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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Alì l'immortale


La boxe: lo sport più antico e più discusso, più attaccato e più esaltato.
Due nomi fra i tanti di quella folla animata da opposti sentimenti. Ecco sul pugilato abbattersi i fendenti di Eugenio Montale, ecco levarsi lo scudo di Ernest Hemingway.
Ed ecco un brano letterario che la dice lunga su guantoni e scrittori.

Andai dunque a trovare il signor Gide... finalmente l'uomo fece la sua comparsa. La cosa che allora mi colpì maggiormente fu che non mi offrì assolutamente nulla, a parte una sedia; e pensare che, verso le quattro del pomeriggio, una tazza di tè, se proprio si tiene al risparmio, ma meglio ancora qualche liquore e del tabacco orientale sono giustamente ritenuti, nella società europea, l'ideale per creare quella disposizione indispensabile che le permette di essere alle volte brillante.
Almeno, così la penso io Arthur Cravan.
- Signor Gide, attaccai, mi sono permesso di venire a trovarvi, credo però sia il caso di mettere subito in chiaro il fatto che io preferisco alla letteratura di gran lunga la boxe
.

Da "Tre suicidi contro la società: Arthur Cravan, Jacques Rigaut e Jacques Vache'", a cura di Ottavio Fatica, Arcana, 1980.

Parlando di pugilato, il primo nome che viene alla memoria è l’Alì del titolo di questa nota.
Muhammad Alì, alias Cassius Clay, secondo molti il più grande pugile di tutti i tempi.
Nato a Louisville (Kentucky) il 17 gennaio 1942, morto a Scottsdale (Arizona) il 3 giugno 2016.
La casa editrice Rizzoli, a un anno dalla scomparsa dell’atleta, lo ricorda pubblicando Muhammad Alì L’immortale.
Questo libro – un progetto dello stesso Muhammad Ali – è stato completato, dalla moglie Lonnie e dalla sua famiglia.
Contiene oltre 200 immagini rare o inedite selezionate fra gli archivi familiari, alternate a brevi testi e frasi leggendarie, assume oggi il valore di manifesto e testamento spirituale e ripropone il celebre discorso fatto alla TV inglese nel 1977 – “Get ready to meet God” – che racchiude il senso della vita secondo Ali, pochi anni prima che si ritirasse.
Un viaggio nei momenti salienti di una vita vissuta sotto gli occhi di tutti, in salute e in malattia. L’uomo che cadde e si rialzò nel ring, si convertì all’Islam, pagò il rifiuto di partire per il Vietnam divenne un simbolo non solo per tutti gli sportivi, ma per i ragazzini neri dei sobborghi d’America, per i giovani mandati a combattere guerre non loro, per i malati senza speranza, per tutti gli esclusi.
Nella prefazione, la moglie Lonnie ricorda che le parole non bastano per esaurire il ritratto di Ali e tuttavia offre il testo del suo discorso funebre per il marito, un atto d’amore e gratitudine che ha fatto piangere il mondo.

Muhammad Alì
L’immortale
Prefazione di Lonnie Ali
Pagine 256, Euro 24.90
Rizzoli


Video games

Spesso in Cosmotaxi mi sono occupato di videogames, sarà perché m’intriga quel loro modo di proporre un intercodice tecnologico fra immagine, letteratura, arti visive, cinema, sia quando sono umoristici sia quando sono distopici, sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, con i suoi pixel che lèvati, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago.
Un doppio sguardo ai videogames, cominciando dalla loro situazione sul mercato in Italia.
Si registra un aumento delle vendite – con gli ultimi dati disponibili – dell’82% nel 2016. Così si torna a superare il miliardo di euro, traguardo raggiunto otto anni fa prima dell’inizio della crisi economica mondiale. Sempre durante lo scorso anno sono state vendute oltre un milione di consolle.
Seconda osservazione. Come definire un videogioco?
Per Paola Carbone, da me intervistata tempo fa: Il videogioco può essere inteso come un dispositivo tecnosociale, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia. Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione… un luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio.

Secondo Matteo Bittanti: È una macchina della felicità. I videogiochi producono endorfine e riducono i livelli di stress, ansia ed irritabilità. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari.

Insomma, nel dichiararmi d’accordo con i due che ho citato, è un nuovo strumento espressivo, usa e produce interlinguaggio, provoca ed esige interattività, svolge ed accetta scarti, deviazioni, voli narrativi, insieme con le serie tv di ultima generazione (quelle nate con la figura dello showrunner) concordo con chi li giudica le forme del romanzo dei nostri tempi.
I videogames sono spesso malvisti e può sorprendere ad alcuni che una pubblicazione diretta ai ragazzi dai 9 anni in su, da parte di un editore specializzato in libri per lettori giovanissimi, qual è Editoriale Scienza, tratti proprio tale vituperata materia.
È vero che i videogiochi possono contenere pericoli, proprio per questo è necessario che i ragazzi siano istruiti ad evitarli.
Si può scansare ciò che nuoce solo conoscendo e non ignorando.
Ma non basta, perché i videogiochi possono essere utili a tanti. Ad esempio, agli allenamenti dei piloti di auto da corsa e a quelli di aerei fino a chirurghi che si addestrano ad operare usando robot, si pensi al Da Vinci
Ad illustrare i meccanismi, i vantaggi e i rischi dei giochi elettronici è ciò che fa un volume del tandem Davide MorosinottoSamuele Perseo intitolato Videogames.

Morosinotto, giornalista, traduttore ed esperto di editoria digitale, da molti anni lavora nel settore dei videogame. È socio di Book on a tree, una “cooperativa di autori” e amici fondata da Pierdomenico Baccalario. Ha pubblicato, con pseudonimo, più di trenta romanzi per ragazzi con vari editori italiani: Mondadori, Rizzoli, Einaudi Ragazzi, Piemme. Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in una dozzina di lingue.
Nel 2013 e 2014 è stato tra gli organizzatori di DigiLab, l’evento digitale del Salone del libro di Torino dedicato ai giovani e alle nuove tecnologie.
Questo sito ha presentato tempo fa Cyberbulli al tappeto di cui è stato coautore.
Perseo è narrative designer e producer. Da molti anni lavora per Forge Reply, una delle realtà più attive dell'industria italiana dei videogiochi. Dopo la laurea in Tv, cinema e produzione multimediale allo Iulm di Milano, ha sempre lavorato nel settore dei video games, esplorandone diversi ambiti. Ha partecipato alla creazione di titoli di successo per Playstation, Xbox, pc e tablet. Nel 2013 ha vinto il premio Drago d’Oro per il miglior videogame italiano e miglior game design dal titolo “Joe Dever’s lone wolf”.

Dalla presentazione editoriale.
“Grazie a questo libro farai chiarezza sui costi dei giochi, sia per console e computer, sia per smartphone e tablet: capirai perché costano, quanto, e come si può “saldare il conto” in modi diversi. Per evitare brutte sorprese, infatti, è importante conoscere la distinzione tra giochi a pagamento, in abbonamento, free e freemium.
Un altro punto importante che gli autori affrontano è quello delle community online di videogiocatori e della privacy (non rivelare mai i tuoi dati personali!), fornendoti utili consigli sulla netiquette e su come difenderti nei casi di cyberbullismo.
L’ultimo capitolo, infine, è dedicato a come creare un videogioco, alle figure professionali implicate e ai software gratuiti che puoi usare per muovere i primi passi in questo mondo.
Ragazzi e videogiochi è una delle questioni che toccano tanto le famiglie quanto il sistema educativo. Spesso demonizzati o erroneamente etichettati come “cose da bambini”, i videogiochi sono invece una realtà complessa che va conosciuta a fondo per goderla in tutta sicurezza, prestando attenzione a possibili fenomeni di cyberbullismo e alla cosiddetta dipendenza da videogioco. Con questa consapevolezza e usando un linguaggio chiaro e diretto, Davide Morosinotto e Samuele Perseo firmano un manuale agile e ricco di consigli, pensato per i ragazzi ma utile anche per genitori ed educatori che vogliono capire questo mondo e iniziare un dialogo con i giovanissimi”.

E i giocatori che non sono troppo bravi? Seguono opportune parole di consolazione.
Tomohiro Nishikado – l’inventore nel 1978 del primo videogioco (Space Invaders) – ha dichiarato in un’intervista “Nei videogiochi sono una frana”.

Davide Morosinotto – SamuelePerseo
Videogames
Illustrazioni di Marta Baroni
Pagine 94, Euro 11.90
Editoriale Scienza


La forza della fragilità


Cosmotaxi il 27 marzo scorso si è occupato di un gran bel libro di Roberto Gramiccia intitolato Elogio della fragilità.

Ora del volume è stato prodotto un booktrailer per la regìa di David Locarno e Katherin Martinez: cliccare QUI.

A proposito di booktrailer, c'è una sezione del sito Mimesis chiamata Libri da vedere nella quale è spiegato come concorrere a realizzare trailer dei libri della casa editrice.


Ciarallo e Dracius a paginauno

Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da tempo non recensisco romanzi (né poesia stampata, ma quella videorock sì), chi volesse sapere perché, basta che clicchi QUI.
Riservo solo un interesse per i racconti (mica tutti, s’intende) perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza, altro che scrivere grossi tomi.
È un caso forse che si possa scrivere graficamente un certo nome anche così: alessadROMANZONI?
Nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupa largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, a Tzvetan Todorov ad altri ancora. “Toccherà a Genette” - scrive Francesco Muzzioli (Le teorie della critica letteraria, 1994) – “con ‘Discorso sul racconto’ sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione breve uscendo dalla mera sequenza delle funzioni narratologiche […] Todorov, ad esempio, arriverà addirittura nella compilazione di una “grammatica” del Decameron, a tradurre l’intreccio in formule algebriche”.
Ricordo l’invenzione preconizzata da Italo Calvino del termine “iperomanzo” (un’anticipata definizione lessicale dell’e-letterature) un luogo “d'infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili"; dove può valere "un'idea di tempo puntuale, quasi un assoluto presente soggettivo"; dove le sue parti "sviluppano nei modi più diversi un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata"; che funziona come "macchina per moltiplicare le narrazioni".
Tornando ai racconti, m’interessano, ma solo in quelli in cui vi scorgo una scintilla capace d’illuminare in poche (meglio, molto meglio se pochissime) pagine una ricerca di linguaggio o, almeno, un tentativo in quella direzione.

L’editrice paginauno, sapientemente guidata da Walter Pozzi, ha mandato in libreria due libri di racconti.
Il primo, per data di pubblicazione, è intitolato Le spade non bastano mai e ne è autore Giuseppe Ciarallo; il secondo uscito nell’aprile di quest’anno, è Rue Monte au Ciel, autrice Suzanne Dracius.

Tempo fa, di Ciarallo (QUI biografia e un’intervista di Francesco Basso), su queste pagine, scrissi della sua trascinante operina intitolata Danteska; un vorticoso attraversamento infernale dei nostri giorni tra impegno politico e lampi linguistici.
Questa sua recente raccolta di racconti, invece, scorre su piani di scrittura tradizionale, bonariamente umoristica, e a parecchi dei 22 pezzi avrebbe giovato qualche taglio.
Assai presente il ricorso al dialogo fra i personaggi tanto che, forse, l’autore potrebbe pensare a un adattamento teatrale di alcuni di quei testi.
Un solo racconto si distacca da tutti gli altri non soltanto per stile, ma per tensione morale e accuratezza espositiva, è intitolato «Eqquessaè».
Che in dialetto molisano suona: “E così stanno le cose”.
Eqquessaè.


Ottima scelta dell’editrice paginauno quella di pubblicare i racconti raccolti sotto il titolo “Rue Monte au Ciel” dell’autrice creola Suzanne Dracius (QUI biografia e un’intervista rilasciata al Arts Caribbean).
Meriterebbe di essere conosciuta decisamente di più e questo libro mi auguro possa segnare una svolta dei suoi destini editoriali in Italia.
In questo volume, ci troviamo di fronte a una raffinata costruzione di struttura perché in tutti i 9 racconti avanza una figura femminile – in un caso personaggio che (segnalano opportune note) viene da altre pagine della Drucius – che, declinata in plurali forme d’esistenza e occasioni biografiche ha le stesse sembianze antropologiche delle altre compagne di pagine. Cioè una donna meticcia divisa tra due desideri: non tradire le tradizioni socio-culturali da cui proviene e vivere il ruolo della donna nei nostri tempi.
Mi verrebbe da segnalare tanti titoli, perché molti ne meriterebbe l’autrice, mi limiterò a due: lo sfolgorante “Clorofilliana creazione”, febbrile e tumultuoso (non a caso dedicato al surrealista Jean Benoît); il silenzioso incantesimo nel frastuono di un aeroporto in “Perché era lui”.
Due racconti di poche splendide pagine, senza dialogo e valorosamente con esile trama. Ma non sono i soli.
Insomma, una lettura esaltante.
Se è vero che una traduzione si può giudicare anche dalla lingua in cui approda, allora va lodato il lavoro di Lea Olivieri che ha tradotto in modo lucente e partecipato.
Un CLIC per visitare il sito web della preziosa Suzanne Dracius.

Giuseppe Ciarallo
Le spade non bastano mai
Pagine 204, Euro 13.00

Suzanne Dracius
Rue Monte au Ciel
Pagine 234, Euro 14.00

Edizioni paginauno


Via Tasso (1)

La casa editrice Odradek ha mandato in libreria Via Tasso Quartier generale e carcere tedesco durante l’occupazione di Roma.
L’autore è Fabio Simonetti.
Nato a Roma nel 1984, laureato in Scienze Storiche, si occupa di storia orale, sociale e militare. Attualmente lavora presso l’archivio dell’Imperial War Museum di Londra.
Di recente ha curato un volume che raccoglie le lettere di un soldato italiano disperso durante la ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale: Il ragazzo con i baffi. Lettere dal fronte russo (Roma, 2015).
Un giovane storico, quindi, ma già maturo per capacità d’analisi e sapiente scrittura.
Ve ne accorgerete leggendo le sue serratissime pagine che procedono attraverso documenti, lettere, colloqui con testimoni, portando il lettore a conoscere in modo esaustivo l’angosciosa atmosfera di un luogo e dei responsabili, anche italiani, di quell’orrore.
Inoltre, e tengo molto a sottolinearlo, nessuna concessione a romanzerie così come troppo spesso nei libri presentati come storici accade per poi trovarci davanti a dialoghi inventati, aggettivazione con finalità cosmetiche, e altra bassa cucina narrativa.
In Simonetti, ogni pagina è sorretta da una rigorosa documentazione.
Libro necessario in un momento dove in Italia si agitano vecchi spettri che la Sinistra già un tempo ne sottovalutò il possibile ritorno e oggi poi ne favorisce l’affermarsi snaturandosi, pervertendosi, inrenzizzandosi e inboschizzandosi.
Fra poco ricorre la nascita di Piero Gobetti – la sinistra nella quale mi riconosco – e pur essendo ancora attuali le sue idee, quanto ne siamo lontani nella pratica politica!
Questo volume di Odradek ha il grande merito di ricordare a noi tutti le sofferenze di tanti che lottarono per un’Italia nella quale, fossero vivi, non ne riconoscerebbero neppure la sagoma geografica.

Dalla quarta di copertina
Roma, settembre 1943. In seguito all’occupazione della città da parte delle forze armate tedesche, le SS di Herbert Kappler si installano nella vecchia sede dell’Ufficio di collegamento tra le polizie italiana e tedesca, in un anonimo edificio situato in una stradina nei pressi di San Giovanni: via Tasso.
Centro nevralgico dell’occupazione, da questo momento via Tasso diviene la sede dell’Aussenkommando Rom der Sicherheitspolizei und des SD (Comando estero di Roma della Polizia di Sicurezza e dello SD) e del carcere provvisorio delle SS. Qui dal settembre 1943 al giugno 1944 passeranno centinaia di oppositori che saranno imprigionati, torturati o condotti a morire alle Fosse Ardeatine, a La Storta o a Forte Bravetta.
L’aura di mistero che cresce intorno all’edificio, lungi dallo svanire dopo la liberazione, porterà alla nascita di una cupa leggenda.
L’intera storia dell’Aussenkommando Rom viene qui ricostruita assumendo il punto di vista sia dei tedeschi occupanti sia dei prigionieri del carcere grazie a una serie di testimonianze e interviste che permettono di riportare alla luce la sua doppia faccia: quartier generale delle SS e temuto luogo di tortura per i patrioti romani
.

Segue ora un incontro con Fabio Simonetti.


Via Tasso (2)


A Fabio Simonetti (in foto) ho rivolto alcune domande.

Dei tanti misfatti nazifascisti sui quali potevi indagare, da quale principale ragione la tua attenzione è stata attratta proprio da Via Tasso?

Via Tasso è un argomento assolutamente centrale nella storia e nella memoria dell’occupazione di Roma. Tuttavia, il fatto sorprendente è che ben poco si sapeva delle attività che si svolgevano al suo interno, finendo spesso con il focalizzarsi solo sulle testimonianze dei prigionieri del carcere e le torture che vi si praticavano. Ma Via Tasso significa molto di più. Da qui la mia decisione di analizzare tutte le sue “facce”: usando per lo più fonti orali, memoriali e deposizioni, ho dato la parola ai protagonisti stessi di questa vicenda. Alle testimonianze dei detenuti del carcere, che descrivono la vita all’interno delle celle e le torture che subiscono, si unisce così la ricostruzione delle importanti attività svolte all’interno dell’Aussenkommando Rom fatta dalla Gestapo e dallo SD stazionate nell’edificio; fra questi Erich Priebke, che ho potuto incontrare personalmente e che fu fra i primi ad essere assegnati a questi uffici. Affascinante è inoltre lo studio della peculiare memoria che si elabora attorno a questo luogo, portando alla creazione di quella che ho chiamato la “leggenda” di Via Tasso, la formazione di quell’aura di mistero e terrore formatasi grazie soprattutto alla rappresentazione che ne viene data nell’immediato dopoguerra. Un luogo di cui si teme persino di pronunciare il nome, preferendo dire semplicemente “laggiù”.

Il fascismo quali responsabilità dirette ha avuto nei nove mesi d’occupazione nazista di Roma e delle atrocità di Via Tasso?

Il ruolo del fascismo repubblicano durante l’occupazione di Roma è di attiva collaborazione. Nonostante non ci sia dubbio che la città di Roma sia governata dagli occupanti tedeschi e che Via Tasso, ad esempio, sia interamente gestito da personale delle SS, non si può non tenere in considerazione il ruolo fondamentale assunto dagli italiani nella gestione dell’ordine pubblico all’interno della città o in episodi cruciali quali il rastrellamento del ghetto o l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Allo stesso modo, per quanto riguarda Via Tasso, i fascisti ricoprirono un ruolo di secondo piano ma di cruciale importanza ai fini delle indagini operate dai tedeschi. La figura di Federico Scarpato, ad esempio, mostra come questi collaborazionisti agissero sia come interpreti, anche durante interrogatori e torture, sia come delatori. È certo, infatti, che la Gestapo avvia la maggior parte delle sue indagini grazie all’attività di italiani o alle informazioni ottenute attraverso la tortura.

Perché non c’è stata una Norimberga italiana? E, anzi, perfino amnistie per i repubblichini da quella di Togliatti (contestata da parte della base e da altri movimenti antifascisti) ai successivi ampliamenti varati da governi Dc?

Sin dall’inizio del conflitto gli Alleati corteggiarono l’Italia e la trattarono in maniera molto differente rispetto alla Germania. Il piano era infatti quello di addossare su quest’ultima tutte le colpe della guerra e dipingere il suo alleato come vittima di Mussolini, colpevole di essersi legato ai nazisti. In questo modo si ritagliava uno spazio per una trattativa di pace separata con l’Italia, da ricostruire sotto l’egemonia della sfera occidentale. Questo portò inoltre alla nascita del mito del “bravo italiano”, un soldato incapace di commettere le atrocità di cui si era macchiato il “cattivo tedesco” e che, anzi, solidarizzava con le vittime dell’occupazione nazista, essendo lui stesso vittima dell’alleato-nemico. Questa auto-rappresentazione causò seri problemi nell’elaborazione della memoria dei delicati eventi bellici in Italia e di un sano confronto con il suo passato nero. L’atmosfera da guerra fredda che caratterizzò l’Europa a partire dall’immediato dopoguerra, inoltre, contribuì a sviluppare queste teorie permettendo all’Italia di rientrare nel circolo dei “giusti”. Dopo Norimberga e Tokyo venne deciso che il mondo occidentale non aveva più bisogno di ascoltare le atrocità italiane commesse in Africa, in Unione Sovietica o nei Balcani.

Come ho accennato in apertura, il tuo libro è benvenuto in un momento storico in cui si assiste ad una recrudescenza del neonazismo e dell’antisemitismo. A chi attribuire le maggiori colpe nel non avere previsto e prevenuto quanto oggi assistiamo?

Ritengo di fondamentale importanza lo studio e la valorizzazione dei principi fondanti della nostra repubblica, oggi più di ieri. Un maggiore sostegno da parte delle istituzioni a giovani ricercatori nel settore umanistico e a istituzioni quali il Museo della Liberazione di Via Tasso contribuirebbe indubbiamente alla salvaguardia di una memoria che vediamo offuscarsi giorno dopo giorno. La tentazione di cercare colpevoli su cui riversare responsabilità che in realtà sono più collettive è sempre forte, e la ciclicità della recrudescenza di correnti di pensiero e movimenti estremisti di questo genere mostra che periodi di crisi come quello che stiamo vivendo sono sempre particolarmente soggetti a un’estremizzazione delle posizioni, dividendo e ghettizzando. Tuttavia, questo non allevia il pesante ruolo avuto da anni di ristrettezza mentale e corruzione che hanno caratterizzato la leadership del nostro Paese e che hanno dato vita a quella incolmabile distanza fra governanti e governati che ben conosciamo al giorno d’oggi.

Solo alcuni dei tantissimi giudizi sulla parola “Storia”.
Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.
Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945
Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.
E per Fabio Simonetti la Storia che cos’è
?

È interpretazione, è il risultato dell’eterno sforzo di dare un ordine e un senso alle vicende che caratterizzano la nostra vita e la cui trasmissione ne possa favorire una migliore comprensione. Non credo nell’utopia di una storia con la “S” maiuscola, dal momento che qualsiasi storia leggiamo o scriviamo è il risultato di un punto di vista, di scelte fatte e di esperienze vissute da parte del suo autore.

Fabio Simonetti
Via Tasso
Prefazione: Giovanni Contini Bonacossi
Pagine 332, con documenti fotografici
Euro 25.00
Odradek Edizioni


Videoart Yearbook


È giunta quest’anno alla XII edizione, Videoart Yearbook.
Comitato scientifico: Renato Barilli, Guido Bartorelli, Alessandra Borgogelli, Pasquale Fameli, Silvia Grandi, Fabiola Naldi.
Si ripete la variante già adottata l’anno scorso, di proporre cioè un numero di quattro “personali” dedicate a videoartisti già emersi nelle precedenti edizioni.
A ciascuno di essi è dato un tempo di circa 20-25 minuti, in modo da presentare un numero adeguato di opere così da farne apparire chiaramente lo stile.
I prescelti sono Filippo Berta - Rita Casdia - Christian Niccoli - Debora Vrizzi.

I quattro sono stati scelti, tra i migliori delle passate edizioni, per caratteristiche diverse che coprono bene il campo - ha detto Renato Barilli - Berta e Niccoli rappresentano la capacità di cogliere l’evento imprevisto, nella sua crudeltà o sgradevolezza o anche nel potere di portarsi dietro una stupefazione enigmatica. Casdia è un’eccellente rappresentante della computer graphic, a gara coi cartoni animati. La Vrizzi documenta molto bene il versante della ricerca antropologica, affrontata anche con doti di humour .

Noi di Nybramedia, siamo felici di vedere nel quartetto prescelto Debora Vrizzi che nell’aprile 2011 presentammo sul nostro sito.


Il cinema di Ansano Giannarelli (1)

Esistono figure del cinema italiano (e, certamente, non solo italiano) che pur rappresentando con ruoli incisivi periodi particolari dello schermo non sono ricordati quanto meriterebbero.
Ad esempio: Ansano Giannarelli, nato a Viareggio nel 1933 e morto a Roma nel 2011.
Eppure basta solo affacciarsi sull’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico per incontrare una ricca produzione del regista viareggino.
Non tutti, però, dimenticano. Così è accaduto che uno studioso di cinema dotato di grande sensibilità storica abbia dedicato un libro a Giannarelli pubblicato dalla casa editrice Lindau.

Titolo: Il cinema saggistico di Ansano Giannarelli.
L’autore è Antonio Medici.
Collaboratore di «Cinema Nuovo», «Cinemasessanta», «Cinecritica», «Close-Up», ha scritto “Neorealismo” (Audino, 2008) e “L’alfabeto dello sguardo. Capire il linguaggio audiovisivo” (con D. Vicari, Carocci, 2004); “Gillo Pontecorvo. «Giovanna», storia di un film e del suo restauro” (Ediesse, 2002), gli «Annali» della Fondazione Aamod.
È stato docente di Cinematografia documentaria presso l’Università Roma Tre e di Archivi audiovisivi presso l’Università della Tuscia.
Dal 2011 è Coordinatore generale della Scuola d'Arte Cinematografica Gian Maria Volontè.
Va ricordata anche una precedente attenzione di Medici al lavoro di Giannarelli nel volume miscellaneo Cercando la rivoluzione.

Scrive Giovanni Spagnoletti nella Prefazione: Antonio Medici (…) prova (a mio avviso riuscendoci pienamente) a ricontestualizzare e attualizzare il senso profondo del disegno cinematografico del nostro regista (e non solo, notevole organizzatore culturale), riaffermandone quindi un’importanza che va l di là di un modaiolo “vintage” storico.

Dalla presentazione editoriale.
"Sulla scorta della tradizione letteraria, risalente a Montaigne, la forma saggio richiede anche nel film il radicale mettersi in gioco dell’autore, l’auto-riflessività del linguaggio, l’attraversamento dei generi, l’interpellazione dello spettatore, nel tentativo di restituire sullo schermo il processo, talvolta accidentato, quasi mai lineare, del pensiero. Sono i tratti di una identità che è possibile scoprire nell’opera di Ansano Giannarelli, regista e intellettuale piuttosto anomalo nel panorama italiano: prima in forma embrionale (fin dal suo esordio, nel 1960, con il corto “16 Ottobre 1943”), poi in forma pienamente consapevole nei suoi lavori più importanti, Sierra Maestra (1969) e Non ho tempo (1972), notevoli e originali esempi di film-saggio, che si collegano alle più innovative esperienze cinematografiche internazionali degli stessi anni.
È proprio usando questa chiave di lettura che il libro intende proporre una riconsiderazione critica del lavoro di Giannarelli, per sottrarlo alla frettolosa rubricazione di cineasta legato alla stagione del ’68 (inevitabilmente datato?), e restituirgli tutta l’attualità di una tensione intellettuale, politica e personale volta a sovvertire i linguaggi consolidati, sperimentando forme di cinema inedite e originali".

Segue ora un incontro con Antonio Medici.


Il cinema di Ansano Giannarelli (2)


Ad Antonio Medici (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale elemento ti ha spinto in particolare ad avvicinarti alla figura di Giannarelli?

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Ansano Giannarelli nel 1998, quando ho iniziato a collaborare con la Fondazione Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, di cui allora era presidente. Da lì in poi è nata una frequentazione professionale e un'amicizia, poiché Ansano possedeva, almeno ai miei occhi, straordinarie qualità umane... Era nello stesso tempo appassionato e gentile: si accalorava nella difesa delle sue idee ma dimostrando sempre una grande sensibilità nei confronti dell'interlocutore. A quell'epoca, avevo trovato il suo nome nei manuali di storia del cinema, che avevo studiato all'università, quale autore di “Sierra Maestra”, opera militante collegata alla stagione del Sessantotto. Ma non l'avevo ancora vista. I suoi film, in effetti, li ho poi visti un po' alla volta e mi sono sembrati molto interessanti, tanto che alla fine degli anni novanta ho dedicato a Giannarelli una rassegna personale in una manifestazione di cui ero direttore artistico. Ciò che mi colpiva di più, sia nei cortometraggi che nei lungometraggi, era la dimensione intellettuale, la consapevolezza con cui cercava di realizzare una precisa idea di cinema.

Nei decenni 60’ e ’70 in cui si pone la gran parte dell’opera di Giannarelli, anche altri cineasti operavano sul cursore politico. Qual è stata la sua singolarità?

Penso che Giannarelli abbia cercato di portare nei suoi film non solo un contenuto politico nuovo, talvolta radicale, entrando in sintonia con l'onda delle mobilitazioni che in quegli anni avevano un respiro internazionale e mettevano in discussione l'assetto capitalistico, fino ad evocarne il rovesciamento. Penso che egli abbia sentito anche la necessità e provato a praticare una sovversione linguistica ed estetica del cinema, in modo che quei contenuti nuovi trovassero forme nuove di espressione, di rapporto con il pubblico e configurassero un nuovo sistema dei mezzi di comunicazione di massa. Non è l'unico regista, naturalmente, a sentire questa necessità (basti pensare alla formula godardiana: “bisogna fare politicamente i film”), ma in Italia, se si eccettua l'underground, non sono molti i registi di cinema che hanno la stessa radicalità linguistica. Non a caso, egli è in sintonia con le istanze che in quegli anni Cesare Zavattini porta avanti, volte a praticare essenzialmente cinema fuori dal cinema, inteso come apparato industriale e professionale.

Quale può essere la chiave di rivalutazione del suo cinema?

La riconsiderazione critica di Giannarelli è la chiave di fondo del mio libro: oggi probabilmente è un autore sconosciuto ai più e rubricato nelle storie del cinema – quando è citato – come un regista legato alla stagione dell'impegno politico e militante. Una collocazione che mi è parsa riduttiva, oltretutto basata prevalentemente su letture di tipo contenutistico. Analizzando in profondità i suoi film (in particolare “Sierra Maestra” e “Non ho tempo”) emerge invece la sua progettualità estetica e culturale: il rifiuto delle gerarchie e dei confini dei generi cinematografici tradizionali, la sperimentazione e la ricerca sul linguaggio e il metalinguaggio, il mettersi in gioco e discussione come soggetto autore, con un suo punto di vista, che va reso esplicito anche per costruire un nuovo rapporto con il pubblico. Si tratta di caratteristiche che la letteratura scientifica contemporanea ascrive al film-saggio, una forma di cinema oggi tornata all'attenzione sia degli studiosi che degli stessi cineasti, i quali raccolgono oggi – come hanno fatto passato, solo per citare alcuni nomi, Vertov, Marker, Godard, Welles – la sfida di opere in cui trovi la strada per esprimersi la personale dimensione intellettuale degli autori.

Negli anni in cui agì Giannarelli, si diffuse un altro cinema, assai diverso dal suo negli esiti formali, che veniva d’oltre oceano (Mekas, Warhol, e tanti altri come in Italia quelli raccolti dalla Cooperativa Cinema Indipendente).
Come spieghi che nello stesso tempo esistano due tendenze tanto diverse
?

Giannarelli era uno spettatore e un lettore attento: conosceva e recensiva nei suoi diari le tendenze più aggiornate e sperimentali del cinema del suo tempo e amava molto, tra gli altri, Jonas Mekas, Lionel Rogosin, John Cassavetes. Conosceva, in Italia, sia le esperienze di Grifi e Baruchello che le diverse iniziative di cinema indipendente: credo che egli apprezzasse molto la sperimentazione linguistica praticata in tali esperienze, pur magari non condividendone sempre i risultati. Credo che avvertisse una tensione comune sul lato delle innovazioni formali, che però egli ha prevalentemente fatto coincidere con l'impegno politico militante.

Antonio Medici
Il cinema saggistico di Ansano Giannarelli
Prefazione di Giovanni Spagnoletti
Pagine 258, Euro 24.00
Lindau


Dominio Pubblico

Tra i Festival che resistono, nonostante i tagli inflitti alla cultura e alla ricerca da quei buontemponi dei nostri governanti, c’è Dominio Pubblico La Città agli Under 25.
È un festival multidisciplinare, giunto alla quarta edizione, che si svolge a Roma dal 30 maggio al 4 giugno negli spazi del Teatro India, grazie alla collaborazione con il Teatro di Roma. Nato nel 2014 dall’incontro delle direzioni artistiche di Teatro Argot Studio e Teatro dell’Orologio è riconosciuto, bontà loro, come realtà promozionale dal MiBACT - Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
È uno strumento d'indagine sulla creatività di una nuovissima generazione di artisti under 25 di tutta Italia, attivi in diversi campi artistici (teatro, danza, performance, audiovisivi, musica, arti visive).
All’interno della manifestazione sono in programma circa 50 eventi tra spettacoli teatrali e di danza, audiovisivi, arti visive e concerti dislocati prettamente negli spazi interni ed esterni del Teatro India con alcuni eventi programmati in spazi più periferici come Cinema Aquila e al Teatro Quarticciolo di Roma.
Dominio Pubblico si propone anche come attività di promozione per la formazione di spettatori definiti “attivi” (definizione, a dire la verità, che non mi pare felicissima) poiché – è detto – la selezione degli artisti ospitati al festival viene compiuta in autonomia da un gruppo di under 25, che poi si impegna nell’organizzazione generale e nella comunicazione del festival stesso.

In foto il logo.


Dice il direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi: Devo ringraziare prima di ogni altro i “tre moschettieri” di questo progetto: Tiziano Panici, Fabio Morgan e Luca Ricci, perché si sono fatti carico di cogliere, insieme a noi, ciò che sta accadendo di nuovo nelle arti e di mostrarcelo. Ogni decennio ha avuto le sue avanguardie, soprattutto questa città: Roma è e resta una città dai molteplici fermenti artistici che vanno considerati una risorsa strategica. Tra le missioni di un teatro pubblico c’è anche quella di valorizzare le realtà emergenti e i nuovi talenti. Ecco perché quando ci è stato proposto Dominio Pubblico per noi è stata una grande opportunità per contribuire a dare spazio ai futuri artisti e direttori. Dominio Pubblico è un progetto che sentiamo anche “nostro” e lo trasformeremo, con partner internazionali, un progetto da candidare a Europa Creativa. Speriamo anche che questa invasione artistica di tutti gli spazi del Teatro India ci faccia comprendere meglio le ulteriori potenzialità di questo sito così affascinante, che ci piacerebbe trovasse un nuovo futuro come il Matadero di Madrid o La Friche di Marsiglia, ovvero luoghi di produzione, creazione, partecipazione, svago!.

QUI un Blu Trailer

Per il calendario del Festival: CLIC!

Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino
tel. 06. 684 000 308 I 345.4465117
e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

Dominio Pubblico
Teatro India, Roma
Lungotevere Gassman 1
Info: 06 – 87 75 22 10
info@dominiopubblicoteatro.it
30 maggio – 4 giugno 2017


Oasi

Il CRM (Centro Ricerche Musicali – fondato da Michelangelo Lupone e Raffaella Bianchini – agisce a Roma dal 1990 ed è una delle più avanzate frontiere dell’esplorazione sonora attraversando il ponte che collega il territorio dell’ arte con quello della scienza.
Tanti i riconoscimenti ricevuti in Italia e all’estero, testimonianza più recente della stima che circonda il lavoro espressivo del Centro è l’invito ricevuto in Brasile dove dal primo giorno di giugno ai visitatori sarà possibile immergersi in un’interattiva operazione multisensoriale.
Si tratta di Oasi Installazione adattiva scultoreo-musicale.
Autori: Licia Galizia per il progetto plastico spaziale - Michelangelo Lupone Planofoni®.
Curatore artistico: Laura Bianchini – Assistente di progetto: Emanuela Mentuccia –Assistente musicale: Silvia Lanzalone – Assistente tecnico: Maurizio Palpacelli.

Gli autori così illustrano l’installazione.
“OASI è un luogo di esperienza multisensoriale, un ambiente immersivo e interattivo in grado di mutare nel tempo, di adattare e sviluppare la forma musicale in relazione ai gesti del fruitore.
Tutte le componenti espressive di OASI sono correlate e integrano l’ascolto, il tatto e la visione.
L’installazione presenta due aree contigue e interconnesse, caratterizzate ciascuna da un punto di convergenza dove il fruitore può stabilire un dialogo intimo con la musica e dar vita alle sue mutazioni cogliendone la coerenza con le forme plastiche e le caratteristiche della materia.
Nella prima area (OASI-1) elementi vibranti si inseriscono nelle pareti e nel pavimento assumendo un andamento sinuoso, come vele mosse dal vento.
Gli stessi elementi irradiano il suono con proprietà diverse, costruendo, intorno al visitatore, una musica dinamica e avvolgente con traiettorie che guidano la percezione di uno spazio virtuale in elevazione.
Nella seconda area (OASI-2) elementi mobili sono sospesi al centro di un nucleo che accoglie il fruitore. La musica generata e modulata dalle forme plastiche, le mutazioni di calore e di vibrazione della materia guidano la percezione di una discesa verso il basso, un avvicinamento ad un punto focale generativo.
Tutti gli elementi dell’installazione sono sensibili alla posizione, al movimento, al contatto con il fruitore; le superfici incise, forate, piegate, propongono una lettura tattile dei segni e dei modi di vibrazione correlati alla partitura musicale”.

L’immagine in foto è una creazione di Emanuela Mentuccia.

Franco Speroni, storico dell’Arte contemporanea, docente all’Accademia di Belle Arti di Firenze: “L’immersione nello spazio e l’interazione con l’opera che nella ricerca di Galizia e di Lupone hanno preso la forma originale di installazioni scultoreo-musicali adattive, cioè imprevedibili nei loro sviluppi conseguenti alla complessità della partecipazione, con OASI diventano un progetto didattico che ha molte valenze. Mettendosi a disposizione di una fruizione diversa, come quella di persone con differenti tipi di disabilità, OASI tocca in maniera ancora più pregnante quanto abbiamo cercato di precisare con il termine “postumano”, ovvero un modello di sviluppo per devoluzione anziché per evoluzione. Se l’evolvere indica un procedimento unificante e progressivo, al contrario la devoluzione realizza uno scambio con l’ambiente che non avviene per assimilazione funzionale a modelli ma per adattamenti sensibili alle differenze e quindi disponibili a produrre forme inedite di esistenza”.

Laura Bianchini, compositrice, direttore del Centro Ricerche Musicali: “OASI è un’installazione adattiva scultoreo-musicale, risultato artistico di un progetto di ricerca denominato ADAMO (Adaptive Art and Music Opera) sostenuta dalla Regione Lazio, in collaborazione con altri partner. È stata commissionata dal MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma nel 2014.
L’installazione, che integra le forme scultoree alla musica e ai dispositivi di diffusione del suono, è stata concepita con la specifica finalità di estenderne la fruizione a persone disabili.
La collaborazione tra i due artisti risale al 2005, con Studio I su Volumi adattivi (Musica Scienza - Goethe-Institut Rom), la prima di una serie di opere, temporanee e permanenti, in grado di interagire con il fruitore e di adattarsi alle condizioni dell’ambiente circostante.
Tali opere si basano su Planofoni®, una particolare tecnologia sviluppata al CRM, in grado di sfruttare musicalmente e plasticamente le caratteristiche vibrazionali dei materiali naturali e sintetici (metalli, legno, vetro, resine).
La concezione innovativa delle opere risiede nella completa integrazione della musica alla forma plastica: la partitura musicale si basa, infatti, sui timbri e le altezze generati dalle forme messe in vibrazione o fatte risuonare con appositi dispositivi elettronici. La geometria delle forme e i materiali scelti per ogni opera permettono di disegnare degli spazi visivi e acustici distinti e caratterizzati.
Il tempo e lo spazio, rispettivamente dominio privilegiato della musica e della forma plastica, convergono fino a coincidere in un’esperienza di fruizione nuova, sia per l’opera musicale sia per quella visiva”.

Oasi
Instituto Tomie Ohtake
San Paolo del Brasile
1 giugno – 15 luglio


Animeland

Il termine “anime”, derivato dall’inglese “animation”, è un neologismo impiegato per indicare i cartoni animati nipponici, tratti in genere dai manga di successo, cioè dai fumetti stampati su carta.
“In precedenza, si utilizzavano perifrasi quali manga eiga (film di manga) e Tv manga (manga televisivo)” come spiega Francesco Prandoni nel suo “Anime al cinema”.
Gli anime, un po' come fanno le anime, spaziano in generi molto diversi fra loro: amore, avventura, fantascienza, favole, fantasy, e altri ancora.
Spesso considerati film per ragazzi (ma esistono anche gli anime porno per chi giovanissimo non è più o per ragazzi precoci), come accade spesso alle cose del mondo, hanno un sottofondo più complesso dov’è possibile rintracciare uno scenario filosofico.
Scrive Massimo Ghilardi in «Filosofia nei manga»: “Fumetti e disegni animati diventano agli occhi del filosofo luoghi di produzione del pensiero, si offrono come mondi da scoprire e indagare con curiosità ed attenzione. I manga e gli anime come metafore per leggere il nostro tempo”.

Ora, un documentario italiano, intitolato Animeland – presentato in anteprima al Roma Fiction Fest 2015 – effettua un viaggio tra manga, anime e cosplay, attraverso ricordi, aneddoti e sogni di personaggi il cui immaginario è stato influenzato da fumetti e cartoni animati.
Il regista è Francesco Chiatante.
Nato a Taranto nel 1981, è videomaker di cortometraggi, documentari, backstage e video. Studia all'Accademia di Belle Arti di Macerata “Teoria e Tecnica della Comunicazione Visiva Multimediale” e si specializza in “Arti Visive – Scenografia”. Approda a Roma nel 2007 per un Master in Effetti Speciali per il cinema. Negli ultimi anni ha lavorato per post-produzioni di film e fiction, collaborato come operatore video e montatore per una serie di progetti documentaristici prodotti e diretti da Franco Zeffirelli, diretto l'episodio 'Iride' del film indipendente a capitoli 'Amores' (Italia, 2013) e realizzato backstage dei film diretti da Ivano De Matteo 'Gli equilibristi' e 'I nostri ragazzi' (vincitore del Premio Miglior Backstage).

"Ho sempre sognato” - afferma il regista – “di raccontare i mondi di manga, anime e cosplay a modo mio. E quale idea migliore del farlo coinvolgendo tutti i miei ‘miti’, creando un film da tutti i loro racconti? Con Animeland ho trovato il modo di poter contribuire a questi immaginari fantastici che hanno influenzato i ragazzi, per generazioni, da fine anni '70 ad oggi".
Tra gli intervistati nel documentario: Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Masami Suda, Tokidoki, Maurizio Nichetti, Caparezza, Shinya Tsukamoto, Yoichi Takahashi, il Premio Oscar Michel Gondry, Luca Raffaelli, Yoshiko Watanabe, Vincenzo Mollica, Fausto Brizzi, i Kappa Boys.
Fittissima l’agenda delle prossime proiezioni in festival, rassegne, enti culturali: Montevideo Comics in Uruguay, Festival San Beach Comix di San Benedetto del Tronto, Milano nell'ambito della rassegna ceCINEattacks.

QUI il trailer.

Ufficio Stampa, Carlo Dutto: carlodutto@hotmail.it; cell. 348 – 064 60 89 (conWhatsapp).


I LibriBianchi di Perrone

Inaugurato ieri il Salone del Libro, però questa nota non riguarda quell’avvenimento – travagliato da contrasti e divisioni fra Milano e Torino – ma tratta di libri senza carta.
In altri siti web, su quotidiani, alla radio e alla tv troverete facilmente ampie cronache e giudizi su quanto avvenuto al Lingotto.
Io preferisco parlare d’altro.
C’è un artista che dal 2000 crea “LibriBianchi” come ha intitolato una serie di opere: sono candide sculture esposte in importanti gallerie in Italia e all’estero.
Le sue installazioni site-specific, prediligono luoghi legati all’Editoria: biblioteche, librerie, musei dedicati alla stampa.
Il suo nome è Lorenzo Perrone.
Nato a Milano, frequenta la “Scuola del Libro” dell’Umanitaria e quella di Pittura del “Castello Sforzesco”; trasferitosi a New York, segue i corsi di grafica e cinema alla “New School” e alla “School of Visual Arts”.
La sua vita professionale si sviluppa nei campi della grafica e della comunicazione in Europa e in America, tra Milano, Londra e New York.
La sua creatività lo spinge a dipingere, a scrivere storie per il cinema, girare video, fare fotografie seriali, progettare libri.
Ora è possibile vedere sue opere (in foto un esemplare) presso la famosa Galleria Frascione frutto dell’esperienza di quattro generazioni di collezionisti d’arte.
Rilancio perciò con piacere il comunicato pervenutomi dallo Studio Ester di Leo che cura la promozione della mostra.


“Inaugura a Firenze una mostra dedicata a Lorenzo Perrone che con i suoi LibriBianchi contaminerà la preziosa collezione di Arte Antica della Galleria Frascione nelle sale espositive di via Maggio.
Una selezione di opere dell’artista milanese frutto delle sue riflessioni sulla cultura come nutrimento dell’anima e della mente.
Il tema è strettamente legato al significato delle celebrazioni di origini pagane che si tenevano nelle campagne toscane durante il mese di Maggio in cui si apriva la bella stagione. Esse servivano per ingraziarsi la fertilità della terra e volevano essere di buon auspicio per un raccolto proficuo.

Scriveva Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano:
‘…fondare biblioteche è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito…’ quindi libri come nutrimento per la mente e come antidoto contro l’ignoranza. Questo concetto è rappresentato da Lorenzo Perrone con spighe di grano in bronzo che nascono dai suoi LibriBianchi, come nel totem Fertilità e in Terra Madre, una fusione in bronzo bianco patinato.
Accanto a questo tema l’artista inserisce quello della musica che da sempre ha caratterizzato il mese di Maggio, non a caso esiste il Maggio Musicale Fiorentino che ha costantemente sostenuto i valori della grande cultura musicale internazionale. Sia i libri che la musica si somigliano in quanto ambedue capaci di farci provare sensazioni forti e definite, di parlare ai nostri sensi, coinvolgendoci e sconvolgendoci. Ecco allora Come Musica e Mosso con brio con le quali Lorenzo Perrone comunica l’idea che la lettura possa essere tale da trasmettere una forte energia positiva, come accade durante l’ascolto di un brano musicale con andamento veloce.

I LibriBianchi sono il risultato della trasformazione di libri veri su cui l’artista interviene con acqua, colla e gesso, spogliandoli del loro contenuto e ottenendo così degli oggetti disanimati, della materia prima. La forma del libro, tuttavia, è rimasta intatta ed è su di essa che l’artista applica degli elementi apparentemente estranei quali filo spinato, vetro, sassi, legno e vernice acrilica, necessariamente bianca. Questi elementi diventano per Perrone il mezzo attraverso cui trasmettere un significato nuovo e realizzare così uno spostamento della percezione da una dimensione semantica ad una simbolica in cui le suggestioni tattili e sensoriali si amplificano. Il linguaggio diviene allora quello delle superfici e dei volumi, dei vuoti e dei pieni, dei prolungamenti e degli innesti che trasformano il libro in scultura.
Con la fusione delle sue opere in bronzo Lorenzo Perrone allarga lo spettro delle possibili ridefinizioni plastiche della materia, così l’oggetto ‘libro’ diviene icona imperitura e permette l’apparire dell’invisibile, dell’indicibile.
Accompagna le opere di Lorenzo Perrone una selezione di dipinti antichi della collezione Frascione Arte che si ricollega alle tematiche della musica, tra cui la Santa Cecilia di Alessandro Gherardini e l’Allegoria della Musica di Alessandro Rosi, e del nutrimento quali La caduta della manna di Francesco Botti e alcune Nature morte di Giovanni Agostino Cassana”.

Ufficio Stampa: Studio Ester di Leo +39 055 . 22 39 07 ; +39 348 . 33 66 205
ufficiostampa@studioesterdileo.it

Lorenzo Perrone
LibriBianchi
Galleria Frascione Arte
Firenze, via Maggio 5
Telefono 055 – 2399 204
info@frascionearte.com
Fino a sabato 1 luglio 2017


Atelier dell'Errore


“Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore”, diceva Einstein.
E Warhol: “Chi mai ha commesso un errore, nulla di nuovo ha mai sperimentato”.
Insomma l’errore può contenere opportunità, risorse.
Ne sa qualcosa Cristoforo Colombo.

Ne è convinto, con tutta evidenza, Luca Santiago Mora (QUI il suo sito web) che ha progettato e realizzato l’Atelier dell'Errore: un laboratorio di arti visive dedicato alla neuropsichiatria Infantile.
Ha iniziato l'attività nel 2002 e dal 2011, per volontà dei genitori dei ragazzi che frequentano l’atelier, è ufficialmente un’associazione ONLUS. In questi 15 anni di attività, l’Atelier si è rivelato valido complemento all'attività clinica, ma anche opera d'arte relazionale, e come tale ha partecipato a numerose esposizioni e manifestazioni legate all’arte contemporanea in Italia e all’estero.

In questo breve video Santiago Mora illustra origini e profilo dell’Atelier, un luogo dove lo sbaglio ha valore.

CLIC per contatti con l’Atelier.


Il barone di Münchhausen (1)

Quando si è troppo bugiardi, alla fine neppure si crede all’esistenza stessa del bugiardo.
È capitata a un militare tedesco del ‘700 che ne diceva tante e tante di vanterie e fanfaluche – da un viaggio sulla Luna a un altro cavalcando una palla di cannone fino a salvarsi da mortali sabbie mobili tirandosi per i capelli e altre mirabolanti panzane – da essere preso a modello dallo scrittore Rudolf Erich Raspe per un’opera pubblicata in inglese, poi tradotta in tedesco da Gottfied August Burger e pubblicata col titolo “Viaggi Meravigliosi su Acqua e Terra: le campagne e le avventure comiche del Barone di Münchhausen, come comunemente detto, davanti a una bottiglia di vino e un tavolo di amici“. Burger, a sua volta, aggiunse nuove avventure alla serie rendendo ancora più incredibili le invenzioni iperboliche di quel Barone. Al quale è capitato una sorte vicina a quella di Cyrano vissuto nella memoria collettiva come figura talvolta d’incerta identità fra vita letteraria e vita vera.

Ma è esistito davvero quel Barone? Sì, è la risposta.
Aveva nome più lungo del naso di Pinocchio: Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, conosciuto come il Barone di Münchhausen.
Nacque l’11 maggio 1720 nella cittadina di Bodenwerder. Il successo letterario di Raspe e Burger, però, non gli portò fortuna. Perché “se i libri contribuirono a rendere il barone famoso in tutta Europa e anche oltreoceano” – scrive Sabina Marineo – “gli resero al tempo stesso la vita impossibile. Fecero sì che il titolo dispregiativo di “Barone fanfarone”, datogli da molti, gli rimanesse incollato addosso per sempre, lo perseguitasse come un marchio d’infamia, ridicolizzando e discreditando definitivamente la sua persona agli occhi delle autorità e della buona società di Bodenwerder. Così avvenne che proprio lui, l’allegro ufficiale di un tempo sopravvissuto a tante battaglie, il narratore infaticabile che aveva divertito amici e conoscenti con le sue avventure e contribuito senza nemmeno saperlo alla ricchezza di chi le aveva pubblicate, morì a settantasette anni, deriso da tutti, amareggiato e impoverito. Da barone fanfarone”.

Invece per i lettori dei secoli seguenti Münchhausen non è morto.
La sua figura ha ispirato e dato nome a una grande produzione culturale: opere teatrali, sceneggiati tv, tanto cinema: dal primo film girato nel 1911 da George Méliès fino al più recente di Andreas Linke del 2012. E poi fumetti con un divertente “Paperino di Münchhausen”. Ma non basta, in matematica esiste un numero di Münchhausen: un numero per cui elevando ciascuna delle cifre che lo compongono a sé stessa e sommando i risultati si ottiene il medesimo numero. E ancora: in psichiatria è noto come “disturbo di Münchhausen” la patologia che affligge persone le quali fingono malattie o traumi per attirare attenzione e simpatia verso di sé.

La casa editrice Odradek ha pubblicato una nuova edizione del testo di cui finora s’è detto: Il barone di Münchhausen famosissimo inventore di bugie disegnato e raccontato da Giancarlo Montelli.
Per saperne di più, leggete la prossima nota.


Il barone di Münchhausen (2)


Il barone di Münchhausen famosissimo inventore di bugie edito da Odradek è un libro verbovisivo di lussuosa espressività.
Il volume – formato 30 x 24 – si avvale d’illustrazioni e testi di Giancarlo Montelli (in foto) e della prefazione di Claudio Del Bello… a proposito, non perdetevi il suo A fronte alta.
Montelli è Illustratore, art director, pubblicitario, fotografo per numerose case editrici, tra cui l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, ha al suo attivo numerose mostre in Italia e all’estero. Per la Rai ha realizzato sigle e storie animate in programmi per ragazzi. Sempre per la Rai ha utilizzato in modo atipico la fotografia per costruire fotostorie animate. Dal 1983 al 1990 ha realizzato per il settimanale L’espresso le illustrazioni per numerose copertine, ordinate nel 2004 nella mostra “L’Espresso negli anni ’80”.
Ha collaborato continuativamente con il quotidiano la Repubblica e con il magazine ‘il Venerdì’ dello stesso giornale. Collabora con il quotidiano Europa. Ha diretto i corsi di Illustrazione e insegnato Illustrazione editoriale presso l’Istituto Europeo di Design e l’Istituto di Comunicazione e Immagine - Multimedia.
Docente di linguaggi grafici e fotografici all’Università di Roma Tor Vergata, ha fondato l’Accademia d’illustrazione e comunicazione visiva dove ha diretto i corsi e insegnato costruzione dell’immagine.
Per Odradek, è stato illustratore di Pinocchio e con Valeria Palumbo ha pubblicato Dalla chioma d'Athena.

Se con Gustave Doré (1832 – 1883) che nel 1862 illustrò imprese del Barone, si ha una visione volutamente caricaturale antitedesca accentuata dal bianco e nero del disegno, con Montelli, invece, se ne ricava una potente visione onirica che nel fantastico e meraviglioso fa lampeggiare anche qualche inquietudine.
I colori concorrono a quest’effetto ora scoppiando in accese luminosità ora rabbuiandosi in momenti drammatici delle buffe imprese di quel gran bugiardo.
Insomma, gioia di lettura e festa per gli occhi.
Scrive Claudio Del Bello nella prefazione intitolata «Il Barone di Münchhausen, Cavaliere dell’Altrove»: “Ammesso che qualcuno sappia cosa è la realtà, Giancarlo Montelli è stato attirato da quegli eroi che con la realtà hanno un rapporto problematico e per i quali la menzogna reiterata costituisce un mondo vero. Non è il primo bugiardo, infatti, ad attirare la sua attenzione acuminata - Pinocchio, che altera la realtà, o Don Quichote che vive in una realtà alterata - ma certo questi personaggi, còlti dalla sua penna, nell'esercizio della loro sovversione diventano sintomi di ben altro. Non sono esempi di infiniti mondi possibili ma, in ogni caso, è lo stesso mondo attuale che genera ed essuda tutti i deliri possibili.
Il capitalismo? Ma nemmeno tanto. Non ci sono classi nel mondo del Barone - borghesia e proletariato - ma solo Nobili e servi, Case regnanti ed Eserciti schierati. La società è contratta e la Natura è solo un fondale.
E l'amore? tanto per gradire, in attesa della prossima incombente tresca, qui e ora, sostituito da avventure epocali - il romanticismo è di là da venire, e d'altra parte durerà poco”.

Estratto dalla quarta di copertina.
In un salotto di nobili dame Il Barone, quello letterario, bugiardo dichiarato, racconta le sue incredibili imprese, una più inverosimile dell’altra. Le sue gesta sono più straordinarie di quelle di Ercole, ma, a differenza del figlio di Giove che sudò le sette camicie per portare a compimento le sue fatiche, Münchhausen compie le sue con leggerezza, senza sforzo eccessivo. Egli vive nel Settecento, secolo di grandi cambiamenti, di scienziati, viaggiatori, avventurieri. E’ il secolo delle maschere, delle rivoluzioni, dell’Enciclopedia. Per di più il Barone è dotato di una forza sovrumana, di una intelligenza e fantasia senza pari, di un coraggio senza limiti e di un irresistibile fascino.
Il Grande Bugiardo può raccontare le panzane più inverosimili ed essere creduto.
Come resistere alla tentazione di disegnarlo
?

Aggiungo io: come resistere alla tentazione di acquistare questo libro?

Il Barone di Münchhausen
di Rudolf Erich Raspe
raccontato e disegnato
da Giancarlo Montelli
Prefazione di Claudio Del Bello
Pagine 104, Euro 23.00
Odradek


Animavì (1)


“Cartoni animati con un topo? Che idea orribile! Terrorizzerebbe tutte le donne incinte”.
Così disse Louis Meyer, capo della MGM, rifiutando nel 1928 il personaggio di Topolino.
Aveva evidentemente torto nel bocciare quella proposta e dovette pentirsene pensando, troppo tardi, ai guadagni perduti. Il cinema d’animazione, aldilà di Topolino, esisteva già a quell’epoca e tra varie avventure ha ritrovato da qualche anno nuove energie anche in virtù delle nuove tecnologie che lo hanno reso un prodotto gradito a più platee.
Il più vistoso fenomeno s’è verificato nel rivolgersi, oggi, anche – e largamente – ad un pubblico adulto uscendo così dalla prevalente definizione di cinema per bambini.

Ne è testimonianza il Festival che si terrà a Pergola (Pesaro - Urbino), nel giardino di Casa Godio, dal 13 al 16 luglio 2017.
È la seconda edizione del Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico, con la direzione artistica di Simone Massi regista di film d’animazione e scelto dalla Mostra del Cinema di Venezia per realizzarne il trailer e la locandina.
Vogliamo portare a Pergola – afferma Massi – dei giganti di questo genere espressivo in un piccolo paese e in un piccolo festival. Un tentativo che facciamo in maniera scanzonata e allo stesso tempo con la consapevolezza che qualcosa di importante ce l’abbiamo anche noi: le colline, i piccoli borghi, la nostra Storia.

A condurre le serate, Luca Raffaelli, giornalista, saggista, sceneggiatore, uno dei massimi esperti di fumetti e animazione in Italia.
Ospite d'onore quest’anno sarà Georges Schwizgebel, regista di fama internazionale premiato nei festival di Cannes, di Annecy, autore di oltre venti cortometraggi d’animazione in cui applica una tecnica che consiste nel dipingere a mano ogni fotogramma, realizzando così una pittura animata.
A contendersi il Bronzo Dorato, trofeo artistico ispirato all'omonimo gruppo equestre di epoca romana e simbolo della cittadina marchigiana, saranno 16 opere di animazione provenienti da tutto il mondo, dall'Australia alla Svizzera passando per l'italiano 'Confino', di Nico Bonomo, ma anche lavori da Spagna, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud, Polonia, Lituania, Portogallo, Danimarca, Croazia.
Ecco un Festival che già alla sua seconda edizione può vantare il supporto di figure dello scenario culturale e artistico non solo italiano quali – giusto per fare alcuni nomi – da Ascanio Celestini a Erri De Luca, da Valeria Golino a Nastassja Kinski, da Emir Kusturica a Neri Marcoré, da Laura Morante a Marco Paolini, da Silvio Soldini a Paolo e Vittorio Taviani, e mi fermo qui scusandomi di non averli nominati tutti per non finire nell’effetto Elenco Telefonico.

“Animavì” è un evento realizzato grazie all'organizzazione di Mattia Priori, Leone Fadelli, Silvia Carbone e dall'associazione culturale Ars Animae, con il contributo e patrocinio di Regione Marche, Ministero deI Beni Culturali e delle attività culturali e del turismo, Marche Film Commission, Marche Cinema Multimedia, Comune di Pergola, Provincia di Pesaro e Urbino, SNGCI - Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e Accademia del Cinema Italiano Premio David di Donatello.
Il festival ha ricevuto dal Presidente della Repubblica la Medaglia al Merito per il valore culturale dell'iniziativa.

Per il programma: CLIC!


Ho cominciato questa nota citando un noto episodio della storia del cinema, la chiudo con una battuta in tema tratta da un film.
“Le stelle cambiano il proprio corso, l’universo può bruciare, il mondo andare a picco, ma Paperino esisterà sempre”.
(Trevor Howard a Clelia Johnson: ‘Breve incontro’, 1946).

Segue ora un incontro con Simone Massi.


Animavì (2)


A Simone Massi (in foto un suo autoritratto) ho rivolto alcune domande.

Perché hai voluto l’aggettivo “poetico” nella dizione che sottotitola il nome del Festival? Che cosa in particolare vuole connotare?

Nei festival di animazione la quasi totalità dei film in concorso sono comici, e poi, sparsi e buttati qua e là, dei film "strani", che spiazzano e non vengono quasi mai capiti da pubblico e giuria. Personalmente questo tipo di scelta non è mai piaciuta e nel momento in cui mi è stata concessa la possibilità di dirigere un festival, ho cercato di connotarlo come l'ho sempre sognato. “Animavì” è un festival di cinema di animazione poetico, si prendono in considerazione esclusivamente quei lavori che si rivolgono all’anima dello spettatore, opere in cui ogni singolo fotogramma è già concepito come una piccola opera d’arte. Ogni informazione sul festival si trova al sito ufficiale www.animavi.org

“Animavì” – com’è scritto nel comunicato stampa di presentazione – “prende distanze in maniera netta dall’animazione mainstream”.
Quale la principale accusa che fai al mainstream
?

Accusa è una parola un po' forte, ho rispetto di tutti e non sono un polemista. Detto questo, penso che chi vuole a tutti i costi trarre un profitto da quello che fa è costretto a dei compromessi che inevitabilmente condizionano il lavoro e pregiudicano il risultato finale dell'opera. L'industria dell'intrattenimento funziona così e va benissimo che ci sia. Un po' meno giusto che non ci sia altro, che per lo spettatore non ci sia la possibilità di scegliere.
C'è, per contro, un piccolo gruppo di artigiani che procede nella direzione opposta, mira alla ricerca e alla libertà espressiva, senza preoccuparsi di piacere al pubblico e alle giurie, senza calcoli o scorciatoie. Una scelta coraggiosa che si riflette sul quotidiano e quasi sempre comporta una serie di difficoltà e privazioni. Ecco, la mia strada l'ho scelta oltre vent'anni fa e non ho mai trovato mezzo motivo per rinnegarla.

Che cosa ha significato l’ingresso delle tecniche elettroniche nel cinema d’animazione?

Non sono ferratissimo ma a occhio e croce ha semplificato di molto il lavoro e permesso l'autonomia degli autori indipendenti.

Che cosa pensi della nuova legge sul cinema, riferendoti in particolare al cinema d’animazione?

Le leggi sulla carta sono quasi sempre perfette... bisogna poi vedere come vengono applicate e interpretate. Meglio aspettare per giudicare.

Una domanda che riguarda la tua attività professionale. Che cosa ti ha portato a preferire il cinema d’animazione rispetto ad altre forme di arte visiva?

Il cinema d'animazione è arrivato per caso: alla Scuola d'Arte di Urbino non c'era la sezione 'fumetto' e ho ripiegato sul disegno animato. Poi, con gli anni, ho capito che era una forma d'arte "sbagliata", la più giusta per me.


Ufficio Stampa del Festival: Carlo Dutto, carlodutto@hotmail.it; tel. 348 – 06 46 089

Animavì
Festival diretto da Simone Massi
Pergola (Pesaro Urbino)
info@animavi.org
cell. 328 5371144
www.facebook.com/animavifestival
Dal 13 al 16 luglio ‘17


Europeana


"Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
Così Elias Canetti in “La tortura delle mosche”, 1992
Sarebbe piaciuto quest’aforisma allo scrittore cecoslovacco Patrik Ourednik?
Perché un suo libro di grande successo, pubblicato in Compagnia extra, la bella collana diretta da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon per Quodlibet, intitolato Europeana Breve storia del XX secolo, proprio sulla Storia s’interroga dopo aver provveduto, come vedremo, a riscrivere l’esse maiuscola di “Storia” in esse minuscola.
Ourednik trascorre la giovinezza nella Cecoslovacchia degli anni ‘70, nel pieno della “normalizzazione” che aveva messo fine alle speranze della Primavera di Praga. Firmatario della Petizione per la liberazione dei prigionieri politici ed editore di samizdat, è escluso dai comunisti dall'Università per “non-conformità ideologica”.
Nel 1984 si esilia in Francia, dove vive da allora.
QUI la versione italiana del sito web dell’autore.

Europeana è un libro di straordinaria singolarità. La storia di un continente ci perviene come se leggessimo un narratore che abbia scritto in un’epoca lontana da noi, visitatori che veniamo da chissà quale punto dell’universo.
Inoltre, ciò di cui veniamo a conoscenza del XX secolo non è disposto per ordine cronologico, gli accostamenti di fatti realmente accaduti avvengono per nascoste occasioni emozionali di chi scrive, gli stessi avvenimenti non hanno pari importanza storica sicché troviamo accanto alla notizia di una strage quella di una tendenza salutistica, accanto al tratteggio di un importante movimento politico l’invenzione svizzera della carta igienica.
Leggendo queste pagine dalle sonorità di concerto minimalista, il pensiero è corso a Brainard e il Perec dell’Oulipo (qualcuno a proposito di Ourednick ha fatto pure il nome di Queneau che dell’Oulipo fu un protagonista) nelle loro omonime opere “Mi ricordo”: un distillato di memorie, catalogo di personaggi e luoghi, memoria di uno stanco nuotatore che vede tanti oggetti galleggiare, tutto è presente, ma tutto è il risultato di un naufragio.
Lungo il testo, si trovano piccole scritte inserite ai lati della pagina a mo’ dei bigini (“Il nuovo dominio della memoria”, “La fine del vecchio mondo”, “Un seme di allegria”, eccetera) che fungono da segnaletica dell’argomento trattato e rendono spesso più evidenti gli inediti accostamenti.
Con Ourednik si ha una memoria frammentata, più che lacerata, precipitata in una scrittura lampeggiante, spiazzante. Libro imperdibile.

Dalla quarta di copertina.

“In Europeana ci sono scampoli della storia europea del Novecento, accumulati come si accumulano i giornali vecchi in uno sgabuzzino. Le più diverse notizie date di seguito, con pari importanza, alla rinfusa: tragedie, progressi, scoperte, omicidi, politica, guerre… sembra ci sia tutto in questo libro, ma a pezzettini, come ritagli di un’enciclopedia, ma anche come se il ventesimo secolo, questo prodigioso e terribile ventesimo secolo, fosse ormai laggiù, distante e semisepolto con tutte le sue agitazioni, irrequietezze e idee pazze; come fosse già una civiltà antica di cui restano solo frammenti.
L’edizione originale in lingua ceca è del 2001 ed è stata tradotta con grande successo in tutte le maggiori lingue”.

«E nel 1986 fu creata una bambola Barbie con la divisa a righe dei campi di concentramento con un piccolo copricapo a righe sulla testa».

Patrik Ourednik
Europeana
traduzione di Andrea Libero Carbone
Pagine 148, Euro 14.00
Quodlibet


Jacopetti Files (1)

Il “Mondo Movie” è un genere cinematografico, di tipo documentaristico, con la particolarità di presentare scene forti dove trionfano sangue, violenza, sesso; tanto che da alcuni è definito “Shockumentary”.
La fondazione di questo filone nacque con il film “Mondo cane” del 1962 diretto dal trio Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi.
C’è chi vede l’inizio di questo genere in “Europa di notte” di Alessandro Blasetti girato nel 1958, ma, pur avendo qualche morbosità in comune con quanto verrà dopo, il film di Blasetti era più puntato su curiosità sessuali, sequenze osé, spettacoli di striptease (per l’epoca audaci!), spesso conditi da commenti umoristici.
Si è orientati, quindi, a considerare con “Mondo cane” (famosissima la colonna sonora di Riz Ortolani More) il vero inizio di quel genere, e in Gualtiero Jacopetti il suo ideatore.
Il filone ebbe una grande accoglienza internazionale e fu imitato anche da cineasti stranieri.
Il successo di botteghino in Italia, ebbe, però, ben scarso successo di critica.
A questo contribuirono vari fattori che più avanti spiegherò incontrando gli autori di un volume, edito da Mimesis intitolato Jacopetti Files Biografia di un genere letterario, libro su di un periodo che, piaccia o non piaccia, rappresenta un pezzo di storia del cinema e di ricadute ancora oggi leggibili in trasparenza in alcuni film e trasmissioni tv.
Gli autori della pubblicazione sono Fabrizio Fogliato e Fabio Francione

Fogliato, critico e saggista cinematografico, è Coordinatore Didattico e docente di Arti Visive presso il Centro Formativo “Starting Work” di Como. È curatore di rassegne cinematografiche sul territorio lombardo. Ha dedicato libri e studi ad Abel Ferrara, Michael Haneke, Paolo Cavara, Luigi Scattini, e sta indagando il cinema sommerso e censurato con i volumi di “Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano” (2015). Gestisce questo sito web.

Francione, vive e lavora a Lodi. Scrive di cinema, teatro, musica per “il Manifesto”, cura la collana Viaggio in Italia delle Edizioni Falsopiano, ha fondato il Lodi Città Film Festival.
Tra i suoi libri più recenti, l’uscita in edizione francese de La mia magnifica ossessione di Bernardo Bertolucci (2015), la curatela della nuova edizione di Volgar’eloquio di Pier Paolo Pasolini (2015); Pasolini sconosciuto e Giovanni Testori. Lo scandalo del cuore (2016).

La Prefazione è di Nicolas Winding Refn.

Dalla presentazione editoriale.
“Che lo si ammiri o no, il cinema di Gualtiero Jacopetti non può lasciare indifferenti. Mondo cane, Africa addio, Addio zio Tom sono solo alcuni dei film che hanno inventato i contorni di un nuovo genere cinematografico, il Mondo Movie. Nato sul finire degli anni ’50 come sottogenere del Documentario, il Mondo Movie vuole colpire lo spettatore ricorrendo a immagini e a temi spesso scioccanti e controversi, al limite della morbosità. Non a caso il genere è conosciuto anche con il termine “shockumentary”. Il genere - nei decenni successivi - si dirama in più affluenti che hanno come sorgente i protagonisti di quell’incredibile stagione (Franco Prosperi, Paolo Cavara, Stanis Nievo, Antonio Climati, Mario Morra) fino ad abbracciare e includere l’approccio eretico e scientifico dei fratelli Catiglioni. Francione e Fogliato ricostruiscono in questo libro la biografia di un fenomeno di culto, attraverso interviste, testimonianze, sondaggi critici, materiali editi e inediti, contributi originali e un corredo fotografico tratto da archivi pubblici e private”.

Segue ora un incontro con Fabrizio Fogliato e Fabio Francione.


Jacopetti Files (2)


A Fabrizio Fogliato e Fabio Francione ho rivolto alcune domande.

Avete più volte affermato che il vostro non è un libro su Jacopetti, ma sul Mondo Movie.
Che cosa vi ha tanto interessato di quel genere cinematografico da meritare la fatica compiuta nel vostro volume
?

In una parola sola l’irripetibilità. Si è trattato di un fenomeno unico e irripetibile che ha eletto a punto di forza empatico e a codice primario il segmento cinematografico, la sequenza. E’ stato una sorta di prefigurazione visiva del sistema di comunicazione odierna basata sui video. Nel mondo movie (così come su internet) lo spettatore non è tale bensì è un player – un giocatore che sceglie dove andare, cosa vedere e come vederlo. Si sale su una giostra e terminato il giro (il segmento cinematografico) si cambia subito e si sale su un'altra – senza soluzione di continuità. Il suo planetario successo si può spiegare solo così: per la prima volta, inconsapevolmente, lo spettatore è divenuto parte attiva del profilmico e del filmico. Il mondo movie ha ideato e concettualizzato la visione interattiva.

Notate un rapporto fra quel cinema e le forti immagini che troviamo oggi in tanti siti della Rete? Se sì, oppure no, perché?

Certamente sì. Il nostro studio è finalizzato proprio a far emergere – rendere evidente – il legame diretto e di filiazione che c’è tra quelle opere (18 sono i film biografati nel volume) e la rete. Youtube è un infinito mondo movie permanente in continuo aggiornamento dove - come nel mondo movie - lo spettatore con un clic (là era uno stacco) può passare dalla tragedia al demenziale, dalla violenza al sesso, dagli animali alle torture, dal cinismo alla solidarietà, dall’orrido al meraviglioso. Il mondo movie (e il libro lo dimostra ampiamente) non è un genere cinematografico bensì una categoria visiva e mediale atemporale; un virus che ha contagiato – nel bene come nel male – tutto il cinema che ha seguito il fatidico Mondo cane del 1962 espandendo le sue influenze e contaminazioni a tutti i media e a tutti i sistemi di comunicazione che si sono succeduti.

Pur non essendo un libro su Jacopetti, inevitabile, credo, sia chiedervi un ritratto del regista che di quel genere fu il fondatore

Va da sé che l’esperienza di Jacopetti è imprescindibile. Tuttavia, finora, è stato impossibile valutarne la reale portata a causa del vizio ideologico che circonda la sua persona. Ovviamente siamo usciti da questo pantano per avventurarci nelle lande, sorprendenti e ambiziosissime, della sua cinematografia. È necessario premettere, innanzitutto, che la sua esperienza ha definito una sorta di codice commerciale a cui – seppur provenienti da istanze e prerogative diverse – si sono dovuti allineare tutti i mondo movie a seguire. Anche l’esperienza – per certi aspetti “eretica” dei fratelli Castiglioni (nel libro ampio spazio, per la prima volta, è dedicato alla loro opera) – si è incanalata nel filone commerciale tracciato dall’illustre progenitore. Pur mantenendo l’approccio fortemente umanitario, etnico, e antropologico caro ai fratelli Castiglioni, il loro cinema si è garantito il successo anche grazie alle imposizioni produttive che hanno messo in maggiore evidenza (come ovvio) gli aspetti più estremi e irrappresentabili dell’agire umano. Gualtiero Jacopetti è stato, a tutti gli effetti, una sorta di pioniere nel sondare i territori del mostrabile in un’epoca in cui l’ingerenza democristiana e vaticana era irrefrenabile nell’ambito dello spettacolo. Jacopetti, volutamente e provocatoriamente, si è fatto beffa di tutto ciò restituendo – anche al pubblico di oggi – immagini difficilmente dimenticabili sia per il loro impatto emotivo che per l’afflato epico che le caratterizza. L’essere volutamente e sfacciatamente politicamente scorretto, immorale e manifestamente razzista di opere come “Africa addio” (1966) e “Addio Zio Tom” (1971) rappresenta una sorta di valore aggiunto (dal punto di vista cinematografico) e testimonia la libertà creativa ed espressiva in cui (alcuni) cineasti del tempo potevano lavorare: veder oggi quelle opere fa capire che cosa è diventato il cinema dei decenni successivi. Lì si è tracciata la strada della spettacolarizzazione della violenza, della mistificazione della realtà e dell’ipocrisia dello sguardo. Il cinema non è la realtà, è rappresentazione e manipolazione della stessa; coloro che sono interessati alla realtà si rivolgano ai loro occhi… e non al cinema.

Fabrizio Fogliato
Fabio Francione
Prefazione di
Nicolas Winding Refn
“Jacopetti Files”
Pagine 416, Euro 30
Mimesis


La dura legge di Baywatch


“I ricordi” – scrisse Aldous Huxley – “formano in ogni uomo la sua letteratura privata”.
Gli fa eco Bob Dylan che canta "Abbi cura dei tuoi ricordi perché non puoi viverli di nuovo".
Poche cose come la memoria possono vantare una produzione tanto vasta dell’ingegno umano in plurali campi: dalle neuroscienze alla poesia, dalla narrativa alla musica, dal cinema al teatro, dalla radio alla televisione fino ai tanti giochi nei quali prevale chi ha più memoria.
Solo per restare nella letteratura moderna come non ricordare la madeleine di Proust o lo stream of consciousness di Nora nelle pagine finali dell’Ulisse di Joyce, oppure il “Mi ricordo” dell’artista americano Joe Brainard e poi di Georges Perec: distillati di memorie, catalogo di personaggi, oggetti e luoghi che appartennero alle loro esistenze.
Oltre ai singolari ricordi squisitamente (o disgustosamente) personali, esistono ricordi comuni generazionali seppure vissuti in modo diverso da ognuno di noi.
Ad esempio, chi si ricorda, degli anni ’90, i mini e i floppy disc, i primi videoclip di Videomusic, le serie televisive di Friends, Baywatch? E ancora: le sale giochi, le schede telefoniche o le boy band?
Tutte cose targate ’90.
Anni che hanno visto mutamenti sociali importanti dovuti anche a un’accelerazione del progresso tecnologico.
Furono intensi anche su altri versanti quegli anni.
Si aprirono sotto le prime, maiuscole, conseguenze del crollo del muro di Berlino avvenuto il 9 novembre 1989 e in Italia, giusto per ricordarlo (giacché siamo in tema di memorie) ci fu un momento politico importante noto con il nome di "Mani pulite” che tentò di raddrizzare la morale nazionale senza riuscirvi come tristemente ci insegnano ancora i nostri giorni.
Tanti altri avvenimenti accaddero in quegli anni, ma il discorso ci porterebbe lontano.
Sui ’90, si è interrogato Mattia Bertoldi che ha pubblicato La dura legge di Baywatch Tutto quello che avete amato negli anni '90.

L’autore, nato a Lugano nel 1986 (per una sua bio: CLIC), in quegli anni adolescente, ha raccolto i suggerimenti di decine di suoi coetanei e racconta la musica, la tv, l’intrattenimento, le letture, le mode e le tecnologie degli anni ’90 (“quando per scaricare una fotografia da Internet ci voleva mezz’ora”) in un percorso di scrittura strutturato come un librogame.
Noi degli anni ’90 – dice l’autore – siamo stati gli ultimi esemplari della nostra specie a provare i limiti della tecnologia digitale, gli ultimi ad aver assaggiato musicassette e mini disc, in un’epoca in cui gli MP3 erano ancora un miraggio per i più; ad aver seguito delle serie televisive senza l’aiuto di Internet, pronti a spaccare il videoregistratore se solo ci fossimo dimenticati di puntarlo per catturare su VHS l’ultimo episodio della stagione perché... esatto, niente streaming e niente riassunti su Wikipedia. Siamo anche stati gli ultimi a subire la maledizione di Baywatch, e questo è un segno che ci porteremo dietro per tanto, tanto tempo. E nessun remake potrà toglierci questo.

Ho cominciato questa nota con due citazioni, la chiudo con un aforisma sulla memoria di Cesare Pavese: “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”.

Ufficio stampa: Anna Maria Riva, riva.amb@gmail.com – 329 - 09 74 433

A cura di Mattia Bertoldi
La dura legge di Baywatch
Pagine 210, Euro 14.00
Edizioni Booksalad


Questa (non) è matematica


Arte e scienza, oggi, dopo secoli, sono tornate a far parte dello stesso territorio al quale sempre sono appartenute: la creatività umana.
Un tempo, nel Rinascimento, non esisteva una divisione fra quei due campi. Si pensi, per fare due esempi soltanto, a Leon Battista Alberti, a Leonardo da Vinci.
Adesso, la perniciosa divisione idealistica fra quelle due aree del sapere è caduta.
Ha scritto Paul Feyerabend in ‘La scienza come arte’: “Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte”.
“Ars sine Scientia nihil est” fu già detto dall’architetto parigino Giovanni Mignot, nel 1399 quando fu chiamato a Milano per valutare l’opera della fabbrica del Duomo.
Lo stesso concetto riecheggerà nel 1722 quando il compositore francese Jean-Philippe Rameau scriverà: “La musica è una scienza che deve avere regole certe: queste devono essere estratte da un principio evidente, che non può essere conosciuto senza l'aiuto della matematica”.
E Victor Hugo (1802-1885): "Non vi è alcuna incompatibilità fra l'esatto e il poetico. Il numero è nell'arte come nella scienza. L'algebra è nell'astronomia e l'astronomia confina con la poesia. L'anima dell'uomo ha tre chiavi che aprono tutto: la cifra, la lettera, la nota. Sapere, pensare, sognare”
Ai nostri giorni quei pensieri sono tornati di grande attualità con l’intreccio multidisciplinare, che è alla base del procedere artistico nelle arti visive, nella musica, nel teatro di performance, perfino in letteratura dove usando logaritmi (Philippe Bootz, Loss Pequeño Glazier, Shelley Jackson) sorgono forme di scrittura mutante.

Un libro di Editoriale Scienza invita i giovani lettori, dagli 8 anni in su, a considerare lo stretto rapporto esistente fra due culture che non sono contrapposte ma legate.
L'autrice è Anna Weltman – insegna matematica in California – con il titolo Questa (non) è matematica invitando a fare una serie di facili esercizi, ritagliando e incollando figure contenute nelle sue pagine. Si dimostra così come “l’arte può dare vita a numeri e forme facendo accadere le cose più incredibili".
Un glossario chiarisce alcuni termini usati nel volume… arte anamorfica, mandala, stomachion, tassellazione.

Dalla presentazione editoriale.
"Un libro di attività per bambini, una raccolta di giochi di matematica, un album da disegnare dove l’arte si intreccia con forme geometriche e numeri.
Matematica e arte a prima vista possono sembrare mondi lontani, ma basta guardare oltre le apparenze per scoprire che hanno molto in comune. Da una serie di punti è possibile realizzare bellissime spirali oppure un’intricata tela 3D. Grazie a principi matematici si creano sorprendenti illusioni ottiche. Tanti giochi di matematica aspettano i lettori in queste pagine, dove matita, compasso e righello saranno i loro compagni d’avventura.
Si possono disegnare opere d’arte direttamente sul libro, seguendo gli spunti forniti: in ogni facciata di “Questa (non) è matematica”, infatti, c’è spazio in abbondanza per creare e colorare… capolavori e, se non basta, alla fine pagine vuote dove si può continuare a sbizzarrirsi, oltre a suggerimenti per proseguire l’avventura nella matematica e nell’arte.
Questo libro di attività per ragazzi è dunque un invito a giocare con la matematica".

Anna Weltman
Questa (non) è matematica
Traduzione di Elena Rinaldi
Pagine 96, Euro 11.90
Editoriale Scienza


Non mi lasciare


“Ecco” – dice Elias Canetti – “la memoria si blocca. Ma è ancora lì tutta intera. Anche le cose più dimenticate si ripresentano, ma quando vogliono loro”.
John Irving, spiega: “La memoria è un mostro, tu dimentichi… essa no. Archivia le cose, ecco tutto. Le conserva per te, o te le nasconde e le richiama, per fartele ricordare, a sua volontà. Credi di avere una memoria. Ma è la memoria che ha te".
Umberto Eco: scrive “La memoria è strettamente legata all’oblio e ha un senso solo quando è selezione; soffre di tre malattie: eccesso di ricordi, eccesso di filtraggio e la confusione delle fonti”.
Sia come sia, pare che ogni anno sprechiamo circa 40 giorni (come avranno fatto a calcolare questo dato, proprio non lo so) della nostra vita alla ricerca di chiavi, informazioni, telefonini, documenti smarriti.
Pochi fra gli umani non incappano in questa calamità, questi riescono a ricordare in maniera strepitosa un sacco di cose, tanto che esistono Campionati della Memoria.

Perché oggi l’ho presa fissa con la memoria?
Perché segnalo un libro, pubblicato da Lindau, intitolato Non mi lasciare Breve viaggio nell’universo della memoria.
L’autore è Oddone Camerana, nato a Torino nel 1937, ha operato a lungo nel mondo della grande industria e in esso ha ambientato molte delle sue opere precedenti. Fra queste ricordiamo “L’enigma del cavalier Agnelli”, “La notte dell’Arciduca”, “I passatempi del Professore”, “Contro la mia volontà”, “Il centenario” (finalista al Premio Viareggio), “Racconti profani”, “L’imitazione di Carl”, “In fondo a destra. Una meditazione sulla fragilità umana” e per Lindau Vite a riscatto.

Non mi lasciare è una supplica – credo laica, o così mi piace immaginarla – a una sorta di tirannica divinità: la memoria.
L’autore la prega di non lasciarlo nel buio della smemoratezza che fatalmente ci colpisce negli anni della vecchiaia.
Se sfogliamo un dizionario scientifico, la parola Memoria è così spiegata: “Funzione generale del cervello consistente nel far rinascere l’esperienza passata attraverso quattro fasi: memorizzazione, ritenzione, richiamo, riconoscimento”. Le cose poi si complicano perché esiste una memoria genetica e ancora articolazioni di memorie di breve, media e lunga durata a loro volta distinte in memoria iconica, ecoica, sensoriale ed emozionale.
La memoria, insomma, è lo scrigno che contiene tutto di noi, tutto quanto sappiamo che ci ha preceduto e ci circonda.
Ci sono anche scienziati che studiano la maniera di cancellare i cattivi ricordi (… faccio per loro un tifo accesissimo), tanto per dire quanto la Memoria sia oggetto di attenzioni scientifiche con implicazioni filosofiche e sociologiche.
Possibile ricordare tutto? Le nuove tecnologie indubbiamente aiutano la registrazione dei dati, ma indeboliscono la nostra capacità personale di ricordare.
Del resto, perché sorprendersene, Platone detestava la scrittura; nel ”Fedro” la definisce un veleno per la memoria.
Già, con tutto il rispetto per Platone, mi chiedo che cosa sarebbe stato degli umani senza la scrittura e oggi senza memoria elettronica, lo dico a nome di tutti gli smemorati.
L’autore di “Non mi lasciare” racconta, in modo indomito e trepido a un tempo, la perdita lineare e metodica di un patrimonio di ricordi che credeva intoccabile fino a quando non ha scoperto il contrario.
Accanto alla saporosa narrazione di alcuni episodi vissuti in prima persona, esplora sagacemente il territorio della memoria dall’antichità ai teatri mnemonici (l’italiano Giulio Camillo Delminio ne è un protagonista), dalla letteratura alla cronaca, alle neuroscienze.
Un piccolo libro che si legge con piacere grazie alla festosa scrittura di cui si avvale e che nel lettore con insidiosa grazia insinua anche qualche ansiosa domanda sul proprio futuro.
Però… però ricordare tutto, ma proprio tuttotuttotutto è un bene?
Ho citato Eco in apertura, lo faccio anche in chiusura. In una Bustina di Minerva di tempo fa scrisse che molte guerre si combattono ancora ricordando offese lontanissime nel tempo e sarebbe stato tanto meglio che su quei ricordi fosse sceso l’oblio a cancellarli.
A quando risale quella Bustina?... ehm…scusate, non lo ricordo.

Oddone Camerana
Non mi lasciare
Pagine 116, Euro12.00
Lindau


Malacoda

Sono stato raggiunto da un comunicato che volentieri rilancio.

"Cara amica, caro amico, ti ripropongo la diabolica malacoda - diretta da Mario Quattrucci – in rete dal 25 Aprile e dalla Giornata Mondiale del Libro con molti racconti, poesie, saggi, recensioni, interviste, immagini tra cui potrai scegliere per divertirti, conoscere, accrescere le tue conoscenze, romperti i cosiddetti e anche (se vorrai) arrabbiarti. Che fa sempre bene.
Per accedere al prezioso scrigno vai su internet (ma anche su google) e digita malacoda.
Dalla rivista, poi, potrai accedere direttamente al nostro canale malacoda, e allo strapuntino settimanale (quasi un diario) malablogghe; come pure potrai ricercare (e si spera trovare) tutto quanto pubblicato nei numeri precedenti andando in Archivio o cliccando sul cartiglio Archivio Malacoda".


Lo splendore del nero

Sono tanti ad avere studiato i colori traendone plurali teorie, i primi nomi che mi vengono sulla tastiera: Aristotele, Newton, Goethe, Wittgenstein, Benjamin, Feyerabend… ma l’elenco è assai più lungo e tante le articolate riflessioni in piccoli saggi e articoli.
Ci sono, poi, moltissimi scaffali pieni di libri sui colori osservati dalle neuroscienze, dai pubblicitari, dai saggisti di cinema e fotografia, per non dire di quelli, d’involontario umorismo, che si rifanno a fattucchierie.
La letteratura contiene molteplici rimandi ai colori. Arthur Rimbaud, associandoli alle lettere dell’alfabeto, realizza immagini nel sonetto “Vocali” del 1874 e Corrado Costa, un secolo dopo, nel 1979, rivisiterà quel catalogo delle vocali concludendo che “la voce ha cinque punte / colorate di rosso”.
Lo scrittore americano Terry Brooks ha scritto: “I ricordi sono nastri colorati da appendere al vento”. Ammesso che sia così, quali colori avranno quei nastri corrispondenti ai nostri ricordi?
E quanti e quali colori avranno avuto le reminiscenze di Brainard e Perec nelle loro omonime opere “Mi ricordo”?
Di sicuro pare proprio che ogni rimembranza – insieme con la potenza evocativa che hanno suoni e odori – abbia soprattutto dei colori, diversi per ciascuno di noi.
Potenza e persistenza che nel 1848 Gérard de Nerval, in una lettera a Paul Chenavard, rilevava dicendo “… prima che svaniscano nell’eternità del silenzio persino i colori dei nostri ricordi”.

Fra i colori, però, ce n’è uno che contiene fascino e repulsione: il nero.
Repelle a parecchi, è in occidente perfino ritenuto luttuoso, ma è amato da Alain Badiou – ritenuto da Slavoj Žižek il più grande filosofo vivente – del quale Ponte alle Grazie ha mandato in libreria il saggio Lo splendore del nero Filosofia di un non-colore.
Badiou (Rabat, 1937), professore emerito all’École normale supérieure de la rue d’Ulm, è principalmente noto per la sua opera “L’essere e l’evento” (1988), tradotto in italiano nel 1995. Il secondo volume dell’opera, “Logiques des mondes” (2006), è ancora inedito da noi. Fra i suoi ultimi libri pubblicati in Italia, “La Repubblica di Platone” (2013) e “Il risveglio della storia” (2012), con Ponte alle Grazie; ma ricordiamo anche “Manifesto per la filosofia” (2008), “Beckett. L’inestinguibile desiderio” (2008), “Secondo manifesto per la filosofia” (2010), “Piccolo pantheon portatile” (2010), “San Paolo” (2010), “Heidegger. Il nazismo, le donne, la filosofia” (2010), “L’ipotesi comunista” (2011), “Metafisica della felicità reale” (2015), “Il nostro male viene da più lontano” (2016) e “Lacan” (2016).

In questo suo saggio miscela suoi ricordi d’infanzia (quando inventò il buio gioco “Suona Mezzanotte”) ad altri ricordi della stessa età di fronte al mistero del nero triangolo pubico delle signore, fino alla maturità scandendo epoche e memorie su quel non-colore notturno che affoga immagini, ma fa emergere anche improvvise epifanie.
"Quel che mi affascina nel nero è la sua profonda ambiguità", ha dichiarato Badiou in un’intervista. E non manca di portare esempi di quella doppiezza in vari campi.
Qui riporto uno solo fra gli esempi. Riguarda la politica. Il nero appartiene sia alla bandiera anarchica sia alle camicie dei fascisti.
Le pagine attraversano con leggerezza la profondità di più campi del sapere; riflessioni che investono le arti visive, la letteratura, la moda, la musica, e fisica, biologia, antropologia, lo Spazio. Una lettura non priva d’angoli umoristici, molto piacevole. Fino a un birichino tiro finale laddove Badiou sostiene – partendo da una frase di Jean Genet ”Per prima cosa di che colore sono i negri?” – come l’esistenza della pelle nera sia un’invenzione dei bianchi, i quali, a loro volta, mica è tanto sicuro che bianchi siano come i gialli che gialli non sono per niente.
Insomma, libro di grande fascino che coinvolge sensi, filosofia, e filosofia dei sensi.

Concludo ipotizzando che la canzone più amata di Badiou sia proprio questa.
Voi che ne dite?

Alain Badiou
Lo splendore del nero
Traduzione di Michele Zaffarano
Pagine 112, Euro 12.00
Ponte alle Grazie


Chronos


È in corso Chronos L’arte contemporanea e il suo tempo, la prima di un ciclo di mostre a cadenza annuale dal titolo Le stanze del contemporaneo che vedrà coinvolti diversi comuni della Provincia di Bergamo, distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, su alcuni temi portanti della storia dell’arte che pongono in dialogo l’antico e la tradizione con il contemporaneo.

La mostra è curata da Angela Madesani .
Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” (Bruno Mondadori), di “Le intelligenze dell’arte” (Nomos edizioni).
Questo sito si è occupato di alcune delle mostre di cui è stata ordinatrice, ricordo: Polemos – Dipingere?Saleterrarum.

Questa prima rassegna è promossa da sei Comuni della bassa bergamasca orientale (Torre Pallavicina Cortenuova – Calcio – Morengo – Romano di Lombardia – Cologno al Serio) con l’intento di valorizzare i propri siti storici che si situano cronologicamente tra il XVI e il XX secolo. Edifici di grande rilievo, carichi di storia e memoria dove la curatrice porta le opere di 46 artisti contemporanei, la cui riflessione è incentrata sul tema del “tempo”: in senso storico, esistenziale, storico-artistico, filosofico.

Gli spazi – sottolinea la curatrice – sono fortemente connotati e non si poteva pensare di esporvi opere che non fossero in sintonia con essi. Non ho però invitato gli artisti a presentare un lavoro site-specific. Li ho chiamati perché ho scelto insieme a loro dei lavori sul tema del “tempo/chronos”. Ognuno utilizza mezzi diversi, dalla fotografia al video, all’installazione, al disegno, alla scultura in marmo, ceramica, gesso, piombo o lana e anche la scrittura. La divisione e la collocazione nelle varie sedi delle loro opere segue un gusto curatoriale.

Il catalogo è stampato dall’editore Scalpendi.
Per avere informazioni, su 4 dei 6 comuni coinvolti (Torre Pallavicina, Calcio, Cortenuova e Romano di Lombardia): www.bassabergamascaorientale.it.

Ufficio stampa Alessandra Pozzi - Studio Pozzi AP
Via Paolo Frisi 3, Milano
press@alessandrapozzi.com, skype: Alessandra.pozzi1 Tel. 338 – 59 65 789

Chronos
A cura di Angela Madesani
Provincia di Bergamo – Sedi varie
Fino al 21 Maggio 2017


La Francia in nero (1)


Tra pochi giorni apprenderemo i risultati del ballottaggio in Francia.
È un’occasione propizia per conoscere un profilo dell’estrema destra francese e di Marine Le Pen che la guida.
Una sconfitta di Macron, investirebbe non solo la Francia ma avrebbe ripercussioni su molti paesi europei perché «spira un vento ostile alla mondializzazione, bersaglio polemico di tutti i movimenti catalogati come populisti, di cui il Front National di Jean-Marie Le Pen prima e della figlia Marine poi, è l’esponente più antico, più robusto e più vicino ad arrivare al potere in un paese chiave del mondo».
Queste parole le ho estratte da un recente libro pubblicato da Marsilio intitolato: La Francia in nero Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen. Ne è autore Marco Gervasoni.
Nato a Milano nel 1968, insegna Storia contemporanea all'Università del Molise e Storia comparata dei sistemi politici all'Università Luiss di Roma. È editorialista del «Messaggero». Tra i suoi volumi più recenti: François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale (2007), La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (con Simona Colarizi, 2012). Per Marsilio ha pubblicato: Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni (2010), La guerra delle sinistre. Socialisti e comunisti dal '68 a Tangentopoli (2013) e Le armate del Presidente. La politica del Quirinale nell'Italia repubblicana (2015).

"La Francia in nero" è certamente tra i saggi che meglio studia origini e approdi della destra francese, la più longeva d’Europa, dalle origini - all’epoca della Rivoluzione - attraversando suoi momenti di declino e di ripresa, Vichy, il dopoguerra, l’Algeria, fino ai giorni nostri.
Nella seconda parte di questa nota, potete leggere un’intervista con Gervasoni.

Dalla presentazione editoriale.
Dopo la crisi del 2008, e più di recente con la Brexit e con l'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, spira nel mondo un vento favorevole a movimenti sbrigativamente catalogati come «populisti». Tra questi, il Front national è senza dubbio il più robusto e vicino al potere in un paese chiave del mondo. Non a caso. Di tutte le destre storiche, quella francese può infatti vantare una continuità senza eguali. Tanto che - sostiene Marco Gervasoni - «non è Marine Le Pen ad aver imitato i populisti europei, semmai è il contrario». Per capire la cultura politica di cui il lepenismo è l'erede occorre risalire al 1789, l'anno cruciale da cui tutto prende avvio. Dalla Rivoluzione francese, la «matrice della politica contemporanea» che definisce il senso degli schieramenti, si dipana il filo rosso che porta da Napoleone III alla «destra rivoluzionaria» del 1914, con l'ondata di antisemitismo e nazionalismo, dal fascismo francese al collaborazionismo, dalle epurazioni alla guerra d'Algeria, dalla Nouvelle Droite alla nascita del lepenismo, fino alla sua crisi apparente e alla rinascita. Una storia indispensabile per cogliere gli elementi che hanno reso il volto della destra francese il più noto sulla scena internazionale e rispondere a molti interrogativi. Uno su tutti: può un simile modello nazional-populista manifestarsi in una versione italiana?

Segue ora un incontro con Marco Gervasoni.


La Francia in nero (2)

A Marco Gervasoni (in foto) ho rivolto alcune domande

Nell’estrema destra francese di oggi vi sono ancora tracce dei controrivoluzionari dell’89 oppure è un fenomeno estraneo a quelle antiche origini?

Qualche traccia è ancora esistente, soprattutto nelle proposte della nipote di Marine Le Pem, Marion Marechal Le Pen, soprattutto sul piano della difesa dei valori cattolici contro la minaccia dell’Islam, contro il mariage pour tous, l’adozione alle coppie gay ecc.: temi su cui invece Marine Le Pen si è meno esposta

Quanta Vichy (nonostante alcune recenti prese di distanza) c’è nel Front National?

Il FN di Jean Marie Le Pen aveva imbarcato un buon numero di ex vichysti e anche di ex collaborazionisti (che sono due cose diverse), anche se il suo discorso su Vichy era stato quello di considerarlo un « male minore » rispetto a una totale occupazione della Francia da parte dei nazisti. Un discorso condiviso anche da un De Gaulle (dopo la guerra, ovviamente) e da un Mitterrand. Il legame con Vichy si è invece spezzato con Marine Le Pen, anche se su questi come su altri temi nei militanti e nei dirigenti più anziani permangono grandi ambiguità

«Non è Marine Le Pen ad aver imitato, per aggiornarsi, i populisti europei, semmai è il contrario». Com’è pervenuto a quella conclusione?

Nel senso che la tradizione populista è ben presente in Francia fin dal XIX secolo: se ne possono trovare le prime tracce nella figura di Luigi Napoleone Bonaparte (poi Napoleone III) ma soprattutto nel generale Boulanger e nel movimento che prese il suo nome negli anni Ottanta del XIX secolo. Una tradizione rinnovata negli anni Cinquanta del XX secolo dall’esperienza breve ma significativa del poujadismo, il vero antesignano dei moderni movimenti populisti. Jean Marie Le Pen esordì come parlamentare proprio del movimento di Pierre Poujade, nonché suo braccio destro. Nel FN di Jen Marie Le Pen confluisce tutta questa tradizione, tanto che molti studiosi fin dagli anni Ottanta del secolo scorso per definire quel partito hanno utilizzato il concetto di « nazional-populismo ». Raggiungendo il FN risultati elettorali già importanti, quando le estreme destre e i populisti degli altri paesi europei non contavano nulla, tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta il FN di Jean Marie Le Pen è stato un modello per partiti e movimenti che si sarebbero imposti negli anni successivi, come la FPO austriaca, i democratici svedesi, i populisti olandesi, per non parlare dei movimenti dell’ex Europa dell’est.

Quale la principale chiave del successo di Marine Le Pen?

Quando Marine Le Pen prese la guida del FN quasi tutti erano convinti che fosse un movimento in declino, e in parte era vero, in ragione dei cattivi risultati elettorali (causati soprattutto dalla proposta politica di Sarkozy che aveva attirato una quota consistente di voti lepenisti). Il fallimento della presidenza Sarkozy e gli effetti della crisi economica del 2008 sono stati una spinta per una ripresa del Fn già nelle elezioni presidenziali del 2012, dove Marine Le Pen arrivò terza. Ma è stato soprattuto il disastro della presidenza Hollande, più naturalmente gli attentati terroristici e la crisi dei migranti, a dare un ulteriore slancio a Marine Le Pen: era da almeno un paio di anni del resto che i sondaggi la davano in testa, e il fatto che sia stata spodestata dal podio da Macron rappresenta un insuccesso, anche se relativo

Due domande in una.
Quali partiti italiani sono nella pratica politica meno lontani dalla Le Pen e quali possibilità lei vede che acquistino da noi la stessa forza del Front National
?

Fino a tempi recenti nessun partito italiano si era richiamato esplicitamente al FN. Lo stesso MSI di Almirante e di Fini, negli anni ottanta e primi novanta, al di là dei rapporti formali, non considerava importabile in Italia l’esperienza lepenista, una distanza diventata rottura quando il Movimento sociale diventò Alleanza nazionale. Toni più vicini al lepenismo si potevano riscontrare nella Lega, anche se Bossi ha sempre rifiutato qualsiasi amalgama con il FN, giudicato a giusto titolo nazionalista, quando la Lega era federalista. Con l’arrivo di Matteo Salvini, il legame con il FN di Marine Le Pen diventa molto stretto, non solo in quanto a proposte economiche e sociali ma anche per quanto riguarda la politica estera (filo russa e anti UE). Sul carro giudicato vincente di Marine Le Pen salgono poi anche ex esponenti di AN e del PDL, come Giorgia Meloni e più di recente Gianni Alemanno. Per il momento, questa svolta lepenista della Lega è stata pagante perché la è rimontata in consensi, in visibilità, arrivando addirittura, a causa della crisi del berlusconismo, ad avere, in termini di voti, lo stesso consenso di Forza Italia, almeno secondo i sondaggi. Questo però pone un problema per l’alleanza di centro destra, visto che FI è legata al PPE e più di recente esprime il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, che non a caso ha commentato il risultato del primo turno delle presidenziali giudicando positiva l’affermazione di Macron. L’altro interrogativo riguarda le nostre tradizioni politiche: diversamente dalla Francia, da noi una tradizione nazionalista è sempre stata minoritaria, poi è stata screditata dal fascismo. Può imporsi una forza nazionalista, quale è il FN, in un paese dal così incerto senso di appartenenza nazionale come il nostro?

Marco Gervasoni
La Francia in nero
Pagine 318, Euro17.50
Marsilio


Il cittadino e il Direttore Generale

Tempo fa, su queste pagine, ho recensito un libro delizioso, intitolato L'onesto porco, che a una lettura distratta poteva apparire come un divertissement e, invece, pur giovandosi di una dotta e festosa scrittura, era un’amara considerazione sulla crudeltà di noi umani.
L’autore: Roberto Finzi. Per una sua biografia e bibliografia cliccare QUI.
Ora, di Finzi è apparsa una nuova pubblicazione – editore Odoya – che riflette su di un triste avvenimento capitato proprio all’autore.
Il titolo: Il cittadino e il Direttore Generale Una storia di sanità.
Racconta la vicenda di Mirella Bartolotti, sua moglie, la prima donna in Italia a entrare in una giunta comunale incaricata dei problemi delle donne. È morta il 27 aprile 2015.
Finzi ha dichiarato in un’intervista: “La morte di mia moglie sarebbe stata certo meno dolorosa, meno turbata e forse meno rapida se in tutti i reparti, e non solo in alcuni, si fosse operato in modo sempre e del tutto corretto, senza trascuratezze, approssimazioni, errori".
Da qui una vicenda dalla quale proviene il libro di cui ho dato prima il titolo.
Non è solo una faccenda privata di Finzi, è una storia che riguarda tutti noi.

Dall’introduzione di Claudio Magris.
“Come risulta – con forte e toccante evidenza da queste pagine appassionate, asciutte, struggenti e inesorabilmente precise – Roberto Finzi ha vissuto un’esperienza acremente dolorosa e tartufescamente confusa nei rapporti col potere kafkiano delle istituzioni sanitarie, in questo caso il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Questo breve testo, vibrante di affetto e di dolore tanto più intensi quanto più contenuti nel rigore dell’inesorabile argomentare, nasce da una profonda e pudica sofferenza e perdita affettiva. Non certo da un’esigenza di vendetta, bensì di giustizia nel senso più alto, giustizia che non è mai di uno solo ma di tutti, anche se la battaglia per essa nasce da un caso e da una passione individuali. Il dramma da cui scaturiscono queste pacate e implacabili pagine e la morte della compagna della vita di Roberto Finzi, sua moglie Mirella Bartolotti, deceduta poco dopo aver trascorso oltre quaranta giorni di degenza in quel Policlinico (…) Roberto Finzi non incolpa l’istituzione della sua morte, ma chiede – pacatamente, minuziosamente, implacabilmente – ragione di tante cose che non sembrano quadrare, la spiegazione delle quali – trascurate forme di decubito, vaga diagnosi di demenza, destinazione al letto di contenzione – gli appaiono macchinose e oscure. Finzi chiede spiegazioni lucide e complete, e reagisce alla vaghezza, alla genericità a suo avviso sviante di molte risposte (…) Finzi traduce la forte passione personale che lo ha indotto a scrivere questo testo in un contributo oggettivo alla concreta democrazia e civiltà del nostro paese. In tal modo continua la battaglia della compagna della sua vita sulla cui morte chiede chiarezza. «L’ultima lotta di questa combattente schiva e silenziosa» scrive, riferendosi a sua moglie «e, per mia mano, denunciare la prepotenza di certa burocrazia verso i cittadini».
L’avversario che egli incalza, duellando di taglio e di punta e che risponde spesso con confusa vaghezza ammantata di specificazioni burocratiche, non è la medicina, la malasanità, ma e la “sanità grigia”, com’egli la chiama, ovvero la sanità pubblica impastata e impasticciata di burocrazia.
L’antagonista del Cittadino non è il medico ma il Direttore Generale o meglio l’ingranaggio della Sanità e del suo linguaggio, che si avvolge e si avviticchia in se stesso quanto più replica, e corre ai ripari dinanzi a ciò che gli viene detto e chiesto”.

Roberto Finzi
Il cittadino e il Direttore Generale
Introduzione di Claudio Magris
Pagine 95, Euro 10.00
Edizioni Odoya


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