Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
martedì, 11 luglio 2017
Buone vacanze
Come accade dal 2000, anno di nascita di questa pubblicazione in Rete, Cosmotaxi a luglio chiude per ferie, riaprirà dopo l'estate. Auguri di buone vacanze a chi le fa.
La pienezza del vuoto
Il rumeno Emil Cioran (1911 – 1995) ha scritto: “L’esperienza del vuoto è la tentazione mistica del non credente, la sua possibilità di preghiera, il suo momento di pienezza”. Perché questa citazione? Perché mi accingo a presentare un gran bel libro pubblicato da Ponte alle Grazie intitolato La pienezza del vuoto Dallo zero alla meccanica quantistica, tra scienza e spiritualità. Ne è autore il vietnamita Trinh Xuan Thuan. Nato a Hanoi, nel 1948, ha studiato al California Institute of Technology (Caltech) e all’Università di Princeton dove ha ottenuto il dottorato in astrofisica. Dal 1976 insegna all’Università della Virginia ed è ricercatore all’Institut d’Astrophiique di Parigi. Il suo campo di ricerca è l’astronomia extragalattica. Per la qualità del suo lavoro di divulgazione, ha ricevuto nel 2009 il premio Kalinga dell’Unesco e nel 2012 il Premio mondiale della Fondazione Simone e Cino del Duca. È autore di varie opere di divulgazione tra cui: “Il caos e l’armonia” (2000); “Dal Big Bang all’Illuminazione” con Matthieu Ricad (2009); Lo scienziato e l’infinito (2014). Prima di entrare nelle sue pagine, è forse bene fare un’estrema sintesi del concetto di Vuoto. La disputa sulla possibilità o impossibilità del vuoto inizia con la filosofia greca. Gli atomisti lo ritengono necessario per il movimento degli atomi. Aristotele, invece, pensa che nel vuoto il movimento sarebbe impossibile. La Scolastica ne riecheggia il pensiero affermando che «la natura aborre dal vuoto» il famoso horror vacui. Nell’età moderna Gassendi fa proprie le tesi atomistiche, mentre Cartesio identifica la materia con l’estensione e nega quindi che possa esistere spazio vuoto. La filosofia contemporanea, specie occidentale, è concorde nel ritenere che il problema rientri fra quelli di esclusiva competenza della fisica. Thuan, parte dall’osservazione che il vuoto in matematica si è manifestato sotto forma di zero, e spiega perché si è dovuto attendere che il genio matematico indiano, nel quinto secolo d. C., ne formulasse lo statuto di numero. Importante passo per avvicinare, attraversando e illustrando come fa l’autore, secoli di dibattito scientifico e filosofico, il momento in cui ai primi del Novecento, Einstein, con la teoria della relatività modificando i concetti di tempo e spazio rivoluzionerà la visione della realtà così come allora era stata concepita approdando a una nuova concezione del vuoto. Ma anche l’altra branca della fisica, la meccanica quantistica, ha ideato un’idea radicalmente nuova del vuoto e troveremo nelle pagine di Thuan un’esauriente descrizione del come e del perché. Infine, l’autore confronta la conoscenza razionale del cosmo con il sapere mistico orientale rilevandone molti parallelismi e qualche contrasto. Com’è chiaro quanto proposto dal volume è tra i più complessi dei temi spaziando tra filosofia, scienze e religioni, ma è sorprendente la capacità dell’autore di rendere tale materia assolutamente comprensibile anche al lettore non addestrato a pagine scientifiche. Riesce ad appassionare chi legge conducendolo attraverso una grande avventura del pensiero illuminandone le scansioni storiche dalle più lontane e leggendarie fino alle più recenti acquisizioni. Dalla presentazione editoriale. «Che cos’è il vuoto? Di che cosa è fatto? Perché ci fa paura? Non è facile per l’uomo, soprattutto quello occidentale, pensare e accettare il nulla. Eppure interrogarsi sulla sua natura pare inevitabile. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, filosofi e matematici, scienziati e teologi, poeti e premi Nobel, cercando di tessere intorno all’horror vacui una storia plausibile. In queste pagine l’astrofisico Trinh Xuan Thuan ci conduce in una lunga cavalcata dalle origini ai giorni nostri attraverso la Bibbia e l'I Ching, Aristotele e al-Khwarizmi, la rivoluzione di Newton e le teorie di Einstein, la nascita della meccanica quantistica e la scoperta del Big Bang. La conclusione cui giunge è sorprendente: la fisica e la cosmologia contemporanee propongono una visione del mondo molto simile a quella delle maggiori tradizioni spirituali orientali che, invece di temere il vuoto, lo vivono come possibilità di mutamento, e dunque di vita. È nel dialogo armonico tra gli opposti – Yin e Yang, energia e materia, attrazione e repulsione – che si nasconde il mistero, insieme vuoto e pieno, dell’universo. Un mistero che ha a che fare con la scienza, ma anche con l’etica e con la politica. Perché se è vero che, come le particelle e gli atomi, siamo interconnessi nella grande rete del cosmo, la nostra felicità dipende da quella degli altri». Ho aperto questa nota con una citazione di Cioran, voglio chiuderla con un’altra citazione tratta dallo stesso pensatore: “Tutto è pieno di dèi” diceva Talete all’alba della filosofia; all’altro capo, a quel crepuscolo cui siamo giunti, possiamo affermare, non solo per bisogno di simmetria, ma anche per rispetto dell’evidenza, che “tutto è vuoto di dèi”. Trinh Xuan Thuan La pienezza del vuoto Traduzione di Laura Serra Pagine 316, con illustrazioni Euro 18.50 Ponte alle Grazie
Agrigentérotique
La Farm Cultural Park è una galleria d'arte e residenza per artisti, sta a Favara in provincia di Agrigento. È il primo parco turistico culturale costruito in Sicilia. Un complesso di sette cortili che ospitano piccoli palazzi di matrice araba.
In foto, un angolo del luogo. È stato ideato e realizzato da Florinda Saieva e Antonio Bartoli. Florinda, avvocato, e Andrea, notaio a Riesi (Caltanissetta), sono nati e cresciuti in Sicilia. Due personaggi che meritano ogni elogio perché affidandosi soltanto alla proprie forze hanno messo su un’iniziativa di rilievo internazionale in una terra certamente non facile e dove la politica – non da oggi – si tiene assai spesso lontana dalla cultura. Dal sito BuoneNotizie.it traggo le righe che seguono. Il loro piccolo miracolo nasce nel 2010. “Eravamo stanchi di dover sempre andare a New York o Londra per vedere qualcosa d’interessante. Cercavamo un modo per trasformare e migliorare il posto in cui viviamo”. La svolta decisiva, infatti, è arrivata nel 2005. “Quando è nata Carla, abbiamo pensato se non fosse giusto spostarci in una città europea, per dare a lei un contesto con possibilità maggiori. Alla fine abbiamo deciso di costruire il nostro presente e futuro vicini, tutti i giorni, nella nostra terra, senza lamentarci e piangerci addosso, ma con la voglia far crescere il nostro contesto. Il Farm Cultural Park è un’istituzione culturale privata, impegnata in un progetto di utilità sociale e sviluppo sostenibile: dare alla città di Favara e ai territori limitrofi una nuova identità, connessa alla sperimentazione di nuovi modi di pensare, abitare e vivere”. La realizzazione di questo sogno ha avuto ricadute positive sull’intera comunità di Favara ed è andata oltre qualsiasi attesa. “Stavo accarezzando l’idea di acquistare un immobile a Riesi, nel luogo in cui sono titolare di sede notarile”, racconta Antonio, “quando due amici architetti mi portarono nel centro storico di Favara. Il centro storico si è rivelato una grande opportunità per osare di pensare un progetto più grande di me. A giugno del 2010 apre i battenti Farm Cultural Park, il progetto di una vita a 6 km dalla Valle dei Templi di Agrigento, dove poter godere l’architettura del borgo siciliano e la contemporaneità di quanto in esso contenuto”. Per visitare il sito web del Cultural Park, basta un CLIC! Il prossimo avvenimento ospitato dalla Farm avviene a cinquantuno anni dal tragico evento della frana su Agrigento il 19 luglio 1966. Il 19 luglio di quest'anno inaugura la mostra "Agrigentérotique", a cura di Dario Orphée La Mendola. Le opere riflettono su quanto accaduto nella città dei Templi dalla speculazione edilizia a oggi e sono degli artisti Salvo Barone – Momò Calascibetta – Alfonso Siracusa. Perché la mostra si chiami "Agrigentérotique" non ve lo so dire, so soltanto che sulla questione è stato dato l’incarico d’indagare a Dylan Dog che stavolta non è indagatore dell’incubo, ma di un sogno. Ufficio Stampa: Paola Feltrinelli, paolafeltrinelli79@gmail.com Agrigentérotique a cura di: Dario Orphée La Mendola artisti: Salvo Barone, Momò Calascibetta, Alfonso Siracusa spazio: Farm Cultural Park - cortile Bentivegna, Favara digital animation | visual design: Elia Zaffuto e Giuseppe Miccichè durata: 19 Luglio | 20 Settembre 2017 orario: tutti i giorni 10-24 info: +39 328 – 97 49 798
lunedì, 10 luglio 2017
Politica e Siae
Per il dizionario, il plagio è così definito: “In materia di diritto d'autore italiano, il termine plagio designa l'appropriazione, totale o parziale, di un'opera dell'ingegno altrui nel campo della letteratura, delle arti visive, della pubblicità, della scienza, e della tecnica”. Perché mai non è possibile denunciare alla Siae anche il plagio di un’idea o di un’espressione usata in politica? Del resto, esistono denunce per plagi di simboli o nome di partito assonante con un altro in precedenza ideato. In Italia, ad esempio, abbiamo un politico che non solo è un gran bugiardo – prima affermando di lasciare la vita politica se sconfitto al referendum e poi non farlo – ma pure un gran plagiario: Renzi. Ha copiato, e realizzato, parte del programma berlusconiano e l’ex cav. non ha segnalato la faccenda alla Società Autori e Editori forse per amor paterno perché lo considera (parole sue, non mie): “Politicamente, un mio figlio”. Salvini, invece, uomo dai modi spicci e rozzi quando ha visto copiato pari pari da Renzi il suo più noto slogan a proposito d’immigrati (Aiutiamoli a casa loro) l’ha sputtanato a gran voce su radio, tv, stampa e web costringendo il plagiario colto in flagrante a togliere di corsa quelle parole dal sito del Pd, ma, purtroppo per il giovanotto fiorentino quelle parole sono scritte anche in un libro appena uscito dai torchi e firmato proprio Renzi Matteo. Il suo addetto stampa (Gentiloni, costretto a salvare affannosamente il posto un giorno sì e l’altro pure dai cangianti umori del suo boss Renzi) ha tentato di difenderlo ma s’è preso una secchiata di sberleffi. Quel cattivone di Vauro, ad esempio, in una sua venefica vignetta ha letto il sotto testo dello slogan salvinrenziano traducendolo in Affoghiamoli a casa loro.
Che dire poi di quelli (sia pure in numero vistosamente decrescente) che votano ancora per il plagiario? Sono evidentemente plagiati. È possibile, quindi, perseguire penalmente l’autore di quel delitto? No. Perché: “Il plagio nel diritto penale italiano era il reato previsto dall'art. 603 del codice penale, secondo cui «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 9 aprile 1981". Sono stati, però, depositati in Parlamento diversi disegni di legge per reintrodurre il reato di plagio psicologico. Nel corso della XIV Legislatura, la Commissione Giustizia del Senato ne ha approvato uno per introdurre un articolo 613-bis nel codice penale, ma l'iter di legge è rimasto bloccato. Per difendere gli inermi elettori di Renzi non è il caso di esercitare legittime pressioni democratiche per discutere di quella misura legislativa? Perché l’espressione "plagio" è spesso associata al termine "lavaggio del cervello" (calco dall'inglese “brainwashing”). Io, però, preferisco dire “lavaggio della testa”, giusto per andare sul sicuro.
Mario Lunetta
Giovedì 6 luglio ci ha lasciato più soli Mario Lunetta. Era nato a Roma, nel popolare quartiere Garbatella, il 23 novembre 1934. Narratore, poeta, saggista, organizzatore culturale, ha animato una vivace presidenza del Sindacato Nazionale Scrittori. Ci conoscemmo, in uno studio della Rai, nei primi anni '70. Nacque allora un’amicizia punteggiata negli anni da radi incontri ma tutti connotati da scambi d’idee che sembrava continuassero un discorso interrotto il giorno prima, invece era trascorso semmai un anno dalla volta precedente. Troverete QUI una conversazione che ebbi con lui parecchio tempo fa, ma che, per merito di Mario, non ha perso d’attualità.
Sue opere più recenti. Poesia: Roulette occidentale (2000); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro liografie di Luigi Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di Bruno Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di Cosimo Budetta (2007); Cartastraccia (2008); La forma dell’Italia (2009); Formamentis (2009). Narrativa: Montefolle (1999); Soltanto insonnia (2000); Figure lunari (2004); I nomi della polvere (2005); La notte gioca a dadi (2008). Saggistica: Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007); Depistaggi (2011). Critico letterario e d’arte, Mario Lunetta ha collaborato a: “l’Unità”, “Il Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Rinascita”, “La Rinascita della Sinistra”, “Il manifesto”, “Liberazione”, e a numerose riviste italiane e straniere. Suoi libri e singoli testi sono tradotti in diversi paesi del mondo. Ha vinto numerosi premi ed è stato due volte finalista al Premio Strega (1977, 1989). Nel 2006 gli è stato conferito il Premio Alessandro Tassoni alla carriera. Un efficace ritratto, Lunetta vivente, è apparso sulla rivista “Malacoda” firmato da Corrado Morgia: L'esordio di Mario Lunetta, idealmente legato alle tematiche del gruppo ‘63, ma più giovane di gran parte dei suoi componenti, si colloca più avanti nel tempo, all'inizio dei '70, per procedere poi ininterrottamente fino ai giorni nostri, con una coerenza spietata, ma anche con una ammirevole forza creativa, che spazia dalla prosa alla poesia, dal teatro alla saggistica fino all'interesse per le arti figurative e alla inesausta partecipazione alla battaglia delle idee, realizzata tramite la collaborazione assidua a quotidiani e riviste, L'Unità, Il Messaggero, il Paese Sera, il Manifesto, il Corriere della Sera, Liberazione. Ma non è nemmeno da trascurarsi, in questo elenco, il suo impegno nella lotta politica e soprattutto in quella sindacale, esercitato come segretario del Sindacato Nazionale Scrittori, prestigiosa associazione, fondata niente meno che da Giuseppe Di Vittorio. La cifra costante della sua produzione letteraria va dunque individuata nello sperimentalismo e nel suo personale e originale modo di aderire al discorso delle avanguardie. Concludo questa nota con un aforisma di Mario. "Il pensiero antagonista è una corona di spine senza la testa del Redentore".
venerdì, 7 luglio 2017
Suono e Arte (1)
"Presta le tue orecchie alla musica, apri i tuoi occhi alla pittura, e... smetti di pensare! Chiediti solamente se lo sforzo ti ha permesso di passeggiare all'interno di un mondo fin qui sconosciuto. Se la risposta è sì, che cosa vuoi di più?". Così diceva Vassilij Kandinsky. È un tema che troviamo largamente indagato in un libro edito da Marsilio intitolato Suono e Arte La musica tra letteratura e arti visive. Ne è autore Roberto Favaro nato a Padova nel 1961. Laureato in filosofia all'Università di quella città, si è perfezionato in musicologia presso la Humboldt Universität di Berlino. È professore di Storia della Musica presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Dirige il Master «Soundart – Sound design for art and entertainment in the creative industries» promosso da Ard&nt Institute (Accademia di Brera - Politecnico di Milano). Insegna Sound design presso l'Accademia di architettura di Mendrisio. Numerosi i libri pubblicati in Italia e all'estero, tra cui Suoni e sculture (Arkadia 2011) e con Marsilio Spazio sonoro (2010). QUI note biografiche e bibliografiche più estese. Favaro è un eccellente studioso dei rapporti fra le arti e, in particolare, fra musica e discipline artistiche. Ecco, ad esempio, un suo videointervento su musica e romanzo. In questo libro riflette come meglio non si potrebbe su “quanto vicine possono essere le arti visive e quelle sonore, quanto possono scambiarsi vicendevolmente strumenti, effetti, intenzioni, categorie estetiche". Dalla presentazione editoriale. «Il libro raccoglie una serie di saggi su varie tematiche inerenti il linguaggio musicale e le sue molteplici relazioni con le arti visive e plastiche, la narrativa, l’architettura, il teatro, affrontando anche alcune questioni fondamentali della riflessione estetica viste nella prospettiva specificamente musicale tra cui le categorie del Brutto e del Bello, del silenzio e del vuoto, del tempo e dello spazio. Tematiche eterogenee, dunque, che trovano tuttavia qui un’affascinante coesione in una reciproca permeabilità finalizzata ad aprire nuove prospettive di studio, a suggerire inediti percorsi di indagine, soprattutto a stimolare un approccio totalmente nuovo e originale all’ascolto, alla materia sonora, al linguaggio musicale». Segue ora un incontro con Roberto Favaro
Suono e Arte (2)
A Roberto Favaro (in foto) ho rivolto alcune domande.
Che cosa principalmente ti ha spinto a questa pubblicazione? La mia attività di ricerca in campo musicologico e quella di insegnamento in facoltà universitarie dedicate allo studio e alla pratica delle arti e dell’architettura, mi hanno orientato fin dall’inizio ad indagare i molteplici e reciproci rapporti tra la musica e le altre forme di espressione artistica. Mi sono insomma sempre concentrato a vedere le relazioni dell’arte sonora con l’altro da sé fino a farne una tematica costante dei miei studi, delle mie pubblicazioni e dei miei corsi universitari. Non è poi un caso ma una diretta conseguenza di ciò che il mio insegnamento storico-musicale si svolga proprio in Istituti di formazione artistica e architettonica. Il libro, che affronta molte di queste relazioni, ha dunque in primo luogo una funzione didattica, di strumento ad uso degli studenti che possono così trovare riuniti e raccolti molti dei temi affrontati durante le lezioni. In secondo luogo sentivo la necessità di mostrare la molteplicità eterogenea dei possibili rapporti musica-letteratura-arti visive, visti in particolare dal punto di vista del suono per un possibile nuovo approccio all’ascolto e conseguentemente alla visione. Il libro raccoglie saggi scritti attraverso diversi anni e diverse occasioni. Puoi indicare un fil rouge che permetta di vederne un collegamento fra loro? Il filo conduttore è proprio questa necessità di misurare le analogie o gli scambi linguistici e rappresentativi che la musica intrattiene con le altre discipline dell’arte, muovendo però in linea di principio dal punto di vista della musica o ancora prima del suono e del silenzio come elementi costitutivi fondamentali di qualsiasi discorso in musica. In altre parole, cerco di mostrare quanto di pittorico, architettonico, scultoreo, narrativo-figurativo c’è nell’intangibile materia sonora la cui spazialità o visività si disloca nel flusso scorrevole del tempo. Tutti i capitoli del libro, pur affrontando questioni diversissime tra loro (il tempo, il silenzio, i margini e le cornici, il colore nero, il Brutto, il romanzo, la Salome di Strauss, il Grand Macabre di Ligeti, la romanza da salotto, la scultura sonora), intercettano e approfondiscono queste problematiche. Il primo capitolo, in particolare, ripercorre le questioni fondamentali inerenti la peculiare temporalità del linguaggio musicale, mostrandone però le continue riverberazioni spaziali, visive, raffigurative svolte però lungo la superficie scorrevole del tempo. Così mi sembra utile immaginare questo tempo musicale come la superficie di un quadro (scorrevole) che si stacca dalla parete di fondo che è il tempo “generico”: nasce così anche l’idea di sollecitare l’ascolto a concentrarsi sull’inizio e sulla fine delle musiche, sulla soglia liminare tra il dentro e il fuori di questo tempo particolare della musica definita non a caso da Leonardo da Vinci “figurazione delle cose invisibili”. Detto questo, si troverà in ogni capitolo un diretto (ma in ogni circostanza diverso) riferimento ai rapporti tra la musica e le arti visive o alla letteratura. Perché consideri il romanzo uno "spazio ascoltabile"? Il romanzo è uno straordinario serbatoio di suoni, rumori, silenzi e musiche abilmente orchestrati (quando ve ne sono le capacità narrative) dalla sapienza “compositiva” dello scrittore che ne delibera la funzione drammaturgica e rappresentativa. E’ forse lo spazio sonoro più efficace per la realizzazione di una sinestesia che passando attraverso un unico senso coinvolto (la vista) dirama quella meravigliosa complessità che è l’intero mondo costruito e raccontato dallo scrittore, un mondo del quale noi abbiamo conoscienza grazie all’esperienza della lettura che dà concretezza (fantasiosa) a tutti gli aspetti della realtà raccontata. Questa realtà è dunque anche ascoltabile grazie ai diversi elementi sonanti (paesaggio sonoro, musiche eseguite, silenzi eloquenti, voci, rumori) che lo scrittore (se ne ha l’intenzione e, ripeto, la capacità) orchestra secondo strategie molto simili a quelle della colonna sonora del film, procurando un vero e proprio valore aggiunto alla nostra esperienza conoscitiva ed emotiva. Mentre leggiamo, in altre parole, siamo coinvolti e avvolti da un sonoro (immaginabile) che viene attivato dalle parole che riconducono a eventi in modo diverso riguardanti la materia sonora e musicale (il soffio del vento, il suono dell’acqua sotto forma di pioggia, mare, cascate, fontane ecc., i rumori della città, i versi degli animali, le voci dei personaggi, il suono di un pianoforte o di qualsiasi altro strumento ecc.). Questi eventi sonori si intrecciano con tutti gli altri aspetti della rappresentazione di quel mondo e soprattutto con il piano psicologico ed emotivo delle vite raccontare contribuendo così ad approfondirne lo spessore psicologico, a rimarcarne le emozioni, a qualificarne l’orientamento in relazione alla drammaturgia generale. Si tratta di una sorta di partitura che si svolge sullo sfondo e che la nostra lettura permette, in una sorta di solfeggio immaginario, di rendere udibile al nostro orecchio. Nelle pagine dedicate alle sinestesie scrivi a proposito del nero che sia “… una possibile rappresentazione visiva di un evento sonoro…”. Come sei arrivato a questa conclusione? Ho scelto il colore nero come terreno ideale di verifica del possibile incontro sinestetico tra suono e colore. Anche a partire dalle cose dette in precedenza, il nero attua uno speciale interscambio sul piano dell’assenza estrema, di un silenzio e di un vuoto abitabili in modalità radicali: il buio acuisce la nostra sensibilità uditiva; l’oscurità del ventre materno è il nostro primo angolo di mondo dove la prima e per lunghi mesi unica nostra esperienza conoscitiva è di tipo sonoro; il notturno è un genere musicale che si dedica a sondare, nel nero della notte, le pieghe più nascoste del nostro mondo interiore. Traslando tutto ciò al piano visivo trovo una straordinaria potenzialità sonora del colore nero, nella sua visione che stimola l’occhio a “sentire” la multiforme densità di un “silenzio” visivo che Kandinskij reputava di massimo interesse. Ho avuto il piacere di conoscere Pinuccio Sciola cui dedichi più pagine. Sua anche l’immagine in copertina. Quale il valore che gli attribuisci dentro il tema Suono e Arte? Il libro si chiude proprio con il capitolo dedicato alle pietre sonore, la straordinaria invenzione scultorea e musicale di Pinuccio Sciola. Queste pietre, infatti, accarezzate e sfregate in vario modo, suonano meravigliosamente. Il capitolo rappresenta dunque una vera e propria sintesi o forse un’ideale condensazione dei tanti percorsi affrontati nel corso del libro: la forma plastica e visiva che si fa concretamente udibile, che addiruttra condiziona e determina la fisica acustica costringendo il manufatto ad assumere determinate sembianze proprio per poter essere musicale. E al tempo stesso un suono che si sprigiona dalla materia pietrosa grazie solo alla particolare modellazione del basalto o del calcare. Scutlure che sono anche strumenti musicali. Strumenti musicali che sono anche sculture. Non si sa bene quale sia l’inizio e quale la fine. Sta di fatto che il rapporto Suono/Arte raggiunge qui la sua vera consacrazione in un abbraccio nel quale non è più tanto importante stabilire quanto la musica prenda dall’arte e viceversa poiché la nuova complicità estroversa delle due discipline convive nella stessa realizzazione del grande artista che è anche liutaio e inventore di nuovi, inauditi mondi sonori. Roberto Favaro Suono e Arte Pagine 192, Euro 12.50 Marsilio
Animazioni e incantamenti
Due volte, Celati ed io siamo stati sul punto d’incontrarci ma il destino, né crudele né birbone, ma indifferente, come talvolta è fatto il destino quando indossa la ”d” minuscola, non volle, e l’incontro non ci fu. La prima volta quando a Radiorai fui regista dell’adattamento di un’avventura di Guizzardi, e una seconda quando fu prodotta da Enrico Zummo, negli studi Rai di Napoli, una jazzistica perfomance celiniana in voce di Celati; dovevo andarci, poi non ricordo perché non mi riuscì. Oggi l’incontro ancora una volta avviene a distanza: io qui, felice lettore di Animazioni e incantamenti e lui nella sua amata Inghilterra. Questo volume (pubblicato in occasione degli ottant’anni dello scrittore) – di Gianni Celati con Carlo Gajani comprende vari testi fra i quali “Il chiodo in testa”, “La bottega dei mimi” e altri scritti sul teatro e sulle immagini (1966 – 2005) qui raccolti per la prima volta e usciti in cataloghi e libri d’arte, in riviste, postfazioni a libri d’altri. Voluti dall’ottima editrice L'Orma (date un’occhiata al suo catalogo e scorgerete tante ghiottonerie) quei due testi di cui ho dato i titoli, sono un originale quanto vertiginoso viaggio sul confine magnetico tra parola e foto, pubblicati nella collana «fuori formato» diretta da Andrea Cortellessa che acutamente scrive “… nell’intersezione fra scrittura letteraria e immagine fotografica, mai l’una si fa didascalia, né l’altra illustrazione, vivendo invece di un felice apporto di insubordinazione reciproca”. Si sfoglia, insomma, un libro verbovisivo con proposizioni tanto rigorose quanto lussuosamente arbitrarie. Nella bella, appassionata e ragionata, postfazione di Nunzia Palmieri, a proposito della ricerca linguistica Celati, tra l’altro si legge che la sua fu la ricerca: “… di una scrittura che riproduca gli effetti del parlato attraverso regole proprie, attingendo in parte ai gerghi e ai tic della lingua colloquiale, in parte alla sintassi approssimata delle convenzioni quotidiane o alle verbigerazioni dei folli, ma soprattutto inventando di volta in volta, a seconda elle esigenze espressive, un repertorio di movenze ritmiche e di costruzioni sintattiche per rompere gli schemi narrativi codificati e produrre una forma di ‘apprendimento partecipativo’ che richiama il rapporto con l’immagine cinematografica e con il gesto teatrale”. Gianni Celati con Carlo Gajani Animazioni e incantamenti cura e postfazione di Nunzia Palmieri con una nota di Pasquale Fameli Pagine 452 con esteso corredo di foto b/n Euro 26.00 L’Orma Editore
Io, il Couscous e Albert Camus
Parecchi anni fa, di ritorno da un’edizione del Festival di Santarcangelo, ebbi una conversazione via mail con il Teatro delle Ariette perché pur essendo io molto lontano dal loro stile scenico, da professionista quale sono, affermo, dal basso dei miei ultratrentennali contributi Enpals, che ogni esperienza teatrale va rispettata e serve a renderci più partecipi del mondo. Quest’anno la Compagnia sta presentando Stranieri Da vicino nessuno è locale, progetto per la terza edizione di “Territori da cucire”. Stefano Massari, nel 2015, presentò il progetto che rispecchia in pieno il pensiero teatrale delle Ariette in questo video.
Con “Stranieri” – come recita un comunicato stampa - «Il teatro va incontro ai cittadini, nei luoghi di vita e aggregazione sociale, fuori dagli spazi deputati, raggiunge realtà marginali e periferiche, crea tessuto di relazione, rafforza il sentimento di appartenenza alla comunità, pone domande agli individui e alla società. Il tema che il progetto affronterà quest’anno è quello degli stranieri. Una parola che usiamo quotidianamente ma sulla quale forse non abbiamo mai riflettuto in modo profondo. A tutta la comunità, composta da locali e stranieri, saranno poste alcune domande apparentemente semplici: chi è uno straniero? Chi è un locale? Come riconosci uno straniero? Come riconosci un locale? Quali elementi identificano la condizione di straniero e di locale? È una questione di luogo di nascita? Di residenza? Di nazionalità? Di lingua? Di cultura? Di caratteristiche somatiche? Di condizione (studente, turista, lavoratore)? Ti senti o ti sei mai sentito straniero? Ti senti o ti sei mai sentito locale? Essere straniero o locale condiziona il diritto alle pari opportunità? Lo straniero ha diritti limitati rispetto al locale?».. Ci sono state già le prime repliche dello spettacolo Io, il couscous e Albert Camus di Paola Berselli e Stefano Pasquini, con Paola Berselli, Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini, regia Stefano Pasquini, e sarà portato nelle piazze del Comune di Valsamoggia prossimamente con il seguente calendario: venerdì 14 luglio nella Piazza di Crespellano, martedì 18 luglio nella Piazza di Castello di Serravalle, mercoledì 2 agosto nella Piazza di Bazzano. Lo spettacolo racconta la storia vera di un diciassettenne bolognese che nell’estate del 1978 va in Normandia ospite della ragazza di cui si è innamorato, e della sua famiglia di origine spagnola, emigrata in Algeria dopo la guerra civile per sfuggire alla dittatura di Franco e infine in Normandia in seguito alla guerra di liberazione algerina. In Normandia scoprirà l’amore, il couscous, il romanzo “Lo straniero” di Albert Camus e si troverà di fronte alla scelta tra restare (diventando immigrato a sua volta) o tornare in Italia. Alla fine dello spettacolo, consumando insieme il couscous preparato durante lo spettacolo, la scena si trasformerà in assemblea (... permettetemi qui un acuto ahi!) per discutere con gli spettatori sul significato della parola straniero. Le Ariette arriveranno in ogni località sempre il giorno prima dello spettacolo per preparare lo spazio e incontrare le persone che vorranno raccontare le loro esperienze sul tema. In questi mesi sarà inoltre realizzato insieme con Stefano Massari il film “Stranieri” a partire dai racconti autobiografici di due persone residenti in Valsamoggia (una locale e una straniera) e dalle interviste realizzate nelle serate di spettacolo. Territori da cucire è un progetto del Teatro delle Ariette realizzato con il sostegno di Comune di Valsamoggia Regione Emilia-Romagna e in collaborazione con ASC InSieme – Commissione Mosaico, Fondazione Rocca dei Bentivoglio, CartaBianca Libreria Indipendente Ufficio stampa e comunicazione Raffaella Ilari, mob. +39.333.4301603, raffaella.ilari@gmail.com “Io, il Couscous e Albert Camus” uno spettacolo di Paola Berselli e Stefano Pasquini con Paola Berselli, Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini audio e luci Massimo Nardinocchi – organizzazione Irene Bartolini regia Stefano Pasquini Per informazioni info@teatrodelleariette.it tel e fax +39. 051- 67 04 373
Museo del Giocattolo a Bra
Esistono in Italia piccole città che meriterebbero d’essere conosciute di più perché ricche di risorse spesso sconosciute da molti. Una di queste è Bra. Qui nacque nei primi anni del ‘700 l’Accademia degli Innominati; nel 1986 è nato Slow Food; c’è, in località Pollenzo, l’Università degli Studi di Scienze gastronomiche frequentata da studenti che vengono da molte nazioni; le strade sono punteggiate da splendidi Palazzi civili ed Edifici religiosi, né mancano musei quali il Museo di Storia Naturale "Ettore e Federico Craveri" e il Museo Storico e Archeologico di "Palazzo Traversa". Bra dispone di molti ristoranti, si pensi al Boccondivino dov’è nato lo Slow Food di cui ho accennato in apertura, e di molti alberghi e B&B. Durante la mia permanenza mi sono trovato benissimo, e ve lo consiglio, a L'ombra della collina. Chi già conosce queste pagine sa che a Cosmotaxi piace raggiungere i cosiddetti piccoli musei (ne ha, infatti, esplorati parecchi negli anni: da quello dei bottoni a quello delle lanterne magiche, dall’Orto dei frutti dimenticati di Tonino Guerra al museo dedicato a Joe Petrosino a Padula a quello del Calcolo a Pennabilli e vari altri), piccoli in quanto a spazio ma, spesso, grandi in quanto a ideazione e valore culturale. Ecco, Bra ne conta ben tre. Il Museo della bicicletta, il Museo della Scrittura Meccanica (circa 300 macchine per scrivere dalle più antiche al computer). Di questi due me ne occuperò fra giorni, oggi mi dedico al Museo del Giocattolo che nel 2017 festeggia dieci anni di vita Un luogo delizioso che da solo merita un viaggio a Bra. Ospita la cospicua collezione dell’antiquario braidese Michele Chiesa affidata dal 2007 con una convenzione al Comune di Bra. Si articola in sette sezioni, ciascuna con oggettistica che va assai indietro nel tempo, riferendosi alla prima infanzia, alla scuola, ai giochi maschili, alle bambole, ai teatrini e ai fumetti, agli aerei e ai mezzi a pedale, ai giocattoli nel tempo. Inoltre, c’è una sala dedicata ai laboratori e alla didattica. Dispone di un sito web estremamente ben fatto, sicché cliccando QUI troverete un’efficace descrizione scritta dei contenuti e pure immagini tratte da quelle sezioni di cui scrivevo prima. Con un CLIC raggiungerete poi la videografia con filmati illustrativi sul Museo. Visitare il Museo del Giocattolo – laddove sarete accolti dalla ludotecaria Roberta Olivero tanto competente quanto cordiale – non è solo divertente ma si presta ad osservazioni storiche e antropologiche perché attraverso il tempo vediamo come cambia il modo di giocare in Italia condizionato dalla maniera di consociarsi e dividersi, segnato dalla politica, marcato dallo sviluppo tecnologico. Ma il Gioco non è solo quello che fanno o inventano i bambini con giocattoli acquistati o, come accadeva spesso tempo fa, costruiti da loro stessi, quella cosa serissima che è il Gioco ci accompagna anche nelle età meno verdi come ben ha spiegato Huizinga nel suo celebre Homo Ludens. Tempo fa intervistai l’antropologa Paola De Sanctis Ricciardone, donna coltissima ma non per questo meno frizzante e pronta a birichinate come dimostrano i suoi libri . A lei chiesi: ma che cos’è il Gioco? Così rispose. Einstein diceva: "Dio non gioca a dadi", e per questo, e anche per la sua teoria della relatività, si è beccato l'appellativo di "Ultimo Grande Determinista", ultimo grande newtoniano. Da Ilya Prigogine per esempio, il quale non solo pensa che dio giochi proprio a dadi ma si diverta anche come un matto alla faccia nostra. Bene, queste due concezioni sono le polarità estreme di diversi concetti di gioco: Da un lato un gioco regolato, padroneggiabile da una definizione, dagli esiti indagabili e accertabili e in una qualche misura deterministico e dall'altra un gioco aleatorio, stocastico (non dico mai parolacce), non prevedibile ed entropico. È una gamma ampia di giochi che va dai giochi deterministici (come il filetto, intendo il gioco) ai teoricamente deterministici (come gli scacchi) ai probabilistici, fino ad arrivare ai giochi d'azzardo. In questa gamma puoi metaforicamente trovarci di tutto: teorie della Fisica, giochi degli uomini, scuole filosofiche, paradigmi e anti-paradigmi, società segrete, Massoneria, sistemi di parentela, Lega Lombarda, Figli dei fiori, Fondamentalismi e quant'altro. Io ci ho trovato molta antropologia. Certo, ti ho fatto una prospezione sincronica dei concetti, ma se tu li vuoi riassestare diacronicamente considera che il determinismo (in Fisica come in Antropologia) era più in auge nei secoli scorsi e fino alla prima metà del Novecento l'antropologo non aveva alcuna intenzione di giocare a dadi. Museo del Giocattolo Via Guala 45, Bra (Cn) Mail: biblioteca@comune.bra.cn.it Tel: 0172 – 41 30 49 Fax: 0172 – 433 735
giovedì, 6 luglio 2017
New Vita Nova
Cavalcando l'altr'ier per un cammino, pur con occhio all’ipad ch’io in man tenea, di colpo m’imbattei in coltissima monelleria firmata Lamberto Pignotti - Dante Alighieri ch’avea soprascritta New Vita Nova pressata ai torchi da Empiria editrice. Tanto a me piacque quella prosa ardita, che mi propuosi di far clamore intorno ad essa e farlo sapere a molti sullo web… no, non è che ho alzato il gomito più del solito, è che sono appena uscito dalla lettura di quella monelleria di cui dicevo prima. Un pastiche linguistico fra lingua antica che va a miscelarsi con termini di oggi specialmente riferiti alle nuove tecnologie. Testo assai piaciuto all’italianista Carla de Bellis e al sociologo Franco Ferrarotti che l’hanno presentato di recente. Quella famosa opera dantesca serve al dottissimo discolo Pignotti (in foto) per costruire una delle sue tipiche opere che incartando e scartando linguaggio e linguaggi riflette su “lingue diverse che, inevitabilmente, non sempre comunicano […] da qui la mia reattiva ispirazione a disporre di sintagmi ordinati, disordinati e riordinati di fenomeni già in partenza eterogeni e scomposti, ed allestire l’accumulo ossessivo compulsivo che si rastrema e riduce improvvisamente, il vuoto comunicativo, che non è vuoto di senso, la frattura che insieme è sutura”. In questa “Ex Vita Nova”, com’è nello stile di Pignotti, dietro i baffi c’è la Gioconda. Ma batte l’ora ed è momento d’incontrar Pignotti e con lui ragionar per isfogar la mente in quella che nel secol 21 nomano interview la quale ben conviene si svolga in numero di tre dimande tante quante son le parole del titolo di cui è ornata l’opra sua. Qual è stato il tuo rapporto con Dante durante la composizione di “New Vita Nova” ? A me piacciono quegli autori e quelle opere che mi invitano a partecipare come lettore o come spettatore. Dante nella sua “Vita nova” mi ha fatto entrare nella storia istintivamente comunicandomi che c’era qualcosa da colmare, da rettificare, nello svolgimento di quella vicenda, in modo da renderla più “attuale”. “Attuale” la “Vita nova” lo è già di suo: sembra concepita nel contesto delle avanguardie contemporanee dove poesia e poetica si fondono, dove la cronaca quotidiana e il surreale onirico confluiscono, dove il reale e il virtuale si susseguono senza soluzione di contiguità. Poi mi sono fatto coinvolgere dall’immagine della “donna dello schermo”, dalle varie “donne dello schermo”, che mi hanno permesso di passare dal contesto allegoricamente “virtuoso” a quello più dichiaratamente “virtuale”. Forzatura e fraintendimento permettendo… Perché, nel tuo testo, alla maniera della moglie del tenente Colombo nei famosi telefilm, Beatrice mai appare? Beatrice non appare fisicamente neanche nell’originale, è già “virtuale”, ma nella “New vita nova” ho teso volutamente a renderla meno presente tra disturbi della ricezione, perdite di password, ostacoli alla decodifica, immagini di qualità basse, guasti tecnologici. Nel finale non per nulla lei lamenta di non avere un corpo, rimproverando paradossalmente, ma non troppo, allo sprovveduto Dante di non sapere affrontare una relazione vera. E’ il virtuale del virtuale… Lamberto, quanto segue te lo giuro non l’ho tratto da Marzullo ma da un altro illustre saggista. È la vita che rinnova la letteratura o è la letteratura che rinnova la vita? Per questa risposta occorrerebbe un discorso lungo, complesso, rischioso di farsi meticoloso e retorico. Mettiamola però così: la vita, se vissuta non come distrazione può rinnovare la letteratura, e la letteratura, se non letta come passatempo, può rinnovare la vita. D’altronde in tempi sempre più stretti di mutazioni genetiche equazioni e comparazioni simili sono destinate a provocare, fortunosamente, grattacapi, contraddizioni e rimandi alle prossime puntate. Lamberto Pignotti - Dante Alighieri New Vita Nova 13 Parti, s.i.p. Empiria
Novità da FUOCOfuochino
È “la più povera casa editrice del mondo”, o meglio: così la definisce il suo fondatore, l’artista patafisico Afro Somenzari. Nata nel 2009, pubblica miniedizioni di racconti brevissimi, aforismi, riflessioni umbratili e volatili. Tra gli autori, troviamo firme che vanno da Gianni Celati ad Andrea Cortellessa, da Pupi Avati a Lamberto Pignotti, da Roberto Freak Antoni a Valerio Magrelli, da Maurizio Maggiani a Ugo Nepolo, e a tanti tanti altri. Anche quest’anno – come nelle precedenti tre edizioni – è distribuita da Corraini una raccolta di quanto stampato più recentemente da FUOCOfuochino.
Ecco le due più recenti uscite. Giancarlo Pontiggia A se stesso con una premessa di Stefano Fiorentino. Pontiggia, milanese, ha pubblicato due raccolte poetiche (Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005), due testi teatrali (Stazioni, 2010; Ades. Tetralogia del sottosuolo, 2017), tre volumi di saggi (Esercizi di resistenza e di passione, 2002; Selve letterarie, 2006; Lo stadio di Nemea, 2013) e una raccolta di interviste (Undici dialoghi sulla poesia, 2014). Traduce dal francese (Sade, Céline, Mallarmé, Valéry, Supervielle, Bonnefoy) e dalle lingue classiche (Pindaro, Sallustio, Rutilio Namaziano, Disticha Catonis). È redattore di varie riviste, fra le quali «Poesia», e critico letterario per il quotidiano nazionale «Avvenire». La sua opera poetica è stata tradotta nelle maggiori lingue, e in particolare nei volumi Selected Poems (translated by Luigi Bonaffini, New York 2008) e Orígenes (traducción de Emilio Coco, Madrid 2013). L’intera produzione poetica è stata pubblicata recentemente (2015) per l’editore Interlinea con il titolo Origini. L’altra novità: Discarica abusiva Aforismi all’ombra del sole. L’autore – presentato dall’editore – è Miklos N. Varga, nato a Milano nel 1932. Ex Docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha pubblicato tra l’altro: Ideologia dell’amicizia (presentazione di Salvatore Quasimodo), Napoli, 1968; Come sette paesaggi (presentazione di Roberto Sanesi, incisioni di Guido Biasi), Milano, 1977; Frammenti lirici (presentazione di Vincenzo Accame, acquarelli di Vittore Frattini); De-cantare Urbino (presentazione di Paolo Volponi, incisioni di Arnaldo Pomodoro), Pesaro, 1985. Per la casa editrice SE ha curato i libri: William Hogarth, L’analisi della bellezza,1989; Montesquieu, Saggio sul gusto, 1990; Diderot, Trattato sul bello, 1995. Per FUOCOfuochino ha pubblicato “Momenti, Aforismi a fondo perduto”, (2011), “La minima Commedia, Omaggio a Dante Alighieri” (2015); “Raccolta differenziata, Aforismi biodegradabili” (2016); “Dissolvenze incrociate, Aforismi alla moviola” (2016).
Espressamente
Alla Rai, un tempo si diceva – e la cosa è ancora attualissima – che ogni nuovo direttore è peggiore di quello che lo ha preceduto e migliore di quello che lo sostituirà. La cosa, pare, sia vera, però, anche in altre aziende e uffici pubblici. A parte il fatto che in Italia direttori si nasce e si resta a vita così come nel mondo vegetale si nasce rapa e rapa si muore, il direttore (spesso si scrive con la D maiuscola per manifestare verso di lui umile deferenza) quali qualità deve avere? Per esempio, se si tratta del direttore di un quotidiano o di un periodico, gli esperti unanimamente affermano che per prima cosa debba ben stabilire a quali lettori destinare la pubblicazione della quale è responsabile. Vale a dire il famoso (o famigerato, fate voi) target. Uno che ha idee chiare sulla questione è Tommaso Cerno che alla guida del settimanale L’Espresso ha lestamente identificato i suoi lettori negli ipovedenti. Ha voluto, infatti, una grafica con titoli che devastano ogni pagina con caratteri cubitali, senza risparmiare sugli inchiostri (preferendo il nero) che ingrassano i fogli rendono obese le lettere d’ogni parola. Chissà perché un direttore quando arriva in un giornale deve cambiare la grafica – di solito competentemente peggiorandola – quasi a liberare le pagine dall’ombra del predecessore così testimoniando che nessuna spoglia di quel tale è, finalmente, tra noi. Quando oggi poso sul tavolo quel settimanale, un velo di mestizia si stende sul ripiano. Sfoglio tristemente gli scritti, e riecheggia in me quanto già disse Flaiano: Come mi sento fesso, ho appena finito di leggere L’Espresso.
mercoledì, 5 luglio 2017
Biumor Festival
“Umorista: un uomo di ottimo malumore”. La definizione è di Ennio Flaiano.. Questo tagliente aforisma serve a introdurre la presentazione di un Festival, giunto alla sua quinta edizione. Tra i suoi estimatori per citare alcuni nomi: Federico Zeri, Altan, Giorgio Forattini, Federico Fellini, Mino Maccari, Patch Adams. Si svolge dal 25 al 27 agosto Biumor Festival - La filosofia dell'umorismo, organizzato da Popsophia in collaborazione con la Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte di Tolentino. Per conoscere le origini di questa manifestazione: CLIC! “Biumor propone anche un concorso a premi dedicato all'arte umoristica. Il regolamento per parteciparvi è disponibile QUI. Direttore artistico di Biumor è Evio Hermas Ercoli. Docente universitario, collaboratore delle pagine culturali di varie testate, è autore di pubblicazioni d’arte e di storia del costume. Ha ideato e diretto la biennale di Tuttoingioco e il Festival del Contemporaneo Popsophia. Dal 2012 è Presidente dell'Accademia delle Belle Arti di Macerata. A lui ho rivolto alcune domande. Quale riflessione ha portato a scegliere il tema di quest’anno “Onestà! Onestà!”? Onestà! Onestà!” è la parola d’ordine dell’Italia di oggi: declamata, ripetuta e gridata. Una metafora di un mondo onesto, pulito e antropologicamente superiore rispetto a quello sporco e ripugnante di tutti gli altri. Lo specchio di un moralismo giustizialista che prescinde dalla competenza e dalla capacità di essere un buon amministratore. La Biennale 2017 chiede agli artisti di interrogarsi su questa parola d’ordine politicamente dirompente e culturalmente egemone. L’arte umoristica, infatti, è per definizione irriverente e disimpegnata. Quella “engagé”, quella che vuole convincerci di una qualsivoglia verità, non fa ridere. Il tema della Biennale di Tolentino costringe a riflettere criticamente proprio sul moralismo e sull’ipocrisia della nostra società. Solo l’arte umoristica, senza scopo e senza finalità, può giocare con gli stereotipi del mondo contemporaneo. “Il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità” ha scritto Umberto Eco ne “Il nome della Rosa”. Qual è il risultato che lei più gradirebbe ottenesse l’edizione di quest’anno? Aver stimolato una riflessione sul populismo e sul moralismo, servendoci di una sola e unica arma considerata inutile dai più, quella dell’umorismo. La capacità di smascherare la realtà senza un vero scopo, senza una precisa finalità, attribuendogli il peso specifico della leggerezza. Perché l’umorismo è lontano da ogni verità indotta, ci allontana da pressioni e congetture semplicemente guardando un aspetto uguale e contrario, giustificando con il riso il tempo perso a non prenderci sul serio. Stiamo già ricevendo numerose opere e adesioni da artisti provenienti da tutto il mondo – significa che il tema ha colto nel segno – e siamo ansiosi di allestire la mostra con le opere selezionate dalla giuria. Nell’opera “Il riso”, Bergson ha scritto: «Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano». A lei, esperto dei meccanismi del riso, chiediamo di esplicare quella frase… L’uomo è l’unico animale che “sa” ridere e che “fa” ridere. Il riso, infatti, nasce sempre di fronte a qualcosa che appartiene, direttamente o indirettamente, all'uomo. Bergson fa l’esempio della caduta di chi, in fondo alle scale, tenta di scendere un ultimo inesistente gradino: ci fa ridere quell’irrigidimento meccanico applicato a ciò che è vivente. Nel comico, quindi, appare qualcosa di umano e perturbante: l'ineliminabile matericità da cui siamo dominati. Il comico ci ricorda chi siamo: riporta in primo piano le esigenze e i bisogni inopportuni della macchina corporea, della “pesantezza” della materia di cui siamo composti. E il riso non è altro che un modo per esorcizzare questa consapevolezza; ridiamo perché in quel momento non siamo noi il soggetto deriso e diventiamo spettatori di una commedia interpretata da altri. Bergson, in fondo, ci ricorda che attraverso l'analisi del fenomeno comico, apparentemente futile e vacuo, si svela l'essenza duplice e contraddittoria dell'esistenza umana. L’Italia vanta una grande tradizione di stampa umoristica dal “Travaso” al “Male”. Perché – a parte “Il Vernacoliere” - non esistono oggi periodici umoristici a diffusione nazionale come un tempo? Le riviste hanno fatto la storia dell’umorismo italiano ed europeo. Abbiamo dedicato mostre e convegni ai numeri storici delle riviste italiane raccolti dal Museo dell’Umorismo di Tolentino. Nel 2015, per esempio, abbiamo celebrato il cinquantenario di “Linus”, una delle riviste di fumetto più importanti di tutti i tempi. Fondata nel 1965 grazie a un gruppo di scrittori, fumettisti e giornalisti che gravitavano intorno alla libreria di Giovanni Gandini, negli anni successivi approda nelle case di tutti gli italiani, cambiando per sempre il mondo del fumetto e dell’umorismo. Fumetto, satira ma non solo. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 Linus ospita le più grandi firme del giornalismo politico e culturale, oltre che autori della portata di Wolinski, Pazienza e Crepax. Un’eccellenza tutta italiana che continua ancora oggi a far riflettere con leggerezza e intelligenza. Nella scorsa edizione abbiamo omaggiato l’esperienza satirica francese che tanto ha influenzato l’Italia. Con l’esposizione delle litografie e delle illustrazioni di Henri de Toulouse-Lautrec comparse sui primi numeri del grande giornale satirico francese “Le Rire”, quando, tra il 1894 e il 1897, la Francia abolì la censura e la stampa fu finalmente libera di deridere uomini politici o soggetti fino a quel momento considerati intoccabili. Con l’appuntamento dedicato a Georges Wolinski, il famoso vignettista tra le vittime dell’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, che partecipò alla IV Biennale nel 1967. Nel Museo dell’Umorismo è conservata una sua vignetta inedita e le annate rilegate del settimanale “Charlie Hebdo” dal 1974 al 1978 e di “Charlie Mensuel” dal 1974 al 1985. Ma il successo e la diffusione di questa forma di comunicazione, in Italia come in Francia, è al tramonto: è un problema che riguarda l’universo cartaceo in tutte le sue forme e il web ne è in parte responsabile... ma non bisogna aver paura dei cambiamenti. … già il web, a questo proposito chiedo: la Rete ha cambiato qualcosa (in meglio o in peggio) nella comunicazione umoristica? Internet rappresenta un ulteriore veicolo di espressione che ha cambiato le forme dell’umorismo. Per questo, l’ultima settimana del mese di agosto organizziamo al castello della Rancia di Tolentino un Festival dedicato alla filosofia dell’umorismo contemporaneo giunto alla V edizione. Hanno condiviso e dominato la scena filosofi ed esperti della contemporaneità e molto è stato detto sulla comicità 2.0. Sono stati protagonisti degli appuntamenti anche gli stessi yuotubers, a partire dal collettivo romano dei “The Pills”, responsabili in prima persona della rivoluzione tecnologica della comunicazione umoristica. I loro video sono stati “condivisi” da milioni di utenti: non si parla, quindi, di una semplice azione empatica ma di un movimento di adesione fisica (quello di selezionare il prodotto e raccoglierlo nel proprio “diario”) che si è esteso a fruitori oltre il confine geografico di appartenenza e, non solo, oltre un confine a cui probabilmente non avevano pensato di poter giungere; realtà affidate al web che si sono evolute in prodotti cinematografici in un tempo fisico davvero breve. La velocità di adeguamento alle diverse situazioni e la fruizione spropositata di un prodotto promosso soltanto grazie alla condivisione e all’interazione tra persone rappresenta di fatto una rivoluzione tutta da pensare. Ringrazio Evio Hermas Ercoli e chiudo questa nota, così come l’avevo aperta, con un altro aforisma. La voce stavolta è dello scrittore israeliano Amos Oz. “Non ho mai visto un fanatico religioso avere senso dell’umorismo. Né una persona con senso dell’umorismo diventare un fanatico”.
……………………………………………………………….. Biennale Umorismo Tolentino Dal 25 al 27 agosto Ufficio Stampa: Francesca Pierri – Marta Palazzini Mail: ufficiostampa@popsophia.it; Tel: 328 – 49 21 750
Baldini e Fracci
Questa nota, già pronta, doveva andare online a giugno in occasione di una mostra a Chiavenna (Sondrio), ma così non è stato ed io stesso non so spiegarmene il perché. Misteri dell’esistenza. D’accordo, la mostra è chiusa, ha nessun senso segnalarla per visite ma le immagini lì esposte appartengono a un libro ("Carla Fracci") pubblicato dall’editrice Le Lettere - non recente ma d'intatta attualità - e, quindi, una piccola utilità, forse, ce l’ha per chi è interessato al lavoro della fotografa Lucia Baldini e all’arte scenica di Carla Fracci. Questo sito si è già interessato in passato alla Baldini perché è una presenza artistica che ha la peculiarità di muoversi tra operazioni che vanno dall'archeologia dell'immagine alle nuove tecnologie.
Nella prefazione a “Carla Fracci”, così scrive Enrico Gatta: «Questo libro è come un castello di destini e di sguardi incrociati. Vi confluiscono molte storie: di artisti, di spettatori, di teatri. Ma soprattutto è la storia di una ballerina tra le più grandi del Novecento, seguita da una fotografa artista, Lucia Baldini, che è a sua volta un caso raro. Perché sono pochi i fotografi che riescono a tradurre in immagini la danza senza pietrificarla, e cogliendone invece il mistero. Lucia Baldini arriva con l’obiettivo fotografico al cuore della scena che accade davanti a lei. Ha confessato una volta che a guidarla non è la plasticità dei corpi, o la geometria che essi creano nello spazio, o l’espressione dei volti, ma la musica. È la musica a stabilire la frazione di tempo più propizia allo scatto. In tal modo l’immagine che noi vediamo non giunge come qualcosa di esterno, ma germina dalla medesima necessità espressiva che determina la rappresentazione. E tuttavia tutto questo non sarebbe possibile senza una intesa straordinaria tra chi guarda e chi è guardato. Alla metà degli anni Novanta, che è più o meno il tempo in cui questo libro ha cominciato a farsi, l’avventura che qui si racconta era tutt’altro che prevedibile. Carla Fracci, già da lungo tempo ai massimi livelli internazionali, così come hanno fatto in passato altre grandi ballerine, avrebbe potuto scegliere uno o due ruoli dei suoi più significativi e continuare a danzare solo in quelli, fin tanto che fosse stata per il pubblico un emblema riconoscibile. Ma la grande ballerina classica, l’interprete che per tanti si identifica con la Giulietta e la Giselle della loro vita, non ha voluto trasformarsi nell’icona di se stessa e si è posta un traguardo diverso. Che poi, a ben vedere, non è tanto un traguardo, quanto piuttosto un modo d’essere, la fedeltà a uno stile, l’obbedienza alla regola di mettersi ogni giorno in discussione alla sbarra e sulle tavole del palcoscenico. Ma è anche questa una circostanza che rende esaltante l’esperienza di Carla Fracci, che nella sua mai appagata ansia di ricerca ha sempre attinto in profondità, come ancora farà in futuro, all’inesauribile fonte dell’Essere donna. È bello scoprire, con Lucia Baldini, come la fotografia, oggi così propensa a pubblicizzare i fasti dell’apparenza più che a rappresentare l’essere, in realtà non abbia perso la capacità di cogliere immagini della vita interiore. Forse all’origine di tutto c’è lo stesso atteggiamento amoroso che ha accompagnato Carla Fracci nella sua lunga carriera». L'interessante volume si avvale di scritti firmati da Fernanda Pivano, Eugenio Montale, Mario Luzi e di una lirica inedita di Alda Merini. A cura di Lucia Baldini – Cosimo Manicone Carla Fracci Pagine 144 con foto in b/n Euro 29.00 Le Lettere
Che Fazio che fa
Mi ha scritto il lettore Dario Di Marco garbatamente rimproverandomi di occuparmi assai poco su questo sito di programmi radiotelevisivi. Ha ragione. Nella prossima stagione, riparerò a questa mancata attenzione. Intanto, la cronaca di questi giorni mi dà l’opportunità di unirmi a quanti, criticando il mega contratto offerto a Fazio (al momento in cui scrivo FI ha presentato un esposto alla Corte dei Conti affinché decida sulla liceità di quel contratto... ma tu guarda da quale pulpito!), hanno rilevato la grave dichiarazione della Maggioni sulle ragioni addotte per pagare quella cifra enorme. Non virgoletto le parole della Presidentessa perché non le ho ascoltate direttamente, ma tutti, sostanzialmente, avverbio più aggettivo meno, hanno riportato lo stesso concetto espresso dalla Maggioni: senza Fazio la Rai avrebbe subito un colpo pressoché letale. Sostenere questo è un affronto a quanti dentro la Rai operano nei programmi retribuiti dal contratto collettivo di lavoro e a tanti collaboratori esterni assai spesso maltrattati dagli uffici che scritturano a cifre inadeguate il lavoro. Con quale coraggio quei funzionari potranno d’ora in poi lesinare dinanzi a quanto accaduto? Sì, d’accordo, lo faranno lo stesso. Preciso che Fazio fa bene a curare al meglio i propri interessi, è la Rai che dovrebbe curare meglio i propri. I sindacati interni della Rai – e questo, mi pare, non sia stato rilevato in giro – hanno perso un’ottima occasione per piantare uno sciopero sul contratto a Fazio che, avendo io lavorato in quell’azienda, so che sarebbe stato – questo sì! – seguito senz’altro dalla maggioranza dei dipendenti. Inoltre va detto che la Rai, più che essere condizionata da quell’artista o da quell’altro, dipende in larga parte da alcune agenzie. La ITC2000 di Beppe Caschetto, la Arcobaleno Tre di Lucio Presta, la Vegastar di Silvio e Fernando Capecchi, la Magnolia fondata da Giorgio Gori. Nulla da dire su quei manager che fanno – e lo fanno benissimo – il loro lavoro che è quello di valorizzare al massimo i cachet delle loro star; parecchio da dire sulla Rai che negli anni non ha trovato alternative imprenditoriali. Tutto questo in tv. E la radio? La radio pubblica è la sorellina povera e cieca della tv. È guidata da dirigenti per niente poveri ma parecchio sordi. Alla Rai se ne parla della radio, sì, ma con il commosso rispetto che si deve ai defunti.
martedì, 4 luglio 2017
Star Wars. L'epoca Lucas (1)
Sono trascorsi quarant’anni da quando apparve nel 1977 sugli schermi Star Wars, l’opera di George Lucas che segna la più recente scansione della storia del cinema. Lo sostiene, con articolate ragioni in uno splendido saggio pubblicato da Mimesis, Giorgio E. S. Ghisolfi autore di Star Wars. L’epoca Lucas I segreti della più grande saga postmoderna. Ghisolfi è regista e docente. Insegna discipline attinenti all’audiovisivo, al cinema e al cinema d’animazione presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano, l’Università degli Studi dell’Insubria di Varese, il Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive (CISA) e la Scuola Specializzata Superiore di Arti Applicate (CSIA-SSS_AA), entrambe di Lugano. È inoltre docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Istituto Universitario in Scienze della Mediazione Linguistica (SSML) di Varese. Professionista con una lunga esperienza nel cinema d’animazione, ha lavorato, tra gli altri, con Bruno Bozzetto e Enzo d’Alò. È stato socio fondatore dell’Associazione Italiana Film d’Animazione (Asifa Italia) e dell’Associazione Illustratori (AI), nonché ideatore e direttore di A-tube, The Global Animation Film Festival. È autore del saggio “Indiana Jones e il cinema di animazione”, pubblicato nel volume La filosofia di Indiana Jones, a cura di Claudio Bonvecchio, presente nel catalogo Mimesis. Molti i meriti di questo libro a partire dalla capacità d’intrecciare storia e critica facendole scorrere su due cursori paralleli e così procedendo fa ben capire sia la sostanza espressiva sia le istanze imprenditoriali della saga galattica. Il volume si avvale di un massiccio e lodevolissimo apparato di note, di una cronologia generale e un quanto mai opportuno glossario tecnico cinematografico. Dalla presentazione editoriale. «Succede, in circostanze fortunate, che una tensione positiva della società, l’affacciarsi di nuove tecnologie, la voglia di un mondo migliore e l’entusiasmo della gioventù diventino ingredienti per generare magie. È esattamente ciò che accade nel 1977 con George Lucas e il suo Star Wars, l’opera che inizia la saga destinata a cambiare la storia del cinema. Qual è il segreto del suo successo planetario? Perché Lucas crea Luke Skywalker? Cos’è l’Expanded Universe? Come si realizza la spada laser? Cosa c’entrano i disegni animati con Star Wars? Quando nascono la computer animation e gli attori digitali? Per rispondere a queste e a tante altre domande Giorgio E. S. Ghisolfi analizza il complesso universo di Star Wars – costituito originalmente dall’esalogia e dall’Expanded Universe – e l’eclettica figura di George Lucas nei loro stretti legami con la società e la cultura del Novecento, con il cinema d’animazione, gli effetti speciali, l’arte e i significati simbolici. Numerose immagini, una cronologia generale comparata, un esauriente glossario tecnico cinematografico e un’appendice sui primi due film prodotti sotto la gestione Disney completano il volume». Per visitare il sito web di Star Wars, basta un CLIC. Segue ora un incontro con Giorgio E. S. Ghisolfi.
Star Wars. L'epoca Lucas (2)
A Giorgio Ghisolfi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quali sono le caratteristiche che ti hanno indotto alla dizione “epoca Lucas”? Il primo periodo della storia del cinema è stato definito “l’epoca del muto”. Analogamente, con riferimento alla tecnologia, ma non solo, mi è sembrato necessario definire l’epoca in cui nasce il cinema digitale, di cui George Lucas è assoluto protagonista. Non solo, Lucas è anche l’iniziatore, a mio avviso, e per motivi che spaziano dalla creatività e dall’estetica sino all’imprenditorialità, del cinema postmoderno. Un terzo, e ulteriore, significato, va attribuito, nei termini della critica cinematografica sulla saga, all’operato originale di Lucas, che va ben distinto da ciò che, dopo di lui, sta facendo la Disney. Allo stesso modo, ad esempio, si parla di un “rinascimento Disney”, seguito alla crisi conseguente alla scomparsa del suo fondatore, Walt. Una figura che, non casualmente, costituì un riferimento culturale ed imprenditoriale per Lucas. Nell’Introduzione dedichi uno spazio all’acquisizione della Lucasfilm da parte della Disney avvenuta il 30 ottobre 2012. Qual è l’importanza di quel momento? La Disney e la Lucasfilm hanno creato universi paralleli, complementari e concorrenziali. Mancando di un erede, era quasi ovvio che George Lucas decidesse di cedere la franchise ad un suo pari. Tuttavia questa operazione ha delle implicazioni importanti sul piano culturale, oltre che commerciale: prima di Lucasafilm, la Disney aveva già acquisito la Pixar e la Marvel. Non si può non rilevare come i media che creano e orientano buona parte dell’immaginario degli adolescenti contemporanei a livello mondiale: fumetto, cinema e cinema d’animazione, siano tutti nelle mani di una unica entità, governata da regole ferree. La pluralità creativa non può non risentirne. Scrivi informando che il primo film di Lucas – Look at Life (1965) – è un’opera in animazione. Dove rintracci in Star Wars le esperienze di quella tecnica cinematografica? Sino ad oggi il contributo dell’animazione alla saga non era mai stato investigato. A ben vedere, il metodo registico di Lucas ha molto a che vedere con l’animazione, che costruisce la finzione cinematografica sul fotogramma, piuttosto che sul set. Del resto, la passione di Lucas per l’animazione data dagli anni della sua formazione scolastica. Più che dall’estetica dei disegni animati, Lucas è rimasto affascinato dalla tecnica, al punto di tentare più volte di entrare nel settore, soprattutto come cameraman. Il suo primo film infatti non utilizza il disegno, bensì la tecnica del découpage, fotografie ritagliate e montate con giochi di dissolvenze, sulla colonna sonora di un ritmo tribale. Un’opera a metà tra il cinema verité e l’animazione astratta, che rivelò il talento di editor di Lucas, quello stesso che lo portò poi a progettare ogni film con l’ausilio sistematico degli storyboard. Nel tuo libro si riflette sul fatto che In Lucas si ritrovano segni di antiche mitologie e stilemi della cultura pop... ... Si tratta di uno dei tanti elementi di successo della saga: vestire di nuove forme antichi contenuti. Questo vale soprattutto per la prima trilogia, del cui mito si è alimentata anche la seconda. Una ricetta semplice, in fondo, che però richiede grande intuito e perizia. Lucas è l’uomo giusto al momento giusto. Gli anni Settanta portano su di sé la responsabilità del Sessantotto: se non la rivoluzione, almeno il rinnovamento. Gli ideali che sorreggono i movimenti per i diritti civili stentano ad affermarsi, occorre ribadire la legittimità di quelle lotte, la legittimità degli ideali, e quindi recuperare l’idea della missione eroica a fin di bene, un tòpos mitologico. Ma in una forma adatta all’immaginario popolare contemporaneo, vicino alla tv e al fumetto: la spada diventa laser, la principessa una femminista, Yoda incarna la moda per Troll e Gnomi, l’ironia stempera la violenza, il mito del progresso tecnologico sbiadisce di fronte alla rivisitazione delle forze primordiali e della magia: la Forza. Va osservato come le figure, divenute iconiche, di Vader, Ben Kenobi, Yoda e Luke siano ben diverse dai supereroi come Batman e Nembo Kid, che a fine anni Settanta attraversano appunto un periodo di crisi. Kubrick coglierà appieno lo spirito del film, del resto pensato da Lucas per un target infantile, dicendo: “È un fumetto!”. Star Wars è un manifesto politico oppure no? Star Wars non è un manifesto politico, ma, da un certo punto di vista, è un manifesto culturale, della cui portata Lucas aveva, se non piena consapevolezza, comunque una forte intuizione. La mitologia travestita da fantascienza si rivela vincente nell’epoca del post-Vietnam. Certamente i quasi contemporanei “Taxi driver”, “Il cacciatore”, “Apocalypse now” affrontavano il tema di petto, creando un fecondo turbamento delle coscienze, che però si rivelava usa-centrico. Star Wars è al suo fondo un’opera simbolica, travestita di spettacolarità, come tutti i miti e le favole. E, come quelli, intrattiene educando, ovunque nel globo. Non a caso, il primo film di Star Wars dà l’avvio ad un rinascimento nel cinema di fantascienza, e crea le premesse per l’esplosione del cinema fantasy degli anni Ottanta, alimentato dallo stesso Lucas con la produzione di film come “Willow” e “Labyrith”. Giorgio E. S. Ghisolfi Star Wars. L’epoca Lucas Pagine 328, Euro 22.00 Mimesis
Traslochi in corso
Credo che il più grande monumento moderno al rapporto tra arte e verità sia “F for Fake” il film che Orson Welles girò nel 1973. In quella pellicola è riportato il seguente episodio. "Un amico una volta mostrò a Picasso un Picasso. "No è un falso" rispose il pittore. Lo stesso amico si procurò un altro presunto Picasso e Picasso disse che anche questo era un falso. Se ne procurò un altro ma anche questo era falso, disse Picasso. "Ma Pablo", replicò l'amico "ti ho visto con i miei occhi mentre lo dipingevi." "Posso dipingere un Picasso falso al pari di chiunque altro", rispose Picasso". Insomma, se è vero che non ogni falso è arte, è pur vero che assai spesso l’arte è lo splendore della falsità, realismo compreso. Né la Storia – proprio quella con la S maiuscola – si sottrae a quella legge, fate una gita a Verrone, visitate il Falseum e vedrete che non ho tutti i torti. Scrive Adam Gopnik: “…la pratica del mentire e quella di fare letteratura sono così intrecciate che probabilmente sono nate nello stesso momento, come l’atto di coniare monete e quello di contraffarle”. Così ho letto con piacere Traslochi in corso di Walter Bonagura. Un libro che senza essere “non fiction”, da me amata quanto una colica renale, miscela vero e falso a partire dalla firma dell’autore che è in bilico tra pseudonimo ed eteronimo. Secondo il Dizionario “Gli eteronimi differiscono dagli pseudonimi perché questi ultimi sostituiscono il nome di un autore reale, che rimane così sconosciuto. Gli eteronimi invece coesistono con l'autore, e ne formano una sorta di estensione del carattere; sono personaggi completamente diversi che sembrano vivere di vita propria, scrivendo spesso con uno stile diverso da quello dell'ortonimo”. In “Traslochi in corso”, vattelappesca. Si attraversano nove mesi della vita di un uomo che si racconta tra i tendaggi del vero e del falso anche quando sfiora veri cruenti episodi storici del ’45. Infine, sfilano i personaggi che abbiamo incontrati nelle pagine precedenti, viene detto che ne è stato di loro dopo quanto prima ci è stato dato da apprendere, sfilano muti e immobili fissando il pubblico, come su di un tapis roulant da puppentheater. Walter Bonagura Traslochi in corso Premessa di Cinzia Giordano Pagine 204, Euro 14.00 arabAFenice
lunedì, 3 luglio 2017
Due autori irlandesi (1)
La casa editrice paginauno propone due volumi di racconti d’autori irlandesi: Liam O’Flaherty (1896 – 1984) e Frank O’Connor (1903 - 1966). Ecco la presentazione editoriale della raccolta intitolata “Il cecchino” di O’Flaherty. «Tutti gli autori irlandesi di short story, forse in virtù di un comune DNA, sembrano possedere un’incredibile abilità narrativa, ricorrendo alle tonalità più svariate nel descrivere minuziosamente le figure più tipiche delle comunità sia rurali che urbane. I racconti irlandesi sono, sul piano letterario, l’equivalente artistico di una ricchissima galleria di ritratti. Insieme a Frank O’Connor, Daniel Corkery, Sean O’Faolain e Seamus O’Kelly, Liam O’Flaherty è tra gli autori più importanti. Qui proponiamo una piccola ma rappresentativa selezione di suoi racconti: Il cecchino e Guerra civile (sui sanguinosi anni tra il 1920 e il 1922), Verso l’esilio (un fratello e una sorella alla ricerca di un difficile futuro negli Stati Uniti), Il re di Inishcam (storia di un giovane che distilla alcol illegalmente). Leggere un buon romanzo aiuta a comprendere una determinata epoca di un determinato Paese, leggere i racconti di Liam O’Flaherty è ritrovarsi in mezzo alle persone di cui parlano». “Ospiti della nazione” di Frank O’Connor è così presentato. «Il 21 gennaio 1919 l’Irish Republican Army dava inizio alla guerra d’indipendenza irlandese, una sanguinosa e sfiancante lotta contro l’esercito britannico, mentre il nuovo Stato irlandese si organizzava clandestinamente. Due erano i fronti, due le strategie: la guerriglia urbana condotta a Dublino da Michael Collins e dai suoi, e una serie di operazioni di guerriglia rurale a opera delle colonne volanti. Le truppe britanniche e i famigerati Black and Tans reagivano con brutali rappresaglie ai danni dei civili irlandesi e delle loro proprietà. Nel Nord intanto gli unionisti filo-inglesi scatenavano operazioni di “pulizia etnica” contro i cattolici, considerati tutti sostenitori dei repubblicani. In questo drammatico sfondo storico sono ambientate le quattro short story qui raccolte. Da Ospiti della nazione, il racconto che dà il titolo alla raccolta, Neil Jordan ha tratto lo spunto per il suo film più famoso: “La moglie del soldato”». Segue ora un incontro con Carmine Mezzacappa curatore dei due volumi.
Due autori irlandesi (2)
I due autori irlandesi sono stati tradotti da Carmine Mezzacappa che ha scritto per entrambi un’illuminante postfazione. Mezzacappa è stato già ospite di questo sito in occasione di un suo brillante saggio intitolato Cinema e terrorismo che credo sia la migliore esplorazione storica e critica di cui disponiamo su quel tema. A Carmine Mezzacappa (in foto) ho rivolto alcune domande. Swift, Sterne, Wilde, Yeats, Joyce, Shaw, O' Brien, Beckett, Séamus Heaney, (un posto a parte per Stoker, l’inventore di Dracula), questi i nomi più noti della letteratura d’Irlanda.. Perché autori quali questi due pubblicati da Paginauno, pur ritenuti maiuscoli in patria nella storia letteraria irlandese, hanno avuto una eco alquanto limitata nel resto d’Europa? È un problema che, per certi versi, tocca tutte quelle letterature che, pur avendo in comune la stessa lingua, hanno radici storiche e culturali diverse. Accade, in quei casi, che ci sia una letteratura dominante - vedi quelle inglese, tedesca, francese - a danno di altre. Pensiamo, ad esempio, a Kafka che scriveva in tedesco ma era profondamente boemo. Oppure a Franz Grillparzer o Peter Handke nei confronti dei quali sarebbe fuorviante ignorare che sono austriaci. Oppure, nel caso di Susanne Dracius, il francese non ha nulla in comune con Pennac o Camus ma è l'unico veicolo per dare voce, a livello internazionale, alla cultura della Martinica. Oppure, ancora, pensiamo alla discutibile decisione di un pur grandissimo studioso come David Daiches che, nella sua comunque splendida e dottissima storia della letteratura inglese, considera la letteratura scozzese (e anche quella irlandese) come una variabile assimilata alla cultura britannica. Un'operazione di appropriazione che forse per noi italiani è difficile da percepire ma che per gli irlandesi e gli scozzesi (forse meno per i gallesi) è inaccettabile...
… e la letteratura nordamericana? La letteratura nord americana (ma anche quella australiana), per contro, grazie al peso storico, economico (anche militare) degli Stati Uniti (e dell'Australia), si è conquistata una sua tradizione ben distinta da quella britannica. Aggiungerei, riferendomi alle letterature di lingua spagnola, che gli studi critici hanno, a differenza dell'approccio di Davide Daiches, sempre fatto intelligentemente e correttamente una doverosa distinzione tra la letteratura spagnola e quelle ispano-americane: nessuno, infatti, commetterebbe la leggerezza di pensare che Borges e Neruda siano spagnoli perché gli studiosi hanno sapute tenere distinte le tradizioni letterarie cilene e argentine da quella spagnola. Questa accortezza non è stata mai osservata nei confronti di irlandesi e scozzesi Ho esposto questa breve riflessione semplicemente per dire che gli autori irlandesi da te elencati, la tradizione critica li ha assimilati ai canoni più tipici e distintivi della letteratura inglese o, comunque, rientravano in un modo di percepire le tematiche sociali che era considerato più "anglosassone" che "gaelico". Non dimentichiamo che l'Inghilterra non esercitò solo un oppressivo potere politico e militare sull'Irlanda ma anche una pressione culturale e linguistica. L'Irlanda era un Paese di lingua gaelica ma venne snaturata la sua essenza culturale attraverso un progressivo processo di "anglicizzazione" della sua sensibilità e percezione della realtà. Quando sei costretto ad esprimere in un'altra lingua le tue emozioni e le tue idee, finisci per adattarle alla "plasticità" della lingua che ti è stata imposta. Puoi fare qualche esempio? Sì. Il caso più clamoroso di questo invisibile processo di "evirazione culturale" (pongo la questione in termini leggermente provocatori...), è proprio James Joyce che ci ha consegnato un'immagine inerte di un'Irlanda che invece, attraverso i racconti di Frank O'Connor, Liam O'Flaherty, Sean O'Faolain, Daniel Corkery, presenta una sua drammatica vitalità che evidenzia l'arbitraria e soffocante invasività culturale inglese. In sostanza, direi che i nomi da te fatti sono più facilmente collocabili in una storia letteraria che voglia tendere ad anglicizzare contesti e periodi che invece, per molti altri, non sarebbe possibile. Il risultato, quindi, è che Wilde, Shaw, Joyce sono irlandesi anglicizzati. Ma l'operazione più sofisticata si evidenzia nei casi di Sterne, Swift e Flann O'Brien, autori di dirompente originalità, che possiedono qualità narrativamente spiazzanti e che la cultura inglese, subdolamente, fa sue per acquisire una luminosità che il suo canone narrativo nazionale possiede in misura minore. Perché fra i nomi di scrittori irlandesi fatti prima, l’istanza politica non è tanto accesa né prevalente quanto in questi due autori di cui ci stiamo occupando? Il contesto storico in uno scrittore vive determina, spesso, le sue decisioni sia personali sia ideologiche. L'istanza politica era forte sia in Swift sia in Wilde ma le circostanze hanno avuto un'influenza diversa da quelle in cui hanno vissuto O'Connor e O'Flaherty. Entrambi erano adolescenti, sensibili e facilmente impressionabili, nel periodo storico che prelude alla guerra di indipendenza irlandese che porterà alla divisione (astutamente architettata sul piano militare e diplomatico da Churchill) tra Repubblica irlandese e Irlanda del Nord. Entrambi saranno coinvolti non solo nella guerra ma in tutti quei movimenti culturali che intendevano tutelare le radici gaeliche del Paese… … in quale modo? O'Connor, ad esempio, studierà approfonditamente il gaelico (ma comprenderà, realisticamente, che per raccontare al mondo intero la vera identità del suo Paese, dovrà accettare di farlo attraverso l'inglese, sì, ma un inglese nato dalle sue meticolose esercitazioni di traduzioni dal gaelico). O'Connor, tra l'altro, fu non solo scrittore ma anche intellettuale a 360 gradi, un serio e appassionato osservatore della società e dei comportamenti più conflittuali. Forse solo O'Faolain può stargli alla pari sul piano dell'autorevolezza. Sia O'Connor sia O'Faolain furono "discepoli" di Daniel Corkery, un insegnante di lettere che considerava suo obiettivo primario quello di rendere consapevoli i suoi studenti dell'identità culturale e storica dell'Irlanda. Corkery fu sicuramente meno valido dei due suoi allievi sul piano letterario ma fu una presenza carismatica quanto figure politiche come James Connolly e Michael Collins. Devo comunque dire che è anche merito dell'editore Paginauno se finalmente il pubblico italiano ha la possibilità di prendere atto di questo patrimonio di idee, valori e storie che l'Irlanda ha da offrire in più rispetto alla letteratura inglese. Altri editori a cui avevo proposto O'Connor, si era mostrati titubanti. Solo Tranchida (e ora Paginauno) hanno avuto la sensibilità e il coraggio di puntare su Frank O'Connor. Quale la principale differenza stilistica fra O’ Flaherty e O’ Connor? O'Flaherty è stato scrittore sanguigno, appassionato, quasi maniacale nel seguire i tormenti interiori, tortuosi e imprevedibili dei suoi personaggi, la loro dolorosa ricerca di una propria verità che avviene sempre "a tentoni", sorretta non da riflessioni razionali ma lasciandosi scuotere da una crisi di coscienza che li porta sempre ad una soluzione finale fortemente drammatica. In qualche modo, i tormenti dei personaggi di O'Flaherty fanno pensare a quelli di Dostojevskij… … e O’Connor? O'Connor, per contrasto, ricostruisce con precisione, il contesto sociale in cui un personaggio scopre di essere in conflitto con l'ambiente. O'Connor è solo in apparenza meno appassionato di O'Flaherty. Infatti il tormento non viene scaricato sui personaggi ma su chi deve narrare, con la maggiore lucidità possibile (a beneficio del lettore che ha l'esigenza di capire), le dinamiche attraverso le quali i vari protagonisti giungono alla soluzione, o meno, dei loro problemi. O'Connor, in altre parole, ha un approccio narrativo ecumenico, i suoi racconti hanno qualcosa della parabola edificante (pur essendo, tra gli scrittori irlandesi del Novecento, sicuramente il più laico!). Non è un caso che sia stato proprio O'Connor a scrivere il racconto più drammaticamente rappresentativo di cosa fu la tragedia della guerra d'indipendenza irlandese, ossia "Ospiti della nazione". Nella letteratura irlandese dei nostri giorni, c’è un interesse verso lo sperimentalismo linguistico oppure no? Difficile dare una risposta articolata su questo problema sicuramente affascinante. Torno, indirettamente, a quello che dicevo riguardo alla prima domanda. L'Irlanda è un Paese di lingua gaelica che oggi si esprime in inglese. La mia considerazione, onestamente semplicistica, è che forse numerosi scrittori non abbiano ancora metabolizzato del tutto l'inglese e che quindi stiano compiendo un grande sforzo nel dare una connotazione irlandese. Sappiamo riconoscere, per esempio, l'inglese-americano dall'inglese-inglese. Dobbiamo pendere atto dell'esistenza di un inglese-irlandese. Ma questo è un processo ancora lungo che riuscirà ad essere più visibile solo con il supporto di studi critici che sappiano evidenziarne i risultati. Di sicuro, questo sperimentalismo non ha niente a che spartire con il pirotecnico sensazionalismo di Finnegans Wake di Joyce e dovremmo prendere atto che i tentativi più seri furono fatti, semmai, da Flann O'Brien, un autore che sapeva padroneggiare sia l'inglese sia il gaelico e le cui opere attendono ancora una più approfondita analisi critica sia linguistica sia nei contenuti. Frank O’Connor Ospiti della nazione Pagine 110, Euro 10.00 Liam O’Flaherty Il cecchino Pagine 94, Euro 10.00 Entrambi a cura di Carmine Mezzacappa Edizioni paginauno
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