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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Cooking show

Come ogni fine anno più forte risuonano gli squilli delle tante testate stampate, gr e tg ossequienti al governo con cifre che invitano all’ottimismo e al sorriso.
Ricordare che quest’anno dal primo gennaio al 28 dicembre ci sono stati 631 morti sui posti di lavoro (rilevazione Osservatorio Caduti sul Lavoro), roba che alcuni eserciti in guerra non hanno registrato la stessa cifra nello stesso periodo? No, mai.
Ricordare che la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni ha raggiunto livelli paurosi e soltanto Grecia e Spagna stanno peggio di noi? No, mai.
Ricordare che rispetto al 2016, quest’anno si rileva una sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui e come annuncia l’Istat "Nel 2016 si stima siano 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui". No, mai. Silenzio. È festa.
Invece proprio in questi giorni quelle cifre si fanno più crude e sarebbe utile ricordarle.
Ecco perché proprio oggi mi piace segnalare due iniziative dal contenuto sociale.

Massimo Bottura, di cui vanto l’amicizia, alla guida della tristellata Osteria Francescana di Modena, punta ad aprire a breve - come dichiarato alla stampa l’altro ieri - un “refettorio” destinato ai poveri nella cripta della chiesa della Madeleline, a Parigi.
Bottura nel 2016 è stato il migliore chef al mondo nella classifica “Fifty Best”.
Non è la sua prima iniziativa di questo tipo perché In occasione dell’Expo 2015 a Milano ha aperto il suo primo “refettorio”, una mensa nella quale i più grandi cuochi cucinano per i poveri utilizzando eccedenze alimentari. Massimo, infatti, fa parte del progetto seguito dall’ong Food for Soul per lottare contro lo spreco e l’esclusione sociale.

Il secondo avvenimento che segnalo è tutto da lodare in un momento in cui lo spreco di cibo ha cifre da vertigine.
Scrive Franco Brizzo su La Stampa: “Vale oltre 3,5 miliardi di euro ogni anno lo spreco alimentare, passando dai campi (946.229.325) alla produzione industriale (1.111.916.133) agli sprechi nella distribuzione (1.444.189.543): una cifra che rappresenta però solo 1/5 dello spreco totale di cibo in Italia, perché sommandola allo spreco alimentare domestico ci porta a oltre 15,5 miliardi di euro gettati ogni anno (lo 0,94% del PIL). E’ un dato che emerge sulla base dei test 'Diari di Famiglia' eseguiti dal Ministero dell’Ambiente con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’Università di Bologna e con SWG, nell’ambito del progetto Reduce 2017”.
Ed ecco un laboratorio originale per grandi e piccoli condotto dallo chef Fabio Toso (nella foto) su come riutilizzare gli avanzi delle feste
Sarà Toso, infatti, giovedì 4 gennaio 2018, alle ore 19.00 a dare il via al nuovo anno con un “cooking show” all’insegna dell’anti–spreco e del riciclo.
Insegnerà al pubblico come realizzare delle gustose proposte gastronomiche impiegando quello che è rimasto in dispensa dopo i banchetti delle feste. Cornice dello spettacolo sarà il Wegil, rinato grazie alla Regione Lazio con Artbonus e gestito da Lazio Crea.
Iniziativa importante questo Cooking Show, cui spero si darà anche un seguito, perché proprio dalla lotta allo spreco alimentare possono nascere (com’è accaduto a Milano sull’idea di Bottura durante la Fiera e come raccomandano gli esperti di lotta alla povertà) mense e distribuzioni di cibo per i più disagiati.

Il progetto Wegil è promosso dall’Ufficio Stampa HF4
Marta Volterra: + 39 340 969 0012 – marta.volterra@hf4.it


Anniversari


L’immagine che vedete qui accanto è opera di una donna che vuole mantenere l’anonimato firmandosi “Senza Qualità”.
È una sua interpretazione del famoso Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.
Gli interpreti di quella celebre scena ora non vogliono andare incontro ai tempi che viviamo correndo il rischio d’incontrare qualche bulletto toscano, qualche vecchio indagato, qualche belloccia bugiarda. La loro scelta è amara, ma comprensibile.

Chi conosce questo sito sa che qui si trovano note su arti visive, cinema, letteratura (con esclusione di romanzi e poesia), musica, radiotv, teatro. Oggi, invece, dedico le righe che seguono a due avvenimenti diversi dai temi soliti.
Uno appartiene ai nostri giorni, un altro ricorda una data di tanto tempo fa.

Tanti gli anniversari registrati in questo 2017, volendo io sceglierne due soltanto ho preferito quelli che seguono per le ragioni che sinteticamente espongo.
Il primo che leggerete riguarda un Osservatorio che clamorosamente manca nei partiti politici. Vergogna che va a colpire soprattutto quelli cosiddetti di Sinistra.
Il secondo è un anniversario che non è stato ricordato – se non da pochissimi fuori dalle file dei partiti sopra citati – e dimostra quanto quei partiti e i loro dirigenti si siano allontanati dalle origini, quanto la loro memoria è resa ottusa da beghe di correnti, intrighi bancari, interessi personali in organigrammi pubblici.

Osservatorio dei caduti sul lavoro
Il 31 dicembre 2017 l’Osservatorio Indipendente di Bologna compirà dieci anni.
Lo ha fondato Carlo Soricelli ex operaio metalmeccanico e pittore che fa un lavoro straordinario monitorando giorno dopo giorno tutti i morti sul lavoro che ci sono in Italia
L’Osservatorio è nato per non far dimenticare la tragedia della Thyssenkrupp di Torino che avvenne dieci anni fa, nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007.
Dice Soricelli: Ero appena andato in pensione e il mio unico desiderio era quello di potermi dedicare finalmente all’arte, che è sempre stata la passione della mia vita. Ma non riuscivo a restare indifferente a quello che era successo e decisi di occuparmi del monitoraggio delle morti sul lavoro. Con l’aiuto dei miei due figli creammo un sito e tabelle specifiche dove registrare tutti i decessi. Dopo un anno le prime sorprese: i morti che registravamo erano molti di più di quelli che venivano diffusi. Come mai? Dopo, anche con l’aiuto di bravi giornalisti come Santo della Volpe, che ricordo con affetto, scoprimmo che l’INAIL monitorava solo i propri assicurati e che tantissimi non lo erano, che le cifre diffuse, insomma, riguardavano solo le denunce che riceveva quell’Istituto, poi, dopo un iter burocratico, molte di quelle non venivano riconosciute come tali. Dunque, un terzo delle morti per infortunio sul lavoro non erano e non sono presenti in nessun monitoraggio: solo l’Osservatorio le registra tutte.
Nessuno avrebbe immaginato che ogni anno muoiono schiacciati dal trattore dai 120 ai 150 agricoltori: complessivamente sono morti in modo così atroce in questi dieci anni oltre 1000 guidatori di questo mezzo.
Nessuno immagina che ogni anno dal 20 al 25% di tutti i morti ha un’età superiore ai sessant’anni e che con la Legge Fornero si è registrato un ulteriore incremento del numero di lavoratori morti per infortunio in tarda età, com’era addirittura ovvio prevederlo, ma che pur avendolo denunciato innumerevoli volte a tutti i partiti rappresentati in parlamento, a nulla è servito. È sconsiderato mandare su di un tetto un anziano con acciacchi, fargli guidare un trattore. Si pensi che pochi mesi fa il Parlamento, ha rinviato per l’ennesima volta una legge europea che obbliga gli stati membri a far sottoporre a un esame per il patentino per guidare questo mezzo.
Per non parlare poi del pericolo che si corre su una strada con guidatori di TIR anziani, pericolosi per loro stessi e per gli altri, infatti, muoiono sulle strade a causa dell’eccessivo numero di ore sostenute talvolta con malcerta salute
.

Dal principio di quest’anno al 21 dicembre ’17 (la più recente rilevazione dell’Osservatorio) i morti solo sul luogo di lavoro in Italia sono 627; neppure alcuni eserciti in guerra ai nostri giorni hanno registrato, nello stesso periodo di tempo, una simile cifra di caduti.
In un paese civile, Soricelli riceverebbe sostegno politico e finanziario per continuare la sua opera di documentazione che pone in primo piano un problema che di gran lunga sopravanza altri cui tanti politici danno spazio in Parlamento e nelle tante presenze radiotelevisive di cui sono narcisisticamente ghiotti.
Il mio amico scrittore Francesco Muzzioli ha creato una splendida parola per definire il nostro paese: Pitalia.

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Sacco e Vanzetti.
Sono trascorsi novant’anni dal 1927, quando il 23 agosto furono assassinati sulla sedia elettrica Sacco e Vanzetti.

Ferdinando Nicola Sacco nato a Torremaggiore (Foggia, 22 aprile 1891), calzolaio, e Bartolomeo Vanzetti di Villafalletto (Cuneo, 11 giugno 1888) pescivendolo, furono giustiziati, dopo 7 anni di detenzione, il 23 agosto 1927 nel carcere di Charlestown, presso Dedham, nel Massachusetts.
Erano accusati di avere ucciso due persone nel corso di una rapina. A nulla valse la confessione del detenuto portoghese Celestino Madeiros, che scagionava i due, a nulla valsero le numerose, e imponenti, manifestazioni che si svolsero negli Stati Uniti e in tutta Europa, né le richieste di revisione del processo e poi di grazia avanzate da premi Nobel e moltissime personalità delle scienze e delle arti, né servirono i tentativi di salvarli fatti perfino da Mussolini come dimostrano documenti rintracciati da Philip Cannistraro.
Sacco e Vanzetti, in realtà, furono messi a morte perché anarchici.

Cinquant’anni dopo, il 23 agosto 1977, l'allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis assolveva i due italiani dal crimine falsamente loro attribuito proclamando: «Dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti».

A quel nero episodio sono stati dedicati testi storici, inchieste giornalistiche, documentari radiofonici e televisivi.
Tante anche le occasioni teatrali e cinematografiche.
Per citarne, fra le italiane, soltanto alcune, ricordo un maiuscolo spettacolo di Vincenzoni e Roli diretto nel 1960 da Giancarlo Sbragia, con Ivo Garrani (Sacco) e Gian Maria Volontè (Vanzetti).
Splendido, per la regìa di Giacomo Colli, lo sceneggiato televisivo “Sacco e Vanzetti” realizzato dalla Rai nel 1964 e, per effetto di censura, trasmesso solo 13 anni dopo nel 1977!
Da ricordare anche il film di Giuliano Montaldo che si avvaleva della famosa “Here's to you” – ascoltabile QUI – musica di Ennio Morricone, testo e voce di Joan Baez.


La vita comincia ogni giorno

Nella raffinata e originale ideazione grafica della collana I Pacchetti, L'Orma ha pubblicato La vita comincia ogni giorno Lettere di saggezza e commozione. Lettere tratte dall’enorme epistolario di Rainer Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926).
La traduzione è di Marco Federici Solari, studioso di letteratura comparata, editore e libraio. Ha tradotto, tra gli altri, Franz Kafka, Ciaran Carson, Jan Peter Bremer, Maxim Biller.
Dal suo denso saggio introduttivo: Il lettore di questa breve selezione di lettere, pressoché tutte inedite in italiano, incontrerà padri assassini e amanti angeliche, una storia naturale dell’anima e il racconto delle peripezie di Dio nella preistoria. E, tra lutti di cui gioire e felicità di cui sospettare, sentirà risuonare purissimma la voce di un poeta.

La condizione esistenziale dell’artista chiuso in una tormentata interiorità, tanto crudamente evidenziata nel romanzo autobiografico “I quaderni di Malte Laurids Brigge” (1910), è il segno che marca la vita e l’opera di Rilke
«Poeta è chi oltrepassa la vita» scriveva, pochi giorni prima di morire.
Lui la oltrepassò riaccendendone i tizzoni ogni giorno ben sapendo che il solo destino del fuoco è la cenere

Dalla presentazione editoriale.
«Armato della mitezza degli inflessibili, un grande poeta insegna a guardare il mondo come fosse il primo giorno della creazione, e ad affrontare le difficoltà come occasioni per scoprire se stessi. Le lettere di Rainer M. Rilke sono tesori di ambiziosa saggezza, straboccano di quotidiana audacia e contengono le altissime riflessioni maturate da un uomo che seppe richiedere alla vita la misura della perfezione».

Rainer Maria Rilke
La vita comincia ogni giorno
Traduzione e cura di Marco Federici Solari
Pagine 64, Euro 5.00
L’Orma Editore


Natale a Ostia

Ostia: una delle tante zone difficili d’Italia, è venuta di recente alla ribalta dei media per i numerosi episodi di criminalità. Stampa quotidiana e periodica, radio, tv tardivamente hanno raccontato le disavventure di quella porzione di Roma; Ostia, non tutti gli italiani lo sanno, è solo un quartiere della Capitale, popolato però da oltre 85.000 abitanti.
C’è da sperare che non sia mollata la presa e che dei guasti di Ostia si continui a parlarne, a illuminarne i lati oscuri.
Questa nota vuole essere, nella modesta forza di queste mie pagine web, un riconoscimento a quella parte che in quei luoghi inquieti svolge un’attività artistica e culturale che nel tempo può contribuire a guarire le malattie sociali che affliggono quella terra.
Non illudiamoci, la cultura è forza benefica ma ha tempi omeopatici, da sola non può farcela (come qualche colpevole ottimista sostiene), è necessario cioè che sia accompagnata da un’energica repressione della malavita locale e dei suoi protettori in quei palazzi con la P maiuscola.

Fra quelli che si battono per instaurare sul territorio rapporti civili e solidali, segnalo il Teatro Valdrada che, ad esempio, rende festoso questo periodo di stanco rito festivo con una kermesse, ad ingresso gratuito, della durata di dieci giorni punteggiati da un programma che vede performance, prosa, comicità, danza, musica, video mapping, teatro di figura con origami giapponese.
Sono annunciate anche “merende con delitto”, non so di che cosa si tratti, ma visti i luoghi, mi pare un temerario programma.
Il tutto si svolgerà al Teatro del Lido che si conferma polo aggregativo e socio culturale del territorio.

“Natale al TdL” è un’iniziativa promossa da Roma Capitale Municipio X. Ideazione: Valdrada, L’Allegra Banderuola Onlus, Associazione Vulcano.

Ufficio Stampa HF4 - Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it 340 – 96 900 12

Natale al TDL
Teatro del Lido
Via delle Sirene 22, Ostia (Roma)
Info: 327 005 99 88 * 349 22 36 865
Prenotazioni: info@valdradateatro.it
allegrabanderuola@gmail.com
Dal 22 al 31 dicembre

Ingresso gratuito


Piano americano


Come sanno quei generosi che leggono queste pagine web, non mi occupo di romanzi né di poesia (qualche eccezione la riservo alla videorockpoetry).
Perché? Qualche ragione l’ho espressa QUI.
Meglio di tutti, Giorgio Manganelli: «Basta che un libro sia un “romanzo” per assumere un connotato losco».
Guardate quel camposanto di titoli – ormai già lapidi – sui banchi delle librer… non vedete nulla?... avete ragione la pila dei volumi di Vespa e degli chef impediscono la vista… spostatevi… ecco, ora vedete dove giacciono in opulenti sarcofagi i tanti Tamaro, Moccia e compagnia piangente. Hanno tombe opulente perché hanno tanti lettori, gente che va dove la porta il cuore, che poi è sempre un villaggio turistico con santa messa (scusa se ti chiamo santa messa) a mezzogiorno.
Eppure, qui e là, in quella notte buia e tempestosa, talvolta spunta una luce.
Mi è capitato, ad esempio, con un libro pubblicato dall’editore Morellini intitolato Piano americano.
Sottotitolo Il romanzo che non scriverò. Detesto i sottotitoli in narrativa (… certo, lo ammetto, non me ne va bene una!), ma stavolta forse è necessario proprio per quei lettori che non vanno dove li porta il cuore, giustamente fidandosi pochissimo di quel muscolo traditore.
L’autore è Antonio Paolacci.
Nato nel 1974 vive a Genova. È editor e consulente editoriale. Ideatore e direttore di alcune collane di narrativa e saggistica, ha curato anche premi letterari e rassegne.
Prima di “Piano americano” ha scritto: “Flemma” (Perdisa Pop, 2007 - Morellini Editore, 2015), “Salto d’ottava” (Perdisa Pop, 2010), “Accelerazione di gravità” (Senzapatria, 2010), “Tanatosi” (Perdisa Pop, 2012).
Ha tenuto anche corsi di scrittura creativa in diverse città italiane… si sa, nessuno è perfetto.

Che cosa ha “Piano americano” per essermi piaciuto e per consigliarvelo?
La ricerca di linguaggio, di strutture narrative con l’assenza di una trama sequenziale a favore di un racconto reticolare, rifrangere la storia dei personaggi con la critica letteraria, usare lo stratagemma di un film introvabile facendo diventare le pagine tutte un Film senza Film (le ultime tre parole sono il titolo di un mio libro, potevo non cogliere l’occasione per fami pubblicità?).
Paolacci – e quanto sono d’accordo con lui! – desidera (e ci riesce) “mettere in scena la falsificazione” e chissà se non sia stato operato questo sagace disegno fin dalla copertina dove sotto il titolo si legge romanzo. F for Fake come in Orson Welles.
Ho cominciato questa nota citando Giorgio Manganelli, mi avvio alla conclusione mettendolo ancora alla ribalta per fargli pronunciare la sua sublime battuta “L’artista deve avere per prima qualità quella di essere inutile”. E Paolacci, ad esempio, a metà libro ricorda una frase di Hitchcock: “Per me l’arte viene prima della democrazia”.
Se non c’è l’arte (e la libertà di esprimerla) neppure avremo, infatti, democrazia.
Di grandi inutili, tanto necessari, ci siamo nutriti e arricchiti: da Rabelais a Sterne, da Joyce a Queneau.
Dell’inutilità di Paolacci godiamone leggendolo.

Dalla presentazione editoriale.
«Nei giorni in cui sta per diventare padre, Antonio Paolacci decide all’improvviso di smettere di scrivere per sempre. E così anche il romanzo a cui stava lavorando non esisterà mai, eppure prenderà vita qui. In un gioco di scatole cinesi tra cronache di vita reale, ispirazioni letterarie e cinematografiche dello scrittore e vicende immaginarie dei personaggi del romanzo, Paolacci realizza una prova d’autore che farà discutere, irriverente e funambolica, in cui la scrittura stessa si svela e si falsifica in continuazione, ticchettando pagina dopo pagina come un marchingegno perfetto».

CLIC per visitare il sito web dell’autore.

Antonio Paolacci
Piano americano
Pagine 248, Euro 14.90
Editore Morellini


Là sotto


La più recente pubblicazione di Guido Davico Bonino, edita da Lindau, è intitolata Là sotto Racconti licenziosi italiani.
Così si apre la Premessa: «I nostri linguisti non esitano a sostenere che con la locuzione avverbiale “là sotto” si indichino le nostre pudende (delle quali, per la verità, non dovremmo vergognarci) e le pratiche, per lo più gradevoli, che grazie ad esse ci è dato realizzare».
Non so quali linguisti abbia consultato il coltissimo e malandrino Davico Bonino (i nomi li tace), ma pur essendo d’accordo colpevolmente con lui e i suoi linguisti, è, forse, opportuno ricordare che si dice anche “là sotto le macerie”, “là sotto il burrone”, “là sotto l’avello”… posso continuare, ho una lista di squisite disgrazie che va da qui a laggiù.
Ma niente, che volete farci, per Davico Bonino (senza trascurare i linguisti da lui consultati, sia mai!) l’espressione là sotto indica una cosa soltanto.
Dobbiamo, però, essere grati a quella sua interpretazione monoteistica della locuzione avverbiale fin qui ricordata, perché ci ha permesso di leggere una deliziosa antologia da lui compilata con erudito viaggio fra pagine dal Duecento ai primi del Seicento.

Guido Davico Bonino (QUI in un’intervista rilasciata a questo sito in occasione dell’uscita di “Essere Due” – una preziosa antologia sul tema del Doppio) è stato capo ufficio stampa, fra ’61 e ’63, e segretario generale dal ’63 al ’77 della casa editrice Einaudi.
Ha insegnato letteratura italiana e storia del teatro nelle università di Cagliari, Bologna e Torino. Autore di diverse monografie, edizioni di classici italiani, traduzioni dal francese e dall’inglese, antologie di poesia e narrativa per Einaudi, Mondadori e Rizzoli, è stato critico teatrale de «La Stampa», ha diretto il Teatro Stabile di Torino, l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi dal 2001 al 2003.
È autore di diverse monografie, edizioni di classici italiani, traduzioni dal francese e inglese, antologie di poesia e narrativa.
Insomma, tante le sue pubblicazioni, mi limito a citarne due fra le più recenti: Donne allo specchio e Giro di boa.

Davico Bonino è un maestro nel cogliere l’essenza letteraria di un’epoca o di un tema e qui navigando in un mare d’inchiostro libertino pesca pagine che rivelano vite votate ai piaceri carnali, tanto più furibondi quando vietati, tanto più frementi quando clandestini, vite pur sempre però volte al riso e allo scherno degli immancabili beffati.
Accanto a nomi celebri (Boccaccio, Ariosto, l’Aretino), ne troviamo altri assai scarsamente noti ma che ben aiutano a comporre l’immagine di quei lontani secoli, e questo è un ulteriore merito della ricerca fatta dal curatore.
Nel volume ogni brano è preceduto da una scheda che oltre essenziali dati biografici dell'autore presentato, ne ritrae in pochi, efficaci, tratti lo stile; brevi note a fondo pagine spiegano il significato (spesso lubrico) di parole antiche.
Una lettura divertente, colta e birichina, che dobbiamo a uno dei maggiori studiosi di angoli meno conosciuti della letteratura italiana.

Dalla presentazione editoriale.
«La letteratura erotica in Europa spetterebbe a pieno titolo all'Italia, e non alla Francia secondo un vecchio luogo comune.
Infatti è proprio l'Italia che aduna dal Duecento al primo Novecento scrittori e opere di conclamata licenziosità. L’essenziale antologia che offriamo ai nostri lettori ne è lampante riprova: non solo essa propone situazioni piccanti, al limite talvolta del credibile, ma suggerisce prestazioni che neppure il più spericolato manuale di stampo positivista (il celebre Mantegazza, che i nostri nonni tenevano ben nascosto nelle loro biblioteche!) sarebbe oggi in grado di suggerirci. La nostra è dunque una silloge divertente e istruttiva».

Guido Davico Bonino
Là sotto
Pagine 164, Euro 16.00
Lindau


111 storie di cani

Quanto nella letteratura, quanto nelle arti visive, nel cinema, nei fumetti, nella musica, quanto nel teatro (salvo riferimenti a cattivi attori), è stato dedicato al cane?
Chissà se esiste un catalogo al proposito. Se non esistesse bisognerebbe crearlo.
Un catalogo che dal lontano Argo omerico arrivi al Whippet dei Simpson.
Due sono i cani che per primi saltano nella mia memoria: Bauschan, il cane di razza incerta di Thomas Mann di “Cane e padrone”; e Flaik, il cane di “Umberto D”.
E poi, le parole di Pablo Neruda: … e l'antica amicizia, la gioia di essere cane e di essere uomo tramutata in un solo animale che cammina muovendo sei zampe....
Ecco, in quel “sei zampe” c’è una sintesi di umano e non umano, carne e psiche che sono sicuro piace a Maria Teresa Carbone autrice di 111 storie di cani, di amicizia, di coraggio e fedeltà edito da Emons.
Maria Teresa Carbone ha lavorato alle pagine culturali del “Manifesto” e in precedenza a diverse testate italiane e straniere. Ha pubblicato per Dedalo I luoghi della memoria, 1986 e per Mondadori 99 leggende urbane, 1990. Fra le traduzioni, Lo schermo velato di Vito Russo (Costa & Nolan, 1983, Baldini Castoldi 1999), Breyten Breytenbach, Le confessioni di un terrorista albino (Costa & Nolan 1987, Alet 2010), La follia di Almayer di Joseph Conrad (Garzanti), Alphonse di Akli Tadjer (Giunti).
Con Nanni Balestrini ha curato il programma tv “Millepiani” (Cult) e il sito “Zoooom. Letture e visioni in rete”.
Fa parte della redazione di "Alfabeta2" e del comitato direttivo del festival RomaPoesia.

A proposito di questo suo recente lavoro, dice: “111 storie di cani diventati celebri presso noi umani dedicate, però, a quei cani che famosi non sono mai stati, ma comunque unici e irripetibili: ai cani di Villa Sciarra a Roma in particolare, e ai milioni di loro compagni senza storia che popolano il mondo.”

Se avete amici amanti del mondo canino, visto il calendario di questi giorni, ecco un libro che ben si presta come regalo da mettere sotto l’albero.

Dalla presentazione editoriale.
«Nella mitologia, nella storia, nella letteratura e nel cuore di molti. i cani l’hanno sempre fatta da padroni. Da Abuwtiyuw, la guardia del faraone, a Zemira la favorita della zarina. Hanno addolcito la vita di insospettabili misantropi e salvato quella di bambini ed eserciti. Eroici, pigri, spesso affamati, alle volte sembra davvero mancargli solo la parola».

Righe fa accennavo a Neruda, chiudo questa nota proponendo la lettura della sua Ode al cane.


Maria Teresa Carbone
111 storie di cani
Pagine 237 con ill.
Euro 12.70
Editore Emons


Cavellini Artistamp

Spesso ritorna la domanda “Le web Gallery” sostituiranno le tradizionali Gallerie?”.
Sul tema ho sollecitato e ottenuto su questo sito varie opinioni, ma se un giorno dovesse avverarsi quello scenario, in Italia, va riconosciuto a Sandro Bongiani il ruolo di primo abitatore di quella parte di territorio della Rete. Perché da tempo va proponendo mostre – visitabili 24 ore su 24 – sul web.
Bongiani dice: “Amo l’arte, trovo ancora interessante visitare le mostre e le rassegne in galleria, ma soprattutto amo il web, tutto ciò che vi è dentro, ormai è una condizione irrinunciabile a chi si occupa e cerca di diffondere l’arte. Non essendo succube del diritto d’autore e delle funeree biblioteche intese come archivi statici di conservazione della cultura ufficiale, sono attratto immensamente dalla comunicazione in tempo reale dentro e fuori il villaggio globale. Da qui nasce l’interesse profondo alla dimensione virtuale con la creazione e la “messa in opera” dello Spazio Ophen Art Gallery e del Bongiani Ophen Art Museum”.

Particolarmente azzeccata appare la prossima esposizione (In collaborazione con l’Archivio Cavellini di Brescia) Cavellini Artistamp / Mostra a domicilio perché dedicata a un artista del secolo scorso che oltre a essere quel grande che è, praticava mostre a domicilio anche inviando faldoni con immagini, scritti, manifesti, spille, stickers, cimeli. Cavellini se n’è andato prima della nascita del web, chissà che cosa avrebbe inventato oggi! Lui – esperto di mercato perché nato collezionista – che aveva intuito la necessità di superare i tradizionali (o meglio: vecchi) modi di rappresentare l’arte e il rapporto degli artisti con essa.

Nella foto: Warhol, Ritratto di Cavellini, 1974

La mostra è a cura di Sandro Bongiani e Piero Cavellini che così scrive: ““È nei primi anni Settanta che, appropiandosi di una dilagante espressione concettuale, questi suoi giudizi in qualche modo esplodono. Nel 1971 conia il termine “autostoricizzazione” ed inizia un lavoro espanso ed insistito ponendosi in prima persona come paladino della condizione dell’artista portando su se stesso il compito di fornirgli le modalità per superare lo stato dell’esclusione. Lo fa essenzialmente col concetto di “Centenario” come strategia anticipatoria della propria celebrazione e con le “Mostre a domicilio”, veicolo espositivo postale che gli permette di esporre il proprio lavoro in diecimila luoghi in tutto il mondo. Queste attività lo inseriscono in un circuito di arte postale internazionale che già si stava diffondendo da qualche anno nelle dinamiche espressive del periodo. E’ all’interno di questa fuga in avanti che rientra in gioco il “Francobollo” come elemento essenziale di questo tipo di circolazione artistica. Nella parte finale del suo lavoro, gli anni Ottanta, quando la sua presenza nel mondo dell’arte diventa estesa e partecipata, questo espediente sintattico della comunicazione diviene sempre più “opera dipinta” esso stesso dando sfogo ad una creatività senza freni, un produrre con soggetti svariati ed eclettici una grande quantità di opere come “Progetto di Francobollo per il mio Centenario”. E’ in questo periodo, quindi, che usa un suo particolare “stile” per dare sostanza al corpus di lavori che avrebbero dovuto supportare le esposizioni museali del 2014 . Ne risulta la composizione di un universo sia intimo che sociale con cui da corpo ad una visione di se stesso rapportato agli altri in cui il francobollo diviene il territorio privilegiato con cui tenta di eternizzare il proprio stato”.

Cavellini Artistamp / Mostra a domicilio
Web Gallery: http://www.collezionebongianiartmuseum.it
Via S. Calenda, 105/D - Salerno
Salerno Tel/Fax 089 5648159
e-mail: bongiani@alice.it
Orario continuato: tutti i giorni dalle 00.00 alle 24.00
Dal 22 dicembre 2017 al 31 marzo 2018


The Walking Dead (1)

Le serie TV occupano nel panorama culturale odierno uno spazio fino a poco tempo fa impensabile. L’offerta si è fatta ricchissima, ce n’è per tutti i gusti.
Com’è nato questo fenomeno? Quali i suoi sviluppi?
La casa editrice Mimesis ha dedicato più pubblicazioni all’esplorazione della serialità tv mettendone a fuoco l’evoluzione all’interno dei differenti sistemi televisivi nazionali, le logiche di produzione, i mutamenti del genere, le opere più seguite dal pubblico.
Il libro più recente, tanto denso quanto scorrevole in lettura, è intitolato The Walking Dead Contagio culturale e politica post-apocalittica.
Ne sono autori Dom Holdaway e Massimo Scaglioni.

Holdaway è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna dove svolge attività di ricerca e insegnamento nell’ambito dei Film and Media Studies, occupandosi in particolare di cinema italiano e della sua distribuzione internazionale. Ha pubblicato diversi saggi su riviste scientifiche come «Comunicazioni Sociali» e «Bianco e Nero», toccando in particolare il tema della legittimazione culturale del prodotto cinematografico. Recentemente, ha svolto ricerche relative al finanziamento pubblico dell’audiovisivo e alla rilevanza del concetto di “impegno” nella tradizione cinematografica italiana. È stato precedentemente ricercatore e docente presso l’Università di Warwick (UK), dove ha anche lavorato come research fellow a un progetto sul finanziamento alla cultura in Gran Bretagna, realizzato in collaborazione con diverse organizzazioni culturali pubbliche e private. Sta ultimando una monografia sulla rappresentazione della mafia nel cinema italiano.

Scaglioni è professore associato presso l’Università Cattolica di Milano, dove insegna Storia dei media ed Economia e marketing dei media. Insegna inoltre Transmedia Narratives presso l’USI-Università della Svizzera Italiana (Lugano, CH). È autore di numerosi volumi sulla TV e il sistema dei media, fra cui Che cos’è la televisione (con Aldo Grasso, 2003), Tv di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom (2006), MultiTV. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza (con Anna Sfardini, 2009), La tv dopo la tv (2011), Il servizio pubblico. Morte o rinascita (2016). È il responsabile dell’attività di ricerca del Ce.R.TA. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’U.C.) e direttore didattico del Master “Fare Tv. Analisi, Gestione, Comunicazione”. Ha tenuto lezioni in diverse università straniere (Carleton University-Ottawa, University of Nottingham, Capital Normal University-Beijing, Hong Kong Baptist University, Shanghai Theater Academy). È attualmente Principal Investigator di un progetto di ricerca dedicato alla circolazione internazionale del cinema italiano.

Dalla presentazione editoriale
«In onda negli Stati Uniti e sulle reti di oltre cento paesi nel mondo dal 2010, The Walking Dead si è imposto, negli anni, come uno dei casi televisivi di maggiore successo a livello globale, generando, allo stesso tempo, un vasto e variegato fenomeno di fandom e di culto. Lo show, originariamente sviluppato dall’autore dell’omonima serie di fumetti Robert Kirkman e dal regista di popolari blockbuster hollywoodiani Frank Darabont, si inserisce pienamente nella corrente della contemporanea “serialità complessa”: sul piano della rappresentazione, mette in scena – sotto la coltre del genere horror e del “racconto di zombie” – alcune delle questioni più sentite nelle società occidentali (il diritto di rinchiudersi entro “comunità sicure” e di difenderne i confini; i limiti della libertà individuale e la gestione politica della violenza; l’ossessione per le malattie epidemiche…). In quanto prodotto dell’industria culturale contemporanea, poi, The Walking Dead costituisce un franchise transmediale che non solamente si sviluppa su differenti piattaforme ed “estensioni” (fumetto, serie, videogiochi…), ma dà vita a un ciclo continuativo di interazioni e discussioni – condotte in particolare on line e attraverso i social media – che rendono denso e vitale il circuito che collega produzione, distribuzione e consumo. Questo volume ha il pregio di offrire, attraverso una scrittura piacevole e chiara e, al contempo, ricca e aggiornatissima, un’analisi e una guida approfondita a uno dei fenomeni più rilevanti della cultura popolare degli anni Duemila».

Per rintracciare particolareggiate notizie sulla storia della serie, gli ideatori, gli interpreti, cliccare QUI.

Segue ora un incontro con gli autori.


The walking dead (2)

A Dom Holdaway e Massimo Scaglioni.ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: miracoli della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.


È possibile rintracciare origini di The Walking Dead nella letteratura gotica americana?

La tradizione degli zombie è interessante in quanto è un fenomeno molto più “moderno” dei tipici “mostri gotici”, come i vampiri o i lupi mannari, che vengono da origini letterarie e storie folcloristiche europee. Lo zombie, invece, deriva dalla tradizione del vudù haitiano, dove rappresentava tipicamente il morto riportato in vita per continuare a lavorare – e quindi era un simbolo della repressione della classe operaia. Attraverso questa linea, però – che poi si interseca e si evolve grazie al modello di George A. Romero, padre dello “zombie vagante”, privo di raziocinio e cannibalesco – possiamo vedere alcuni riferimenti al cosiddetto “Southern Gothic” americano, che a volte mescola l’immaginario del vudù a storie di terrore, come si si coglie, per esempio, nella prima stagione di “True Detective”. Detto questo, TWD rimane un prodotto molto complesso e stratificato, quindi la sua narrazione si sovrappone anche con diverse altre suggestioni di genere, dallo splatter degli anni 80 all’immaginario dei “disaster movie”…

Qual è l’unicità che ha reso TWD tanto famoso?

L'unicità di TWD consiste nell'aver unito il "racconto di zombie" alla forma della serialità televisiva contemporanea. Si tratta di una innovazione molto importante perché, fino a TWD, i racconti audiovisivi sugli zombie erano soprattutto cinematografici, contenuti nelle due ore di un film. Con TWD gli zombie diventano "seriali". E questa trasformazione comporta una mutazione di grande portata: in realtà la presenza degli zombie diventa nella serie una specie di "nuova condizione esistenziale", o "nuovo ordine del mondo". L’elemento più innovativo consiste allora nell’evoluzione del “racconto di zombie”, ovvero nello spostamento dell’attenzione sui sopravvissuti, su coloro che devono edificare una nuova società in uno scenario post-apocalittico. Il mondo immaginario disegnato da TWD è il nostro stesso mondo, caratterizzato però dall’evoluzione post-apocalittica e dalla comparsa degli zombie: ciò consente allo spettatore di proiettarsi in quel mondo, di immaginare quale sarebbe il suo destino se vivesse lì dentro…!

Nonostante da molti negata – dal famoso regista George Romero per primo – TWD contiene oppure no un’allegoria politica? Se sì, come si legge nelle vostre pagine, in che cosa la rilevate?

Certamente, tutta TWD è centrata sull'allegoria della politica. In generale, i racconti di zombie mettono in metafora alcune paure o ansie della società americana, in periodi di particolare crisi, per esempio il timore della guerra nucleare, o quello per le malattie epidemiche globali… In TWD ritroviamo - traslate nel linguaggio dell'horror - tutti i problemi in agenda nella società americana: il rapporto fra individuo e potere politico, la legittimità della violenza e del possesso di armi, la necessità di rinchiudersi dentro fortificazioni... Le "colonie" raccontate nella serie (come Alexandria o Hilltop) sono città-stati circondate da mura: forse qualcuno ricorderà che la vittoria di Donald Trump si è giocata anche sulla promessa dell'edificazione di un muro al confine col Messico...


Pur avendo più registi, TWD, conserva nel suo percorso una forte unità stilistica.
A che cosa si deve questa compattezza espressiva
?


È questo un tratto abbastanza comune alle serie tv di produzione americana, che sono un prodotto industriale. Ovvero un prodotto realizzato da decine e decine di professionisti - dagli scrittori, ai registi alla troupe - che vengono però coordinate da un "capo-progetto" che detta le linee-guida: questi è detto "show-runner", ovvero l'autore che dà un indirizzo coerente a tutta la serie. Nel caso di TWD conta anche molto il fatto che, fra gli executive producers della serie, vi sia anche il creatore del fumetto da cui tutto ha avuto luce, Robert Kirkman.

Le serie tv, secondo alcuni, sono il nuovo romanzo.
Quest’affermazione vi trova d’accordo? Se sì, oppure no, perché
?

No, non ci trova molto d'accordo. L'espressione è un modo per "nobilitare" la tv, dopo decenni di denigrazione (la tv è sempre stata considerata un "mezzo triviale"…). Ma l'analogia fra romanzo e serialità è più fuorviante che illuminante. Si tratta di mezzi espressivi e comunicativi diversi, che richiedono un tipo di creatività piuttosto differente. Che la serialità contemporanea abbia raggiunto un livello di raffinatezza che può avvicinarla alla grande letteratura è senza dubbio vero, ed è anche vero che i meccanismi della grande narrativa sono certamente trasversali ai mezzi, al cinema, alla letteratura, al fumetto, alla serialità tv. Detto questo, vorremmo si riconoscesse il valore del racconto televisivo affermando le sue specificità e peculiarità!

Dom Holdaway – Massimo Scaglioni
The Walking Dead
Pagine 162, Euro 15.00
Mimesis


Chiavi di scrittura


La casa editrice Zanichelli ha varato una nuova collana: Chiavi di scrittura.
I primi tre volumi sono firmati da Luisa Carrada grande studiosa dei modi di comunicare scrivendo, nome da anni di grande spicco sul web.
Editor e docente di scrittura professionale, conduce il blog Il Mestiere di Scrivere e QUI trovate il suo sito web.
Quando non scrive, insegna alle aziende e alle amministrazioni a ideare, smontare e rimontare testi, per trovare il loro unico e inconfondibile tono di voce.
Con Zanichelli ha pubblicato Lavoro, dunque scrivo! e Studio, dunque scrivo.

I titoli dei primi tre volume sono: Guida di stile - Scrivere un'email - Struttura & Sintassi.


A Luisa Carrada (nella foto) ho rivolto alcune domande.
Che cosa si propone questa nuova collana e, in particolare, i primi tre volumi dei quali sei autrice?

La collana Chiavi di scrittura vuole onorare il suo nome: fornire indicazioni, consigli e suggerimenti perché i nostri testi quotidiani – personali e professionali – ci spalanchino le porte verso i risultati che ci aspettiamo. La scelta è stata di fornire tante brevi indicazioni pratiche, tutte accompagnate da esempi tratti dalla vita reale, in cui ognuno può riconoscersi. Qualcosa di molto diverso da una grammatica, che contiene delle regole.
Definirei queste guide delle compagne di strada, da tenere a portata di mano (ma stanno anche nella tasca dello zaino), da consultare di fronte a dubbi e problemi o quando rivediamo un testo. Tutte si concludono infatti con una check list per controllare di essere stati attenti proprio a tutto.

Quale la principale differenza fra un testo scritto per la carta e quello composto per il web?

La vera differenza è tra la carta e lo schermo. Il testo su carta si legge per lo più in modo sequenziale, dall’inizio alla fine, e in modo più attento e concentrato. Non leggiamo tre libri o tre giornali nello stesso momento, come facciamo con le tre finestre aperte del browser o le tante applicazioni del nostro smartphone. Né lo facciamo in mobilità, o in piedi.
Nel piccolo spazio dello schermo c’è spazio per molte meno parole rispetto alla carta, e raramente le leggiamo tutte. Ottenere l’attenzione di chi legge è molto più difficile. Per questo, negli ambienti digitali dobbiamo scrivere un po’ meno, ma molto meglio. Meglio significa scegliere con cura le sole parole necessarie – dal punto di vista informativo ed espressivo –, far capire fin dall’inizio cosa aspettarsi di utile dal testo, dotarlo di titoli e sottotitoli che guidano la lettura, avere uno stile e un tono di voce riconoscibili, formattare il testo perché anche la sua forma parli di chiarezza e leggibilità. Online, i nostri occhi sono alla continua ricerca di segnali e scorciatoie che ci facciano risparmiare tempo ed energie. Chi scrive deve fare di tutto per spianare la strada a chi legge, perché l’attenzione è quasi sempre minima.

Diciamolo in italiano chiedono Annamaria Testa e Antonio Zoppetti in un libro edito di recente. Sei anche tu convinta della giustezza di quell’invocazione?

Ho letto il bel libro di Antonio Zoppetti con la prefazione di Annamaria Testa e concordo che il dilagare di termini inglesi nel nostro quotidiano stia raggiungendo livelli di guardia. Non sono però così convinta che sia la causa principale di un certo impoverimento dell’italiano, come pensano in molti. Che la globalizzazione abbia portato con sé un gran rimescolamento linguistico mi pare normale, ma bisogna sempre distinguere i contesti. Considero grave quando politici e istituzioni ricorrono all’inglese (quasi sempre impropriamente) per un fatto di moda quando ci sono ottime alternative nella nostra lingua; e anche se non ci fossero, dovrebbero impegnarsi a trovarle. In altri contesti sono molto più tollerante e io stessa saluto e uso volentieri termini inglesi se mi aiutano a esprimermi meglio. Sono d’accordo con Annamaria Testa: più che arginare l’inglese dovremmo studiarlo meglio. Lo useremmo di meno e più a proposito.

Qual è la cosa che quando la vedi scritta (carta o web) ti fa venire la scarlattina?

Le frasi fatte, le espressioni viste, lette e ascoltate cento volte. Rassicurano chi scrive, perché si sente su un terreno battuto e sicuro, ma sono quasi sempre ignorate da chi legge. Continuiamo a leggere soprattutto per curiosità e privilegiamo i testi di cui non sappiamo cosa stanno per dire. L’esatto contrario delle frasi fatte e scontate.


Luisa Carrada

Guida di stile
Pagine 136, Euro 13.00

Scrivere un’email
Pagine 128, Euro 13.00

Struttura & Sintassi
Pagine 104, Euro 13.00

Zanichelli


Io in te cerco la vita

“A Milano non c’è che un uomo, che viceversa è una donna, Anna Kuliscioff”. Parole di Antonio Labriola in una lettera a Engels nel 1893 a testimoniare sia la solidità della reputazione di Anna presso i più influenti tra gli attivisti e I filosofi del continente europeo, sia l’antico vizio (o malcostume, o perversione) di elogiare ingegno e capacità femminili prendendo a modello riferimenti maschili”.
Così scrive Elena Vozzi curatrice di un prezioso volumetto edito da L'Orma intitolato Io in te cerco la vita Lettere di una donna innamorata della libertà.

Quelle missive sono di Anna Kuliscioff (9 gennaio 1855 – 29 dicembre 1925), russa naturalizzata italiana, rivoluzionaria, giornalista, tra i fondatori e principali esponenti del socialismo italiano.
Anna era un medico, la «dottora dei poveri», che si era laureata con una tesi sull’origine batterica delle febbri puerperali. Qui mi sovviene un ricordo storico-letterario. La febbre puerperale fu vinta dal dottor Semmelweiss; la storia tormentata della sua vita, il disconoscimento delle sue teorie, fino alla sua tragica morte, furono oggetto della tesi di laurea in medicina del grandissimo Celine.

Ancora oggi la visione politica della Kuliscioff è attuale come ci ricorda questa scheda storico-critica.
Del resto, a testimoniarne la modernità, basterebbe questa sua frase: Le virtù cristiane della pazienza e della rassegnazione sono le massime virtù dell'imbecillità umana
È sepolta al Cimitero monumentale di Milano; il corteo funebre fu attaccato da squadristi fascisti che vandalizzarono nastri e corone.

QUI il sito della Fondazione a lei dedicata.

Dalla presentazione editoriale di “Io in te cerco la vita”
«Prodigio di libertà e indipendenza, Anna Kuliscioff ha attraversato da protagonista tre decenni della vita politica europea dando un incalcolabile contributo nelle battaglie per i diritti delle donne e dei lavoratori. Rivoluzionaria e libertaria nelle relazioni amorose come nelle rivendicazioni politiche, Kuliscioff ci ha lasciato alcune delle più intense lettere del Novecento italiano. Riscopriamo così la vita di una donna che fu cittadina di un futuro al quale, ancora oggi, dobbiamo aspirare»

Anna Kuliscioff
Io in te cerco la vita
con corredo fotografico
Pagine 128, Euro 10.00
L’Orma Editore


Animalía

Cosmotaxi saluta con gioia una nuova collana dell’editrice nottetempo intitolata Animalía; attenti, nel pronunciare e nello scrivere quella parola: accento acuto sulla í. Invenzione di una parola-valigia che da sola è già una dichiarazione editoriale d’intenti.
Se poi non vi basta, ecco la dizione redazionale di presentazione d’Animalía: Collana di monografie agili, divulgative e con un ricco apparato iconografico. Con questi libri, all’incrocio tra storia naturale e immaginario, nottetempo vuole esplorare l’impatto della dimensione animale sul mondo letterario, artistico, mitologico e culturale. Facendo un passo laterale rispetto alla visione antropocentrica.
Il primo volume è stato dedicato al fenicottero e il secondo al gatto.
Non ho in casa un fenicottero, ma un gatto sì. Il suo nome è Spock come il vulcaniano di Star Trek. Amo da sempre i gatti e, quindi, ho scelto d’occuparmi del secondo volume di Animalía, pur avendo letto con piacere il primo apprendendo molte cose sul fenicottero.

Il gatto è stato scritto da Katharine M. Rogers, professoressa emerita d’inglese al Brooklyn College and the Graduate Center della City University di New York.
Vive nel Maryland ed è autrice di numerosi libri e antologie.
Il volume illustra l’avventura biologica del gatto (benvenuta nel libro anche una sintetica quanto preziosa Cronologia) da due milioni di anni fa a oggi. Il percorso nell’età moderna si avvale di plurali esempi della presenza di questo felino nella letteratura (dalla fiaba al romanzo), nel teatro, nel cinema, nel music hall, nelle arti visive (dalla pittura al fumetto).
Ricordato che il faraone fu il primo a conferire un ruolo primario a una gatta fra le dee egizie, che fu animale onorato in Cina, non altrettanto bene gli andò nell’antica Roma e, peggio ancora in Europa, tanto che l’autrice scrive che “da soli tre secoli i gatti hanno affiancato i cani come animali da compagnia e membri della famiglia”. Prima, invece, ritenuti spesso parenti di creature infernali, furono perseguitati e uccisi in modi atroci.

I gatti, oggi, vivono con noi, nelle nostre case (oggi in Italia sono sette milioni e mezzo), eppure li conosciamo poco. Roger Caras, uno dei più grandi esperti in America dei gatti ha osservato che è entrato nella coscienza umana “senza rivelare nessun segreto dei propri sentimenti”.
Ha scritto l’etologo Roberto Marchesini: “L’essere umano fa fatica a comprendere la socialità sia del gatto sia del cane, per cui impropriamente dà dell’opportunista al primo e dell’ossequioso al secondo. Il problema è sempre lo stesso: non siamo la misura del mondo e, invece, crediamo di esserlo”.

Dalla presentazione editoriale.
«Analizzando sia i significati culturali del gatto legati all’immaginario umano sia la sua storia naturale, questo libro segue le tracce della speciale fascinazione di questo animale attraverso il mutevole spettro di immagini proiettate durante l’evoluzione dei suoi rapporti con l’uomo: dalla dolcezza alla ferocia, dall’affetto all’indipendenza, dall’eleganza all’eros, da una rassicurante domesticità all’inquietudine del soprannaturale».

Termino questa nota invitandovi all’ascolto di Ode al gatto di Pablo Neruda.

Katharine M. Rogers
Il gatto
Con 109 illustrazioni, 53 a colori
Traduzione di Caterina D’Amico
Pagine 270, Euro15.00
nottetempo


Trieste e Robotics/2

L’EuroScience Open Forum 2020 (Esof), la più importante manifestazione paneuropea a cadenza biennale, si terrà nel 2020 a Trieste.
Legittima la gioia del professore Stefano Fantoni – Presidente della FIT (Fondazione Internazionale Trieste) – nel dare la notizia.
Il Forum sarà focalizzato sul confronto e rapporto tra scienza, tecnologia, società e politica. Eccellente piano concettuale e operativo nel quale non pochi, compreso chi scrive queste righe, notano l’assenza di un rapporto fra Scienza e Arte. Un tema che ai nostri giorni è tornato di grande attualità con l’intreccio multidisciplinare, che è alla base del procedere artistico nelle arti visive, nella musica, nel teatro di performance, anche in letteratura dove usando algoritmi sorgono forme di scrittura mutante.
Conoscendo, però, il valore di Fantoni nel promuovere (a lui e ai suoi collaboratori molto si deve nel raggiungimento del prestigioso traguardo), sono convinto che nei prossimi mesi quel vuoto sarà riempito da un’opportuna programmazione.
A questo pensavo durante l’affollata conferenza stampa che il Gruppo 78 (denominazione dovuta all’anno di fondazione) e che si giova della Presidenza della storica dell’arte Maria Campitelli, ha tenuto nei giorni scorsi al teatro Miela, presentando Robotics/2: Festival di Arte e Robotica che si svolgerà nel 2018.
Oltre all’esposizione dei concetti critici che ispireranno il Festival, la Campitelli – da quasi quarant’anni svolge un’opera di diffusione delle nuove frontiere della ricerca artistica – ha illustrato l’opera specialistica che svolgeranno Valentino Catricalà curatore di PoetronicArt, di Daniele Terzoli della Cappella Underground, di Martin Romeo, delle occasioni che verranno stimolate per la partecipazione delle scuole.
Inoltre, si sono avuti interventi da parte dei già nominati e del professore Giuseppe O. Longo che si è soffermato sugli aspetti filosofici e sociologici proposti dalle neotecnologie, e del professore Paolo Gallina (conduce all'Università un laboratorio su robot e pittura) sul rapporto fra l’artista e la robotica e sulle nuove strategie comunicative.
In più di un intervento si è detto anche del ruolo d’impresa recitato dalla robotica pure in campo artistico.
Non si è trattato della solita conferenza stampa perché nel pomeriggio si sono tenute alcune anticipazioni tematiche di Robotics/2 con performances, mostre d’arti visive e letture.
Il giorno dopo, a concludere, uno spettacolo di nuovo teatro.

Ha scritto Paul Feyerabend in “La scienza come arte”: «Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte».

Robotics 2
Gruppo78
Via Canova 9, 34129 Trieste (TS)
tel/fax: +39.040 – 56 71 36
mob. +39.339 -.864 07 84


Morandini 2018

Giusto vanto della Casa Editrice Zanichelli, è il Morandini che anche per il 2018 si presenta con un imponente corredo di documentazione dai Lumière ai giorni nostri, confermandosi indispensabile strumento per tutti quelli che lavorano nel cinema o del cinema sono appassionati spettatori, e, ovviamente, per le redazioni della carta stampata, delle radio-tv, del web.
Quello che particolarmente colpisce in questa meritatamente fortunata pubblicazione – uscì per la prima volta nel 1999 – è come in pochissime righe, accanto ai dati filmografici (titolo originale, nazionalità, anno d’uscita, regista, principali interpreti, durata, sintesi della trama), sia tracciato un coinciso, ma non per questo meno articolato, giudizio critico di sapiente spessore. E, inoltre, si trovi spazio anche per riferire d’interessanti, e talvolta divertenti, lampi aneddotici.
Inoltre ha il merito di cavarci d’impaccio in questo periodo natalizio quando in tanti angosciosamente si chiedono he cosa mettere per regalo sotto l’albero. Il Morandini può essere una soluzione sia se indirizzato a una/o cinephile sia a chi davanti al fiume di film che trasmette la tv, vuole rintracciare notizie intorno a una pellicola programmata su una delle tante reti.

La copertina dell’edizione 2018 se l’è aggiudicata “Ella & John” (The Leisure Seeker). Il più recente lavoro di Paolo Virzì. Così per il secondo anno consecutivo il cineasta toscano si aggiudica la prima pagina del Dizionario dei film e delle serie televisive. Nella passata edizione infatti venne assegnata al suo “La pazza gioia”. È la prima volta nella storia del dizionario che l’onorificenza viene data per due anni di seguito a film dello stesso regista. Ed è la prima volta che campeggia una pellicola presentata all’ultimo al Festival di Venezia, quindi da poco uscito.
Un record meritato perché il lavoro di Virzì “…è un film che non è americano – come hanno polemizzato – né voleva esserlo, è una coproduzione Italia-Francia con la presenza di due grandi protagonisti: Mirren (inglese) e Sutherland (canadese). Il tema centrale non è l’America, ma quel che dice (e quel che non dice, mostra) dell’America graffia e incide. E` una storia d’amore, universale, che diverte, emoziona e commuove. È un film d’autore. Italiano”. Spiega l’autrice Luisa Morandini nella presentazione del dizionario.

Nel Morandini 2018 non mancano bocciati illustri della passata stagione cinematografica: Terrence Malick ha deluso con Song to song “…Le immagini restano impeccabili, ma la storia banale e poco profonda…”. Una stella. Non bene anche parte delle pellicole italiane. Deludono molte commedie: da Mamma o papà? di Bruno. Mister Felicità di Siani, (1 stella) Non c’è più religione di Miniero (1 ½ stelle). E anche alcuni autori nostrani: Castellitto di Fortunata “…Insopportabile polpettone melodrammatico falso-popolare con Castellitto regista che arranca disperatamente per dare il meglio di sé...”; Piccioni di Questi giorni “…è mal recitato, inzuppato di stereotipi, un ennesimo film della stagione sui giovani…” (1 stella ciascuno).
Tengono botta (3 ½ stelle) il documentario di Olmi “Vedete, sono uno di voi” e “Sole Cuore Amore” di Vicari in cui “…Primeggia una straordinaria Ragonese”.

I premiati con 4 stelle di questa edizione invece sono Sully di Clint Eastwood, film che “…non cede mai alla retorica né al buonismo facile e guida un eccellente Hanks a disegnare il ritratto di un uomo qualunque…”; Io Daniel Blake di Ken Loach, già Palma d’oro a Cannes; Neruda di Pablo Larraín “…un gioiello di cinema acuto, visionario e originale nel giocare con realismo e finzione…”; l’Orso d’argento L'altro volto della speranza di Aki Kaurismäki; A casa nostra di Lucas Belvaux; Il cittadino illustre di Mariano Cohn, Gastón Duprat.
Per il pluripremiato La La Land 3 ½ stelle “Chi non ama i musical stia a casa”.

Ma è stata anche la stagione di grandi film d’animazione: lo dimostrano le 4 stelle (il massimo sono 5) che Morandini 2018 ha assegnato a Cattivissimo Me 3 “…colorato, spiritoso, divertente, pieno di trovate (i balletti dei Minions sono esilaranti), con un “cattivo” che si muove come Michael Jackson e ha la pelata, una madre di Gru fulminante, una colonna musicale usata con un'ironia, un acume e un'astuzia impagabili. Imperdibile”. Quattro anche a: Baby Boss “…Fa il pieno di originalità rinnovando le classiche gag dell'animazione; è ricco di sensibilità; ha dialoghi surreali e sarcastici…”; La mia vita da zucchina: “…Un gioiello dell'animazione che abbatte con umorismo tanti tabù…”; La tartaruga rossa è “…una favola metaforica nel descrivere le tappe della natura umana, potente nel suo minimalismo, ipnotizzante nel suo disegno…”.

Il "Morandini 2018. Dizionario dei film e delle serie televisive" comprende 16.500 film usciti sul mercato italiano dal 1902 all'estate 2017 e una scelta di circa 850 serie televisive. Di ogni film, oltre al titolo italiano, l'opera dà: titolo originale, paese di produzione, anno d'uscita, regista, interpreti principali, una sintesi della trama, una concisa analisi critica, durata, suggerimenti sull'opportunità di visione per i ragazzi, indicazione grafica sul giudizio della critica (da 1 a 5 stellette) e sul successo di pubblico (da 1 a 5 pallini). Un'opera da tenere accanto al televisore e nel computer, da consultare prima (e dopo!) aver visto un film. 27.000 film (16.500 su carta, 27.000 nella versione digitale), con schede monografiche su cicli e serie; 850 serie televisive, scelte fra le più seguite o le meglio realizzate, Negli Indici: autori letterari e teatrali; registi; attori principali. Nelle Appendici: premi Oscar; i migliori film (con giudizio critico di 4 o 5 stellette oppure maggior successo di pubblico); i film della Mostra del cinema di Venezia 2017; i principali siti Internet dedicati al cinema.


Morandini 2018
Dizionario dei film e delle serie tv

- Versione Plus (volume + DVD e download per Windows e Mac senza scadenza + app per iOS e Android senza scadenza + 365 giorni di consultazione online, con aggiornamenti rilasciati nell'anno) € 40,30

- Volume unico € 34,50

- Dizionario ebook no-limit (download per Windows e Mac senza scadenza + app per iOS e Android senza scadenza + 365 giorni di consultazione online, con aggiornamenti rilasciati nell'anno) € 16,30

- Dizionario ebook 365 (download 365 giorni e consultazione online 365 giorni) € 9,80

Zanichelli



Lucente spirito

È in corso la mostra Lucente Spirito presso Officina Open laboratorio di idee e di sperimentazione.
Il nuovo progetto espositivo, condiviso dall'Assessorato alla Cultura di Gallarate, dal Melo e dal Museo MAGA, è nato dalla collaborazione ed allo scambio di opportunità e competenze proprie di Officina Contemporanea, la rete culturale urbana promossa dalla Fondazione Cariplo nel 2013.
L’esposizione è a cura di Ruggero Maggi (in foto).
Maggi è un personaggio poliedrico nello scenario artistico internazionale.
Dagli anni ’70, partendo dalla Poesia Visiva, dalla Mail Art, dalla Copy Art, è approdato alla Laser Art e alla performance multimediale.
Interprete da un’avanzata interpretazione della produzione artistica dei nostri tempi, alterna sue mostre alla proposizione anche di altri artisti, come fa in questa esposizione a Gallarate.

Estratto dal comunicato stampa.
«Questo percorso espositivo "Lucente Spirito" a cura di Ruggero Maggi, è costituito da una selezione di opere dal contenuto spirituale e concettuale come "The Quest", work in progress di due artisti: Carla Bertola e Alberto Vitacchio protagonisti nell'atto fotografico insieme con pietre megalitiche, divenendo anch'essi elementi immobili e silenziosi del paesaggio investiti dai mutamenti della luce, dell'oscurità, dello scorrere del tempo.
"Lucente Spirito" si articola poi con le opere verbo-visive titolate "Fiabe al vento" di Marcello Diotallevi che traggono ispirazione dalla naturale inclinazione dell'artista verso un'ironica interpretazione della realtà e della vita.
Le evocative immagini fotografiche di Anna Maria Di Ciommo coniugano tecnica e afflato spirituale che si crea nel momento in cui i Lama Tibetani realizzano mandala di polvere dalla inevitabile impermanenza. Immagini che vengono sintetizzate in una frase del Dalai Lama: "Ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Ora sono saggio e sto cambiando me stesso".
Le opere-oggetto di Roberto Testori s’inverano in Poesia Visiva: descrizione di tracce, di piccoli oggetti che ritrovano il loro spazio in un risplendente mare bianco.
La mostra si avvale di un video di Rovena Bocci».

Lucente spirito a cura di Ruggero Maggi
Università del Melo – Galleria di Arti Visive
Via Magenta 3, Gallarate (Varese)
Orari: da lunedì a domenica 16.00|19.00
Fino al 22 dicembre 2017
Ingresso libero


Grandi affari con Stanlio e Ollio (1)

Stanlio e Ollio: da novant’anni divertono platee cinematografiche e, da alcuni decenni quelle televisive, facendo ridere tante generazioni fin da quando si incontrarono per la prima volta nel 1921sul set di Cane fortunato.
La casa editrice Mimesis - nella collana Cinema/Origini diretta da Elena Dagrada - ha pubblicato un piccolo saggio dedicato a Stan Laurel (Ulverston, 16 giugno 1890 – Santa Monica, 23 febbraio 1965) e Oliver Hardy (Harlem, 18 gennaio 1892 – North Hollywood, 7 agosto 1957) che in cento pagine offre una serie d’illuminazioni critiche.
Il titolo del libro: Grandi affari Laurel & Hardy e l’invenzione della lentezza.
Ne è autore Gabriele Gimmelli, dottorando presso l’Università di Bergamo.
È redattore della rivista Doppiozero, membro del comitato direttivo di Imm@gine, periodico online dell’AIRSC (Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema). Collaboratore di Filmidee, ha scritto per Moviement, Cenobio, Cinergie, Cineforum e Nuova Prosa. Recentemente, insieme con Diego Marcon, ha realizzato un videosaggio sul cinema di Totò dal titolo “La morte e il principe”, presentato alla 70esima edizione del Festival di Locarno.

Il libro, pur puntato sul film Grandi affari (1929), per ragioni che Gimmelli spiegherà fra poco è parecchio di più perché è uno studio raffinato su quello storico duo, indagandone in modo originale i segni espressivi che lo ha reso meritatamente famoso.

Dalla presentazione editoriale.
«Distribuito nelle sale americane nella primavera del 1929, Big Business (noto in Italia come Grandi affari) è l’ultimo capolavoro muto di Stan Laurel e Oliver Hardy e uno dei titoli imprescindibili per chi voglia accostarsi alla loro opera. Ancora oggi costituisce un esempio raramente eguagliato di slow burn, l’estenuante progressione di gag verso la prevedibile catastrofe finale: una tecnica che nel tempo diverrà il marchio di fabbrica della coppia.
Questo volume – il primo in assoluto interamente dedicato a Big Business – propone un’analisi accurata dei valori formali e compositivi del film, oltre a definire il contesto sociale e produttivo in cui venne realizzato: da una parte gli Stati Uniti alla vigilia del crollo di Wall Street, dall’altra il progressivo consolidarsi dello Studio System a scapito degli indipendenti. Nell’arco di venti minuti, dietro l’apparenza innocua della commedia, non solo Laurel e Hardy mettono a nudo le nevrosi della middle-class americana, facendo letteralmente a pezzi i suoi feticci (casa e automobile), ma riescono persino a far collassare, in un crescendo irresistibile di trovate comiche, la narrazione classica hollywoodiana e l’ideologia normalizzatrice delle Majors».

Segue ora un incontro con Gabriele Gimmelli.


Grandi affari con Stanlio e Ollio (2)

A Gabriele Gimmelli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è l’importanza che attribuisci al produttore Hal Roach nella storia di Laurel & Hardy?

Dal punto di vista strettamente creativo, direi poco, tutto sommato – anche se, anni dopo, sia Roach, sia Leo McCarey (all'epoca supervisore alla produzione), cercheranno di attribuirsi il merito di aver ideato la coppia. Viceversa, dal punto di vista produttivo il ruolo di Roach fu enorme: il fatto di essere un indipendente, lontano dalle Majors e dai loro sistemi di produzione fortemente razionalizzati, gli diede la possibilità – almeno fino a metà degli anni Trenta – di garantire completa libertà creativa ai due attori, in particolare a Stan Laurel, che era l'elemento “propulsivo” della coppia.

Come ho scritto nelle righe d’apertura, il tuo oltre a essere uno studio sul film che dà titolo al libro, è un saggio sulla figura storica ed espressiva del duo. Perché la tua attenzione si è soffermata su “Grandi affari”?

Per tre ragioni, direi. La prima è che “Grandi affari” (che mi piace chiamare col suo titolo originale, “Big Business”) è una delle opere che sanciscono l'affermazione definitiva di Laurel & Hardy nello star system hollywoodiano. Allo stesso tempo, però – e questa è la seconda ragione – è un film che si affaccia su di una nuova fase della loro produzione: ancora pochi mesi, e avrebbero debuttato nel cinema sonoro. Il loro procedimento comico prediletto, lo ‘slow burn’ con distruzione reciproca, raggiunge in “Big Business” il proprio apice e forse anche il punto di non ritorno: negli anni successivi non avranno più la stessa carica distruttiva. Infine – terza ragione – il contesto sociale. Non dobbiamo dimenticare che il film viene distribuito nell'aprile del 1929, soltanto pochi mesi prima del crack di Wall Street. Tante cose stavano per cambiare, e non solo al cinema.

In che cosa consiste “l’invenzione della lentezza”, dizione con la quale connoti un’importante cifra stilistica di Laurel & Hardy?

Semplicemente, consiste nell'imprimere un cambio di ritmo nella successione delle gag. Se, prima di loro, l'efficacia comica di una trovata si basava soprattutto sulla capacità di sorprendere lo spettatore, Laurel & Hardy spostano l'attenzione sull'attesa, sul modo di “porgere” ogni singola gag. ‘Slow burn’ significa appunto questo: “a fuoco lento”. Naturalmente non furono i soli né i primi: penso a comici come Charley Chase o Max Davidson, che non hanno ancora ricevuta la giusta attenzione. Tuttavia, Laurel & Hardy hanno indubbiamente portato questa tecnica a un livello di assoluta perfezione. Non è un caso che, in seguito, chiunque si sia confrontato con lo slow burn, da Peter Sellers a Jacques Tati, non abbia potuto prescindere dal loro esempio.

Le edizioni italiane dei loro film suscitano in te perplessità. In sintesi, ce ne illustri il motivo?

Per quanto siano tutt'ora fra i comici più popolari nel nostro Paese, bisogna ammettere che in Italia i film di Laurel & Hardy non hanno ricevuto il rispetto che meritano. Non mi riferisco tanto alle valutazioni della critica, quanto a distributori ed esercenti, che hanno sfruttato i loro film oltre ogni limite, all'occorrenza tagliuzzandoli e appiccicandoli l'uno all'altro senza troppo riguardo. In questo modo, hanno alterato in modo irreparabile l'accurata costruzione comica di ciascuna opera, impedendo di apprezzarne fino in fondo il valore. C'è poi la questione del doppiaggio: che, se da un lato contribuito innegabilmente a consolidare la popolarità di Laurel & Hardy, ha però modificato in modo decisivo la percezione che abbiamo di loro, facendone in sostanza due clown rivolti quasi esclusivamente al pubblico infantile. Si potrebbe dire che in Italia, mentre conosciamo alla perfezione “Stanlio & Ollio” (che poi sono i nomi dei loro personaggi in Fra Diavolo, uno dei loro film di maggior successo, qui da noi), non sappiamo quasi nulla di Laurel & Hardy.

Esistono versioni colorate delle avventure dei due. Anche ben fatte. Eppure… che cosa ne pensi di quelle edizioni?

Nessuno si sognerebbe di proporre in tv un “Quarto potere” o un “Manhattan” colorizzati elettronicamente: tutti griderebbero al sacrilegio, no? Ecco, non vedo perché non si possa dire la stessa cosa delle comiche di Laurel & Hardy. Probabilmente perché molti pensano si tratti di film tecnicamente approssimativi, nei quali il valore estetico delle immagini veniva sacrificato a esclusivo vantaggio delle risate. Ebbene, non c'è niente di più falso: Laurel supervisionava attentamente il lavoro dei direttori della fotografia. Non dimentichiamo che ai film di Laurel & Hardy lavoravano tecnici di altissimo livello: per esempio, alla fotografia di “Big Business” c'era George Stevens, il futuro regista de “Il cavaliere della valle solitaria”; e qualche anno più tardi i due attori avrebbero collaborato addirittura con Rudolph Maté, l'operatore di Dreyer per “Giovanna d'Arco” e “Vampyr”.

Perché Laurel & Hardy, a differenza di molti loro colleghi del tempo, sono riusciti a transitare benissimo dal muto al sonoro?

Fondamentalmente per due motivi. Il primo è legato proprio al loro stile, fatto di inquadrature dalla lunga durata, campi medi e rarissimi inserti: bastava aggiungere il dialogo e il gioco era fatto. Il secondo è legato ancora una volta all'indipendenza di Roach, che favorì la transizione senza forzare la mano, come invece accadeva altrove. D'altronde va ricordato che Laurel & Hardy si impadronirono del sonoro con una rapidità impressionante. Sperimentarono da subito soluzioni innovative, per esempio sfruttando i rumori fuori campo per suggerire una caduta invece di mostrarla: un espediente di grande modernità. Senza contare che l'introduzione del dialogo (lo ha osservato Marco Giusti) permise a Laurel & Hardy di sviluppare i rispettivi personaggi, di approfondirne il rapporto e di dar loro quello spessore che ce li rende tanto vicini, oggi come novant'anni fa.

Ora che ne sappiamo di più su “Grandi affari” e Stanlio e Ollio, è ora di accomodarci in sala e vedere il film.

Gabriele Gimmelli
Grandi affari
con corredo fotografico
Pagine 106, Euro 8.00
Mimesis


Revolution


Ricordate questo brano?
Ad anni decisivi nella storia del XX secolo è dedicata un’importante mostra a Milano: Revolution Musica e ribelli 1966-1970, dai Beatles a Woodstock

Furono quelli anni di profondi rivolgimenti culturali e politici in tutto l’Occidente e in Giappone. Accanto a grandi e felici traguardi sociali, non mancarono pagine buie.
Per quanto riguarda l’Italia, basta ricordare la preparazione di un colpo di Stato (piano Solo) e la bomba di Milano (Piazza Fontana).
Per chi voglia fare un ripasso della politica italiana di quegli anni: CLIC!
Un grande giornalista, Nello Ajello: «“Anno dei portenti” o, secondo altri, “annus terribilis”, il Sessantotto dura a lungo. Inizia con la contestazione studentesca e le rivolte razziali negli Stati Uniti, passa per la guerra in Vietnam e l’invasione di Praga. Agita grandi miti e cambia gli stili di vita. Si chiuderà, in Italia, con le tinte nere del sovversivismo di destra“».
Un noto cantante, Caparezza: «Anni fondamentali non solo per i grandi avvenimenti storici che si sono susseguiti (Praga, Vietnam) ma per la musica e per il costume. Non nego che come tutte le rivoluzioni ci siano stati degli strascichi "pesanti". Ma è stata una fase fondamentale per la crescita civile, come ad esempio i diritti delle donne».
I Simpson, dodicesima stagione: «Oh, indimenticabile quell’anno 68…».

Eppure quegli anni (che videro lo sbarco degli umani sulla Luna), fondanti nuovi temi (ad esempio: animalismo, ecologismo, rilancio del femminismo), in Italia specialmente sfuggirono del tutto ai grandi partiti di massa e ancora oggi nel dibattito sociale si avverte il fiatone accusato da quelli che quei temi allora non capirono e sono stati costretti a rincorrerli per mezzo secolo.
Furono anni che videro un radicale rinnovamento nel campo dell'arredamento, dell'illustrazione, del muralismo, del fumetto, e diverse altre forme di comunicazione visiva cui da noi ebbero tanti esploratori, da Vincenzo Agnetti a Nanni Balestrini, da Mario Ceroli a Emilio Isgrò, da Fabio Mauri a Mario Schifano, ad altri ancora.
E poi… poi la musica e la moda si fecero vettori di un nuovo modo di concepire comportamenti e società.

“Revolution. Musica e ribelli 1966-1970, dai Beatles a Woodstock”, è una mostra sulle storie, i protagonisti, i luoghi di quel breve e densissimo periodo.

Dal comunicato stampa.
“La mostra, già approdata al Victoria and Albert Museum di Londra, arriva a Milano dal 2 dicembre fino al 4 aprile 2018 negli spazi della Fabbrica del Vapore, promossa e coprodotta da Comune di Milano-Cultura, Fabbrica del Vapore e Avatar – Gruppo MondoMostreSkira, in collaborazione con il museo londinese.
Curata da Victoria Broackes e Geoffrey Marsh del Victoria and Albert Museum, insieme con Fran Tomasi, maggior promoter italiano che per primo portò in Italia i Pink Floyd, Clara Tosi Pamphili, giornalista e storica della moda, e Alberto Tonti, noto critico musicale, la mostra è un percorso esperienziale fatto per avvolgere i visitatori di atmosfere, oggetti, memorabilia, design, arte, grafica e soprattutto dalla musica di quegli anni anche grazie al sofisticato sistema audioguide Sennheiser, partner dell’esposizione.

Un viaggio che ripercorre gli ambiti in cui le rivoluzioni di quegli anni ebbero luogo: la moda, la musica, le droghe, i locali e la controcultura; i diritti umani e le proteste di strada; il consumismo; i festival; le comunità alternative. Da Carnaby Street a Londra agli hippy di Haight-Ashbury, dall’innovazione tecnologica della Bay Area alle proteste del maggio francese, dalle comuni sparse in tutta l’America ai festival di Woodstock e dell’Isola di Wight, questi anni furono caratterizzati da un idealismo ottimista che spingeva le persone a far fronte comune per sovvertire le strutture di potere in ogni sfera della società. Una riflessione infine su quante di esse hanno prodotto un cambiamento reale e duraturo e quante invece sono andate perdute nei decenni successivi.

La travolgente onda della cosiddetta “Revolution” arriva dall’Inghilterra e porta con sé cambiamenti radicali che vanno dalla crescente attenzione per i diritti umani, al multiculturalismo e a nuove politiche neoliberali, passando per il boom scientifico e ovviamente la musica, la moda e l’arte in generale.
Improvvisamente Carnaby Street a Londra diventa l'ombelico del mondo, la fucina dalla quale vengono espulse valanghe di idee, il luogo delle sette meraviglie, la way of life della nuova generazione, scrive Alberto Tonti.
In Gran Bretagna, in quei cinque anni rivoluzionari, nascono grandi nomi di band come i Beatles, i Rolling Stones e gli Who tra tanti altri, e alcune delle personalità più eccentriche e rivoluzionarie di quei tempi come le top model Twiggy (detta “grissino”) e Jean Shrimpton (detta “gamberetto”), Mary Quant, inventrice della minigonna, John Cowan, il fotografo che presta il suo studio ad Antonioni per girare “Blow Up”, mentre le città si animano sempre più di una variopinta umanità che insegue le tendenze del momento.

La rivoluzione nella moda è il segno più visibile del cambiamento di quegli anni, il modo più immediato per comunicare agli altri le proprie scelte: il rifiuto delle regole imposte, la volontà di non essere come i padri e le madri. La giornalista e storica della moda, Clara Tosi Pamphili, aggiunge: Le gambe scoperte delle ragazze e i capelli lunghi dei ragazzi manifestano quotidianamente la voglia di restare bambini e selvaggi, il corpo è privo di costrizioni sotto abiti minimal geometrici o lunghe silhouette che scivolano addosso lasciando libero ogni movimento.
In mostra anche l'espressione del tempo nella moda italiana: insieme alle immagini di Blow Up e nella passeggiata in Carnaby Street una serie di abiti evidenziano l'emulazione ma anche la capacità artigianale, unica del made in Italy, che crea la trasgressione senza mai dimenticare la qualità.

Negli anni ’60 anche nella società italiana avvengono profondi cambiamenti: il boom economico, l’espansione edilizia, l’enorme vendita di merci grazie anche alla possibilità del pagamento rateizzato. La grande ondata di benessere produce un forte aumento della scolarizzazione: dal 1957 al 1967 gli iscritti all’università raddoppiano da 200.000 ad oltre 400.000 unità in una scuola pubblica con strutture inadeguate e dove vige ancora un forte autoritarismo e dogmatismo. Gli studenti sono i primi a raccogliere la spinta libertaria nata negli Stati Uniti contestando la cultura tradizionale e “borghese”, l’autoritarismo e il paternalismo, in sostanza rifiutando la visione del mondo dei padri e degli adulti in generale. Come ci ricorda Francesco Tomasi …è il 24 gennaio del 1966 quando a Trento viene occupata la prima università italiana e da quel momento, per i due anni successivi, sono decine le università che verranno occupate. A differenza di altri paesi, in Italia il fervore della protesta dura e si articola per oltre 10 anni. Il movimento diventa di massa e coinvolge gli operai e altri strati della società e assume un carattere poli-culturale, interclassista e internazionalista.

Questa non è dunque una mostra su un periodo storico, una moda, una città, uno stile o un genere musicale. Questa è una mostra su una delle cose più fragili ed allo stesso tempo più resilienti e durature che esistano sulla faccia di questo pianeta: un’idea. L’idea di Rivoluzione.
Rivoluzione è l’idea che scoprire le gambe sia il punto di partenza per scoprire le nostre ipocrisie, e lasciare che ognuno possa vivere la vita che vuole nel segno del sesso che desidera; che il colore della pelle sia meno importante delle parole che offendono la nostra dignità, di qualunque colore siano; che la tecnologia ha senso solamente se fa rima con democrazia; che la musica sia una voce, un grido, un manifesto e infine un mezzo per cambiare quello che non va bene perché non fa del bene al nostro vivere collettivo. Che un disco che gira sia in realtà un ufo che trasporta la coscienza e la conoscenza tra le persone e persino tra le generazioni. Revolution è un’idea che nasce quasi contemporaneamente in differenti parti del mondo, ma che certamente trova i suoi poli generativi nella Londra che presto diventa Swinging London, e nella West Coast libertaria e pacifista di San Francisco, passando anche attraverso un’Italia liberata e ricostruita che finalmente pensa al futuro”.

QUI il video promo.

Rolling Stone, VH1 e Virgin Radio sono a fianco del progetto come Media Partner.
L’allestimento è progettato da Corrado Anselmi; progetto grafico a cura dello Studio Dinamo Milano.
Il catalogo è edito da Skira.

Ufficio Stampa: Lucia Crespi
MondoMostre Skira
Via F. Brioschi 21, Milano
Tel. 02 89415532- 02 89401645
fax 02 89410051 – Cell. 338 8090545
lucia@luciacrespi.it

Revolution
Fabbrica del Vapore
Via G.C. Procaccini 4 - Milano
Info: ed.fabbricadelvapore@comune.milano.it
telefono: 02 - 884.40785 / 62286/64110
Fino al 4 aprile 2018


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