Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
martedì, 31 ottobre 2017
La vita segreta delle mucche
“Dobbiamo dare noi agli animali la voce che non hanno per fare valere i loro diritti”, ha detto Umberto Veronesi. Ecco un’autorevole voce scientifica a favore dell’animalismo. Il termine è di recente conio: prima degli anni ottanta del secolo scorso, nei vocabolari di lingua italiana, alla voce "animalista" si leggeva soltanto «chi dipinge e scolpisce soggetti animali», come ricorda Marina Baruffaldi in “Il manuale dell’animalista”. Sono molti gli errori che l’animale uomo commette verso gli altri animali. Il primo è quello d’immaginare una propria superiorità naturale. Ed ecco perché la Chiesa detesta tanto Darwin che – come sostiene Daniel Kevles – ha osato ficcare il naso nella narrazione giudaico-cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale della religione. Ma facciamo anche di peggio usando la vivisezione e, spesso, torturando e poi uccidendo senza ragione quelle creature. Cose tutte che sono il doloroso risultato della dottrina sugli animali di Cartesio che ha determinato lo “specismo” (cioè convinzione che le regole etiche si applichino solo all'uomo e non alle altre specie), parola ideata dallo psicologo Peter Singer in “Le sofferenze inflitte agli animali”. Ancora una cosa sul tema di queste sofferenze. Molti stupratori e serial killer hanno sfogato durante l'infanzia il loro desiderio/bisogno di torturare animali; ecco un interessante intervento su queste angosciose vicende. Come fare per evitare che tutto questo accada? É la scuola per prima a essere coinvolta anche in questo còmpito. Non la “buona scuola” renziana, in parte naufragata e in parte riproposta senza vergogna dal governo di Gentirenziloni, ma una scuola vera, seria, che abbia coscienza dell’importante ruolo che ha nella società, ruolo che è onorato solo da tantissimi, malpagati, insegnanti. Un grande aiuto alla scuola e, visto il tema di cui ci stiamo occupando, sul nostro rapporto con gli animali non umani, può essere fornito, tra i media, dall’editoria.
Un ottimo esempio viene dalla casa editrice Garzanti che ha mandato nelle librerie un prezioso volume che documenta un magnifico esempio di comportamento umano. Il volume è intitolato La vita segreta delle mucche. Ne è autrice Rosamund Young. Le pagine descrivono l’avventura di Rosamund e del fratello Richard che guidano una fattoria dove le mucche (ma anche pecore e galline) conducono una vita libera brucando e passeggiando dove più pare loro. Nonostante il gran numero dei capi, Rosamund ha dato a ognuno un nome e li riconosce venendone riconosciuta. Dando così ragione a Shakespeare che in Coriolano dice: “La natura insegna agli animali a riconoscere chi gli è amico”. E la Young: “Di mucche, come di persone, ce ne sono di tutti i tipi. Possono essere molto intelligenti, oppure un po’ dure di comprendonio; amichevoli, premurose, litigiose, docili, creative, un po’ tonte, orgogliose o timide. In una mandria abbastanza grande sono presenti tutte queste caratteristiche, e da molti anni siamo fermamente convinti che è giusto trattare i nostri animali come individui”. Il libro si avvale di una prefazione di Alan Bennett che scoprì questo volume – pubblicato nel 2003 da un piccolo editore – scrivendone nel suo diario. Dalla sua prefazione: «Se il libro fosse stato scritto dal solito fanatico si potrebbe liquidare come il frutto di una mente un po’ eccentrica, ma Rosamund Young gestisce la sua fattoria bio nel Worcestershire, Kite’s Nest [Nido del nibbio], da prima che il “bio” nascesse. È un posto dove il fattore riconosce da quale mucca è stato munto il latte solo assaggiandolo, e Young porta avanti la battaglia contro l’allevamento intensivo nel modo più semplice e convincente che io abbia mai letto, basandosi sul puro buonsenso. Si tratta di un libro che cambia il modo di guardare il mondo, tanto che oggi, quando passo accanto a un pascolo di mucche, mi sorprendo a interrogarmi sulle loro amicizie e i loro punti di vista, un’idea che, prima di aver letto il libro di Rosamund Young, avrei ritenuto bizzarra, o semplicemente sciocca. Ora non più». Giunti all’ultima pagina di questo volume delizioso non possiamo che concordare con Molière quando nell’Anfitrione dice: “Le bestie non sono così bestie come si pensa”. Rosamund Young La vita segreta delle mucche Introduzione di Alan Bennett Traduzione di Andrea Di Gregorio Illustrazione di Anna Koska Pagine 138, Euro 15.00 Garzanti
Doppio schermo / Double screen
Il 2 ottobre ho dedicato una mia nota – vedi QUI – nella quale tracciavo il profilo di Doppio schermo / Double screen Artapes #3 - film e video d'artista dagli anni 60 a oggi, mostra in tre tempi a cura di Bruno di Marino in corso a Roma al Maxxi (Museo nazionale delle arti del XXI secolo). Il 31 ottobre, di questa rassegna parte la terza e ultima fase dedicata dal 2000 a oggi. In foto: Debora Vrizzi, La principessa sul pisello. Dal catalogo. «L’avvento del digitale rende di colpo obsoleta qualunque distinzione tra “cinema” e “video”. A parte rari casi, come quello di Paolo Gioli – che continua tutt’oggi a girare in 16mm –, la maggior parte degli artisti si confronta con il supporto elettronico. Il quarto e ultimo programma si apre e chiude con il racconto documentaristico-narrativo di due spazi: un grande magazzino (Ra di Martino) e uno stadio (Yuri Ancarani). In mezzo, una varietà di opere, autori, stilemi e tendenze, sono indicativi di una produzione all’insegna della contaminazione linguistica, che continua ad essere in gran parte autarchica e indipendente: dai film di collettivi quali ZimmerFrei, Zapruder, Flatform, Alterazioni Video e Masbedo alle ricerche di artisti come M. Migliora, E. Benassi, R. Barba, E. Bellantoni, F. Vezzoli e D. Puppi (quest’ultimo per la prima volta si cimenta nel video monocanale). In questo panorama domina sicuramente la narrazione, elemento trasversale che accomuna lavori diversi. Non manca, inoltre, il video musicale (V. Villoresi, Coniglioviola), una forma sempre più diffusa anche nel mondo delle arti visive. Nel programma “extra” l’unico lungometraggio realizzato da Mimmo Paladino dedicato alla figura letteraria del Chisciotte di Cervantes». Noto con piacere fra i nomi in programma quello di Debora Vrizzi che ospitai nel 2011 su questo sito nella sez. Nadir dove si possono vedere . sue opere. Per consultare programma e calendario: CLIC! MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo Doppio schermo / Double screen a cura di Bruno Di Marino Fino al 9 novembre 2017
venerdì, 27 ottobre 2017
L'arte del fuggiasco (1)
“Sento la morte ma non ho voglia di salutare nessuno”. Questa frase lunga 52 caratteri, la dice il personaggio Pompeo, considerato la più autobiografica delle figure ideate da Andrea Pazienza (San Benedetto del Tronto, 23 maggio 1956 – Montepulciano, 16 giugno ’88), uno dei maggiori fumettisti vissuti nel secolo scorso. QUI il sito in Rete a lui dedicato. È noto anche come Paz dal nome da lui stesso dato al “luogosergente” del capo partigiano in fumetto ‘Part’ il quale altri non è che Sandro Pertini. Eccolo nelle parole della madre in una bella intervista condotta da Luca Raffaelli. Alla domanda “Come lavorava Pazienza?”, la moglie Marina Comandini risponde a Maurizio Fasiolo che l’intervista: "Cercava di tirare tardi per giornate intere, poi in poco tempo disegnava tutto. Per le opere più lunghe scriveva prima il testo, mentre per vignette e storie brevi lo storyboard e la versione finale venivano insieme”. La sua arte si fa notare dalla metà degli anni ’70, anni furibondi e vivissimi che videro l'affermarsi di una nuova creatività giovanile dalla grafica alla musica al teatro, e Bologna, città abitata in quegli da Paz, di quei fermenti fu la capitale. Di quel periodo storico, di quegli anni, fu allora giovane testimone, e oggi precorritore finissimo di nostri anni futuri Stefano Cristante che ha scritto un libro imperdibile, pubblicato da Mimesis, intitolato Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento Cristante insegna Sociologia della comunicazione presso l’Università del Salento. È direttore della rivista internazionale H-ermes, Journal of Communication. Tra le sue pubblicazioni recenti: Comunicazione (è) politica (2009); Prima dei mass media (2011); La parte cattiva dell'Italia (con Valentina Cremonesini, 2015). Nel 2016, Mimesis ha stampato “Corto Maltese e la poetica dello straniero”; trovate QUI una mia intervista con lui su quel libro. Nell’aprile del 1986 Pazienza fu invitato a parlare da Teleroma 56 in occasione della morte del suo amico Stefano Tamburini e – come riporta Cristante nel suo documentatissimo saggio – disse: “Ricordiamoci che il vero genio non va monumentalizzato, ma va solo studiato. E Cristante chiosa: “Condivido quest’ultimo monito di Andrea Pazienza a tal punto da aver scritto il libro che state leggendo”. Dalla presentazione editoriale «Era il 1977 quando Le straordinarie avventure di Pentothal, la leggendaria opera prima firmata da Andrea Pazienza, fece irruzione sulla scena del fumetto italiano rivoluzionandolo per sempre. Pubblicato a puntate su “alter alter”, Pentothal fu il diario-manifesto, la “confessione” in chiave onirica del ’77 bolognese, una pagina cruciale per quella generazione che progressivamente si allontanò dagli ambienti della sinistra istituzionale per trovare nuove forme di espressione e di contestazione. Pazienza, all’epoca appena ventunenne, fu allo stesso tempo membro attivo e riferimento artistico di questa nuova ondata irriverente, provocatoria, scorretta, incredibilmente viva. Per celebrare i quarant’anni di Pentothal, Stefano Cristante, già autore dell’apprezzato Corto Maltese e la poetica dello straniero (Mimesis, 2016), analizza da un punto di vista sociologico i personaggi più amati usciti dalla penna del disegnatore – da Zanardi a Francesco Stella, da Pertini a Pompeo – allo scopo di mettere in rapporto la carriera di Paz con i collettivi e le avanguardie artistiche del suo tempo. Senza mai scadere nello stereotipo dell’artista “genio e sregolatezza”, Cristante approfondisce le molteplici e affascinanti implicazioni della narrativa a fumetti di Pazienza, ponendo l’accento sia sull’originalità del tratto, in grado di conciliare pop art e pittura classica, Moebius e Fremura, sia sulla sua capacità di scrittore, sempre sorprendente e tutt’altro che naïf». Segue ora una conversazione con Stefano Cristante.
L'arte del fuggiasco (2)
A Stefano Cristante, in foto, ho rivolto alcune domande. L’arte del fuggiasco… perché hai voluto quel titolo? Propongo la metafora del fuggiasco come grado estremo dell'irrequietezza creativa. Pazienza saturava i mondi della narrazione e poi se ne andava di soppiatto. D'altronde da San Severo di Foggia è andato a studiare arte a Pescara a 13 anni. A 18 era a Bologna, ma i suoi riferimenti produttivi erano a Milano e a Roma. Infine, la fuga a Montepulciano. Ce n'è abbastanza da definire così un carattere. Un libro di fumetti senza illustrazioni. Scelta precisa come chiarisci in apertura. Ti chiedo di sintetizzarne i motivi… Mostrare qualche immagine in un libro dedicato ai fumetti è sempre sembrato obbligatorio. Io ho invece pensato che mostrare "qualche" immagine di Pratt o di Pazienza sarebbe stato del tutto insufficiente. Così, d'accordo con la casa editrice Mimesis, ho deciso per una scelta estrema: mettere solo l'immagine di copertina e chiedere al lettore di orientarsi nel testo attraverso documentazione personale. Pazienza simbolo degli anni che visse, ma dal tuo libro si arriva alla conclusione che è soprattutto un anticipatore dei nostri tempi. Come si arriva a questa conclusione? Leggendo i suoi fumetti, risponderei lapalissiano. Prendendo confidenza con le storie di Paz ci si accorge non solo della sapienza e complessità del segno, ma anche della sua abilità come narratore e realizzatore di testi scritti, intrisi di un dono profetico che deriva dall'osservazione minuziosa e intensificata della realtà, che già annuncia il seguito, cioè il futuro. Com’è riuscito Pazienza ad essere tanto politico pur non facendo prevalentemente satira politica? La sua è un'antropologia politica, perché ritrae potenti e meno potenti nei momenti di incrinatura valoriale, e li ritrae nella loro miseria umana, comportamentale e verbale. In una composizione di Pazienza da te riportata, Paz elenca i nomi di letterati e artisti (e cose) che gli piacciono. Viene fuori un serrato, ghiotto catalogo disordinato ma compatto. Qual era il suo retroterra culturale? Pazienza è stato un forte lettore. Inoltre, rappresentava ciò che lo colpiva e così se ne impossessava per sempre. Le avanguardie furono cibo liceale per Paz, che ne innamorò perdutamente. Il vincolo con le avanguardie fu poi trasposto nelle collaborazioni a quattro (Pazienza, Tamburini, Liberatore e Scòzzari) all'epoca di Cannibale, e poi ancora nei sodalizi con vari giovani artisti del suo tempo. Quando infine si sentì tranquillo (soprattutto a Montepulciano) organizzò se stesso e il proprio lavoro come un'avanguardia storica individuale. Stefano Cristante Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco Pagine 205, Euro 16.00 Mimesis
giovedì, 26 ottobre 2017
L'arte contemporanea
La casa editrice il Mulino ha mandato nelle librerie un intenso saggio intitolato L’arte contemporanea Tra mercato e nuovi linguaggi. L’autrice è Angela Vettese. Dirige il Corso magistrale di arti visive all’Università Iuav di Venezia. Collabora con il supplemento domenicale del «Sole 24 Ore». Ha presieduto la giuria della Biennale di Venezia nel 2009. Dal 2016 dirige «ArteFiera» a Bologna. Per il Mulino ha pubblicato «Venezia vive. Dal presente al futuro e viceversa» (2017). Per una più estesa biografia: CLIC. Dalla presentazione editoriale. «Quadri, sculture, installazioni, arte ambientale e pubblica, arte post-Internet: l’arte visiva ha acquisito nell’ultimo secolo un vocabolario complesso. Nonostante il pubblico la trovi difficile e molti critici l’abbiano dichiarata morta, mai come oggi si dimostra vitale. Nelle sue forme nuove ha invaso il mondo: in una dinamica sempre più internazionale - anche in tempi di crisi - sorgono ovunque mostre, musei e collezioni. Un’espansione solo mercantile o dobbiamo riconoscere che nell’arte contemporanea c’è ancora poesia? Cosa siamo disposti a definire arte? Come funziona il sistema che le attribuisce valore»?
Ad Angela Vettese ho rivolto alcune domande. La principale motivazione che ha determinato questo tuo recente lavoro… La sovrapposizione tra mostre e fiere mi pare evidente e lo comprova anche il lavoro di molti storici. Cito tra tutti Bruce Altshuler che ha faticato molto a trovare la linea di distinzione fra Salon e Biennials. Il mercato forse più attivo in Italia ruota attorno alla Biennale di Venezia nei giorni, soprattutto della vernice, quando i galleristi che hanno prodotto la maggioranza delle opere esposte organizzano grandi ricevimenti per i loro collezionisti; in termini di grandi opere, poche manifestazioni sanno proporne - a volte anche con una logica curatoriale coerente - come la sezione Unlimited di Art Basel o i percorsi all'aperto di Frieze a Londra. In termini teorici, dobbiamo ammettere che la nuova committenza - gallerie e collezionisti e case d'asta -- non consente più di parlare delle mostre come qualcosa di "puro" rispetto a un mercato "impuro". Possiamo lamentarci che non tutte le tipologie di opera siano adatte a questa logica, cosa che lascia al palo molta arte creata in relazione alle scienze biologiche e alla tecnologia in generale, ma dirigere una fiera o un museo sono oggi ruoli che slittano uno nell'altro. Basta guardarsi intorno. Sono inoltre convinta che le cosiddette città d'arte italiane abbiano bisogno di momenti fieristici capaci di diventare uno stimolo anche per l'organizzazione di eventi culturali nello spazio pubblico. Non si tratta, cioè, di un ruolo senza un lato anche sociale. E poi sul piano personale mi è sempre piaciuto provarmi con cose molto diverse, anche a costo di non seguire una carriera pianificata e lineare. Il mio punto di equilibrio, del resto, resta da sempre l'insegnamento. Tanti i temi e inediti interrogativi che sollevi nel libro. Ne scelgo uno. Chi sono i nemici in maniera specifica dell’arte visiva contemporanea? E siamo sicuri che tutti capiscano l’arte antica? Quasi nessuno capisce l'arte antica, come spiegò in cinque magistrali lezioni all'Università Cattolica di Milano Federico Zeri. Non abbiamo più i codici per capire quale momento dell'Annunciazione o quale figura mitologica ci sta proponendo un artista. Spesso le opere sono state tolte dal loro contesto e questo priva il loro testo di gran parte della loro ragione d'essere. Tuttavia anche per l'arte contemporanea la comprensione non è immediata: qualche lettura ci vuole. I nemici di entrambe, arte antica e contemporanea, sono stati i romantici, quella cultura ottocentesca che ci ha indotto a credere che tutta l'arte ci possa dare, se è tale, un'emozione immediata. Non c'è quasi nulla di immediato nel funzionamento della mente umana, a esclusione di reazioni primarie che certo non possono essere le sole coinvolte nella comprensione di alte manifestazioni del sapere. E tale credo che siano le arti visive di ogni tempo. Scrivi: “Oltre a una ridefinizione dell’autore e dei luoghi dell’arte, si è vista anche una metamorfosi del ruolo dello spettatore”. In che cosa è cambiato? Vuole essere più coinvolto, ma al tempo stesso si vergogna di non capire. A volte reagisce informandosi, a volte infuriandosi. Dal titolo di un capitolo del tuo libro. C’è ancora poesia nell’arte contemporanea? Certamente, se con poesia intendiamo la commistione di aspetti cognitivi razionali con aspetti emotivi che ci spingono a una comprensione empatica dei fenomeni, delle persone, delle immagini. I moti dell'animo sono attivati dalle opere significative come da potenti motori, che spesso ci aiutano a capire meglio chi siamo e cosa vogliamo trovare nella vita. “Da quando i generali non muoiono più a cavallo, non vedo perché i pittori dovrebbero morire davanti al cavalletto" disse Duchamp. Esprimersi oggi su tela e colori, lavorare con quei materiali, ha ancora un senso? Duchamp lo fece. In tutta la sua vita ha fatto un solo ready made in senso proprio, lo Scolabottiglie. Tutti gli altri sono stati assemblaggi o comunque oggetti modificati, come diceva lui stesso "aiutati". I suoi due capolavori sono una pittura su vetro di significato assai complesso, pieno di riferimenti alla storia della pittura e in particolare al tema dell'Assunta, e una installazione ambientale in cui ancora una volta riprende in modo blasfemo il tema dell'energia spirituale. L'utilizzo di nuovi materiali del resto non va ascritto a lui ma a una congerie di autori - Picasso, Braque, Boccioni, Tatlin tra questi - che teorizzarono e praticarono l'affiancarsi delle nuove alle vecchie tecniche attorno al 1912-1914. Angela Vettese L’arte contemporanea Pagine 140, Euro 11.00 Il Mulino
mercoledì, 25 ottobre 2017
Maratona pacifista
A leggere le cronache di quanto succede in Medio Oriente è lecito uno scoraggiamento a capire quanto lì accade, tanto complessa è la spartizione dei territori, le ostilità fra etnie che abitano le stesse terre, le divisioni religiose affidate a sottili dispute teologiche che hanno spesso origine in tempi lontanissimi. Ad esempio, il Kurdistan è un'entità federale autonoma del Nord dell'Iraq che pur stando su territorio iracheno per niente va d’accordo con gli iracheni fedeli al governo di Baghdad e questi ultimi, tanto per gradire, avversano il governo del Kurdistan. Un esempio di quanto sia complicata la composizione (o meglio la scomposizione) laggiù, è data dalle forze armate del Kurdistan. Sono i famosi Peshmerga (la traduzione è poco allegra: "coloro che si trovano davanti alla morte") che quando scoppiò un sanguinoso conflitto tra i due maggiori partiti del Kurdistan iracheno, il PDK e l'UPK, si combatterono fra loro. Nonostante i tentativi di unificazione, ancora oggi sono divisi tra unità sotto il comando del PDK e unità sotto il comando dell'UPK. Una cosa, però, appare chiara a tutti gli osservatori e specialisti delle politiche di quei paesi, l’Occidente non è privo di colpe perché ingolosito dalle ricchezze (soprattutto petrolifere) di quelle zone ha operato ripetute interferenze, anche armate – si pensi alla sciagurata guerra del Golfo – nella vita di quei popoli. Venendo ai nostri giorni, il 25 settembre 2017 si è svolto un referendum, nel quale il 93% della popolazione curda ha votato "sì" per l'indipendenza del Kurdistan dall'Iraq; molti stati – l’Iraq di Baghdad, Turchia, Stati Uniti, Iran, sono però contrari a quell’indipendenza, solo Israele appoggia l’esito dell’iniziativa referendaria; dietro al rifiuto di un Kurdistan indipendente c'è, ancora una volta, una ragione economica in quanto la zona è ricca di idrocarburi. Il referendum si è svolto a Erbil, capitale del Kurdistan e proprio in quella città, il 27 ottobre si correrà per la pace con la settima edizione dell'Erbil International Marathon, promossa dall'Associazione italiana Sport Against Violence – con sede a Roma. Quest’anno, a causa della situazione tesa che si è creata all’indomani del referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno ( ha determinato una momentanea chiusura degli aeroporti ai voli internazionali), si terrà in formato 5 e 10 km. Prudenza lodevole, perché mentre proprio scrivo questa nota leggo su internet che il 21 ottobre l’esercito di Baghdad ha strappato a Erbil tutta la provincia di Kirkuk che ora è sotto il controllo proprio del governo centrale di Baghdad. Più meritoria ancora, quindi, è l’iniziativa di questa maratona pacifista. Da un comunicato stampa di Sport Against Violence. «Dopo gli oltre 5000 partecipanti dello scorso anno, per dare continuità al messaggio di pace e non fermarsi, sono molte le adesioni di atleti professionisti e non, operatori di pace, volontari e bambini, per parlare al mondo di convivenza e valori comuni, attraverso il linguaggio internazionale dello sport: un linguaggio utilizzato per creare ponti oltre le chiusure, nella sua gioia partecipativa oltre la competizione, per correre insieme testimoniando una società civile che nonostante guerre e terre martoriate vuole guardare avanti, senza confini. Per creare una generazione sana attraverso l’impegno e la motivazione, incoraggiare le donne a correre e partecipare a eventi sportivi, sostenendo e incoraggiando lo sport scolastico e universitario in Iraq come mezzo per diffondere i principi della pace e della tolleranza. Sport Against Violence (SAV), infatti, ha iniziato a cooperare con associazioni, ONG e attivisti internazionali nel 2009 con l’obiettivo di organizzare una maratona per la pace nella città di Baghdad. E’ entrata a far parte dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), un network che lavora a stretto contatto con la società civile irachena su diverse campagne, legate ai temi della tutela dei diritti umani e del patrimonio ambientale e culturale, della ricostruzione della società dal basso, e del dialogo tra culture diverse. Il primo passo è stato lo stimolo alla creazione dei running club di Erbil e Baghdad allo scopo di diffondere la pratica dello sport e il suo valore, sia come strumento di benessere fisico sia d’incontro e scambio reciproco tra le persone. Successivamente, sono state organizzate le prime gare podistiche su distanze ridotte in diverse città irachene, per poi arrivare nel 2011 alla prima edizione della Maratona di Erbil e nel 2015 alla prima mezza maratona di Baghdad. Dopo Erbil, il successivo appuntamento internazionale si avrà il 2 dicembre con la Maratona di Baghdad, e in Italia con Sport Against Violence Event, a Roma nel giugno 2018». Ufficio Stampa HF4 Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it ; 340 – 96 900 12 Sport Against Violence Erbil, Kurdistan Maratona pacifista 27 ottobre 2017
martedì, 24 ottobre 2017
Cronache brasiliane
“Non ho avuto figli, non trasmisi a nessuna creatura l'eredità della nostra miseria”. Sono parole di J. M. Machado de Assis che ben ne descrivono l’indole. Scrittore brasiliano, nato a Rio de Janeiro nel 1839, mulatto, sofferente di epilessia e balbuzie, fu segnato da giovanissimo dalla morte della sorella e di quella precoce della madre. Il successo letterario e una felice vita coniugale mitigarono appena un poco la sua esistenza che durò 69 anni, morì infatti a Rio nel 1908. Le immagini che abbiamo di lui lo mostrano sempre con occhiali a pince-nez Ha lasciato romanzi, drammi, racconti, poesie, che la critica considera fra le più alte vette raggiunte dal Realismo a cavallo del XIX e XX secolo. Fra i suoi lavori sono particolarmente ricordati i titoli “Memorie dell’aldilà” (1881) e ”Don Casmurro (1889). La casa editrice Lindau ha ripubblicato una raccolta di racconti intitolando il volume Cronache brasiliane. Scritture scattanti con personaggi che vivono tra immaginazione e realtà attraversando i confini dei due territori fra il sognante e l'icastico. Tra tutte le composizioni, ce n’è una che spicca: ”L’alienista”, protagonista è lo psichiatra Simão Bacamarte. Fu edito per la prima volta nel 1882 in una raccolta uscita a Rio con il titolo “Papéis avulsos”. Un piccolo capolavoro che consiglio di non perdervelo. Commentando una lontana edizione italiana di questo racconto così scrisse Giovanni Mariotti: Un’anatomia del potere temperata e sarcastica. In un primo tempo Bacamarte rinchiude i “bizzarri” poi i “normali”; alla fine rinchiude se stesso: giustamente. Autoreclusione è il senso finale di ogni potere perché ogni potere spezza l’universo meraviglioso della reciprocità. “Porte di corno” chiamò Nerval le soglie della follia. Quelle porte una matura umanità le attraverserebbe cantando… Dalla presentazione editoriale di Lindau. «Joaquim Maria Machado de Assis è stato autore di romanzi, poesie, testi e critiche teatrali, traduzioni, con gli esiti che molti lettori già conosco e che ne fanno una delle voci più importanti della letteratura dell'800. Il suo esordio avvenne però con il racconto, in una serie destinata ai giornali, e questa formula narrativa è all'origine di diverse raccolte che ben riflettono l'evoluzione della sua scrittura. Del resto molti ritengono che il valore e la qualità di uno scrittore si apprezzino soprattutto nella forma breve, la cui stessa misura detta «regole» rigorose e stabilisce se l'autore abbia raggiunto quell'equilibrio di contenuto, forma, stile e voce, che determina la riuscita di una narrazione. “Cronache brasiliane” offre una scelta dei suoi racconti più belli, in alcuni casi mai pubblicati in Italia. È una penna sapiente quella di Machado, che tratteggia storie, ambienti e personaggi con uno sguardo mai indifferente: se talvolta può risultare feroce nella critica di comportamenti e situazioni, una punta di malinconia rivela sempre un senso di profonda empatia con i suoi simili e il loro destino». J. M. Machado de Assis Cronache brasiliane Traduzione di Giuliana Segre Giorgi e Gaia Bertoneri Pagine 216, Euro 18.50 Lindau
Non solo libri
Chi è Ruggero Maggi? E perché parlano tanto bene di lui? Cosmotaxi ha cliccato sul suo nome nell’Enciclopedia Galattica e vi ha trovato una lunghissima biografia. Le principali note riferiscono: “Artista e curatore. Dal 1973 si occupa di poesia visiva; dal 1975 di copy art, libri d’artista, arte postale; dal 1976 di laser art, dal 1979 di olografia, dal 1985 di arte caotica sia come artista - con opere e installazioni incentrate sullo studio del caos, dell’entropia e dei sistemi frattali - sia come curatore di eventi. Sue dichiarazioni e foto d’opere nella Sez. Nadir“.
La sua più recente impresa è intitolata Non solo libri Libri d’artista di Ruggero Maggi. La trovate all’Università del Melo – Galleria di Arti Visive che così inaugura il nuovo progetto “Officina Open”, proseguimento di “Officina Contemporanea” la rete culturale urbana promossa da Fondazione Cariplo nel 2013 con la partecipazione di undici enti e associazioni culturali cittadine. “Officina Open” nasce dalla collaborazione tra l’Università del Melo, luogo ospitante delle rassegne espositive, il Museo Maga e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Gallarate che insieme realizzeranno una serie di mostre fino alla primavera 2018. Ruggero Maggi, presenta una selezione di libri d’artista dove “…il libro viene pensato e realizzato come oggetto artistico autonomo, creato per esplorare inediti territori di ricerca, per aprire finestre di là delle quali si aprono infiniti nuovi mondi. Maggi come artista ha da sempre privilegiato la progettazione e realizzazione del libro come pratica artistica innovativa, lontana dai rigori di opere di grandi dimensioni e capace di innescare una sorta di cortocircuito tra la parola, l’immagine, il supporto, il formato e l’interazione con lo spettatore chiamato a cambiare il suo approccio con il libro e con l’opera d’arte ….” spiega Emma Zanella, curatrice della mostra, nel suo testo critico. L’esposizione rientra nella manifestazione “2000libri” rassegna letteraria, ideata e realizzata per la prima volta nel 1999. Organizzata dall’Assessorato alla Cultura, vede coinvolte alcune librerie e realtà culturali del territorio e si è svolta dal 13 al 22 ottobre scorso. Non solo libri Università del Melo – Galleria di Arti Visive Via Magenta 3, Gallarate Fino al 17 novembre 2017
venerdì, 20 ottobre 2017
Diciamolo in italiano (1)
Wojtyla una volta disse: “Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra lingua italiana. Se mi sbaglio mi… corrigerete”, ma nessuno osò corrigerlo. Ma almeno quel papa che ingigantì l’organigramma celeste (fece 488 santi e 1345 beati, entrando di diritto nel Libro dei Primati, che, per chi non lo sapesse, è il libro dei record non quello delle scimmie) ci aveva provato a parlare italiano, mentre molti italiani vi rinunciano. Proprio così, leggete che cosa scrive Annamaria Testa – una grande! – di cui vanto l’amicizia: «Sta di fatto che continuo a chiedermi che cos’ha in mente il redattore che scrive “gli influencer sono trend setter by definition: per questo il loro outfit è sempre cool.” O la società di telefonia mobile che mi invia il messaggio: “Il report con le tue performance di aprile è online”, per dirmi che in Rete trovo i consumi del cellulare. E così, nel nostro Paese, sempre più spesso le persone si informano, viaggiano, pagano pedaggi, bollette e tasse, lavorano, si tengono in forma, giocano e mangiano in itanglese (…) Scegliendo l’itanglese, ci stiamo perdendo per strada molte parole italiane utili a nominare concetti, oggetti e azioni della quotidianità (perché mai, raccontando e promuovendo i prodotti del territorio, scriviamo sempre più spesso food e wine invece di cibo e vino? (...) la pervasività dell’itanglese e la modesta conoscenza della lingua inglese sembrerebbero contrastanti, ma in realtà non lo sono. “A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l’Americano di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti", scrive Tullio De Mauro. E aggiunge che “correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi». QUI per leggere, e ne vale la gioia, integralmente, questa prefazion… già, che sbadato, dimenticavo di dire che le parole di prima le ho estratte da una prefazione della Divina Testa al libro pubblicato da Hoepli: Diciamolo in italiano Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla. Il volume si avvale di un suo blog in Rete. L’autore è Antonio Zoppetti. Laureato in filosofia, agitatore multimediale è autore di innumerevoli progetti digitali e di libri di saggistica e manualistica. Con lo pseudonimo di Zop è stato il primo a utilizzare un blog per il social writing e il social movie… ops! scusate gli anglicismi… premiato nel 2003 al concorso Scrittura Mutante presso la fiera del libro di Torino. Nel 2004 ha vinto il premio Alberto Manzi per la comunicazione educativa. Nel 1993 ha curato la conversione digitale del Devoto-Oli, il primo dizionario elettronico italiano. Suoi libri pubblicati da Hoepli: L'italiano for Dummies (2014) e SOS congiuntivo for Dummies(2016). Fin qui una presentazione che ho composto con brani estratti dalla Rete, ma Zoppetti è molto di più. Ne è testimone, ad esempio, PerQueneau? o un editore da lui bersagliato oppure i suoi gialli in 160 caratteri, oppure ancora un web-film, "Delitto e Casting", girato interamente a distanza, attraverso internet, utilizzando webcam, interpretato dai blogger e da tanti cattivi soggetti del popolo della Rete… non vi basta? E allora ecco come Zop alias Zoppetti, o viceversa, ha immaginato la nascita di una delle più famose poesie del Novecento. Torniamo ora a “Diciamolo in italiano”. Entriamo col Cosmotaxi in una delle pagine più divertenti di quel libro. Via al tassametro, da me competentemente truccato, e passate alla prossima nota. Non ve ne pentirete.
Diciamolo in italiano (2)
Questo è l’incipit del libro “Diciamolo in italiano" di Antonio Zoppetti (in foto). . Quel ramo del lago di Como sud coast oriented, tra due catene non-stop di monti tutte curvy, a seconda dell’up-down di quelli, divien quasi a un tratto small-size e a prender un look da fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera overside; e il ponte, che ivi linka le due rive, par che renda ancor più friendly all’occhio questo effetto double face, e segni lo stop del lago e il restart dell’Adda, fino al remake del lago dove le rive, sempre più extralarge, lascian lo spread dell’acqua rallentarsi in un relax di nuovi golfi curvy. Dopo aver sporcato i panni nel Tamigi, ecco il famoso incipit de “L’Innominato Wedding Planner for Renzo & Lucia”, by Alex A. Manzoni, nella traduzione in itanglese che sto scrivendo per meglio rendere comprensibile alle nuove generazioni un testo ormai datato nel suo linguaggio ottocentesco, visto che il globalenglish avanza e si espande in tutto il mondo. Lo so, non è bello cominciare con parolacce del genere un libro che si prefigge di dimostrare che il numero degli anglicismi è insopportabile, e bisognerebbe evitare questo linguaggio che sta compromettendo seriamente il nostro lessico. Prometto di non farlo più. Ma è diventato difficile fare a meno dell’inglese, e soprattutto in certi ambiti è un esercizio di stile che mette a dura prova, come quegli scritti senza la lettera “e”, i lipogrammi di Georges Perec o di Umberto Eco. Persino uno dei linguisti più importanti e popolari, Tullio De Mauro, nel 2010 ammetteva di non saper “come sostituire, ormai, parole come monitor”, ma non se preoccupava granché. Forse un anglolatinismo come video, che per lo meno ha un suono italiano e passa inosservato, è troppo ambiguo. O forse termini come schermo o visore sono ormai antiquati… Antonio Zoppetti Diciamolo in italiano Prefazione di Annamaria Testa Pagine 200, Euro 17.90 Hoepli
Fueco e Cirasi
I “corti” al cinema vivono da alcuni anni una grande attenzione di spettatori e critici (decisamente meno, purtroppo, da parte delle tv e della distribuzione nelle sale) sono, infatti, non a caso tanti i festival dedicati ai corti cinematografici. È un genere che ha una sua autonomia espressiva segnata non soltanto dal minutaggio, ma da un modo di fare cinema, dove provare nuove tecniche e forme. Sul minutaggio, però, si apre una discussione critica di non poco conto. Che riguarda l'incisività narrativa, un profilo di stile capace di esprimersi in un tempo breve e, meglio ancora, brevissimo. Perché se è vero – ed è vero – che secondo la normativa italiana la dizione cortometraggio è applicata fino a 75 minuti, è pur vero che la dizione “corti” negli ultimi tempi è, per convenzione, intesa come corta durata tanto che il primo festival dei "corti", nato negli Stati Uniti, si chiama «59"» indicando con quel titolo che vi partecipano solo produzioni di non più di 1 minuto esclusi i titoli. Anche in Italia abbiamo avuto un festival – Videominuto – sulla stessa formula americana, ma, mi pare, da qualche tempo inattivo. E poi, sia detto sottovoce, i corti hanno un gran merito: quando sono belli si godono intensamente, quando brutti si soffrono brevemente. Gradirei, però, che le produzioni che stanno sulla mezz’ora o suppergiù si chiamassero “mediometraggi” dizione caduta in disuso, ma che nella storia del cinema ha momenti di prima grandezza, da “Le sette probabilità” di Buster Keaton a “La scampagnata” di Jean Renoir, da “Simon del deserto” di Luis Buñuel a "La ricotta" di Pasolini, tanto per fare i primi esempi che mi vengono sulla tastiera.
Sia come sia, a Prato è annunciata la doppia proiezione in anteprima del cortometraggio Fuecu e Cirasi, diretto da Romeo Conte, regista che conta plurali e valorose esperienze su più media, come si può notare sul suo sito web. “Questo corto” – dichiara Conte – “adatta al cinema una storia vera di quarant'anni fa e percorre i luoghi e la terra della mia infanzia. “Fuecu” (fuoco) è lo stato d’animo tipico adolescenziale, la cui fiamma rimane sempre accesa anche quando diventiamo adulti. La metafora delle “Cirasi” (ciliegie) ricorda il frutto che matura in un preciso periodo dell’anno e che, gustandolo, ci fa assaporare quel successo che spesso tarda ad arrivare. Ho girato pensando a un western: una storia all’italiana, ma universale allo stesso tempo, dove tutti gli elementi si completano tra di loro. Colgo l’occasione per ringraziare Podere 29, Forno Steno e Il Decanter ristorante per la collaborazione”. Protagonisti di “Fuecu e Cirasi” sono Nicola Nocella - recente vincitore del Premio Boccalino d'Oro come Miglior Attore al Festival di Locarno -, Giorgio Colangeli, Valentina Corti. Ufficio Stampa: Carlo Dutto, cell. 348 0646089; mail: carlodutto@hotmail.it Fueco e Cirase Prato, lunedì 23 ottobre dalle ore 19:00 Cinema Eden Via Cairoli, 22/24 – Prato Info: 0574 – 19 40 224
giovedì, 19 ottobre 2017
Sequenza sismica
È come se il giorno ci tradisse È come se l’acqua mentisse e due più due facessero cento e nostra madre ci odiasse e la nostra mano si alzasse contro di noi. Dio ci ha dato tante cose: mele, giorni, addii, legni e la speranza, l’altra faccia della paura. Adesso ci tocca il più segreto e il più prezioso dei doni: la fine, il nuovo inizio. Questi versi, nella traduzione di Livio Bacchi Wilcock, sono di Jorge Luis Borges che li inviò nel 1978 al direttore del “Messaggero Veneto” in occasione del terremoto in Friuli. È una lirica che aldilà del territorio che l’ha occasionata riflette poeticamente sulla tragedia della terra quando fremendo uccide, tremando massacra. L’ultimo verso, però, mal si adatta forse all’Italia perché, troppo spesso, è accaduto che “il nuovo inizio” ci sia stato a beneficio della mala politica e della mala impresa tanto da far ridere al telefono un costruttore, la notte stessa del terremoto che aveva appena devastato l’Aquila, gongolando al pensiero degli affari che si sarebbero potuti fare in Abruzzo con la ricostruzione. C’è poi un altro motivo che non rende l’Italia vittima di un’imparabile fatalità. I terremoti da noi, infatti, hanno squassato territori su cui l’abusivismo aveva costruito con mano ladra, e protetta. Come si è costatato anche di recente a Ischia. Perché tanto parlare di terremoti? Perché dal 21 ottobre 2017 al 4 febbraio 2018 negli spazi dell’ex Manifattura Tabacchi (in sigla MaTa) di Modena, per la prima volta prestati a Fondazione Fotografia Modena - dal giugno scorso diretta da Diana Baldon – una mostra intitolata Sequenza Sismica, a cura di Filippo Maggia, con la collaborazione di Teresa Serra. Questa mostra comprende le opere di sette fotografi internazionali reduci da un periodo di lavoro in Emilia e nelle regioni del Centro Italia, alla ricerca di una via personale attraverso la quale raccontare il terremoto che ha colpito il nostro paese tra il 2012 e il 2016: una serie di eventi distinti, che, attraverso le loro immagini, si trovano così ad essere accomunati in una dimensione unica e corale, pur nella varietà delle prospettive adottate da ciascun artista. I pungenti bianchi e neri di Olivier Richon e i paesaggi silenziosi di Hallgerður Hallgrímsdóttir, le inquadrature crude di Naoki Ishikawa, il caos ragionato dei collage di Tomoko Kikuchi, i luoghi sordi e laconici di Eleonora Quadri, le insinuanti fotografie di Valentina Sommariva e gli attenti giochi di forme che dominano le composizioni di Alicja Dobrucka (In foto un suo lavoro: Piedilama, 2007) e le oltre 70 fotografie di “Sequenza Sismica” ritraggono luoghi e situazioni specifiche, ma sono lo specchio di una condizione di precarietà e fragilità in cui tutta l’umanità può riconoscersi. A completare il progetto, un video documentario prodotto da Fondazione Fotografia Modena, ideato e realizzato da Daniele Ferrero e Roberto Rabitti, è stato girato negli stessi luoghi visitati dai fotografi in più momenti: il video ruota attorno al tema cardine del tempo, della sua percezione straniata e distorta durante eventi traumatici. Grazie alla consulenza di alcuni professori dell'Università di Pisa è stato inoltre possibile per i due autori approfondire le dinamiche che caratterizzano la psicologia del trauma, indagando in particolar modo gli effetti psichici e fisici tipicamente riscontrabili a seguito di terremoti. Parte integrante della mostra è, infine, un’importante selezione di fotografie storiche dei primi terremoti fotografati in Italia, a cura di Chiara Dall’Olio. Se, infatti, il nostro paese è sempre stato scosso da terremoti, meno noto è il rapporto che lega la fotografia del XIX e XX secolo alla rappresentazione e allo studio di tali eventi drammatici. Per raccontare questa relazione sono stati scelti quattro momenti particolarmente significativi: il terremoto del 16 dicembre 1857 in Val d’Agri (oggi territorio compreso fra le provincie di Potenza e Salerno), rappresentato nelle fotografie di Alphonse Bernoud; il terremoto di Norcia del 22 agosto 1859, nelle fotografie di Robert MacPherson; il terremoto di Casamicciola (isola di Ischia) del 28 luglio 1883, nelle immagini di un anonimo reporter, e il terremoto di Messina del 1908, fotografato da Luca Comerio. Sequenza Sismica è promossa da Fondazione Fotografia Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e Comune di Modena, con il patrocinio di ANPAS – Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze e della Regione Emilia-Romagna. La missione nei luoghi del terremoto e la mostra Sequenza Sismica si avvalgono di una media partnership con Il Giornale della Protezione Civile. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Skira. Ufficio Stampa e Comunicazione Cecilia Lazzeretti tel. 059 – 22 44 18 press@fondazionefotografia.org “Sequenza Sismica” a cura di Filippo Maggia con la collaborazione di Teresa Serra MaTa - Modena, Via Manifattura Tabacchi 83 21 ottobre 2017 – 4 febbraio 2018 Ingresso libero
Chiedi chi era Francesco
Sono trascorsi qurant’anni dall’omicidio di Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, ucciso l’unici marzo 1977 da un carabiniere poi prosciolto. QUI una cronaca in diretta di Radio Alice fatta proprio nelle ore della morte di Lorusso. Il ricordo atroce di quell’episodio è riproposto da Teatri di Vita nello spettacolo – con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – diretto da Andrea Adriatico Chiedi chi era Francesco. La drammaturgia è di Grazia Verasani. I principali interpreti: con Olga Durano, Francesca Mazza, Gianluca Enria, Leonardo Bianconi.
Un vasto reportage sullo spettacolo lo trovate su Doppiozero. Dopo un felicissimo debutto bolognese, un’occasione per vederlo a Roma è dato dall’ultima replica stasera al Teatro Vascello. Per conoscere nuove date di altre piazze: (+39) 051 566 330 Chiedi chi era Francesco drammaturgia di Grazia Verasani regìa di Andrea Adriatico una produzione Teatri di Vita
mercoledì, 18 ottobre 2017
Classiche storie di gatti
Ha scritto l’etologo Roberto Marchesini: L’essere umano fa fatica a comprendere la socialità sia del gatto sia del cane, per cui impropriamente dà dell’opportunista al primo e dell’ossequioso al secondo. Il problema è sempre lo stesso: non siamo la misura del mondo e, invece, crediamo di esserlo. Tra gli animali domestici, adoro il gatto e naturalmente ne possiedo uno, o meglio lui possiede me, il suo nome è Spock, lo stesso del Vulcaniano di Star Trek. Questo mio amore per i gatti mi ha fatto particolarmente apprezzare un’antologia di scritti estremamente ben selezionati, un viaggio nel cuore felino, pubblicato dalla casa editrice Lindau. È intitolata Classiche storie di gatti Dai più grandi scrittori di ogni epoca. I racconti riuniti in questo volume – usciti dalla penna di Émile Zola, Mark Twain, Ambrose Bierce, Guy de Maupassant, Charles Morley, William Alden, Mary Freeman, Pierre Loti, Saki, Howard P. Lovecraft, fino ai nostri Alfredo Cattabiani e Silvana De Mari – offrono al lettore un ricchissimo caleidoscopio di stili e ambienti, di epoche e generi, di emozioni e sentimenti, tali da soddisfare il gusto e la curiosità di qualunque lettore appassionato di gatti.
I gatti sono oltre quattromila anni che vivono con noi, nelle nostre case (oggi in Italia sono sette milioni e mezzo), eppure li conosciamo poco. Roger Caras, uno dei più grandi esperti in America dei gatti ha osservato che il gatto è entrato nella coscienza umana “senza rivelare nessun segreto dei propri sentimenti”. Dalla presentazione editoriale. «Fascinosi ed enigmatici, i gatti non deludono mai. La fama popolare della loro immortalità (le loro famose nove vite) è il segno di straordinarie qualità che anche i grandi scrittori hanno riconosciuto e narrato. Gatti generosi e pronti a offrire subito il proprio affetto, oppure perfidi e capaci di architettare trappole terribili, o ancora povere vittime dell’egoismo umano, e poi pasticcioni, filosofi, spioni, rubacuori, innamorati, selvatici… la lista dei gatti celebrati dalla letteratura di ogni tempo è senza fine». E, per chiudere, ecco versi di Neruda in Ode al gatto. Se chiuso, aprite l’audio del computer perché i versi sono recitati. AA. VV. Classiche storie di gatti Pagine 256, euro 18.00 Lindau
martedì, 17 ottobre 2017
Dipende!
Galilei diceva: “La Natura è un libro scritto in caratteri matematici”. Eppure matematica e fisica sono viste da tanti come un mondo arcigno e inospitale dal quale ricevere torture mentali. La casa editrice Salani rende un buon servizio a dissipare quelle angosce mandando in libreria Dipende! Einstein e la teoria della relatività. Ne sono autrici Anna Parisi e Lara Albanese ambedue fisiche, e specialiste nella divulgazione Scientifica. Il libro si avvale della supervisione del fisico Giorgio Parisi. Il volume, pur diretto ai ragazzi, in verità è utile anche a molti di noi adulti perché spiega in modo facile roba complessa. Accanto alle scoperte di Einstein e le ricadute pratiche che hanno nella nostra vita non manca una biografia dello scienziato. Libro, insomma che si fa apprezzare per la semplicità d’esposizione. Un esempio valga per tutti, eccellente il modo in cui riesce a far capire il concetto di spazio curvo usando un cerchio da hula-hoop, un drappo e delle palline di diverso peso fra loro. Ad Anna Parisi Cosmotaxi ha rivolto alcune domande. Tutto il nostro mondo concettuale e sensoriale è governato da fisica e matematica, ma la gran parte di noi - non solo i giovani studenti - arretra di fronte ad esse, le temiamo, ci sgomentano. Da dove proviene quel panico? La fisica è lo studio della natura. Da qualche secolo ci siamo accorti che le leggi che governano il funzionamento della natura possono essere descritte in linguaggio matematico e questo linguaggio non è semplice da apprendere. Per capire e utilizzare la matematica bisogna rispettare le regole che la governano e comunque è sempre difficile capire qualche cosa espressa in un linguaggio che conosciamo poco, vale anche per lingue straniere. Possiamo aggiungere che spesso la natura si comporta in modo diverso da come istintivamente ci aspetteremmo. Ad esempio il Sole sorge e tramonta e non è immediato capire come questo dipenda dalla rotazione della Terra su sé stessa e non dalla rivoluzione del Sole intorno alla Terra. Inoltre, a mio avviso, insegniamo la scienza ai ragazzi come una serie di ineluttabili leggi naturali da imparare e non li abituiamo, invece, ad osservare i fenomeni e a cercarne la spiegazione. Nello scrivere “Dipende!” qual è la prima cosa che avete giudicato assolutamente da evitare e quale assolutamente da fare… Scrivendo “Dipende” ho proprio cercato di spingere il lettore a farsi domande, a ragionare sui fenomeni, a non dare nulla per scontato. La teoria della relatività di Einstein è più logica e intuitiva della fisica di Newton che in realtà contiene concetti irragionevoli, come la possibilità di velocità infinite o di interazioni tra corpi distanti e non comunicanti. La relatività sembra paradossale solo in apparenza, ma è meno paradossale della fisica Newtoniana, risolve problemi concettuali importanti che Newton non era riuscito a risolvere, e ne era cosciente. Quello che ho cercato assolutamente di evitare è compiere salti logici. Troppo spesso nei nostri ragionamenti saltiamo troppi passaggi: “la velocità della luce è costante, quindi lo spazio tempo è curvo”. La frase è vera, ma tra la prima e la seconda affermazione ci sono molti passaggi logici che è bene fare, uno per uno, senza saltarne nessuno, se vogliamo che il lettore possa seguire il ragionamento. Esistono ricadute che la teoria della relatività ha nella nostra vita di tutti i giorni? Le ricadute della teoria della relatività nella vita di tutti i giorni sono tantissime: senza relatività non funzionerebbero bene i nostri orologi satellitari, il GPS, diversi strumenti di diagnostica medica. Non potremmo fare osservazioni cosmologiche, non avremmo l'energia nucleare e altre centinaia di cose che adesso non mi vengono nemmeno in mente. Perché quando si parla di viaggi nel tempo ricorre il nome di Einstein? Le equazioni che descrivono il comportamento della natura secondo la teoria della relatività possono ammettere tempi negativi, inoltre la teoria della gravità generale prevede che grandi masse, quali possono essere i buchi neri, creino dei grandi avvallamenti nella struttura dello spazio tempo. Questi potrebbero diventare così grandi da generare veri e propri tunnel spazio temporali. Queste caratteristiche delle equazioni hanno portato alcuni studiosi a costruire teorie che permetterebbero i viaggi nel tempo, così come sono sicuramente permessi i viaggi nello spazio. Ritiene vero oppure no che i cosiddetti “nativi digitali” saranno più pronti, rispetto ai ragazzi di tempo fa, ad apprendere il sapere scientifico? Per le persone del '600, magari anche con grande cultura, non è stato semplice accettare lo spostamento della Terra dal centro dell'universo. Oggi ci viene raccontato fin da piccoli che il Sole sorge perché la Terra gira. Questo risultato scientifico, che è stato difficilissimo da raggiungere, oggi fa parte della cultura di base. Anche la teoria della relatività, sviluppata più di 100 anni fa, sta iniziando a far parte del patrimonio culturale condiviso. Molti oggi sanno che la velocità della luce è una velocità limite o che è stato registrato il passaggio di onde gravitazionali. Quando il sapere scientifico diventa cultura diffusa, allora è più facile apprenderlo. I ragazzi di domani sapranno più cose di noi, ma dovranno anche studiare molto, ma molto di più di quanto abbiamo studiato noi per poter rimanere al passo con un mondo sempre più tecnologico. Anna Parisi – Lara Albanese Dipende! Supervisione di Giorgio Parisi Illustrazioni di Fabio Magnasciutti Pagine 188, Euro 13.90 Salani Editore
lunedì, 16 ottobre 2017
Il libro degli amici
Per vicissitudini occorsemi ho letto un gran bel libro di Neri Pozza in ritardo sulla sua uscita. Si tratta di Il libro degli amici scritto con delicata passione da Elio Pecora. L’autore è nato nel 1936, vive a Roma dal 1966. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di saggistica, testi teatrali, poesie per l’infanzia. Ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato a lungo per la critica letteraria a quotidiani e radiotelevisione.
Il volume ha una triplice valenza. Attraverso alcuni ritratti (non solo gli undici segnati nell’Indice, il libro contiene citazioni e bozzetti di decine e decine di figure note alle cronache culturali) sono tracciate tre scie storiche: la vita dell’autore con i suoi incontri, i suoi amori, il suo percorso artistico; un panorama della Roma tra la fine degli anni Sessanta e metà Ottanta del Novecento; i ritratti dei personaggi ai quali è stato più vicino per intensità affettiva e anni (senza risparmiarsi d’evidenziare differenze di comportamento fra lui e quegli amici) . Un lavoro letterario finissimo che trova nell’ultimo capitolo (non a caso lì figurano i funerali d’alcuni degli amici) struggenti riflessioni sul tempo che trascorre su di noi, sulla memoria, su di una città, Roma, che della modernità ha assunto solo le espressioni più feroci dell’estraneità. Alquanti dei nomi che fa Elio Pecora li ho conosciuti alla Rai, alla radio o in tv, nella mia attività di regista, e i loro ritratti li ho trovati di un’esatta profondità psicologica, oltre che, spesso, condotti con divertita indagine. Non sono un “Laudator temporis acti” giustamente criticato da Orazio nell’Ars Poetica, ammiro tante cose del presente e mi piace pensare al futuro, ma è inevitabile riflettere su quanto Pecora ci ricorda: la Capitale dai ’60 agli ’80 ha avuto uno splendore – gallerie d'arte, teatri, personaggi, dibattito culturale, interesse all’underground, coesione sociale – dal quale oggi siamo lontanissimi. Dalla presentazione editoriale «Il folto gruppo di prosatori e di poeti che abitano le pagine di questo libro – da Elsa Morante ad Amelia Rosselli, da Aldo Palazzeschi ad Alberto Moravia, da Paola Masino a Paolo Volponi, da Dario Bellezza a Rodolfo Wilcock, e tanti altri fra musicisti, pittori, attori, registi, galleristi – sono gli amici di cui l’autore, fra amabile e ironico, fra malinconico e divertito, racconta le giornate e gli incontri. Fanno parte di una società che include e accoglie i «chiamati» e gli «eletti», la cui singolarità consiste soprattutto nella certezza di un’appartenenza difficile, ma instancabilmente cercata. Fra loro hanno la meglio la confidenza e gli umori, la reciproca attenzione e la non infrequente spietatezza. E non s’aggirano sulle terrazze romane inventate dal cinema e suggerite dalle cronache, ma nel recinto della familiarità e degli affetti. Siamo negli anni in cui la città pullula di cinema d’essai e di teatri d’avanguardia, di librerie affollate e dove, nelle strade e nelle piazze del Centro, ancora è dato godere di vasti silenzi e di straordinarie apparizioni: De Chirico sulla porta del Caffè Greco, i Torlonia a cavallo che scendono da Villa Borghese, Fellini che traversa piazza di Spagna, Ingrid Bergman che scivola via sui lunghi piedi. Non è assente in queste pagine il dolore: la morte di Pasolini, più tardi il suicidio della Rosselli, e un’altra Roma annientata dal rumore, ammutita da un’incompresa estraneità. Non la nostalgia né l’elogio muovono la narrazione, piuttosto il bisogno di consegnare di quel tempo ormai remoto una ancora viva memoria». Elio Pecora Il libro degli amici Pagine 144, Euro15 Neri Pozza
Polizia cristiana
Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università “Federico II” di Napoli, Gianfranco Borrelli da tempo indaga i sistemi di pensiero e i dispositivi di governo nella modernità. La sua attività di studio riguarda anche le trasformazioni della democrazia contemporanea e i temi della governance politica. QUI la sua biografia; sterminato il numero delle sue pubblicazioni. Il più recente libro di cui è autore lo ha pubblicato la casa editrice Cronopio ed è intitolato Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana.
Dalla presentazione editoriale. «La storia dell'Italia moderna è attraversata da laceranti antagonismi, normalmente irrisolti e coperti. L'indagine genealogica fa risalire questa condizione a una matrice che prende forma dal Cinquecento; essa rinvia a tre generi di soggettivazioni che indirizzano la fuoriuscita degli Stati regionali dal tracollo della prassi civile rinascimentale: Machiavelli (ovvero la libertà repubblicana), ragion di Stato, ragioni della Chiesa. Praticare i conflitti costituisce il carattere comune ai diversi linguaggi e dispositivi politici volti ad affrontare la serie interminabile degli antagonismi. L'istanza repubblicana si fonda sulle vocazioni individuali per la libertà; favorisce periodicamente insorgenze e rivolte che quasi sempre vengono assorbite dagli interventi della prudenza politica e non lasciano tracce durature. Le tecniche prudenziali di ragion di Stato operano ancora nella contemporaneità; questa dinamica conservazione politica si è confrontata con quell'arte di polizia che negli stati moderni prelude alla composizione della società civile; la difficoltà dell'Italia a sostenere l'autonomia di una polizia civile, condizione di crescita di una popolazione produttiva e disciplinata, provocherà impedimenti e ritardi con sofferenze politiche e sociali che perdurano fino ad oggi. Dopo il concilio di Trento, le ragioni della Chiesa contribuiscono a rinforzare la ripresa e maturazione della soggettivazione pastorale: prenderà forma una polizia esteriore della Chiesa tesa a offrire rappresentazione civile alle devozioni spirituali dei credenti. Quando poi gli Stati della nostra penisola intraprenderanno percorsi di maggiore concentrazione di potere politico e di un più consistente impianto economico-produttivo verrà perseguita una strategia d'incontro; il governo civile ricorrerà al sostegno della soggettivazione pastorale pienamente ristrutturata: la ragion di Stato convergerà con le rappresentazioni della polizia esteriore della Chiesa. La polizia cristiana prende avvio da questo punto». Gianfranco Borrelli Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana Pagine 308, Euro 17.50 Cronopio
venerdì, 13 ottobre 2017
Schembri - Vonnegut jr. (1)
Uno dei più grandi autori americani, per complessità di temi e di stile, è Kurt Vonnegut (Indianapolis, 11 novembre 1922 – New York, 11 aprile 2007) fondendo opera e vita tra rabbia sociale e impegno civile. QUI il sito web a lui dedicato in Rete. QUI in italiano biografia e bibliografia. Da “Comica finale”, una frase che credo ben lo rappresenti: «Per favore, un po' meno d'amore e un po' più di dignità». Mi piace ricordare anche che fu Presidente dell’IHEU (International Humanist and Ethical Union), organizzazione a livello internazionale che abbraccia le proposte di atei, agnostici, razionalisti, sia come singoli sia come associazioni.
A dieci anni dalla scomparsa di Vonnegut, la casa editrice Odoya ha mandato nelle librerie un raffinato saggio, non soltanto, quindi, una biografia, che dobbiamo allo scrittore italiano, naturalizzato francese, Pascal Schembri. La Rete è ricca di sue notizie, ad esempio QUI; propongo inoltre una videointervista nella quale si può conoscere il suo percorso artistico e occasioni della sua scrittura. Dalla presentazione editoriale. L’omaggio di Pascal Schembri a Kurt Vonnegut Jr. non è solo il primo ampio e argomentato saggio italiano sull’autore di Mattatoio n. 5, ma anche un trattato sulla letteratura e sulla fantascienza, sull’impegno sociale e sull’insegnamento. Nel 1944 sono due le date salienti che influenzeranno in modo determinante la vita di Kurt Vonnegut Jr., conclusasi nel 2007 a ottantaquattro anni, nel pieno riconoscimento della sua carriera letteraria e accademica. La prima è il 14 maggio e riguarda il suicidio della madre. La seconda è il 19 dicembre e registra la resa sua e dei suoi commilitoni all’esercito nazista durante la Battaglia del Belgio. Di questo avvenimento, e delle sue conseguenze, le opere di Vonnegut saranno pervase un po’ tutte, con maggiore o minore esplicitazione. È l’episodio centrale della sua vita. La sua esistenza umana e artistica ruota tutta intorno a esso. Il particolare sguardo sulla vita che l’autore di Indianapolis riversa nei suoi romanzi e saggi si rivela un patrimonio umanistico imperdibile, cui Schembri restituisce memoria rispolverandone i temi ricorrenti, i leitmotiv, i principali personaggi creati e ricreati per riprodurre la meravigliosa insensatezza di un’esistenza che va comunque vissuta col massimo dell’ispirazione intellettuale. Segue ora un incontro con Pascal Schembri.
Schembri - Vonnegut jr. (2)
A Pascal Schembri (in foto) ho rivolto alcune domande. Da che cosa nasce il tuo interesse di scrittore per lo scrittore Vonnegut?
Una passione si accende spontanea, leggi un libro oggi che ti spinge a leggerne un altro domani e poi scopri che il mondo di quello scrittore apre finestre sul tuo mondo. La sua maestria comica, il disincanto sempre vagamente fraterno, la capacità di viaggiare come un esploratore in mezzo a mondi molto conosciuti come fossero nuovi e scoprirne le aporie (quella che nel nostro libro su Flaiano avevamo chiamato nel 2011 “Lo sguardo del Marziano” e che ora sta vivendo un buon successo televisivo grazie a PIF): qualità che non solo me l’hanno fatto amare, ma l’hanno reso un riferimento indispensabile nell’attraversamento di questo universo crudelmente sciocco. Perché quel sottotitolo “una biografia chimica”? Nel suo romanzo di celebrazione del 50° anno di età, La colazione dei campioni, Vonnegut esprime una visione meccanico-chimica del sistema stimolo-risposta umano a spiegazione delle molte reazioni insensate e peculiarità bizzarre dei terrestri, cioè noi. Affida alla concezione endocrinologica l’importanza che in effetti sembra avere, se fior di scienziati si sono specializzati nel curare problemi psichici con delle pastiglie. Nell’affrontare la sua vita letteraria, usare il suo metodo analitico mi è parsa la soluzione più congrua. Lui ha studiato chimica all’università prima della guerra. Quando è tornato si è spostato alla facoltà di antropologia: aveva evidentemente capito il collegamento e cercava solo di allargare la cornice per vedere meglio il quadro. Qual è la caratteristica che più distingue lo stile di Vonnegut? È teneramente smaliziato. Offre la sua furbizia in dote all’umanità per dirle che l’ha compresa e non c’è forse speranza, ma solidarietà sì, paziente, infinita. Il «Grande tiratore» è un bambino che spara dalla finestra col fucile di papà e per fatalità ammazza una donna incinta sconosciuta in un altro palazzo. Chi ha colpa di cosa? Tutto trova infine lo spazio della denuncia e pure quello dell’assoluzione. Il suo è lo sguardo dell’antropologo conscio delle trasformazioni chimiche che fanno fare cose assurde agli uomini. Vonnegut ha scritto: “Le trame di tutti i grandi romanzi non sono altro che scherzi sublimi a cui la gente abbocca senza scampo, ogni volta”. Si può affermare che Vonnegut crede nella scrittura ma è luddista verso la narrativa? Il suo non è sabotaggio, solo consapevolezza condivisa. Quando insegna che un romanzo dovrebbe svelare la sua trama nelle prime righe e che le tarme dovrebbero mangiarsi le ultime pagine (sorvoliamo sull’anagramma italiano tra trama e tarma) sta provocando gli scrittori che puntano tutto su meccanismi, ingranaggi e thriller games per intrattenere un pubblico che invece dovrebbe essere messo in grado di pensare. Sopra ho riassunto in una riga la trama del «Grande tiratore», eppure se qualcuno va a leggerlo scopre che nessuno spoiler può distruggere la grandezza di quel romanzo. Questo non è sabotaggio, è una lezione di scrittura creativa. Pascal Schembri Kurt Vonnegut jr. Pagine 223, Euro 16..00 Odoya
martedì, 10 ottobre 2017
L'attore nel cinema italiano contemporaneo (1)
La casa editrice Marsilio ha mandato nelle librerie una ben articolata e ragionata ricognizione su L’attore nel cinema italiano contemporaneo Storia, performance, immagine. Eccellenti curatori del volume sono Pedro Armocida e Andrea Minuz che risponderanno a domande che Cosmotaxi porrà loro. Dalla presentazione editoriale. «In che modo gli attori italiani di oggi definiscono le caratteristiche del nostro cinema? Quali modelli di recitazione propongono? Quali tipologie sociali o stili di vita rappresentano? Quanto orientano le scelte del pubblico? Che rapporto c’è tra l’idea di “nuovo cinema” e gli attori? Il volume analizza le performance di alcuni dei più significativi interpreti della scena contemporanea (Valeria Bruni Tedeschi, Margherita Buy, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Valerio Mastandrea, Giovanna Mezzogiorno, Isabella Ragonese, Toni Servillo, Filippo Timi) e la costruzione dell’immagine divistica o antidivistica (Kim Rossi Stuart, Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Luca Marinelli). Nell’ambito dei film studies italiani e della critica più sofisticata esiste ancora una forte sproporzione tra l’enorme mole di studi dedicati a registi, stili, generi, tendenze, e le ricerche che si concentrano sulla componente attoriale. Attraverso lo studio dell’attore e della sua immagine è possibile ridiscutere alcuni nodi decisivi della storia del cinema italiano: dalla definizione di uno star system domestico al rifiuto dei modelli divistici messo in atto dal neorealismo, dalla creazione di icone nazional-popolari (come gli attori della commedia all’italiana) alla cifra poetico-politica di antidivi come Anna Magnani e Gian Maria Volonté, fino ai significati contrastanti che assume l’attore nel cinema italiano contemporaneo». Il volume, oltre a saggi dei curatori, contiene scritti di Francesca Cantore – Gabriele Rigola - Marco Cucco - Luca Barra – Raffaele Meale – Giulia Fanara – Piera Detassis – Antonio Valerio Spera – Marco Pistoia – Federico Pedroni – Massimo Galmberti – Cristiana Paternò – Fabrizio Natalini – Paola Casella – Alberto Scandola – Marco Giusti – Damiano Garofalo – Luca Mastrantonio – Catherine O'Rawe – Valerio Coladonato – Boris Sollazzo – Giona A. Nazzaro – Maria Paola Pierini – Mario Sesti Bibliografia a cura di Francesca Cant. Segue ora un incontro con Pedro Armocida e Andrea Minuz.
L'attore nel cinema italiano contemporaneo (2)
A Pedro Armocida e Andrea Minuz ho rivolto alcune domande. Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di bordo su Cosmotaxi. “Una storia della recitazione in Italia ancora non è stata scritta”, affermate in apertura del vostro libro. Perché è così accaduto ? Nell’ambito dei film studies e della critica più sofisticata è sempre esistita una forte sproporzione tra l’enorme mole di studi dedicati a registi, stili, generi, tendenze, e l’analisi della componente attoriale. Fino a non molto tempo fa, occuparsi di attori nel cinema significa per lo più dedicarsi a scrivere una biografia dedicata ai fan. Probabilmente il motivo principale sta nella difficoltà di saper analizzare un’interpretazione, di spiegare che cosa faccia esattamente un attore per creare una performance. Il giudizio è spesso sintetizzato in un “mi convince” o “non mi convince”. Di fronte alla difficoltà di leggere la recitazione, e di valutarla attraverso parametri condivisi, la critica ha di fatto taciuto o si è limitata a “essere più o meno convinta” della performance di un attore, senza addentrarsi nella disamina del perché. Le cose oggi sono notevolmente cambiate, anche grazie alla definizione di campi di studio precisi che mettono al centro delle loro ricerche l’analisi della performance attoriale da un lato e la costruzione dell’immagine delle star dall’altro, una tradizione di studi – specie quest’ultima – ampiamente sviluppata nel mondo anglosassone che lentamente sta prendendo piedi anche da noi anche se, ad esempio, il fondamentale volume di James Naremore, Acting in the Cinema, uscito nel 1988, non è mai stato tradotto in Italia. Il volume è articolato in tre parti: storia, performance, immagine. Quale necessità espositiva vi ha suggerito questa struttura? Il tentativo è stato quello di raccontare e analizzare i significati contrastanti che assume l'attore nel cinema italiano contemporaneo a partire da un’inquadratura storica che mettesse in risalto problematiche quasi ataviche ma attualizzandole fino ad arrivare al ruolo del divismo televisivo e alla trasformazione di molti attori in registi, spesso, ma non sempre, anche di se stessi. Cercando di rispondere alle seguenti domande: in che modo gli attori italiani di oggi definiscono le caratteristiche del nostro cinema? Quali modelli di recitazione propongono? Quali tipologie sociali o stili di vita rappresentano? Come circola la loro immagine nello spazio pubblico e quanto orientano le scelte del pubblico? Quanto incide il valore economico di un attore nella produzione di un film italiano e come viene calcolato? Il volume cerca di dare una risposta senza ovviamente tralasciare l’analisi delle performance di alcuni dei più significativi interpreti della scena contemporanea (Valeria Bruni Tedeschi, Margherita Buy, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Valerio Mastandrea, Giovanna Mezzogiorno, Isabella Ragonese, Toni Servillo, Filippo Timi) o il racconto della costruzione dell’immagine divistica o antidivistica (Kim Rossi Stuart, Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Luca Marinelli). Attraverso lo studio dell'attore e della sua immagine è invece possibile ridiscutere alcuni nodi decisivi della storia del cinema italiano: dalla definizione di uno star system domestico al rifiuto dei modelli divistici messo in atto dal neorealismo, dalla creazione di icone nazional-popolari (come gli attori della commedia all’italiana) alla cifra poetico-politica di antidivi come Anna Magnani e Gian Maria Volonté. Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?” Voi come rispondereste a tali domande? Distinguendo gli attori secondo i mezzi espressivi attraverso cui sono chiamati a recitare e seguendo le parole di Gassman, tra gli interpreti più “ibridi” del nostro panorama, che affermava che in teatro è l’attore a prendere l’iniziativa, mentre nel cinema «deve sapere diventare un oggetto, un oggetto vivente. In cinema, non c’è dubbio, senza diventare del tutto atoni, bisogna però acquisire una certa passività. Bisogna lasciar fare alla macchina, ed è una tecnica difficile e misteriosa, nel senso che il lavoro cinematografico è ancora più segreto e misterioso di quello teatrale». Mi sembra, a volte, che gli attori più giovani dei nostri giorni accettino controvoglia il comico… anche se, a parole, naturalmente, affermino il contrario… Siete d’accordo? Se sì, oppure no, perché? In tutte le culture esiste una lunga tradizione di diffidenza o di disprezzo verso il “comico” considerato sempre inferiore al “drammatico”, tanto più al cosiddetto “impegno” (nonostante, solo per restare al cinema, attori e drammaturghi come Chaplin e Lubitsch abbiano ampiamente dimostrato il contrario). Su un piano più pratico, gli attori sanno bene che spesso sono i ruoli drammatici a permettergli di vincere premi, essere apprezzati dalla critica e considerati “artisti”. Ciò è valido credo dappertutto, ma in Italia si manifesta in un modo più evidente, a causa di una tradizione particolarmente sensibile all’idealismo e di una contrapposizione ancora forte tra cinema d’autore e commedia, nonostante un patrimonio di film che chiamiamo “commedia all’italiana” sia siano mosso proprio nella direzione opposta, cioè nella fusione del tragico nel comico e viceversa. Qual è il peso che l’attore italiano di oggi ha nel marketing? Poco. Le ragion sono molte, ma possiamo riassumerle nell’assenza (che a volte ha le forme di un rifiuto compiaciuto) di uno star system e negli scarsi investimenti in termini di product placement legati al cinema italiano. Funziona un po’ il marketing del territorio, legato alle attività delle film commission, così ad esempio Elio Germano che fa Leopardi diventa anche un testimonial delle Marche, ma per il resto, cioè per quel che riguarda la possibilità di “brandizzare” i film attraverso gli attori il giro di affari appare sensibilmente inferiore ad altri campi. Se togliamo alcuni casi “sui generis” come Monica Bellucci e Maria Grazia Cucinotta, in termini di marketing un cuoco televisivo è più decisivo di un attore del cinema italiano La recente legge sul cinema (Franceschini ministro) in Italia è criticata perché non favorirebbe l’ingresso sul mercato di nuovi volti per un perverso effetto di marketing. Pensate che possa esistere una soluzione a questo problema? Non so se il problema possa definirsi un perverso “effetto di marketing”, ma certo gli effetti del “reference system” vanno nella direzione di un restringimento delle possibilità di ricambio. Pochi attori per molti film, con un effetto non dissimile alla saturazione televisiva delle fiction Rai con Beppe Fiorello. CI sono molti soggetti coinvolti in questo campo: le accademie, le scuole di recitazione, lo Stato, i produttori, le agenzie di casting. L’impressione è che si tratti di compartimenti stagni che non dialogano affatto tra loro. Da noi è ancora forte l’idea che l’attore con la A maiuscola sia l’attore di teatro, e il resto (cinema, televisione, entertainment) siano mezzi di sostentamento cui ci si piega mal volentieri perché il teatro non basta. Questa cosa è incomprensibile in America o in Inghilterra. Non so quali possano essere le soluzioni, ma i primi problemi che vedo sono di ordine culturale, di mentalità, prima che legati a una legge. L’attore nel cinema italiano contemporaneo A cura di Pedro Armocida – Andrea Minuz Pagine 288, Euro 25.00 Marsilio
Silenzio
Questa prodigiosa parola dà il titolo a una nuova mostra di Ferruccio Ascari. Le curatrici: Daniela Cristadoro e Matilde Scaramellini.
Dal comunicato stampa. «“Silenzio” è il titolo della mostra di Ferruccio Ascari che, dal 13 ottobre al 1 dicembre 2017, sarà ospitata in contemporanea in tre luoghi di culto nel cuore di Milano, straordinari per sacralità e valore artistico: il chiostro piccolo della Basilica di San Simpliciano, la Rettoria di San Raffaele, la Cappella di San Bernardino alle Ossa. Per quest’occasione l’artista ha realizzato una serie di opere specificatamente concepite per questi tre luoghi di culto, studio e silenzio. Il visitatore è invitato a compiere il tragitto che collega le tre sedi, riscoprendo tre luoghi di intensa spiritualità oltre che di grande fascino e rilievo culturale: spazi carichi di storia e tuttavia capaci di stabilire una dialettica con la contemporaneità stimolante e ricca di senso. Nel lavoro di Ascari, il dialogo tra l’opera e lo spazio in cui è collocata ha sempre rivestito un’importanza fondamentale. Qui l’artista si misura per la prima volta con lo spazio sacro: intessendo una fitta trama di suggestioni, le sue opere invitano alla riflessione e all’ascolto, condizione necessaria perché le cose possano svelare la loro essenza e diventare oggetto di contemplazione. In San Simpliciano, al centro del chiostro piccolo attiguo alla Facoltà di Teologia, è collocata l’installazione Luogo Presunto: un insieme di esili sculture in filo di ferro. Architetture fragili, archetipi di edifici che da un momento all’altro potrebbero prendere il volo. Come il titolo indica, si tratta di un luogo immaginario di cui non è certa l’esistenza, che ha la stessa consistenza di una visione, di un sogno. In San Raffaele, in una teca posta nella cappella del Santo, si trova invece Silenzio, ricamo in oro su tela di lino che racchiude l’intento dell’intero progetto: l’invito a disporsi all’ascolto e al dialogo interiore. Sospeso al di sopra dei gradini che portano all’altare, Amen è un trittico con esplicito riferimento alle iconostasi orientali. Come molte opere di pittura di Ascari, è realizzato con la tecnica dell’affresco strappato e riportato su tela; qui l’artista coniuga l’affresco col fondo oro, chiaro rimando alla grande tradizione della pittura italiana duecentesca, ma anche all’icona bizantina e al suo significato teologico oltre che artistico. Sull’altare, al centro del ciborio, sopra il tabernacolo, è collocata una terza opera: Logos, un uovo aureo, simbolo di vita e di rinascita in tante culture antiche come anche nella tradizione cristiana. In San Bernardino alle Ossa il tragitto di questa mostra trova compimento e rivela il suo senso complessivo. Interamente rivestito di teschi e ossa, questo luogo invita a riflettere sulla transitorietà di ogni cosa, divenendo esso stesso contenuto e centro dell’operazione artistica. Le tre opere presenti nella Cappella, Ex-voto 1, 2 e 3, rimandano agli ex-voto disposti nel corridoio antistante; mentre in un ambiente a lato dell’ossario, il video Rumore, girato dall’artista in occasione di questa mostra, verte sulla dialettica tra silenzio interiore e frastuono del mondo». Ufficio stampa: That's Contemporary Giulia Restifo, press@thatscontemporary.com Cliccare QUI per il booklet della mostra.
venerdì, 6 ottobre 2017
Un'imprevedibile situazione
Questa che segue è una conversazione con Donatella Alfonso che doveva figurare nella Sez. Enterprise. Varie calamità che riguardano la redazione di Nybramedia, ci costringono, per non rimandare troppo in là quest’incontro, a immetterlo provvisoriamente nella Sez. Cosmotaxi che dal 9 settembre, dopo la pausa estiva, funziona con regolarità quotidiana.
Prossimamente, questo stesso servizio sarà replicato nella Sez. Enterprise di Nybramedia e avrà, come sempre lì avviene, prima di passare in archivio, un'esposizione della durata di 2 mesi. ………………………………………………………………………………………………………. L’ospite accanto a me in questo viaggio a bordo di Cosmotaxi è Donatella Alfonso. Giornalista e scrittrice. Lavora e vive a Genova. Scrive per il quotidiano La Repubblica: di diritti, società, cultura, politica e donne. Tra le sue pubblicazioni: Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra Golpe e Resistenza tradita; Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli. QUI il suo sito web. Il più recente lavoro, pubblicato quest’anno dalle edizioni Il Nuovo Melangolo, è intitolato Un’imprevedibile situazione. Arte, vino e ribellione. Nasce il Siuazionismo. Libro eccellente che dà lo spunto a un incontro, in questo taxi nello Spazio, con la sua autrice. QUI il sito web di Donatella. “Un’imprevedibile situazione” si avvale di una composizione che ricorda il documentario audiovisivo: una voce narrante (quella dell’Alfonso) lega vari interventi. Da interviste realizzate per questo volume a brani di altri autori, da lettere a dichiarazioni. Il tutto in un ritmo avvincente con i protagonisti che si affacciano sulle pagine narrando quanto hanno vissuto oppure testimoni che raccontano quanto hanno osservato. Disponiamo di libri sul situazionismo, anche di valore, ma questo ha una virtù speciale: far capire anche ai famosi “non addetti ai lavori” (espressione da me poco amata perché mi fa pensare a gente ostinatamente sfaticata) non solo la storia di un pensiero, ma l’essenza stessa di quella filosofia che ha investito aree che vanno dalla politica all’estetica. Inoltre, è offertauna serie di aneddoti e inedite cronache che illuminano il profilo di un’avventura intellettuale e il carattere dei personaggi che l’animarono. Benvenuta a bordo, Donatella... Grazie di questo passaggio inaspettato! Lo Spazio spero porti buone idee...
La tua presenza ne è garanzia. La stellare Irina Freguja che da patronne illumina lo storico Vecio Fritolin veneziano aperto nel 1700 (non da lei) ci ha consigliato di sorseggiare – in omaggio alla Sardegna, terra da te amata – durante la nostra conversazione una bottiglia di“Branu” Vermentino Docg proveniente dalle Vigne Surrau… cin cin! Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello Spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Donatella secondo Donatella.
Una persona che ha sempre amato scrivere, che ha lavorato – e in parte ancora lavora – come giornalista e che si è accorta ad un certo punto che c’erano molte storie da indagare, riscoprire, raccontare, che non potevano accontentarsi di un articolo. In più, è una donna che ama guardarsi intorno, in questo mondo e in quelli contigui
Che cosa ti ha spinto ad occuparti del Situazionismo? L’occasione geografica? Lo spirito di quel pensiero?
Sinceramente, una persona cara che mi ha insegnato a conoscere il Ponente ligure mi ha raccontato che in uno sperduto paesino era nato il Situazionismo, ed era una realtà da raccontare. Da qui, anche considerando che quest’anno scattavano i 60 anni da quei giorni, ho pensato ne valesse la pena. Anche perché troppe volte si sente parlare di Situazionismo e Situazionisti ma senza saperne di più. E a me interessavano le persone che si sono trovate a Cosio d’Arroscia nel luglio 1957
Già, come avvenne che proprio in Liguria, a Cosio, nell’estate del ’57, si ritrovarono e gli altri fondatori del Situazionismo?
Fu un incontro non del tutto casuale: a Cosio era nato il pittore Piero Simondo e vi stava trascorrendo una vacanza con la moglie, appena sposata, Elena Verrone. Dopo qualche giorno a Albisola, allora importante centro artistico internazionale, il gruppo di amici e artisti fu invitato a Cosio, per continuare a discutere sulle teorie artistiche e culturali che già erano state avviate dai diversi partecipanti, dall’Internazionale Lettrista al Comitato Psicogeografico…rappresentato peraltro da una sola persona, l’inglese Ralph Rumney. Fondamentale perché fu lui a scattare tutte le foto di quei giorni
Quanto credi pesarono gli artisti e pensatori liguri nella nascita di quel pensiero?
Non ci sono artisti liguri, c’è un territorio di confine – Liguria/Piemonte, siamo alle prima falde delle Alpi Marittime che è un luogo di incroci. Come lo fu Alba, da cui venivano il pittore Pinot Gallizio e Walter Olmo, il giovane musicista; come Albisola, dove Simondo aveva incontrato il pittore danese AsgerJorn che vi si era stabilito
Come bene illustri nel tuo libro, i situazionisti finirono con l’espellersi l’un l’altro dal movimento. Perché così andarono le cose?
Perché, in realtà, solo Guy Debord, e con lui la moglie Michèle Bernstein, avevano chiaro che cosa fosse la nascita dell’Internazionale Situazionista. Un superamento dell’arte come intesa fino a quel momento, la nascita di un qualcosa di talmente nuovo che poteva essere anche una rivoluzione politica. Debord aveva già deciso che i giorni di Cosio servissero per far nascere il mito; e pochi giorni dopo aveva già deciso l’espulsione di Simondo, Verrone e Olmo perché ancora troppo legati all’arte e alla musica in quanto tali, benché rivoluzionate. Mi verrebbe da dire che Debord cercava un’astrazione, più che una rivoluzione...
Il Situazionismo animò il ’68 e ne troviamo più di una eco nel ’77 (anno in cui Debord fu espulso dall’Italia) specie da noi nella cosiddetta “ala creativa del movimento”. La sinistra istituzionale sia in Francia, sia in Italia col Pci, sia in altri paesi, avversò i situazionisti in maniera drastica. Che cosa in quel movimento era malvisto?
Nessun rivoluzionario mi risulta benvisto dal potere con cui si confronta: anche se si tratta di un’ideologia e non di una forma di governo. Sicuramente i partiti comunisti europei, chiusi alla comprensione dei movimenti di protesta del ’68 e oltre, non potevano essere disponibili nei confronti di un movimento come l’I.S. che dichiarava di voler superare ogni regola o consuetudine. La componente marxista – Bernstein, Jorn – era peraltro già uscita o era stata espulsa da Debord quando scattano le proteste del joli mai. E’ vero invece che il movimento del ’77 prende molto da alcuni elementi del Situazionismo, in particolare dal libro di Debord sulla “società dello spettacolo” che è del 1967. Ma a quel tempo il Situazionismo era già stato dichiarato estinto nel 1972 dallo stesso Debord: nell’I.S. erano rimasti in due… Diciamo che la rappresentazione del Situazionismo - perché tale ormai era – che portava una forte componente anarchica, nulla poteva avere a che fare con la politica dei partiti della sinistra europea, in particolare i comunisti.
Perché, nel 1972, il movimento si sciolse? Perché la sua potenza esplosiva era già stata espressa completamente e, soprattutto, la nascita di “pro-situ” come Debord chiamava i tanti che si dicevano situazionisti solo perché magari facevano contestazioni clamorose, andava a togliere autenticità alle sue idee
Dopo il gran lavoro che hai svolto avvicinando personaggi all’origine del Situazionismo, aver letto tanti documenti, visionato documentari e film, quale idea – aldilà del suo valore filosofico – ti sei fatta dell’uomo Guy Debord?
R - A me interessavano tutti i personaggi, e una parte fondamentale del lavoro di ricerca sono stati gli incontri che ho potuto avere con Piero Simondo, che il 25 agosto scorso ha compiuto 89 anni. Debord, secondo me geniale, era però un uomo prigioniero della sua astrazione intellettuale che, peraltro, ha raggiunto l’essenza del mito come voleva essere. Ma non penso che ci sarei andata a cena…
“La società dello spettacolo” di Debord – l’opera che contiene il pensiero situazionista – è pubblicata nel 1967 Debord, nel 1994, a 63 anni, si suicida con una pistolettata al cuore. Ci sono in terra ligure ancora luoghi in cui rinvenire tracce di quelle lontane presenze che tra accordi (pochi) e liti (tante) ebbero a capofila Debord?
A Cosio d’Arroscia, il 29 luglio scorso c’è stata una giornata situazionista nel corso della quale si è discusso, ma si è anche inaugurato un piccolo museo, la Casa Simondo, in cui accanto ad alcune opere del pittore, c’è anche un’esauriente informazione sulla nascita del Situazionismo. Ad Albisola la casa di AsgerJorn è diventata una Casa Museo splendida, di grandissimo interesse e che ospita eventi e mostre di richiamo
Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… come sai, Roddenberry ideò il suo progetto avvalendosi non solo di scienziati ma anche di scrittori, e non soltanto di fantascienza, tanto che ST risulta ricca di rimandi letterari sotterranei, e talvolta non troppo sotterranei…che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
Prima ancora di Star Trek, nell’immaginario di noi bambini degli anni ’60 c’erano i lanci spaziali. Ecco, il mio ricordo sono le capsule Apollo, le Vostok, poi gli Shuttle…se Star Trek è un viaggio lontano nel tempo e nello spazio, a me sono sempre piaciuti i viaggi difficili ma possibili
Siamo quasi arrivati a Donatella-A, pianeta abitato da alieni situazionisti… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Vermentino “Branu” consigliata da Irina Freguja patronne dello storico Vecio Fritolin veneziano… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh…
Grazie, per il Vermentino e per il passaggio spaziale…buon viaggio e magari arrivederci a Venezia!
…al Vecio Fritolin…ti ringrazio d’essere intervenuta e ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità! …………………………………………………………………….
E' possibile l'utilizzazione di queste conversazioni citando il nome dell'intervenuta e menzionando il sito dal quale sono tratte. Vi preghiamo di non richiedere alla redazione recapiti telefonici, mail o postali dei nostri ospiti; non possiamo trasmetterli, è vietato dalla legge sulla privacy.
giovedì, 5 ottobre 2017
Poiuyt
A Venezia, l’11 maggio alle ore 12, con un evento alla Galleria Michela Rizzo, Poiuyt (in foto il logo) ha lanciato il suo sito web e la prima di una serie di pubblicazioni legate alle attività di una piattaforma di ricerca sulle immagini che, attraverso la riflessione, il confronto collettivo e la partecipazione, si propone di diffondere un’attitudine critica verso questo linguaggio chiave del mondo contemporaneo. Poiuyt, supportato da MLZ Art Dep di Trieste, Galleria Michela Rizzo di Venezia e Metronom di Modena, è un progetto collettivo, a cui hanno dato vita le curatrici Francesca Lazzarini e Gaia Tedone, gli artisti Alessandro Sambini, Discipula, The Cool Couple. A loro Cosmotaxi ha rivolto alcune domande. Cominciamo dal nome. Da dove è tratto Poiuyt? Il nome deriva dalle ultime sei lettere, digitate al contrario, della prima fila della tastiera del computer. Quale la finalità che si propone Poiuyt e come intende realizzarla? L’accelerazione dello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha mutato radicalmente le modalità di produzione, distribuzione e fruizione delle immagini su scala globale, sollevando interrogativi sulla loro stessa natura e aprendo nuove prospettive di ricerca in campo artistico ed epistemologico. Poiuyt è una finestra di dialogo permanente per un progetto che sarà articolato in diverse iniziative - tra cui mostre, seminari, workshop, attività formative e progetti partecipativi - il suo sito web http://poiuyt.it , è pensato per raccogliere contributi di diversa natura - da saggi a conversazioni, da video interviste a podcast, da progetti artistici a ricerche di vario genere -, senza limitazioni se non nella pertinenza al tema. In linea con i principi della partecipazione e dell’apertura al confronto, grande attenzione sarà posta alla collaborazione con vari interlocutori e discipline, nel tentativo di ampliare e forzare le prospettive di indagine sull’immagine… Sintetizzando… Il poiuyt è un oggetto impossibile, una figura complessa e paradossale che cambia a seconda di dove si focalizza l’attenzione di chi l’osserva. Un’illusione ottica che impone ragionamento. Il poiuyt diventa così simbolo di un’attitudine critica, indispensabile ad affrontare in modo consapevole la gestione del potere delle immagini. Quale il prossimo impegno di Poyut? Poiuyt è da poco rientrata da Amsterdam, dove ha partecipato a CO-OP - la sezione di Unseen dedicata ai collettivi e curata da Lars Willumeit - con una Radio che ha trasmesso durante i quattro giorni di apertura della fiera. È appena partito il progetto Talking (about) Images, del quale Poiuyt è partner, e abbiamo in programma due mostre: alla galleria Michela Rizzo di Venezia e alla Metronom di Modena, che con MLZ Art Dep di Trieste, come hai ricordato in apertura, hanno supportato la nascita del progetto. Stiamo inoltre lavorando a nuove collaborazioni e a nuovi contenuti per il sito.
Convegno Cicap
Ricevo e volentieri rilancio dall’Ufficio Stampa del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) il comunicato che segue.
«Numeri da record, per il CICAP-FEST che si è aperto a Cesena venerdì 29 settembre e si è chiuso domenica 1 ottobre: tutto esaurito sia agli incontri organizzati al Teatro Bonci – con un migliaio di soci e simpatizzanti giunti da tutta Italia e anche dall’estero –, sia ai laboratori per ragazzi e adulti e alle conferenze gratuite organizzate al vicino Palazzo del Ridotto, senza dimenticare il successo, con i biglietti esauriti in poco tempo, degli spettacoli serali di venerdì e sabato con Silvan, Raul Cremona, la Banda Osiris con gli interventi di Telmo Pievani e Federico Taddia. Tema principale del CICAP-FEST è stato il valore dei fatti, affermato da una ottantina di ospiti, dal farmacologo Silvio Garattini al neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni specchio, passando per l’esperta di comunicazione Annamaria Testa, l’antropologo Giorgio Manzi, lo scrittore Marco Malvaldi e il creatore di Martin Mystère Alfredo Castelli. Impossibile ricordare in queste poche righe tutti gli interventi, cosa che faremo presto con un apposito resoconto su Query e sul sito del CICAP, oltre a riproporre immagini e filmati tratti dal CICAP-FEST sui principali canali web del CICAP. Si è comunque rappresentata una pluralità di punti di vista che ha contribuito a creare la speciale alchimia del CICAP-FEST: solo qui può capitare di vedere Piero Angela fermarsi per ore a firmare dediche e a fare selfie con i partecipanti, il grande James Randi creare magie a comando, Pif e il regista Fausto Brizzi aiutare Silvan a scegliere le “cavie” per i suoi numeri o scoprire che l’orologio che il grande illusionista fa “magicamente” sparire e riapparire appartenga al genetista di fama internazionale Guido Barbujani! Tra gli amici del CICAP che hanno voluto portare il loro saluto, il cantante Francesco Gabbani, che in un videomessaggio ha manifestato la sua vicinanza agli ideali dell’associazione “dedicando” ai soci la canzone Pachidermi e pappagalli nella quale il cantautore affronta con ironia leggende metropolitane e complottismi vari. Altra presenza virtuale, quella del comico Daniele Lancia con i suoi surreali, ma non troppo, “messaggi dal futuro”, per la precisione da un 2047 nel quale i sostenitori della Terra piatta sono al potere e gli antivaccinisti hanno sostituito i medici. Nei prossimi giorni seguiranno ulteriori approfondimenti e resoconti dal sito CICAP-FEST». “Un'iniziativa” – ha detto Massimo Polidoro co-fondatore e segretario nazionale del Cicap – «che è stata possibile grazie al sostegno prezioso del Comune di Cesena, del Teatro Bonci, di sponsor come Coop Alleanza 3.0, Romagna iniziative, Focus e Orango ma, anche, grazie alla generosa disponibilità dei tantissimi relatori e all'entusiasmo inesauribile delle straordinarie ragazze e ragazzi dello staff. A tutti quanti il ringraziamento del CICAP e mio personale". Cliccare su CICAP per il sito web Facebook: https://www.facebook.com/cicap.org Twitter: https://twitter.com/cicap e-mail: ufficiostampa@cicap.org Leggi Query, la rivista che indaga i misteri Sostieni il CICAP con il 5x1000 - C.F. 03414590285
mercoledì, 4 ottobre 2017
4 0ttobre 1970
In questa data il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin. Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni. Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di Buried Alive In The Blues . L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri. Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo. In seguitosi fece accompagnare dalla sua “Full Tilt Boogie Band”. «Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie». E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà». Cosmotaxi la ricorda oggi QUI con uno dei suoi maggiori successi.
martedì, 3 ottobre 2017
Più che danza
Di fronte a un teatro che ha visto molti gruppi di ricerca arretrare tornando al teatro di parola trovo motivi di gioia allorché incontro momenti scenici che siano in sintonia con la nostra epoca, che attingono dall’intercodice e dalle nuove tecnologie ragioni e rappresentazioni per una nuova espressività. Un’occasione maiuscola di contemporaneità teatrale è data da Più che danza Festival dedicato ai linguaggi performativi contemporanei giunto a Milano alla quarta edizione. Si avvale dell’ideazione e direzione artistica di Franca Ferrari in collaborazione con il Teatro Fontana e con C.I.M.D, Conformazioni, Il Filo di Paglia, Lelastiko, Le Voci dell’Anima. Media partner Persinsala. Il sostegno al Festival è dato dalla Fondazione Cariplo.
Non pochi credono che la danza sia ancora quella cosa in tutù, ignorando che accanto a quella scena di tradizione, da tempo – e con moto sempre più accelerato – la danza (dopo la pausa seguita alle esperienze delle avanguardie storiche) si è sviluppata scoprendo l’uso dell’hi-tech che ha dato nuove proposizioni espressive con la musica elettronica, la performance confinante con le arti visive, le sinestesie multimediali sia con danzatori sia influenzando forme di teatro con attori. Si pensi alla rivisitazione di grandi opere alla luce dell’hip hop: il Lago dei cigni di Ciaikovskij (nella versione “Swan Lake Reloaded”) rivissuto fra street dance e breaking dance del coreografo Frederick Rydman dove il perfido mago Rothbart, vestito di pelle nera, armato di iPad e smartphone, si muove con passi che ricordano il Michael Jackson del tenebroso video “Thriller”. O ancora – visto tempo fa a Reggio Emilia – Kader Attou, nome maiuscolo dell’hip hop d’oltralpe e il gruppo Accrorap (dal collaudato impegno politico), che in “The Roots” propone poesia attraverso cifre acrobatiche, vertigini acustiche e luministiche. Ecco il comunicato stampa del Festival "Più che danza".. «Il Teatro Fontana apre quest’anno la stagione con la quarta edizione del Festival Più che Danza. Una manifestazione che si presenta ricca di appuntamenti tra spettacoli teatrali e di danza, laboratori, incontri con il pubblico e proiezioni di video. Se nel 2016 il protagonista era il corpo, quest’anno al centro delle varie proposte è la multidisciplinarità. Danza, musica, parole, digitale, video, performance si alterneranno nel superamento delle barriere di genere, nella prospettiva di valicare confini e preconcetti per liberare artisti e pubblico da ogni ‘etichetta’. L’idea del Festival nasce nel 2014 dall’urgenza della condizione della danza contemporanea in Lombardia e negli anni si è esteso ad altri linguaggi performativi confermandosi sempre più come un festival sulle tendenze dello spettacolo dal vivo contemporaneo del territorio lombardo. Un progetto in crescita che, sempre più, guarda a collaborazioni interdisciplinari con altre realtà attente alla creatività contemporanea. Contemporaneità come presenza nell’oggi, ma sempre più proiettata al futuro. Non è la selezione la finalità del Festival ma il suo diventare occasione di sviluppo e di pensieri, esperienze e contaminazioni per le compagnie, gli artisti, il pubblico. 17 le compagnie ospiti della rassegna che ha visto un’anticipazione il 29 settembre nei Chiostri del Teatro Fontana con la performance di Rosita Mariani “Cartoline dal corpo”. Tra gli obiettivi del festival è anche quello di monitorare le realtà cinematografiche indipendenti e le produzioni low budget dei giovani cineasti e delle giovani produzioni, da sempre costrette alla marginalità, e tentare di riconnetterle con il sistema più consolidato della video danza. Per questo all’interno del festival trova ospitalità la rassegna di video danza “Espressioni”, con il contributo del Mibact- Direzione spettacolo dal vivo, nell’ambito del partenariato R.I.Si.Co (Reti Interattive per i Sistemi Coreografici). Nata nel 2006 grazie al settore Cinema del Comune di Milano, la rassegna, diventata negli anni un progetto unico nel panorama delle rassegne di video danza, nel 2017 vede la presenza del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano Bicocca che ha curato il tema di questa decima edizione: lo spaesamento». Cliccare QUI per il programma con schede spettacoli e foto. Ufficio Stampa: Raffaella Ilari mob. +39.333 – 43 01 603, raffaella.ilari@gmail.com Più che danza Teatro Fontana - Milano Info: +39.02 - 69 01 57 33 6 - 11 ottobre 2017
lunedì, 2 ottobre 2017
Doppio schermo / Double screen
È probabilmente la più ampia rassegna mai fatta in Italia su di un momento storico centrale della cultura dell’immagine in movimento: Doppio schermo / Double screen Artapes #3 - film e video d'artista dagli anni 60 a oggi. Si svolge a Roma, al MAXXI; progetto a cura di Giulia Ferracci, la rassegna si deve a uno dei migliori storici della sperimentazione audiovisiva: Bruno Di Marino. Su questo sito cliccando QUI troverete una conversazione con lui in occasione dell’uscita del suo libro “Hard Media. La pornografia nelle arti visive, nel cinema e nel web”.
La mostra, nella video gallery del MAXXI, con “Doppio schermo” / Double screen” giunto al terzo appuntamento, continua il progetto artapes, inaugurato il 19 settembre, programma di proiezioni in collaborazione con “In Between Art Film”. Che cosa è stata e cos’è ancora oggi la sperimentazione con le immagini in movimento portata avanti dagli artisti nel nostro paese a partire dagli anni ’60? Attraverso oltre cento opere realizzate da ottanta autori differenti, la rassegna risponde a questa domanda abbracciando quasi sei decenni di storia del cinema e video d’artista in Italia. Le immagini in movimento e le arti visive sono le due forme espressive che si incontrano nell’immaginario di un’artista, creando interferenze stimolanti. Il titolo della rassegna, “Doppio Schermo”, fa riferimento a questi due linguaggi ma si riferisce anche a un’altra duplicità, quella relativa al dialogo tra cinema e video: due termini che oggi, in un’ottica storica, sono utili a comprendere alcuni passaggi decisivi in termini sia estetici sia tecnologici in particolare con l’avvento del digitale. Dal catalogo. «Gli anni 70 segnano in Italia il passaggio dalla pellicola al videotape. Diversi artisti (G. Chiari, G. Paolini, V. Agnetti e L. Patella) cominciano a utilizzare il medium elettronico affiancandolo e in alcuni casi sostituendolo alla macchina da presa. Gli esperimenti sono prodotti dalla RAI (Carmi), da pionieristici atelier quali Art/Tapes/22 di Firenze o la Galleria del Cavallino di Venezia, come nel caso di Michele Sambin, presente con il film Blud’acqua e con il tape Il tempo consuma, basato su un dispositivo da lui ideato, il “videoloop”. In programma anche: Caro Trigon? di Gianfranco Baruchello, ritrovato di recente dopo 45 anni di oblio e News from Europe/Vegetables, una delle poche opere monocanale di Fabio Mauri non visibile dal 1994, anno della retrospettiva alla GNAM di Roma. Tra gli altri nomi presenti quelli di U. Nespolo e A. Granchi - esponenti, rispettivamente, dell’ambiente torinese e fiorentino -, di Paolo Gioli (una delle figure più rilevanti del cinema d’artista italiano), nonché di Superstudio e Ugo La Pietra, che testimoniano l’apporto degli architetti nel campo del cinema. Il lungometraggio presentato nel programma “extra” è Vacanze nel deserto: unica e significativa prova da regista di Valerio Adami, coadiuvato da suo fratello. GLI ANNI OTTANTA E NOVANTA In questo decennio si trasforma totalmente il rapporto tra gli artisti e le immagini in movimento: il cinema sperimentale entra in una fase di declino – anche se continuano le sperimentazioni in pellicola di autori come U. Nespolo, P. Gioli, V. Berardinone, e perfino di maestri dell’avanguardia come Luigi Veronesi – per lasciare il posto al video (T. Eshetu, Studio Azzurro, F. Plessi e altri), alla post-produzione con il computer che costituisce una sorta di “pittura elettronica” (F. Angeli, G. Turcato e A. Boetti). Non mancano le incursioni in campo televisivo, mediante sigle (P. Echaurren, G. Toccafondo) e countdown d’artista, realizzati per il primo canale satellitare della RAI. Da segnalare infine una serie di nuovi nomi che si affacciano sulla scena: da Bianco-Valente a D. Landi, da E. Marisaldi a P. Canevari, fino al collettivo catanese Cane Capovolto, concentrato su operazioni di stampo situazionista. Il programma “extra” consiste in un tributo allo scrittore, poeta, artista e videasta Gianni Toti – con l’opera poetronica SqueeZangeZàum» La rassegna è articolata in blocchi temporali, torneremo a parlarne in occasione dell’ultimo di quei blocchi che partirà il 31 ottobre per concludersi il 9 novembre. Per consultare programma e calendario: CLIC! MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma Doppio schermo / Double screen a cura di Bruno Di Marino 19 settembre - 9 novembre 2017
Adriatico
Segnalo oggi un libro, pubblicato dall’editore Mursia, intitolato Adriatico Storie di mare e di costa. Pur non recente, il volume propone temi e problemi che sono legati a quel mare e alle sue sponde, aiuta a capire l'origine di questioni storiche ancora attuali.
Ne è autore Giorgio Cingolani. Storico e saggista, è docente a contratto presso la Facoltà di economia dell’Università Politecnica delle Marche. Da molti anni si occupa di storia dei Balcani. Ha pubblicato: “La destra in armi” (1996”) e “Corpi di reato. Quattro storie degli anni di piombo”. Io ricordo un suo interessantissimo libro (scritto con Pino Adriano): “La via dei conventi. Ante Pavelic e il terrorismo ustascia dal fascismo alla guerra fredda”. Questo volume mi piacque molto e troverete QUI un’intervista su questo sito con Cingolani circa quei sanguinosi anni. Di “Adriatico”, eccone la presentazione editoriale. «L'Adriatico non è mai stato solo una distesa marina, uno spazio geografico o una frontiera. Per secoli è stato anche un sistema complesso di relazioni, di scambi economici e culturali. Nel corso del Novecento, questa secolare continuità è entrata in crisi e la koinè adriatica è stata schiacciata sotto l'indicibile peso della separazione e delle contrapposizioni politiche. Ma non tutto è perso. Le dieci storie raccolte in queste pagine raccontano di migrazioni e di incontri, di fughe e di commerci, di peregrinazioni e di patimenti e testimoniano il persistere di una profonda connessione tra le due sponde, un'affinità culturale che ha matrici e simboli comuni». Qui un video in cui l’autore parla del volume. Giorgio Cingolani Adriatico Pagine 250, Euro 16.00 Ugo Mursia Editore
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