Radio Rai, ha ricevuto il Premio Sabaudia 2005 per il CD “Il mutamento dell’anima” quale migliore interprete della poesia di Mario Luzi. Per Il Narratore e Giunti Editore, ha registrato opere di Pavese, Pascoli, Neruda, Schnitzler, Dickens e Kafka; per le Edizioni Dehoniane di Bologna (EDB), il Vangelo di Matteo; per la Società Dante Alighieri, un'Antologia di poesie di Giorgio Caproni. Tante le compagnie teatrali di cui ha fatto parte e al cinema ha avuto ruoli in film di Giancarlo Cobelli, Lucio Lunerti, Luigi Faccini, Catherine McGilvray. Traduttore di numerosi autori inglesi e americani, ha ricevuto nel 2009 il Premio Nazionale della Traduzione del Ministero dei Beni Culturali. A proposito dell’audiolibro così dice: Nato originariamente per non vedenti, sostituisce la lettura del libro cartaceo, traducendo in suoni tutte le parole di cui è fatta la narrazione. Ma per estensione anche ai vedenti, l'audio libro rende accessibile la lettura (mediata dalla voce del narratore) a quei lettori che, per pigrizia, mancanza di tempo o altro impedimento, non possano permettersi il lusso di appartarsi a meditare e centellinare in tutta autonomia un libro cartaceo. Se poi il narratore è un esperto narratore (colto, intelligente, dotato di ricchezza di toni, timbri, colori, capacità di fraseggio, voce suggestiva, eccetera), l'audiolibro può essere talora in grado di competere e superare la scena sonora a più voci nel felice coinvolgimento dell'ascoltatore. Infine, coi tempi che corrono, (intendo fretta, propensioni e attitudini di fruizione dell'esistenza) l'audiolibro resta l'unica speranza che qualcuno possa ancora leggere per esempio “Guerra e pace”. Ma siamo veramente sicuri che sia un 'must'?. Concludo questa nota con un video in cui Rossatti interpreta magnificamente famosi versi danteschi.
venerdì, 28 ottobre 2016
Trent'anni senza e con Ghizzardi
Chi non conosce le opere di Pietro Ghizzardi (in foto) si è perso qualcosa non da poco. Lo testimoniano i tanti critici che ne hanno elogiato il lavoro. Qualche nome: da Renato Barilli ad Angelo Guglielmi, da Franco Solmi a Giancarlo Vigorelli a Cesare Zavattini che ne fu uno dei più accesi sostenitori. L’anno scorso visitai la Casa Museo a lui dedicata a Boretto, ben gestita da Nives Pecchini Ghizzardi e promossa con eleganza e competenza da Lucia Ghizzardi e Giulia Morello. QUI troverete una cronaca che riferisce di quelle stanze ghizzardiane e di quelle figure femminili.
Una maiuscola occasione per recarsi a Boretto è data in quest’autunno 2016 che registra due importanti anniversari legati a quell’artista: il trentennale della sua scomparsa, avvenuta il 7 dicembre 1986, e il 40° anniversario della pubblicazione della sua autobiografia "Mi richordo anchora". La Casa Museo “Pietro Ghizzardi” ricorda queste ricorrenze con un calendario di avvenimenti – dal 29 ottobre all'8 dicembre – volti a diffondere ed approfondire la conoscenza di un artista apprezzato anche all’estero. Titolo che raccoglie le plurali manifestazioni: Mi faceva suo richordo tutto 30 anni senza Ghizzardi. 30 anni di Ghizzardi Si avranno una mostra a Boretto presso lo Spazio Arte Prospettiva 16, reading, proiezioni dei documentari della Rai con le interviste all’artista, gite in motonave sul Po alla scoperta dei luoghi ghizzardiani, la riedizione di "Mi richordo anchora" presso l’editrice Quodlibet e una performance teatrale alla Triennale di Milano. Per il programma dettagliato: CLIC! "Mi faceva suo richordo tutto" 29 ottobre – 8 dicembre Informazioni 335 - 53 35 139
mercoledì, 26 ottobre 2016
Il culto di Star Trek (1)
La famosa serie tv Star Trek (QUI la sua storia) ha cinquant’anni – come ho ricordato prima dell’estate in questo post. Su quell’avventura spaziale molto è stato scritto sulla possibilità che siano realizzati in un futuro gli strumenti visti agire negli episodi in tv e raggiunte le realtà vissute dai partecipanti a quei viaggi fra lontani mondi e creature aliene (si pensi, ad esempio, a “La fisica di Star Trek” oppure a “Oltre Star Trek”, libri del fisico Lawrence M. Krauss). Del resto, uno scienziato di gran fama qual è Stephen Hawking, ha detto: "La fantascienza come Star Trek non è solo un buon divertimento, ma assolve anche uno scopo serio, che è quello di espandere l'immaginazione umana. (...) Limitare la nostra attenzione a questioni terrestri equivarrebbe a fissare dei confini allo spirito umano." Ora, per la casa editrice FrancoAngeli, nella collana Comunicazione e Società diretta da Vanni Codeluppi (ospite nella taverna spaziale che ho aperto 15 anni fa proprio sull’Enterprise), è uscito un saggio di Robert V. Kozinets intitolato Il culto di Star Trek Media, fan e netnografia a cura di Tito Vagni che firma un’acuta postfazione al volume. Codeluppi, da me richiesto d’un giudizio su Star Trek, così allora rispose: “Star Trek, a mio avviso, rappresenta una specie di archetipo della fantascienza contemporanea. La nostra idea di futuro è stata profondamente influenzata da questa serie televisiva. Forse addirittura più di tanti film di fantascienza importanti. E ciò non succede tanto spesso”. Robert V. Kozinets è unanimemente riconosciuto come l'inventore della netnografia e un'autorità nel campo dei social media, del marketing e dell'innovazione. Hufschmid Professor di Strategic Public Relations e Business Communication presso la University of Southern California, insegna anche presso la Annenberg School for Communication e la Marshall School of Business. Ha scritto numerose opere, concentrandosi sul rapporto tra tecnologia, media e consumo. Il suo più recente libro è Netnography: Redefined (Sage, 2015). Tito Vagni ha conseguito il dottorato di ricerca in sociologia presso La Sorbonne di Parigi. Insegna Sociologia dei media preso l’Università IULM di Milano. È membro del centro internazionale ATOPOS e del CEAQ di Parigi. I suoi lavori gravitano intorno all’industria culturale, ai social media e alla gastronomia. Dirige la collana iMedia presso Edizioni Estemporanee (Roma), collabora con il gruppo editoriale L’Espresso e con il magazine Mark Up. Ha curato l’edizione italiana de La società degli amatori e ha scritto con Nello Barile Comunicazione come consumo. Dalla presentazione editoriale. Robert V. Kozinets ha indagato con una delle prime ricerche netnografiche mai condotte le complesse trame del fandom legato alla famosissima serie televisiva Star Trek, individuando uno dei più grandi fenomeni di consumo del nostro tempo. L'impatto commerciale e culturale di questa serie è un chiaro esempio del ruolo che le immagini, gli oggetti e i testi mediali giocano nelle nostre vite: sebbene siano connessi alla dimensione ludica, al piacere della visione e alla distrazione che ne deriva, essi acquisiscono la loro importanza nei processi identificativi, imponendosi come vere e proprie religioni civili. Star Trek è presentato come un territorio espanso in cui tanto i fan quanto i semplici spettatori trovano rifugio, per evadere dal proprio contesto, "fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima", (tele)trasportandosi dalla realtà alla finzione e riemergendo ogni volta dal sogno utopico. Ed è per questo che il Signor Spok, l'Enterprise o il Capitano Kirk sono figure ancora vivide dell'immaginario collettivo contemporaneo. Segue ora un incontro con Tito Vagni, curatore del volume “Il culto di Star Trek”.
Il culto di Star Trek (2)
A Tito Vagni (in foto) ho rivolto alcune domande. Nella tua postfazione intitolata “Culture participative tra svago e impegno” ti soffermi sul valore dello studio di Kozinets. Ti chiedo d’illustrare, in sintesi, l’originalità di questo suo saggio. Insieme all’editore Franco Angeli e a Vanni Codeluppi, che dirige la collana, abbiamo deciso di tradurre questo saggio per far conoscere al pubblico italiano gli originalissimi studi di Robert Kozinets nell’ambito del consumo mediale. In particolare il libro indaga il rapporto che si è stabilito negli anni tra “Star Trek” e i suoi fan; i modi in cui gli amatori di Star Trek si sono appropriati della serie trasformandola in un luogo in cui rifugiarsi alla ricerca di speranza e consolazione. L’idea che l’immaginario possa creare legame sociale è secondo noi fondamentale per capire i fenomeni mediali contemporanei. Pur essendo nata negli Stati Uniti, Star Trek ha riscosso successo in tutto il mondo dove è stata conosciuta. Come spieghi questa popolarità raggiunta anche presso culture lontane da quella in cui la serie ha avuto origine? A differenza di molte televisioni europee, e di quella italiana in particolare, che hanno inteso il proprio ruolo pubblico rivolgendo lo sguardo all’interno dei confini nazionali, per educare i cittadini attraverso il teleschermo, l’industria culturale americana ha avuto da sempre un intento commerciale. I prodotti culturali, come tutte le altre merci, sono quindi pensati in nuce per un pubblico più ampio di quello nazionale. Da “Beautiful” a “Star Trek”, da “Games of Thrones” ai “Simpson” i principali prodotti di culto del nostro tempo sono nati negli Stati Uniti, è una questione che coinvolge le tecniche di produzione e di distribuzione dei prodotti culturali, non si tratta delle particolari doti di ogni singolo prodotto. Perché i film di Star Trek non hanno avuto un successo paragonabile a quello ottenuto dalla serie televisiva? Se ti riferisci alle ultime tre pellicole, la mia sensazione è che si sia voluto trasformare “Star Trek” in una ”Mission Impossibile” senza identità. Questa scelta mi ha sorpreso, speravo in qualcosa di meglio da J.J. Abrams. Come spiega bene “Il culto di Star Trek”, i fan più devoti hanno trovato nella serie una sorta di religione civile da seguire, una piccola utopia consolidata quotidianamente dai personaggi mitici della prima serie che, al contrario di quelli attuali, avevano la caratteristica di una rigida fedeltà al proprio personaggio. Questo consentiva al pubblico di vedere nei protagonisti della serie come il Capitano Kirk o il Sig. Spock dei riferimenti ideali intramontabili. La trasposizione cinematografica più recente ha smarrito questa caratteristica; i caratteri dei personaggi sono facilmente confondibili con quelli di altri film, e i tratti che hanno reso celebre e riconoscibile Star Trek – penso ai modi di dire, all’abbigliamento, ai tratti fisici, ai saluti – nei film attuali hanno solo il ruolo di citare la serie originale. Questo ovviamente è deludente per i fan storici, ma è una strategia indispensabile per attrarre nuovo pubblico, cercando di rinverdire un mito. In molti affermano – in Italia, ad esempio, Franco La Polla – che Star Trek contiene citazioni umanistiche riferite a opere letterarie del passato come, ad esempio, l’Odissea o il viaggio di Astolfo sulla Luna. Sei d’accordo con quest’affermazione e, se sì, com’è stato possibile che ciò sia avvenuto? Le citazioni non mi sorprendono perché credo che l’industria culturale americana annoveri alcuni tra i più raffinati scrittori e creativi del nostro tempo. Il fatto che sfruttino le loro abilità per realizzare prodotti di intrattenimento non deve indurci nella tentazione di pensare che siano meno colti, sofisticati o talentuosi degli intellettuali con ruoli più tradizionali. Ma questa tua domanda mi fa venire in mente che ogni forma di visione consente allo spettatore di strapazzare il prodotto culturale, violarlo e violentarlo, per entravi in modo del tutto personale. È in questo uso individuale del prodotto che risiede il piacere della visione. Quindi le citazioni, molto spesso, sono assenti nel testo, ma divengono presenti perché appartengono alla memoria dello spettatore e vengono riattivate casualmente da una visione. Il modo in cui Kozinets parla del rapporto tra i fan di Star Trek e la serie stessa è illuminante per capire questa caratteristica del consumo mediale. Ho qui un appunto che ho tratto da qualche parte, purtroppo non ricordo da dove, me ne scuso con gli autori per la mancata citazione dei loro nomi. Insomma, la definizione non è mia, ma la condivido. Roddenberry ha prospettato un futuro in cui non c'è posto per gli dei del nostro presente e del nostro passato: si può parlare di un panteismo di Star Trek? Curando “Il culto di Star Trek”, ho riflettuto sul fatto che una società che trasforma una figura dell’immaginario o un prodotto culturale in oggetto totemico da venerare abbia già portato i suoi dei sulla Terra. Non credo sia la narrazione a produrre questo effetto, ma la particolare forma di fruizione consentita dai media elettronici e ancora di più da quelli digitali. Come scriveva Walter Benjamin: “riferirsi alla tecnica rende i prodotti letterali accessibili a un’analisi sociale diretta”. Robert. V. Kozinets Il culto di Star Trek A cura di Tito Vagni Pagine 96, Euro 15.00 FrancoAngeli
lunedì, 24 ottobre 2016
Giovannetti in Effigie
Lo conobbi alla fine degli anni ’70, in occasione di un mio spettacolo svolto in movimento nelle strade di Pavia; durante la preparazione di quella cosa ci vedevamo tutti i giorni, incontri allegri e molti bar. Di lì a poco sarebbe diventato uno dei grandi fotografi italiani: Giovanni Giovannetti (nella fotina qui accanto). Alto, magro, spigoloso, dalla battuta fulminante, aveva allora meno di trent’anni ma nel territorio era già affermato, dalla sua anche qualche scoop. Mi fece, ad esempio, vedere delle foto – e fu il primo dal quale ne sentii parlare – che testimoniavano come estremisti di destra andavano per studiata strategia ad occupare gli stadi del calcio. Ho avuto con lui qualche altro incontro di corsa, forse uno o due, poi ci siamo persi di vista. Succede. Non l’incontro da allora. Negli anni l’ho sentito talvolta nominare in qualche redazione, oggi è famoso, infatti, soprattutto come fotografo specializzato in ritrattistica letteraria, con alle spalle un vasto repertorio di oltre duecentomila… sì, duecentomila… immagini di narratori, poeti, saggisti italiani e stranieri che costituisce da più di vent’anni un punto di riferimento privilegiato per le pagine culturali di quotidiani e periodici. Ma Giovannetti non è soltanto questo perché è diventato – non mi chiedete quando, l’anno non ve lo so dire - anche editore di una casa chiamata Effigie; per dare un’occhiata al catalogo: CLIC! Se cliccate su di una copertina, poi farete notte perché cliccherete su altre ancora e ancora, tanto quel catalogo è ricco di spunti e occasioni, curiosità e polemiche. Polemiche… già, perché il Giovannetti Giovanni è uno che non vive in pantofole e che non guarda altrove quando vede le tante cose storte che ci circondano, sicché si è trovato non solo in polemiche al peperoncino ma anche in avventure più pericolose avversando la malavita politica italiana. Per darvene un esempio, leggete cosa scrive QUI Tiziano Scarpa.
In Rete un suo, rigorosamente mobile, luogo di sconfinamenti. Continua a sconfinare Giovanni, di quei sconfinamenti ne abbiamo bisogno. In uno di quei sconfinamenti spero d’incontrarti ancora, e bere un bicchiere insieme.
venerdì, 21 ottobre 2016
Pulcinellopaedia Seraphiniana
Architetto, pittore, scenografo, ceramista, illustratore, costumista, Luigi Serafini è una grande presenza dello scenario artistico contemporaneo; trascorre attraverso più campi espressivi fino all’arredo urbano con uno straordinario intervento, ad esempio, alla nuova metropolitana di Napoli intitolato il “Paradiso pedestre”. Lo conosco e lo stimo da alcuni decenni (facemmo insieme anche un viaggio nello Spazio nel 2003), l’unica cosa che non gli perdono è la partecipazione (dopo averla dapprima, meritoriamente, rifiutata) al Padiglione Italia di Sgarbi nel 2011. Ovviamente quell’episodio nulla c’entra con la figura artistica di Luigi, maiuscola figura delle arti visive e non solo di quelle. Autore di quel Codex Seraphinianus che dal 1981 viaggia per le vie del mondo: vertiginoso dizionario enciclopedico in oltre 500 tavole: lettere, animali, piante, segni grafici, cartigli di Sibilla, cirri d’ingegno, manualità angeliche. Ad accorgersi del Codex, fra i primi (gli succede spesso) fu Billi Bilancioni che su ‘il Manifesto’ scrisse (traggo l’articolo da Spirito fantastico e architettura moderna, raccolta di saggi dello stesso Bilancioni): “… con quest’opera siamo di fronte a un trattato o a un manuale, nello stile tracciato da Linneo o da Vesalio, che ha rinvenuto in antiche profondità la fonte del tutto e ne traccia la mitografia nell’avventura della deliberata falsificazione dissezionante…”. Il “Codex” è un complesso di segni che fa pensare all'ambigramma di Douglas Hofstadter; non è certo un caso, quindi, che quel matematico si sia interessato al “Codex”. Elogiato anche da Italo Calvino, Giogio Manganelli, Federico Zeri, Achille Bonito Oliva, Massimiliano Fuksas, e tanti tanti altri in Italia e all’estero.
Dallo stesso autore di quel leggendario libro ecco ora Pulcinellopaedia Seraphiniana: piccola enciclopedia illustrata, sapida e crudele, dedicata alla celebre maschera napoletana di Pulcinella. Dalla presentazione alla stampa e al web. Concepita come una suite musicale, la Pulcinellopaedia Seraphiniana contiene oltre cento illustrazioni a grafite e matita rossa, suddivise in nove scene con un intermezzo. Il volume, il cui coautore immaginario, “P. Cetrulo”, altri non è se non lo stesso Pulcinella, presenta le vicende di un antieroe ribelle che si confronta con le sfide della vita di tutti i giorni. Il personaggio ha origini antichissime, un suo antenato è sicuramente Maccus, protagonista delle Atellanae Fabulae, farse popolari nell’antica Roma, ma è solo nel diciassettesimo secolo che ha assunto il nome e il costume che conosciamo tutti. Caratterizzata da un lungo naso, dal vestito di bianco e da una maschera nera, la figura di Pulcinella è sempre alle prese con le più svariate disavventure e canta canzoni sull’amore, sulla fame e sul denaro. Come per il Codex Seraphinianus, per questa sua nuova opera, l’artista ha inventato un linguaggio personale, e l’ha popolata di illustrazioni misteriose e affascinanti, nelle quali gli appassionati cercheranno come al solito di decifrare le intenzioni dell’autore. Fu pubblicato per la prima volta nel 1984, a seguito della partecipazione artistica di Luigi Serafini al grande Carnevale di Venezia, che era appena risorto dalle sue ceneri dopo due secoli di oblio, ovvero da quando, nel 1797, Napoleone lo aveva bandito per motivi di ordine pubblico. Il volume originale, esaurito da decenni, è diventato un oggetto raro e ricercato dai collezionisti. Il libro viene ora ripubblicato, più di tre decenni dopo, in un’edizione rivista e ampliata che include una nuova postfazione dell’autore. L’edizione deluxe, in tiratura limitata in cofanetto, conterrà una litografia originale firmata e numerata a scelta fra 3 soggetti inediti. Ufficio Stampa: Federica Fulginiti: federica.fulginiti@gmail.com; 335 – 631 66 26 Luigi Serafini Pulcinellopaedia Seraphiniana Edizione Trade: pag. 128; euro: 40.00 Edizione De Luxe (con litografie numerate) pagine 128; euro 175.00 Rizzoli
mercoledì, 19 ottobre 2016
Sulle tracce degli antenati
Uno dei problemi più tosti nella didattica è rappresentato dalla divulgazione scientifica. Quando poi questo problema si pone in sede editoriale, specie se si fanno libri per giovanissimi, le cose si complicano perché bisogna immaginare un prodotto per lettori di cui si conosce solo, approssimativamente, l’età ma non le loro estrazioni sociali, le condizioni culturali, gli ambienti familiari. Il rischio è che si precipiti in un’esposizione di sterile e difficile linguaggio scoraggiante per l’apprendimento oppure nel guaio opposto, cioè essere semplicistici fino alla banalità. Un grande divulgatore qual è Piergiorgio Odifreddi dice: “La divulgazione richiede talenti che da un lato sappiano far evaporare dall’aridità delle formule la loro atmosfera intellettuale, e dall’altro riescano poi a farla precipitare in una forma letteraria che ne colga l’essenza.” Abbiamo buoni divulgatori in Italia? Sì, ma non troppi. Certamente siamo messi meglio di anni fa, ma ancora lontani da quanto sarebbe augurabile. La casa Editoriale Scienza tra i suoi meriti ha quello di riuscire a trovare nello scenario italiano non troppo affollato – perciò talvolta anche pescando all’estero – scrittori e illustratori che colgono nel segno. Tra i libri editi su questa linea, ne ha mandato uno in libreria che andrebbe presentato nelle sedi opportune come un esempio pressoché insuperabile di comunicazione didattica tanto chiara quanto divertente, tanto lieve quanto profonda, tanto seria quanto vivace. Si tratta di Sulle tracce degli antenati L’avventurosa storia dell’umanità. Ne è autore Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche presso l’Università degli studi di Padova. Segretario del consiglio scientifico del Festival della scienza di Genova e co-direttore scientifico del Festival delle Scienze di Roma; è, inoltre, direttore di Pikaia, il portale italiano dell'evoluzione, e autore di numerose pubblicazioni, fra le quali i libri “Homo sapiens e altre catastrofi” (2002), “La teoria dell’evoluzione” (2010). Con Niles Eldredge e Ian Tattersall ha curato l’edizione italiana della mostra internazionale Darwin. 1809-2009 (Roma-Milano-Bari 2009-2010). Collabora con Il Corriere della Sera, le riviste Le Scienze, Micromega, L’Indice dei libri. QUI il suo sito web.
Dopo questa presentazione, si potrebbe pensare a un austero signore che con linguaggio accademico tiene lezioni lisciandosi pensosamente la lunga barba. No, niente di tutto questo. E proprio in Editoriale Scienza Pievani aveva fornito una prova di come si possa insegnare anche usando modi birichini, fin dal titolo Perché siamo parenti delle galline? (a proposito, non perdetevi il divertente video che sta in quella pagina perché è un buon approccio a “Sulle tracce degli antenati”. Questo libro, infatti, racconta di un viaggio che un ragazzo, Luca, compie attraverso il tempo facendo il giro di mezzo mondo alla ricerca di cugini e antenati, in pratica fino alle origini dell’umanità. I capitoli si svolgono in forma d’intervista fra Luca e diversi personaggi di varie epoche dapprima lontanissime da noi, poi meno lontane, fino ad arrivare all’Antropocene… che parola difficile! Che vorrà mai dire? Mettiamo mano alla Treccani che così spiega: “È l’era geologica nella quale viviamo noi oggi. La parola è composta dal greco ‘andropos’ (‘uomo’) con l'aggiunta del secondo elemento -cene. Termine che traduce l'inglese Anthropocene, divulgato dal premio Nobel per la chimica atmosferica Paul J. Crutzen”. Anche altri termini sono spiegati nel libro in un prezioso Glossario che chiude le pagine. Ecco una pubblicazione che oltre ad essere un esempio di come fare didattica nell’editoria stampata, è anche necessaria perché attraversiamo anni in cui c’è stata un’insidiosa, antiscientifica, ripresa antievoluzionista che ciancia di “disegno intelligente” e altre amenità. Telmo Pievani Sulle tracce degli antenati Illustrazioni di Adriano Gon Pagine 140, Euro 19.90 Editoriale Scienza
L'angelo abietto
Nacque a Yale il 23 dicembre 1929 il trombettista Chesney Henry Baker, detto Chet. La sua vita ha avuto tre protagonisti: la tromba, il jazz, l’eroina, non necessariamente in quest’ordine.
La biografia di Chet (in foto, in uno scatto di Jay Maisel) si ferma a 59 anni quando precipitò dalla finestra di un albergo di Amsterdam. Mai dissolta, finora, l’ombra dell’omicidio. Era il 13 maggio 1988. Nella sua carriera – scrive Stefano Marzorati – Baker suonò con molti popolari musicisti della scena jazz, da Stan Getz a Charlie Parker, ma il suo momento di maggiore splendore lo raggiunse quando, in California, iniziò a collaborare con il sassofonista Gerry Mulligan, formando un quartetto che incontrò gradualmente i favori di pubblico e critica. Baker divenne ben presto protagonista della scena: era lui a dominare sul palco, con il suo aspetto da “bello e dannato”, l'aria ribelle, quel suono della sua tromba […] Baker aveva negli occhi un non-so-che da cowboy, uno sguardo sempre un po' fuori fuoco, portava la tromba alle labbra come una bottiglia di brandy, non suonava ma la sorseggiava. Dedicato proprio a Chet Baker, nell’àmbito di Atti Sonori, debutta a Bologna un molto interessante progetto di Le Belle Bandiere – sostenuto da Regione Emilia-Romagna e Comune di Russi - intitolato: L’angelo abietto concerto di parole e suoni per voce e trio. Voce, drammaturgia e mise en espace di Marco Sgrosso. Il trio è composto da Felice Del Gaudio (contrabbasso), Guido Guidoboni (tromba), Nico Menci (pianoforte). Questo spettacolo di vocalità e musica, partendo dall’autobiografia di Baker (in Italia pubblicata da minimum fax con il titolo Come se avessi le ali), è un omaggio e un ringraziamento per quanto ha dato a tutti noi l’anima tormentata di uno tra i più grandi trombettisti del secolo passato. Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare uno dei suoi tanti successi: My Funny Valentine. Buon ascolto. Ufficio stampa Le Belle Bandiere Raffaella Ilari / mob. +39.333 - 430 16 03 email raffaella.ilari@gmail.com L’angelo abietto Info: email: info@attisonori.it tel: 393 - 91 426 36 Piccolo Teatro del Baraccano via del Baraccano 2 - Bologna 21 e 22 ottobre 2016 ore 21.00
lunedì, 17 ottobre 2016
Gli africani siamo noi (1)
“Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero”, così dice lo scrittore irlandese William Butler Yeats. Quell’albero è cresciuto in Africa come leggiamo in un libro che riesce a spiegare cose complesse con semplicità, e talvolta umorismo. Lo ha scritto per Laterza un grande genetista qual è Guido Barbujani intitolandolo Gli africani siamo noi Alle origini dell’uomo. Cosmotaxi lo ha intervistato. Prima d'incontrarlo, ecco qualche cenno su questo studioso di fama internazionale che ha vinto il Premio Napoli con una motivazione che mi pare ne colga con particolare acutezza la figura e l’opera: Guido Barbujani si è segnalato per la sua opera di divulgazione scientifica, che ha avuto come oggetti privilegiati l'evoluzione umana e il tema delle ‘razze'; nonché per la sua produzione narrativa, tra fiction, autobiografia e documento. Per entrambe le vie, ha fornito al dibattito culturale utili antidoti a pericolose tendenze ideologizzanti e pseudo-scientifiche. La sua prosa, limpida ed efficace, e il senso innato della narrazione, ne fanno una figura singolare nello scenario italiano dove, a dispetto di Galilei, la qualità media della divulgazione scientifica appare oggi modesta. . Barbujani ha 55 anni. Ha lavorato alle Università di Padova, State of New York a Stony Brook, Londra e Bologna, e dal 1998 è professore di Genetica all’Università di Ferrara. Ha pubblicato: L'invenzione delle razze (Bompiani 2006); Europei senza se e senza ma (Bompiani 2008); Lascia stare i santi Einaudi 2014; Contro il razzismo (con Marco Aime, Clelia Bartoli, Federico Falloppa) Einaudi 2016; Sono razzista ma sto tentando di smettere per Laterza. Ecco la presentazione editoriale di “Gli africani siamo noi” “Non bisognerebbe affrontare le sfide del Ventunesimo secolo con l’armamentario concettuale e ideologico del Settecento, ma succede. La convivenza fra persone di provenienze diverse, portatrici di diverse esperienze, stili di vita e convinzioni, pone problemi complessi. Per una curiosa reazione, molti invocano soluzioni illusoriamente semplici – fili spinati, muri, quote di immigrati, fogli di via – rispolverando vecchissime teorie sull’insanabile differenza razziale fra popoli del nord e del sud. Questo testo cerca, al contrario, di stimolare qualche ragionamento. Prima di tutto, sulle responsabilità di molti scienziati nel fornire giustificazioni di comodo per lo schiavismo e il colonialismo; e poi su quanto le teorie della razza, che pure hanno generato sofferenze e conflitti enormi e reali, si siano rivelate irrealistiche, incoerenti e incapaci di farci comprendere la natura delle nostre differenze. ‘Gli africani siamo noi’ racconta anche un po’ delle cose che abbiamo capito da quando la biologia ha abbandonato il paradigma razziale: parla di come nel nostro genoma restino tracce di lontane migrazioni preistoriche; e anche di come forme umane diverse, forse specie umane diverse, si siano succedute e abbiano coesistito, finché sessantamila anni fa i nostri antenati, partendo dall’Africa, si sono diffusi su tutto il pianeta”
Segue un incontro con Guido Barbujani.
Gli africani siamo noi (2)
A Guido Barbujani (in foto) ho rivolto alcune domande. Qual è l’epoca in cui nasce il razzismo nella forma moderna? Difficile dirlo: nascono in continuazione nuove forme di razzismo e chissà qual è la più moderna. Se parliamo di razzismo scientifico, cioè del tentativo di giustificare con teorie pseudoscientifiche la discriminazione sociale, l’alfa e l’omega potrebbero essere Joseph-Arthur de Gobineau nell’Ottocento, e il cosiddetto realismo razziale nell’ultimo decennio. Nel suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Gobineau si immagina che le grandi civiltà nascano da un elemento etnico primordiale (parole sue), la cui purezza viene però messa a repentaglio dall’apporto di razze straniere che ne diluisce il sangue, e con esso la capacità creatrice (sempre parole sue). Nell’Ottocento posizioni del genere si potevano giustificare, se non altro, perché se ne sapeva molto poco di preistoria e di biologia, cioè di come si siano sviluppate le società umane e di quanto il cosiddetto sangue (oggi diremmo il DNA) sia assomigli in ogni popolazione umana. Da allora, però, l’archeologia e la genetica hanno fatto passi da gigante, e le teorie di Gobineau restano buone solo per chiacchiere da bar. Ma le ultime teorie razziste, che si manifestano con ragionamenti più sofisticati, sono analoghe nella sostanza. Va bene, si dice, biologicamente siamo tutti simili, l’abbiamo capito. Ma i popoli dell’Occidente (oppure gli anglosassoni; oppure gli ungheresi; oppure i giapponesi; il discorso è lo stesso a diverse longitudini) hanno realizzato società ricche e felici, gli altri no, e quindi ci sarà fra noi e loro una differenza biologica che, per quanto piccola, è significativa e va difesa. Siccome vogliamo tutti mantenere lo standard di vita occidentale (o anglosassone, o ungherese, ecc.), che non ci salti in mente di aprirci all’immigrazione. Posizioni del genere sono state astutamente battezzate realismo razziale, a suggerire che chi non le condivide ha la testa sulla luna. Vale la pena di ribadire che la loro base scientifica è, come quella delle teorie di Gobineau, inesistente. Lei scrive che “Charles Darwin e Thomas Huxley avevano intuito che l’umanità viene dall’Africa, ma non avevano nessun dato concreto per dimostrare questa loro (fondatissima, come sappiamo) convinzione”. In che cosa consiste quel dato concreto e da quando ne disponiamo? Ai tempi di Darwin, era noto un solo fossile umano, l’uomo di Neandertal, e c’era chi sosteneva che si trattasse non di una forma umana arcaica, ma di un individuo deforme, forse “un cretino”. Semplicemente, non c’erano abbastanza conoscenze per poter ricostruire le origini della nostra specie. Oggi conosciamo centinaia di reperti fossili, sappiamo datarli e da alcuni di loro abbiamo estratto il DNA. Tutti i fossili umani più antichi, fra 6 e 2 milioni di anni fa, vengono dall’Africa, e quindi l’umanità in senso lato viene sicuramente di là. Ma c’è di più. Poco meno di 2 milioni di anni fa sono documentate forme del genere Homo in Georgia (dunque qualcuno era uscito dall’Africa), e poi in Asia (li chiamiamo Homo erectus) e in Europa (i Neandertal). Tutte queste popolazioni erano sì umane, ma diverse da noi Homo sapiens: nell’anatomia e nel DNA. Esseri umani come noi, con la nostra fronte verticale e un DNA simile al nostro, compaiono in Africa 200mila anni fa, e a partire da 100mila anni fa si diffondono su tutto il pianeta, rimpiazzando le forme umane precedenti. Si discute se questi migranti africani si siano incrociati con i neandertaliani; ma, se è avvenuto, si è trattato di episodi che hanno lasciato minime tracce nel nostro DNA. Dunque, se vogliamo rintracciare i nostri antenati di 100mila anni fa, non è in Europa, ma in Africa che dobbiamo cercarli. Come spiega che nel XXI secolo, dopo la tragedia generata dal nazismo, dopo le tante scoperte scientifiche della biologia, esistano scienziati che giustificano l’antievoluzionismo o addirittura se ne fanno propugnatori? Si spiega, si spiega. Fra il concetto di razza umana, che lo studio dell’evoluzione e della genetica hanno messo in crisi, e il razzismo, c’è un rapporto solo etimologico. Le ossessioni e le paranoie che generano atteggiamenti discriminatori, xenofobi e razzisti, nascono nell’insicurezza economica, nell’ignoranza, nella solitudine dei ghetti urbani. Hanno poco o niente a che vedere con la nostra natura biologica, e molto invece con la struttura sempre più squilibrata delle nostre società, con i fondamentalismi religiosi e con le ormai abissali disuguaglianze economiche. Guido Barbujani Gli africani siamo noi Pagine 152, Euro 15.00 Laterza
venerdì, 14 ottobre 2016
Lo strangolatore di Moret
Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da tempo non recensisco romanzi né poesia stampata (ma quella audiovisiva sì), chi volesse sapere perché basta che clicchi QUI. Nella narrativa m’interesso soltanto ai racconti perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza altro che scrivere oggi romanzi o romanzoni. Non è un caso che nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupi largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, a Tzvetan Todorov ad altri ancora. “Toccherà a Genette” - scrive Francesco Muzzioli (Le teorie della critica letteraria, 1994) – “con ‘Discorso sul racconto’ sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione breve uscendo dalla mera sequenza delle funzioni narratologiche […] Todorov, ad esempio, arriverà addirittura nella compilazione di una “grammatica” del Decameron, a tradurre l’intreccio in formule algebriche”. Insomma i racconti m’interessano, ma mica tutti, solo in quelli in cui vi scorgo una scintilla d’immaginazione capace d’illuminare in poche (meglio se pochissime) pagine angoli di vissuti vertiginosi, profili d’enigmatici personaggi, storie semplicissime e fatali. Un maestro in questo è Georges Simenon del quale Adelphi ha mandato in libreria Lo strangolatore di Moret e altri racconti. Per gli appassionati della scrittura di Simenon, Adelphi, inoltre, ha un menu da tre stelle, per scorrerlo basta un CLIC. Simenon (13 febbraio 1903, Liegi - 4 settembre 1989, Losanna) è autore di una sterminata produzione letteraria pubblicata sotto 17 pseudonimi e con circa 220 opere firmate col suo nome, si stima che abbia venduto oltre 500 milioni di copie, tradotte in una sessantina di lingue, inoltre ha fornito al cinema e alla tv un'infinità di adattamenti e spunti. Particolare patriottico: lo scrittore ha più volte ripetuto che uno dei migliori “Maigret” è stato quello italiano di Gino Cervi (e si tenga presente che quel personaggio ha avuto per interpreti da Pierre Renoir a Charles Laughton, da Harry Baur ad Albert Préjan fino a Jean Gabin). Per la cronaca, quel Maigret andò in onda sulla Rai dal 1964 al 1972 con la regia di Mario Landi. Già, ma non tutti sanno che dietro quella fortunate serie televisiva c’è lo zampino di Andrea Camilleri. Per sapere l’origine di questa storia, cliccate QUI. Si sono sprecati i paralleli fra Simenon e i grandi giallisti, da Conan Doyle ad Agata Cristie, da Rex Stout a Dashiell Hammett, ma il ritratto critico dello scrittore belga va oltre il giallo, in tanti ne hanno parlato come uno dei maggiori scrittori del Novecento. Roger Nimier, Max Jacob, Marcel Aymé, François Mauriac, e il premio Nobel André Gide – lontanissimo da Simenon nello stile di scrittura e di vita – lo considera come «il più grande romanziere di tutti, il più vero romanziere che abbiamo in letteratura». Esagera? Può darsi. Maigret è stato senza dubbio il suo maggiore successo, ma i veri intenditori non trascurano l’altra parte di produzione simenoniana e ne lodano la capacità di scrivere sul breve "Ciò che stupisce in Simenon", disse Fruttero, "è la concretezza della scrittura. Leggevo giorni fa un suo breve romanzo, La pioggia nera. In poche pagine, lui riesce a mettere insieme una vecchia zia, una città, un intero ambiente di provincia. Possiede un senso rigoroso della sintesi: è il suo dono. Il suo è stato l'ultimo occhio 'balzacchiano'. Solo chi crede nella realtà può riuscire a disegnarla con mezzi così strepitosamente succinti. Simenon usa pochissime parole. Mette un aggettivo all'inizio o alla fine di una frase, e gli basta. Perciò riesce benissimo nei racconti”. E questi tre racconti pubblicati da Adelphi sotto il titolo “Lo strangolatore di Moret” ne sono un’eccellente dimostrazione. Da non perdere. Georges Simenon Lo strangolatore di Moret Traduzione di Marina Di Leo Pagine 126, Euro 10.00 Adelphi
mercoledì, 12 ottobre 2016
Crimini di guerra (1)
Sere fa, assistevo alla tv a un dibattito tra un luminare qual è Zagrebelsky e Renzi. A un tratto costui, con quell’aria falsamente indignata che spesso assume, a una pacata verità esposta dall’illustre costituzionalista, lo interruppe dicendo “Lei offende l’Italia!”. Di colpo mi sono ritrovato in un ricordo di tanti anni fa, quando in un dibattito a “Tribuna politica” Ingrao accennò a misfatti combinati dalle nostre truppe in guerra, un dc saltò su e lo interruppe dicendo “Lei offende l’Italia!”. Insomma, ogni volta che non ci si gonfia il petto d’ambiguo patriottismo cantando con la mano destra sul cuore (dalle parti dove c’è anche il portafogli), “si offende l’Italia”. Ben vengano quelle offese se documentano nostre colpe passate o presenti, perché servono a renderci migliori. Coscienti non soltanto delle nostre glorie, e sono tante, nei campi umanistici, scientifici, morali, ma anche dei misfatti da noi compiuti, nella speranza di evitarli in futuro. Ecco perché merita elogi il libro pubblicato da Laterza Crimini di guerra Storia e memoria del caso italiano, firmato da Alberto Stramaccioni. Nato nel 1956, laureato in filosofia nel 1985 presso l'Università di Perugia, ha ottenuto borse di studio per materie storiche di età contemporanea dall'Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, dall'Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, dall'Istituto italiano per gli studi storici di Napoli e da alcune università fra le quali Oxford, Boston, Bielefeld, Cambridge e Parigi. Ha pubblicato studi e ricerche sulla storia regionale e sull'evoluzione dei sistemi politici e delle classi dirigenti nel corso dell'800 e del'900, in Italia ed in Europa. È stato impegnato in Parlamento nelle file democratiche. Più diffuse notizie biografiche e bibliografiche sul suo sito web.
Il libro, dopo una prima parte in cui sono esposti tracciati del diritto internazionale, la legislazione e la giurisprudenza italiana, passa a esaminare, dal capitolo intitolato ‘Le prime guerre degli italiani’, una serie di cruenti episodi. La guerra al brigantaggio, ad esempio, nella quale nomi quali Alfonso La Marmora, Raffaele Cadorna, trasmessi in racconti orali e scritti come fulgide figure militari, comandarono sanguinose repressioni. E che dire della guerra d’aggressione all’Etiopia, iniziata da Mussolini che con la faccia truce, come documenta un filmato dell’epoca, (lo stesso Mussolini che anni dopo, con volto probabilmente meno truce, se la dava a gambe travestito da soldato tedesco) annunciò il 2 ottobre del 1935 l’invasione dell’Etiopia vale a dire a uno Stato membro della Società delle Nazioni. Eroica fu la resistenza degli etiopi contro i quali, in violazione d’accordi internazionali, furono usati anche gas dai terrificanti effetti da Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani. Quest’ultimo si rese anche responsabile dell’ordine impartito al generale Pietro Maletti dello sterminio di circa mille religiosi nella città conventuale di Debrà Libanòs. E poi altri misfatti nella guerra di Spagna (1936 – 1939) che vide per la prima volta i fascisti italiani combattere al fianco dei nazisti. Nella seconda guerra mondiale si registrano altre stragi in Grecia, Albania, in Slovenia, Croazia, in Montenegro. Qui il 12 gennaio 1942 il generale Alessandro Pirzio Biroli ordinò che per ogni soldato ucciso, o ufficiale ferito, la rappresaglia avrebbe compreso una proporzione di 50 ostaggi fucilati. Poi, tra il 1943 e il 1945, nel nostro paese avvengono altri eccidi compiuti dai fascisti della Repubblica di Salò. Valga un solo episodio per tutti gli altri: la fucilazione dei sette fratelli Cervi, catturati da repubblichini e messi a morte ad opera di un plotone italiano e non tedesco. I protagonisti di tanti crimini, nel dopoguerra, se la cavarono quasi tutti e, più di uno, si reinserì nella dirigenza del Paese. Clamoroso il caso di Gaetano Azzariti (Napoli, 1881 – Roma, 1961). Mussolini se ne fida al punto di promuoverlo nel 1939 alla testa del Tribunale della razza. Il 25 luglio 1943 fu nominato Ministro di Grazia e Giustizia nel primo Governo Badoglio. Fuggito il Governo a Salerno, rimase a Roma e trovò rifugio nei conventi della capitale. Dopo la liberazione, nel giugno del 1944, riprese servizio presso l'ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia laddove dal giugno 1945 al luglio 1946 collaborò con il Ministro Palmiro Togliatti. Pochi anni ancora e questo fascistissimo antisemita diventerà addirittura Presidente della Corte costituzionale. Il suo nome è tornato a risuonare quando poco tempo fa ci fu chi richiese (invano) la rimozione del suo busto dal Palazzo della Consulta. Tornando ora a “Crimini di guerra”, va detto che è un libro estremamente documentato, ben scritto, e necessario a mio avviso in quest’epoca di revisionismi, revanscismi, attacchi alla Costituzione partiti perfino da lidi che si fingono di Sinistra. Segue ora un incontro con Alberto Stramaccioni.
Crimini di guerra (2)
Ad Alberto Stramaccioni, in foto, ho rivolto alcune domande.
Com’è nato e si è sostanziato quel mito che ci vuole più tolleranti, più generosi degli altri, e perciò incapaci di atti crudeli; in famose parole “italiani brava gente”? Non credo esistano una data e fatti precisi da riferirsi alla nascita del mito degli "italiani brava gente". Questa immagine non si è certo formata durante l'occupazione italiana della Libia, dell'Eritrea, della Somalia e tantomeno in Etiopia e in Spagna dove sono state compiute stragi, bombardamenti sulle popolazioni civili, violenze efferate. Forse durante la seconda guerra mondiale il comportamento dei soldati italiani del Regio Esercito chiamati a combattere in Russia e nel Balcani, e non certo i volontari inquadrati nelle truppe ideologizzate dal regime fascista, si sono comportati, e non tutti, in modo meno aggressivo, violento e razzista delle truppe di occupazione nazista e delle SS attive nelle stesse zone. Perché non c’è stato in Italia un Tribunale come a Norimberga? Nell'immediato dopoguerra esistevano le condizioni politiche per una Norimberga italiana, ma con l'avvio della guerra fredda venne messa in atto una specie di strategia politica dell'occultamento dei crimini di guerra da parte della magistratura militare e dai governi. D’altronde l'Italia non accoglieva la richiesta da parte della Jugoslavia, della Grecia e dell'Albania, ma anche della Russia e della Francia di consegnare i suoi militari resisi responsabili dei crimini di guerra, compiuti tra il 1940 e il 1943, per essere processati nei diversi paesi. Ed era così che non poteva pretendere di processare a sua volta i militari tedeschi considerati responsabili delle stragi, soprattutto dei civili, compiute in Italia tra il 1943 e il 1945. L'Italia era quindi oggettivamente responsabile e vittima dei crimini di guerra per aver prima collaborato con i nazisti e poi, dopo l'8 settembre 1943, divenuta cobelligerante con gli angloamericani e quindi avversaria dei tedeschi. Non voler riconoscere le responsabilità dei propri soldati in Africa Orientale e soprattutto nei Balcani ha impedito all'Italia di poter perseguire i nazifascisti colpevoli delle stragi compiute sul suo territorio. L’amnistia del giugno 1946 che prende il nome dal ministro della giustizia Togliatti quanto ha pesato sulla nostra storia da allora fino ad oggi? Al di là delle tante strumentalizzazioni e polemiche la cosiddetta "amnistia Togliatti”, un provvedimento del governo De Gasperi, si è voluto interpretare come un colpo di spugna sui crimini compiuti dai fascisti soprattutto da parte di quei magistrati che avevano chiare simpatie fasciste o il desiderio di giungere il più presto possibile ad una specie di pacificazione nazionale dopo la sanguinosa guerra civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti. Va comunque aggiunto che al momento in cui la legge produceva i suoi effetti, peraltro limitati, il processo di pacificazione-rimozione nazionale era già avviato. Alberto Stramaccioni Crimini di guerra Pagine 180, Euro 20.00 Laterza
martedì, 11 ottobre 2016
Una razzia del 1943
Poiché la domenica Cosmotaxi non va on line, quando c'è una ricorrenza da ricordare (e quella di cui ora scrivo capita domenica prossima) ne anticipo la pubblicazione. Tra gli avvenimenti crudeli che hanno colpito Roma nel secolo scorso, una dei più terribili si verificò il 16 ottobre '43. Quel giorno, infatti, ci fu il più grande rastrellamento contro gli ebrei in Italia; i nazisti deportarono dalla capitale oltre mille ebrei, in maggioranza donne e bambini. Furono portati ad Auschwitz, solamente in 16 tornarono dal campo di sterminio. Se abitate a Roma, o vi trascorrete qualche giorno, segnalo una mostra, aperta fino al 15 gennaio 2017, che ricorda la razzìa. Tempo fa ebbi il piacere d’intervistare Anna Foa in occasione dell’uscita del suo libro Portico d'Ottavia 13 che porta il lettore, attraverso la microstoria di un solo edificio e dei suoi abitanti, nella macrostoria di una tragedia. Da quell’incontro ne estraggo un momento. ....................................................................
Oltre alle leggi razziali, il fascismo quali responsabilità dirette ha avuto nei nove mesi d’occupazione nazista di Roma? Anna Foa: Il fascismo ha avuto responsabilità primarie negli arresti e deportazioni degli ebrei romani dopo il 16 ottobre 1943. Come nel resto d’Italia, a partire dal novembre-dicembre del 1943, dichiarando gli ebrei nemici dell’Italia, il regime di Salò si era assunto in prima persona il compito della caccia agli ebrei che i nazisti, che erano impegnati sul fronte militare, non erano in grado di condurre efficacemente. A Roma come altrove, perciò, la polizia italiana aderente alla Repubblica di Salò era impegnata nella cattura degli ebrei. Il questore Caruso, nominato a Roma all’inizio di febbraio 1944, aveva tuttavia scarsa fiducia nella rete dei commissariati di zona, e creò dei gruppi speciali di polizia addetti all’arresto degli ebrei. Oltre a questi, vi erano a Roma bande di delinquenti che agivano nella cattura degli ebrei sotto il nome di SS italiane, rispondendo direttamente a Kappler, quali la banda Cialli Mezzaroma e quella di Renato Ceccherelli. Queste bande agivano principalmente sulla base di delazioni. Un gran numero degli ebrei arrestati a Roma nel periodo successivo al 16 ottobre, in tutto più di mille, furono arrestati dagli italiani, e fra loro tutti gli abitanti della Casa al numero 13. I nazisti durante il rastrellamento possedevano elenchi delle persone da deportare. Chi aveva redatto quelle liste? I tedeschi? Poliziotti italiani? Anna Foa: Le liste furono il frutto del lavoro congiunto dei nazisti di Dannecker e di poliziotti italiani di Salò, preposti ad aiutare i nazisti nell’organizzare le liste per quartiere e edificio e nel collazionare le diverse liste esistenti. Alla base delle liste era il Censimento degli ebrei italiani, fatto da Mussolini nel 1938, periodicamente aggiornato e presente nelle Questure, nelle Prefetture e in alcuni commissariati. Esse sono state probabilmente ulteriormente aggiornate e corrette con il ricorso alle liste dei contribuenti della Comunità, sequestrate dai nazisti il giorno successivo all’episodio della raccolta dell’oro e, secondo alcuni, con il confronto con le liste generali degli iscritti alla comunità. Su questo punto, la discussione è stata accesa fin dal dopoguerra e resta tuttora viva perché la comunità ha sempre negato che le liste degli iscritti siano state sequestrate dai nazisti. .................................................................... La politica antisemita è spesso confinata nella Germania hitleriana quasi non fossero esistite in Italia le leggi razziali determinando la perdita dei diritti civili per 58mila nostri connazionali. Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio 1938, firmato da 10 scienziati italiani (i nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari), sorretti da altre 329 firme; per sapere come agirono consiglio la lettura del volume di qualche anno fa "I dieci" scritto da Franco Cuomo che così conclude le pagine: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono. In prima persona. Perché lo furono”.
lunedì, 10 ottobre 2016
Nuove mostre alla Fondazione Fotografia
Alla Fondazione Fotografia di Modena, diretta da Filippo Maggia, è aperta dal 15 settembre la nuova stagione espositiva. Due le mostre in corso. Photographie d'Italie la prima monografica italiana dedicata a Robert Rive (Breslavia 1825 ca. – Napoli 1895 ca.), fotografo di origini tedesche che nella seconda metà dell’ottocento ha immortalato le più famose città e gli scorci più suggestivi del Bel Paese. L’altra mostra è intitolata Lying in Between. Hellas 2016. È dedicata all’emergenza umanitaria dei profughi in Grecia e rappresenta l’esito di una missione fotografica promossa da Fondazione Fotografia la scorsa primavera.
Robert Rive di famiglia d’origini francesi, nato a Breslavia probabilmente intorno al 1825, quando la città era in territorio prussiano (oggi Polonia), si trasferisce a Napoli nel 1850 dove, insieme con il fratello Giulio, apre uno studio fotografico che resta attivo fino alla metà degli anni Novanta, trasferendosi in diversi indirizzi della città. Nel 1867 partecipa all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1874 presenta all’esposizione della Société Francaise de Photographie un album con vedute dell’Italia che si ipotizza essere quello presentato in mostra. Scrive la curatrice Chiara Dall'Olio “Nonostante sia considerato fra i più importanti fotografi di paesaggio che hanno operato in Italia, la scarsità d’informazioni sulla sua attività fotografica, così come la frammentarietà dei dati biografici, hanno contribuito alla minor fortuna critica di questo autore rispetto ad altri e hanno causato anche alcuni errori negli studi che lo riguardavano”. In foto: Robert Rive, Rovine del Palazzo di Donna Anna a Posillipo. Napoli, 1860-1870 Nella mostra è integralmente visibile in originale, grazie ad un allestimento suggestivo, un album totalmente inedito di grandi dimensioni (52 x 32 cm), “Photographies d’Italie par R. Rive, Naples”, contenente 147 preziose vedute all’albumina delle località maggiormente frequentate dai turisti del Grand Tour: da Genova a Torino, Milano e Venezia, fino a Taormina e Palermo. Catalogo edito da Skira Lying in Between. Hellas 2016, come scrivevo in apertura, è dedicata all'emergenza umanitaria dei profughi in Grecia. È il risultato della prima missione all'estero promossa da Fondazione Fotografia. Alla mostra è abbinata un'operazione di charity: i fotografi che hanno preso parte alla missione in Grecia Antonio Biasiucci, Antonio Fortugno, Angelo Iannone, Filippo Luini, Francesco Mammarella, Simone Mizzotti, Francesco Radino, hanno accettato di destinare in beneficenza i proventi della vendita di alcune delle opere che saranno esposte al Foro Boario, ristampate in un'edizione speciale a tiratura limitata. Il ricavato sarà devoluto all'associazione Samos Volunteers, che accoglie i profughi sbarcati sull'isola di Samos e sostiene la popolazione locale impegnata nell'assistenza. Ma non è finita qui. Alcuni protagonisti dell'iniziativa sono in questi giorni negli stessi luoghi per proseguire nella documentazione dell'emergenza umanitaria che affligge le isole. Una troupe di ripresa, composta da Filippo Maggia e Daniele Ferrero, già autori di un'installazione video che compare all'interno di “Lying in Between”, è al lavoro sulle isole di Lesbos, Chios, Samos e Kos. "Da informazioni recentissime” - dice Filippo Maggia - “pare che la situazione sulle isole greche sia assai peggiorata rispetto a quando siamo partiti la prima volta, nel maggio scorso: il governo greco ha annunciato espulsioni di massa e nel frattempo crescono i disordini all'interno dei campi, sempre più affollati riteniamo quindi che sia doveroso tornare, testimoniare ancora una volta il nostro impegno e aggiornare la missione". I nuovi materiali raccolti confluiranno in un documentario video, che entrerà a far parte dell'allestimento della mostra “Lying in Between”.
Ufficio Stampa: Cecilia Lazzeretti; tel. 059 – 23 98 88; press@fondazionefotografia.org “Robert Rive. Photographie d'Italie” “Lying in Between. Hellas 2016” Modena, Foro Boario, Via Bono da Nonantola 2 Info: 059 – 22 44 18 biglietteria@fondazionefotografia.org Fino all’8 gennaio 2017 Ingresso libero
venerdì, 7 ottobre 2016
Tesla in Editoriale Scienza
La casa editrice Editoriale Scienza porta da tempo i suoi lettori in vari campi scientifici e laboratoti tecnici. Ora si entra nel mondo della biologia, ora in quello della matematica, in un libro si visita la zoologia e in un altro ci si aggira nello Spazio tra cosmonauti e astronavi. Né sono trascurate le biografie di scienziati e inventori, dando posto anche alle figure femminili, cosa questa piuttosto trascurata specie nell’editoria per ragazzi. Un merito particolare di ES è anche rapportare costantemente le scoperte di ieri al mondo di oggi e questa è una modalità vieppiù coinvolgente per chi legge. Come, ad esempio, accade nella recente pubblicazione Tesla e la macchina a energia cosmica. Ne è autore Luca Novelli, ideatore della collana “Lampi di genio” (in cui esce questo libro) che meritò anni fa il Premio Legambiente; per saperne di più su di lui e il suo stile di lavoro: CLIC! Ma chi è stato nella storia delle scienze Nikola Tesla? È stato un ingegnere, inventore e fisico serbo (10 luglio 1856 – 7 gennaio 1943) naturalizzato statunitense nel 1891. Alto quasi 1.90, magro, di temperamento solitario ed eccentrico, è conosciuto soprattutto per i lavori rivoluzionari che svolse, dando decisivi contributi nel campo dell'elettromagnetismo (di cui è stato un pioniere) tra la fine dell'800 e gli inizi del ‘900. I suoi numerosi brevetti e il suo lavoro teorico formano la base del moderno sistema elettrico a corrente alternata che fu all’origine di un’aspra disputa fra lui ed Edison convinto che il futuro fosse la corrente continua. Quel “futuro” ha dato ragione più a Tesla che ad Edison perché, per dirne una, è il tipo di corrente più utilizzata nelle nostre case.
Non è raro il caso in cui ci troviamo dinanzi a videogiochi chiamati Tesla e nel quale agiscono armi fantascientifiche. Non è un caso, perché Tesla ne ha inventato di cose con la sua sbrigliata fantasia che in certi momenti gli è costata l’accusa di “scienziato pazzo” come quando inventò il cosiddetto “raggio della morte” che suscita tutt’oggi – epoca di terribili armi – accese discussioni sulla paternità, fra lui e Guglielmo Marconi, dei principii di quell’invenzione che è all’origine, secondo molti, dello scudo spaziale. Così come un'altra polemica scientifica e giudiziaria vide contrapposti Tesla e Marconi circa l’invenzione della radio che tutti noi sappiamo essere di Marconi. Qual è la verità? Dice l’astrofisico Massimo Teodorani: "Non c’è una verità. La mia opinione è che entrambi fossero arrivati a conclusioni simili. È certamente vero che Marconi visitò i laboratori di Tesla, ma non penso che abbia rubato l’idea. La corte americana, con la sua sentenza del 1943 favorevole a Tesla, ha soltanto dimostrato che lui sviluppò per primo il progetto, che comunque era un sistema meno sofisticato di quello di Marconi. Si può affermare che in ordine cronologico il principio della radio sia da attribuire a Tesla. E per questo, lo scienziato serbo-croato si sentiva defraudato. In realtà, Tesla esagerava perché molto spesso, nel campo scientifico, capita che più ricercatori raggiungano, indipendentemente l'uno dall'altro, gli stessi risultati". Di sicuro Tesla fu un uomo onesto, sta a dimostrarlo anche il fatto che avrebbe potuto trarre sostanziosi profitti dalle sue idee e invece morì pressoché povero. I suoi ultimi giorni trascorsero nell’albergo New Yorker a Manhattan, il solo albergo che ancora gli faceva credito, abitava la stanza 3327. In quella camera dopo la sua morte si precipitarono agenti di servizi segreti, probabilmente quelli dell’americano OSS (Office of Strategic Services). Che cosa cercavano quei signori? Carte in cui lo scienziato poteva aver progettato efficaci sistemi di difesa oppure formidabili armi d’offesa. Se ne andarono delusi. A mani vuote. Almeno così sappiamo. Luca Novelli Tesla Pagine 128, Euro 8.90 Editoriale Scienza
giovedì, 6 ottobre 2016
La donna che visse due volte
Questo sito non si occupa di narrativa, ma il libro che citerò fra poco si presta ad un tema trattato da Cosmotaxi: i rapporti fra letteratura e cinema, vecchia querelle ancora oggi viva e che vede plurali punti di vista. L’errore commesso più di frequente è cercare nel film le emozioni date dalla pagina e viceversa. Si tratta di due linguaggi diversi, il cinema si è servito, e si serve, dei romanzi per poi leggerli attraverso la macchina da presa che inevitabilmente, e spesso opportunamente, cambia i segni dell’inchiostro per quelli in celluloide. Esiste chi ha affrontato il problema prima ancora che la pagina diventasse fotogramma, si pensi, ad esempio al determinismo tecnologico di McLuhan che afferma “l’uomo tipografico ha subito accettato il cinema proprio perché offre, come il libro, un mondo interiore di fantasie e di sogni. Lo spettatore cinematografico è psicologicamente solo come il silenzioso lettore di libri”. In realtà, “… più che la valutazione della fedeltà o meno degli adattamenti” – scrive Antonio Costa per la Treccani – interessa lo studio delle relazioni intertestuali e intermediali, tanto per i modi di produzione quanto per le forme di consumo della narrativa sia letteraria sia audiovisiva. Sono disparate le suggestioni che diversi tipi di scrittura letteraria possono fornire al cinema, il quale a sua volta contribuisce a una più ampia circolazione di opere in precedenza poco note al grande pubblico”. Già, perché non sempre bei film sono tratti da romanzi famosi o di grande bellezza. Kubrick diceva che si fanno bei film solo da brutti libri e citava “Shining” – non so se a ragione – a sostegno della sua tesi. Così come esistono libri noti che hanno avuto versioni cinematografiche diversissime fra loro e tutte importanti. Un esempio: dal romanzo di Octave Mirbeau “Diario di una cameriera”, diciotto anni prima del film di Buñuel (1964), Renoir, nel 1946, aveva tratto un altro notevole film dallo stesso testo. Confrontando il romanzo con le due versioni cinematografiche, si individuano differenti scelte narrative, stilistiche, interpretative operate dai due registi per opere che restano nella storia del cinema.
Una coppia di scrittori di successo (una cinquantina di romanzi e un’ottantina di racconti) i cui nomi sono Pierre Boileau (1906-1989) e Pierre Ayraud, detto Thomas Narcejac (1908-1998) sono stati per quarant’anni i Fruttero & Lucentini francesi. Si racconta – ma la cosa non è provata – che i due scrissero D’entre les morts (da noi noto come La donna che visse due volte, ora pubblicato dalla casa editrice Adelphi) con il preciso scopo di vendere ad Alfred Hitchcock il loro lavoro. La speranza era riposta nel fatto che il regista avrebbe voluto acquistare i diritti per un altro loro libro, “I diabolici”, ma Henri-George Clouzot lo aveva preceduto. Stavolta Hitchcock riuscì ad essere il primo (concorrenti ce n’erano) a comprare. Questa trasposizione cinematografica – destinata a diventare un must per i cinefili - al principio, però, non ebbe successo presso il pubblico e tiepida fu accoglienza da parte dei critici. Il film è oggi inserito fra quelli conservati nel National Film Registry presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 2008 l'American Film Institute l'ha inserito al nono posto nella classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi. Nel 2012, secondo il sondaggio di Sight and Sound, per conto del British Film Institute, ha scalzato Orson Welles e il suo “Quarto potere”, che deteneva il primato dal 1962, andando ad occupare il primo posto come migliore film di sempre. E il libro? Pur senza raggiungere il successo del film, a differenza di questo, subito, alla sua uscita, vendette moltissime copie e ancora oggi non è trascurato dai lettori. Contiene, infatti, una tensione che discende dal grande mestiere degli autori, dialoghi rapidi, serrati, nulla di inutile nello svolgimento, si va diritto agli occhi di chi legge che non riesce a staccarli dalla pagina. Cinema e letteratura. Ecco un caso di due successi, ma soprattutto quello cinematografico, che probabilmente vide i due autori del romanzo che stentarono a riconoscere sullo schermo il proprio lavoro. L'azione del libro, infatti, si svolge nella Francia degli anni Quaranta, il film si svolge invece nella California del decennio successivo, ma non basta. C'è una rivelazione anticipata a un terzo dalla fine della storia (per permettere al regista di svolgere il tema del doppio a lui caro).Inoltre, il film presenta anche un finale diverso da quello scritto da Boileau e Narcejac. E allora? Ecco una buona occasione per vedere (o rivedere) il film e leggere il libro che è frutto di due grandi professionisti del thriller. Giustamente il quarto di copertina avverte il lettore: “Attenzione però: se è vero che ci si accinge alla lettura del libro avendo davanti agli occhi la sagoma allampanata di James Stewart e il corpo di Kim Novak, a mano a mano che ci si inoltra nelle pagine del romanzo le immagini del film si dissolvono e si impone, invece, potentemente la dimensione onirica, angosciosa, conturbante di Boileau e Narcejac, che sanno invischiare il lettore negli stessi incubi ai quali i loro personaggi non riescono a sfuggire fino all'ultima pagina – e anche oltre”. Pierre Boileau - Thomas Narcejac La donna che visse due volte Traduzione di Federica Di Lello e Giuseppe Girimonti Greco Pagine 196, Euro 18.00 Adelphi
mercoledì, 5 ottobre 2016
Sconfinamenti
Nella “Collana Althusseriana Quaderni” è stato pubblicato dalle Edizioni Mimesis Sconfinamenti Scritti su marxismo, economia ed epistemologia in onore di Maria Turchetto a cura di Étienne Balibar - Andrea Cavazzini - Vittorio Morfino. Maria Turchetto (in foto), laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Pisa e diplomata presso la Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, ha seguito il corso di perfezionamento presso la Classe di lettere e filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è stata ricercatrice presso il Seminario di filosofia e si è occupata principalmente di epistemologia delle scienze sociali. Nell'anno accademico 1994-95 ha ricoperto per supplenza l'insegnamento di Economia politica, negli anni successivi per affidamento il corso di Storia del pensiero economico. Insieme con Gianfranco La Grassa e Edoardo De Marchi, è coautrice dei volumi Per una teoria della società capitalistica. La critica dell'economia politica da Marx al marxismo e di Oltre il fordismo. Ricordo anche le traduzioni di cinque racconti di Mark Twain Paradisi, il saggio introduttivo a Il diritto alla pigrizia di Paul Lafargue,Carognate, cazzate e consigli. Collabora a “Il Vernacoliere” e per quelle edizioni ha pubblicato Dizionario di economia per allezziti La sua firma la troviamo su riviste italiane e straniere (Historical Materialism, Actuel Marx, Critìca Marxista). I saggi e gli interventi riuniti in questo volume, intitolato Sconfinamenti, costituiscono un omaggio alla sua opera in occasione del pensionamento avvenuto nel 2014 all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Pensionamento che, però, la vede più impegnata di prima nella condirezione dell’Ateo (bimestrale dell’Uaar), nello scrivere articoli, tradurre, rispondere a interviste, partecipare a convegni. I testi di “Sconfinamenti” si dividono in tre parti, ciascuna delle quali corrisponde ad un aspetto del suo lavoro: rispettivamente, lo studio e la diffusione del pensiero di Louis Althusser, la ricostruzione del paradigma teorico marxista, l’esplorazione dei metodi e degli autori dell’“epistemologia storica”, dai classici francesi come Bachelard fino a Stephen Jay Gould. Il volume rende omaggio non solo alle ricerche compiute e sostenute da Maria Turchetto in questi ambiti, ma anche alla capacità del suo lavoro di rendere possibili degli incontri fecondi, di aprire spazi di collaborazione e di lavoro comune: una capacità di cui tutti gli autori di questo volume, assieme a molti altri, hanno beneficiato nel corso degli anni. Oltre a quelli dei tre curatori, nel libro saggi di Luca Pinzolo – Fabio Raimondi – Michele Cangiani –Gianfranco La Grassa – Edoardo De Marchi – Luigi Cavallaro – Elena Gagliasso – Sara Campanella – Giulia Frezza – Charles Alunni – Marcello Buiatti – Enrico Castelli Gattinara. A Maria Turchetto ho rivolto un paio di domande Epistemologia. Diciamolo con franchezza, è parola che può terrorizzare più d’uno. A cominciare da me. Puoi spiegare – in parole semplici – di che cosa tratta questa parte della filosofia? Meno male, una domanda facile! Woody Allen ha già dato un'ottima risposta in “Saperla lunga”, ti passo quella. "Epistemologia - E' conoscibile la conoscenza? Se non lo è, come facciamo a saperlo?". Scherzi a parte, è quasi così. L'epistemologia è il "discorso sul metodo". Le scienze producono conoscenze e ogni tanto si interrogano su qual è il procedimento corretto per ottenere conoscenze vere, o se preferisci verificabili - insomma conoscenze e non scemenze. Ti dirò che per me epistemologia e filosofia coincidono, cioè la filosofia è questa riflessione diciamo di secondo grado sui procedimenti scientifici, il resto son chiacchiere. Ma pochi - soprattutto pochi filosofi - sono d'accordo con me. Qual è l’importanza di Althusser nel pensiero contemporaneo? E, in particolare, quali le novità da lui apportate nell’interpretazione del marxismo? Althusser appartiene a pieno titolo alla tradizione francese novecentesca di filosofia e storia delle scienze, tradizione che amo molto perché, a differenza di quanto è avvenuto in Italia e in Germania, non ha imboccato la strada deleteria della separazione tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”. Per questo l’Associazione di cui hai parlato prima cura, oltre alla collana dedicata specificamente ad Althusser, anche una collana intitolata “Epistemologia” che ripropone autori come Koyré, Bachelard, Canguilhem. L’operazione che Althusser compie su Marx è proprio quella di individuare nel “Capitale” – la sua opera matura, quella sulla quale va giudicato – un’ epistemologia molto vicina alle scienze contemporanee (per l’impiego di concetti come struttura ed emergenza, ad esempio) e molto lontana invece da Hegel e dalle filosofie della storia che hanno reso il marxismo insopportabile e oggi decisamente improponibile. Per riproporre Marx nel terzo millennio – cosa che tornerebbe davvero utile – bisogna passare per Althusser. Sconfinamenti A cura di: Étienne Balibar Andrea Cavazzini Vittorio Morfino Pagine 256, Euro 22.00 Mimesis
L'Archivio Spatola
Da anni Maurizio Spatola (in foto), fidando solo sulle sue forze e senza alcun aiuto economico pubblico manda avanti un Archivio di poesia verbovisiva e di soundpoetry che abbraccia un tempo che va dalle avanguardie storiche ai nostri giorni. Accanto a questi materiali esiste un prezioso repertorio di riviste ormai altrove introvabili sicché per gli studiosi della letteratura d’avanguardia è obbligatorio passare per quell’Archivio onde consultare la grande massa di pagine, illustrazioni, fotografie, lì conservate.
Ora quell’Archivio segnala di avere messo in rete un ampio documento di 55 pagine, sull'incontro/omaggio ad Adriano Spatola svoltosi a Genova l'11 giugno scorso, comprendente molte immagini e testi, nonché un file audio a parte. Il tutto QUI. Inoltre, nella stessa sezione "Works...", c’è la segnalazione d’un libro di Gian Pio Torricelli (… un grande!) riedito – dopo una prima edizione del 1965 – da Artestampa diretta da Paolo Bonacini con una serie di scritti dello stesso Torricelli, e saggi su di lui. Titolo: Dunque Torricelli, a cura di Cristina Fantoni. A Torricelli – lo conobbi molti anni fa frequentando Bologna e Modena – ho dedicato questo mese lo spazio della Sez. Nadir di questo sito con interventi di Carlo Bonacini e Caterina Fantoni. Archivio Spatola Tel. (39).0185 – 43 583 Mobile 333 – 39 20 501 Via Usodimare 11/8, 16039 Sestri Levante (Genova)
martedì, 4 ottobre 2016
Quando l'allievo supera il maestro
Chiesero a Talete chi fosse da considerare un Maestro. Ed egli rispose che Maestro è colui che fornisce all’allievo la possibilità di superarlo in grandezza, anche con idee diverse da quelle apprese un tempo dal suo Maestro. Antico dibattito è stabilire quale caratteristiche debba avere un Maestro. Poi la cosa si complica secondo le zone del mondo. Ad esempio, mi pare che una delle differenze fra il Maestro com’è inteso in Oriente e com’è inteso in Occidente consista nel fatto che laggiù l’allievo scelga un Maestro solo mentre dalle parti occidentali non è raro il caso che il Maestro sia più d’uno. Filippo La Porta, in “Maestri irregolari” sostiene che oggi nessuno vuole eleggere nessun altro a suo maestro, se ne sentirebbe sminuito; non si ammira più nessuno, tutt’al più lo si invidia. Perché? Ancora La Porta: “Ammirare qualcuno, eleggerlo a maestro, implica un atto di umiltà, oggi piuttosto anacronistico. Nella attuale cultura democratico-egualitaria dei diritti (o meglio in una sua lettura perversa) se conferisco a qualcuno una speciale autorità morale in un certo senso mi sminuisco. Tanto più il consumatore è eterodiretto e manipolato quanto più vuole sentirsi - del tutto illusoriamente - autonomo e autosufficiente. Eppure di maestri abbiamo bisogno, per capire meglio qual è il "limite" nella nostra esperienza, e anche per litigarci”.
Un libro pubblicato dalle Edizioni Dedalo riflette su allievi diventati più famosi dei loro maestri e come questi ultimi l’abbiano presa. Il titolo: Quando l’allievo supera il maestro Dieci storie di scienziati, artisti, filosofi. Ne è autore Bruno D’Amore, laureato in Matematica, in Filosofia e in Pedagogia; è stato ordinario di Didattica della Matematica all’Università di Bologna; attualmente lavora presso la Universidad Distrital Francisco José de Caldas, a Bogotá. È PhD in Mathematics Education e PhD Honoris Causa in Social Sciences and Education. Dalla presentazione editoriale. Questo libro, articolato in dieci storie, tratteggia le reazioni dei grandi maestri quando si rendono conto che uno dei loro allievi li ha superati. I maestri sono Andrea del Verrocchio, John Wallis, Parmenide di Elea, Cimabue, Tycho Brahe, Simón Rodríguez, Michael Wolgemut, Leopold Kronecker, Domenico Maria Novara e un anonimo maestro buddista. I geniali allievi sono, rispettiva mente, Leonardo da Vinci, Isaac Newton, Zenone di Elea, Giotto da Bondone, Johannes Kepler, Simón Bolívar, Albrecht Durer, Georg Cantor, Niccolò Copernico, Gesù di Nazareth. Si tratta di tre pittori, due scienziati, un filosofo, due matematici e due trascinatori di folle (uno, “el Libertador”, fiero combattente, l’altro il fondatore di una religione). Ognuno dei dieci maestri reagisce al successo dell’allievo in modo diverso, chi con sorpresa, chi con rabbia, gioia, rancore, incredulità. Come afferma l’autore nella prefazione: «La mia sfida è stata quella di raccogliere materiali il più possibile corretti, precisi, documentati, delle storie delle dieci coppie maestro/allievo; studiarne le relazioni, inventare una plausibile reazione del maestro di fronte al superamento...». Il vero protagonista di questi racconti è dunque la natura umana: dieci personaggi che hanno plasmato la storia culturale dell’umanità vengono messi a nudo grazie a dieci brevi narrazioni su dieci passaggi di consegna culturale. Bruno D’Amore Quando l’allievo supera il maestro Pagine 152, Euro 16.00 Edizioni Dedalo
Tinnitus Tales
Dopo cinque anni di lavorazione, coinvolgendo una cinquantina tra musicisti e artisti visivi - è finalmente pronto il nuovo progetto “audio educativo” Tinnitus Tales delle Forbici di Manitù & Friends, in uscita a ottobre per l’etichetta Sussidiaria. Si tratta di un originale esercizio sonoro su di un tema molto particolare: i pericoli del tinnito o acufene che affligge musicisti e appassionati di musica.
Da un comunicato. Che cosa hanno in comune Martin Lutero e Pete Townshend, Ozzie Osbourne e Oscar Wilde, Robert Schumann e il Dr. Spock di Star Trek? Hanno tutti dolorosamente sofferto di tinnito (o acufeni), un sibilo permanente avvertito in uno o entrambi gli orecchi. La condizione affligge un’alta percentuale della popolazione mondiale (5-10%). Sull’argomento, sorprendentemente, vige da sempre un inspiegabile silenzio da parte della stampa e dell’industria musicale. Allo stato attuale delle ricerche mediche, non esiste alcuna cura efficace per il tinnito cronico e lo spiacevole ronzio può solo peggiorare, se non si proteggono correttamente le orecchie. “Tinnitus Tales” ideato dalle Forbici di Manitù (ovvero in foto da sinistra Manitù Rossi e Vittore Baroni, da tempo affetto da tinnito) con la collaborazione di oltre cinquanta fra musicisti, gruppi e artisti visivi internazionali, rompe il velo di omertà con una serie di canzoni che affrontano l'argomento fondendo ironia ed empatia. I brani si ispirano a noti casi di persone sofferenti di acufeni, da Andy Partridge degli XTC a Bono e The Edge degli U2. Per rendere questo “progetto audio educativo” maggiormente condiviso, vari amici vecchi e nuovi - molti dei quali con problemi di acufeni - sono stati invitati a registrare loro versioni delle canzoni delle Forbici o a comporre contributi originali sul tema (inclusi nel cd 1 Songs). Una tecnica comune per alleviare il fastidio del tinnito consiste nel mantenere una fonte sonora di "mascheramento" in sottofondo. Ad altri amici musicisti le Forbici hanno chiesto quindi di creare composizioni strumentali intese come Masking Tracks (raccolte nel cd 2). Infine, demo delle canzoni di Tinnitus Tales è stato inviato ad un drappello eterogeneo di artisti, fumettisti e illustratori, per ispirare le immagini originali nel libro incluso nel cofanetto, ricco di informazioni, suggerimenti e link utili in materia di tinnito. Il tutto è racchiuso nel packaging multi-fustellato ideato da Laura Fiaschi (Gumdesign). Edizione limitata a 323 copie. Codice per download digitale incluso in ogni copia. Per acquisti rivolgersi a Sussidiaria
lunedì, 3 ottobre 2016
Antico come la luce
"Un’invenzione senza futuro". Così definì il cinema Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli. La raffinata casa editrice L'Orma ha pubblicato antico come la luce storie del cinema di Alexander Kluge, scrittore e regista cinematografico tedesco, nato a Halberstadt il 14 febbraio 1932. Teorico e capofila del rinnovamento dello Junger Deutscher Film, Kluge è stato, uno dei registi più originali, ma anche meno popolari, del Nuovo cinema tedesco. Di lui scrive Giovanni Spagnoletti: “Talvolta diseguali nei risultati, le sue opere, anche se tutte di grande fascino e spesso accusate di eccessivo intellettualismo, vanno valutate al di fuori di una prospettiva strettamente cinematografica, quali epifanie di una colta testimonianza insieme letteraria, filosofica, estetologica, politico-culturale, tra le più lucide e intense della cultura tedesca contemporanea“ Il Movimento del Nuovo Cinema Tedesco fu nutrito da una eccezionale ricchezza di talenti coinvolgendo tutta una generazione di giovani registi. L’atto di nascita si fa precisamente risalire al 28 febbraio 1962, quando un gruppo di giovani cineasti, riuniti a Oberhausen in occasione dell'annuale rassegna cinematografica Internationale Kurzfilmtage, pubblicarono una dichiarazione che poi venne definita “Manifesto di Oberhausen”. Ne furono firmatari nomi allora poco noti quali Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Margarethe von Trotta, Hans-Jürgen Syberberg, Edgar Reitz, Wim Wenders. Tra le firme troviamo anche quella di Alexander Kluge il quale portò gli altri a riconoscersi in una comune cifra politica e professionale ed è anche quello che identifica la conclusione del Movimento nel 1982, data della morte di Fassbinder. “Il gruppo che si formò” – scrive Kluge in antico come la luce – “fu per molti aspetti frutto del caso (…) noi chiedevamo tre cose: 1) la possibilità di realizzare il primo lungometraggio; 2) il ritorno al cortometraggio poiché I film di questa lunghezza rappresentavano per noi la forma elementare del cinema; 3) un centro per lo studio e l’approfondimento teorico del cinema che facesse da complemento alla semplice produzione empirica del film”. Il libro pubblicato da L’Orma, oltre ad avere il merito di produrre una delle pochissime – si ricorda una lontana edizione mondadoriana, 1966, di “Biografie” – traduzioni nella nostra lingua dei testi di Kluge (la sua bibliografia è imponente), ha pure quello d’illuminare il complesso pensiero estetico del regista tedesco. Un occhio distratto può leggere nel sottotitolo “storia del cinema”, niente di più sviante in tutti i sensi perché si tratta di “storie” del cinema ed è già una chiave di lettura del testo. L’autore, infatti, ha modellato una curiosa e seducente struttura espositiva che incrocia saggistica e aneddotica, non di rado quest’ultima divertente. Si attraversano nelle pagine una serie di episodi che riflettono tic e tabù del cinema di ieri e di oggi, intercalati da riflessioni sulla tecnica del cinema: pensieri sull’effetto di un’inquadratura ripresa con un certo obiettivo, sulla pellicola come pelle del cinema, sul conflitto tra chimica ed elettronica, sulla luce che fa del cinema una scultura luminosa in movimento, il cosmo stesso come cinema che con i suoi strumenti tecnici diventa tecnologia del fantastico. L’Orma ha una singolare abitudine meritevole d’elogio come ho già scritto in una precedente occasione. Cioè quella di dare notizie in bandella di chi ha curato la traduzione. Qui si tratta di Simone Costagli, docente di Lingua e Letteratura germanica all’Università di Ferrara. Studioso di narrativa tedesca contemporanea e dei suoi rapporti con il cinema; ha tradotto, tra gli altri, Adalbert Stifter e Christian Kracht. A proposito di lingua tedesca, per chi la conosce si aprono sul web due possibilità: CLIC per entrare nel sito web di Kluge e altro Clic per affacciarsi su molti materiali presenti su youtube. Alexander Kluge antico come la luce traduzione di Simone Costagli pagine 288, euro 18.00 Editore L’Orma
Ricordando Simone Carella
Giorni fa se n’è andato Simone Carella (in foto). Dissipatore della sua intelligenza e della sua creatività, è stato un protagonista del rinnovamento del teatro italiano d’avanguardia non solo con i propri spettacoli ma anche producendo e promuovendo, dagli anni ’70 in poi, nomi che appartengono alla storia di quella scena.
Dopo esperienze con il gruppo Gli Uccelli e gli artisti della galleria L'Attico, Carella nel 1971 va allo storico locale romano Beat 72, una delle tante cosiddette cantine di quegli anni, che diventerà un centrale riferimento del nuovo teatro della Capitale dando vita a una lunga serie di spettacoli, performance, happening e progetti culturali non solo di teatro. Carella, infatti, capì tra i primi le nuove istanze espressive che venivano dall’intercodice che fondeva arti visive, parola, suono, video. Ed ecco spettacoli da Carmelo Bene al tandem De Berardinis-Peragallo, da Giuliano Vasilicò a Memè Perlini, dalla Gaia scienza di Alessandra Vanzi, Marco Solari e Giorgio Barberio Corsetti a Mario Martone, dai Magazzini Criminali a Bruno Mazzali, da Victor Cavallo a Giorgio Marini. E poi sue creazioni: Morte funesta di Dario Bellezza, La bella addormentata di Elio Pagliarani, Bis-Happening di Kaprow e Withman; Scarface, Cavalli di battaglia, Stalker. È stato, nel 1979, ideatore e organizzatore, del celebre Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano, che vide sul palco Evtushenko, Allen Ginsberg, Borroughs, Ferlinghetti e altri poeti di tutto il mondo. Il più recente spettacolo, da lui ideato e diretto al Teatro India-Roma nel 2001, è stato Al suo poeta: Peppe er Tosto, ispirato ai Sonetti romaneschi di Gioacchino Belli. Alla sua scomparsa – fatta eccezione per pochi sinceri amici – si è assistito a un rituale ben collaudato nella sua bassezza. Vale a dire i tanti omaggi tributatigli da giornali e dirigenti d’istituzioni, gli stessi che avevano spesso ignorato le sue imprese, gli stessi che dimostratisi tanto commossi in morte erano stati avarissimi di ascolto allorché Simone era in vita.
Crave di Sara Kane
Nata nel 1971, la drammaturga inglese Sarah Kane è morta suicida nel 1999 a 28 anni. Ha scritto cinque lavori: Blasted (Dannati) - 1995; Phaedra's Love (L'amore di Fedra) - 1996; Cleansed (Purificati) - 1998; Crave (Febbre) – 1998; 4.48 Psychosis (Psicosi delle 4 e 48) – 1999. Dopo aver completato questo testo, tentò il suicidio ma fu salvata e ricoverata al Maudsley Hospital di Londra dove, lasciata imprudentemente sola, s’impiccò. Il suo dramma d’esordio, “Blasted” ebbe un contrastatissimo debutto nel 1995 per i temi trattati (stupro, cannibalismo e malattie). A difenderla, Harold Pinter e Edward Bond i quali intuirono che era nata una nuova energia nel teatro inglese e che quella violenza portata fino all’esasperazione mostrava, invece, una grande umanità esposta senza nulla occultare nelle sue lacerazioni estreme. "Il suo teatro" - scrive Luca Scarlini in 'Sara Kane. Tutto il teatro' tradotto da Barbara Nativi, Einaudi 2000 – “vive di eccessi scenici e verbali e fin dalla sua prima apparizione sulla scena londinese con il contestatissimo Dannati, che nel 1995 ha segnato una pietra miliare della nuova drammaturgia inglese, l’autrice si è posta al centro di un fuoco di controversie come paladina di una scrittura estrema e visionaria. La drammaturga, si rifaceva ad una tradizione precisa di orrori scenici, con un filo rosso sangue che dagli elisabettiani corre nella cultura scenica anglosassone fino ad Edward Bond che non a caso solidarizzerà con la giovane autrice in un momento di vero e proprio linciaggio da parte della stampa”.
Ora sarà un suo testo, “Crave”, ad Inaugurare a Roma la nuova stagione del Teatro India. In scena sono rappresentate emozioni indagate non soltanto con inquietudine e desolazione, ma anche attraverso passaggi surreali e umoristici che condiscono gli scambi dialettici tra le voci dei quattro personaggi. Interpreti: Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli. Scene: Francesco Ghisu con l’assistenza di Christina Psoni. Costumi: Annapaola Brancia d’Apricena. Movimenti di scena: Chiara Orefice. Luci: Cesare Accetta. La regìa è di Pierpaolo Sepe che così dice: Qualsiasi modalità si scelga per mettere in scena un testo di Sarah Kane, lo si tradirà. Il motivo è insito nella scrittura stessa di “Crave”, in italiano tradotto come “Febbre”, che racchiude, nel suo titolo originale, un bisogno tanto irraggiungibile da portarne alla prematura scomparsa per sua stessa mano: una non scelta, l’incapacità assoluta di sopravvivere al mondo, propria delle anime fragili. “Non si è mai così forti come quando si sa di essere deboli”, se si accetta l’orrore, l’incapacità, il dolore, l’umanità. Dalla scrittura della Kane nasce un testo di parole incatenate, rapido susseguirsi di concetti spezzati e concitati, al teatro spetta il ruolo di trasformarlo in immagini, dar colore all’oscurità, ordine al caos e disordine alla riga. QUI il trailer dello spettacolo. Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino tel. 06. 684 000 308 I 345.4465117 e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net Teatro India Crave di Sarah Kane regia Pierpaolo Sepe Produzione Casa del Contemporaneo Dal 4 al 9 ottobre
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