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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Memoria, maschera e macchina (1)

Torna, graditissima ospite, su questo sito Anna Maria Monteverdi in occasione di un suo nuovo libro pubblicato da Meltemi.
Titolo: Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage.
Anna Maria è ricercatrice di Storia del Teatro, Dipartimento di Beni Culturali, Università Statale di Milano; professore aggregato a tempo indeterminato di Storia del Teatro presso la stessa Università; professore aggregato di Storia della Scenografia, coordinatrice della Scuola di Nuove tecnologie dell’Accademia ‘Alma Artis’ di Pisa dove è docente di Culture Digitali.
Ha insegnato per 10 anni Digital video e Drammaturgia multimediale all’Accademia di Brera. Ha pubblicato tra gli altri: Le arti multimediali digitali (con Andrea Balzola, 2005); Nuovi media nuovo teatro (2011).

La considero, e non sono il solo, una delle più grandi menti applicate alla storia e all’interpretazione del tecnoteatro. Lo è perché la sua competenza critica non si limita alla parte scenica del nostro mondo tecnologico, ma abbraccia l’intero universo digitale, le sue implicazioni di linguaggio, i suoi esiti sociologici. Com’è possibile notare in questa conversazione che ebbi con lei.

Fernando Mastropasqua ricorda nella Prefazione che già nel 2005, Monteverdi scrisse la prima monografia su Robert Lepage, uno dei maestri della regìa contemporanea. Ora ritorna sulla figura di questo creatore canadese con accresciuta esperienza e rinnovati strumenti critici.

Cliccando QUI immagini e parole di Lepage.

A proposito di parole, di lui molto mi piacciono queste: Racconto storie attraverso le macchine. L’attore stesso è in sé una macchina. So che a molti attori non piace essere definiti macchine, ma se fai teatro è un po’ così.

Dalla presentazione editoriale.
«Memoria, maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Robert Lepage, regista e interprete teatrale franco-canadese considerato tra i più grandi autori della scena contemporanea che usa i nuovi media; se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica video diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda. La perfetta corrispondenza tra trasformazione interiore del personaggio e trasformazione della scena determinano la caratteristica della macchina teatrale nel suo complesso che raffigura, come maschera, il limite tra visibile e invisibile. Il volume contiene interviste a Robert Lepage e allo scenografo Carl Fillion e un’antologia critica con saggi di Massimo Bergamasco, Vincenzo Sansone, Erica Magris, Giancarla Carboni, Francesca Pasquinucci, Andrea Lanini, Ilaria Bellini, Sara Russo, Elisa Lombardi, Claudio Longhi».

QUI un primo trailer del libro e QUI un secondo video.

CLIC per visitare il sito web dell’autrice.

Segue ora un incontro con Anna Maria Monteverdi.


Memoria, maschera e macchina (2)

A Anna Maria Monteverdi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Perché Robert Lepage è il protagonista dei tuoi saggi?

Il franco canadese Robert Lepage è senz’altro uno dei più rappresentativi registi e interpreti del teatro contemporaneo, il suo uso della tecnologia video e interattiva è davvero emblematico, diventa un elemento drammaturgico fondamentale, e grazie alle originali soluzioni e dispositivi scenografici inventati, dà forma a un nuovo teatro sottratto alle convenzioni. Si svela la potenzialità della tecnologia da parte di una generazione di registi che ha smesso di pensare ai nuovi media in scena come qualcosa di assolutamente “altro” rispetto a quel “grumo di emozioni” con cui tradizionalmente definiamo l’attore. La sua scena integra immagini e meccanismi in un unico dispositivo teatrale metamorfico in cui l’uomo è ancora al centro della ricerca.

Titolo e struttura del titolo si articolano in “Memoria-Maschera-Macchina”.
Quale la motivazione di questa scelta
?

Memoria maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Lepage: se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio, portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda, racconta la sua storia, la sua vulnerabilità,esprimendo sentimenti e sensazioni in forma di immagini e movimento. L’attore trova un supporto fondamentale alla sua interpretazione nella scenografia mobile che, come maschera, gli permette di incarnare molteplici stati d’animo, incarnando un’identità ibrida che ha trasceso l’effimero ed è diventato memoria.
Nella macchina produttrice di immagini video e filmiche del teatro di Lepage e di una metamorfosi continua della scena, l’attore è un fondamentale ingranaggio.

Perché Lepage sostiene che “la tecnologia è la reinvenzione del fuoco”?

Lepage mi ha regalato quest’immagine molto suggestiva della nascita del teatro dal fuoco attorno a cui gli uomini hanno da sempre amato radunarsi per sentire storie; il fuoco produceva luce e ombra e il narratore poteva gestire le storie accompagnandosi con delle sagome proiettate, immagini elementari ma pur sempre immagini. La tecnologia a teatro pone oggi un’eguale sfida: come accompagnare visivamente il racconto per coinvolgere emotivamente ed empaticamente lo spettatore. Una frase che mi è piaciuta molto perché mette sullo stesso piano antropologia e tecnologia per spiegare il teatro.

Nel libro è dato spazio allo scenografo Carl Fillion.
Quale il suo contributo alla poetica di Lepage
?

Sin dal 1995 Fillion è lo scenografo di riferimento (anche se non esclusivo) di Lepage e della sua compagnia Ex machina. La creatività di Fillion ha dato vita agli universi in movimento dell’”Anello dei Nibelunghi” di Wagner per il Metropolitan, alle scatole specchianti dei “Sette rami dei fiume Ota”, al cubo girevole e videomappato di “Les aiguilles et l’opium”; nel libro ho inserito varie interviste che ho fatto a Carl nel corso di alcuni anni in cui mi ha spiegato come nella progettazione tenga conto della presenza dell’attore e dei suoi movimenti sopra questi dispositivi sempre in movimento che richiedono equilibro e destrezza. Ma è proprio la dinamica scenica a fornire ulteriori tematiche al lavoro teatrale complessivo. La regia di Lepage acquista così una completezza nelle soluzioni scenografiche di Fillion che sono davvero sorprendenti -e non solo per la tecnologia utilizzata-; premiate ed elogiate dalla critica e dal pubblico hanno permesso a Lepage di sbancare botteghini e prendere premi internazionali.

Una domanda che riguarda non solo il teatro, ma tutta la nostra contemporaneità digitale. Diceva John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”.
Perché in tanti arretrano di fronte alle nuove tecnologie? Da dove viene quel panico
?

Mac Luhan per questa “reazione protettiva” rispetto all'innovazione che avanza, aveva introdotto la curiosa “sindrome dello specchietto retrovisore”, in sostanza noi siamo sempre indietro nella comprensione di una tecnologia perché la comprendiamo quando essa ci sorpassa: troppo intenti a guardare indietro, il passato, non ci accorgiamo del presente e del futuro. Beh, vale anche oggi. Il paradosso è che siamo circondati dalle tecnologie, usiamo le APP di realtà aumentata per fare la spesa, tra poco potremo telefonare alla nostra macchina per dirle di venire sotto casa a prenderci, ma ci spaventa l’idea che un attore possa interagire non dico con una intelligenza artificiale ma anche solo con un video! La lezione del videoteatro degli anni Ottanta non è ancora stata sedimentata a sufficienza evidentemente.
Bisogna invece accettare l’idea che le nuove tecnologie possano portare a pensieri diversi,
Un amico artista, Lino Strangis mi ha mostrato alcune sue creazioni fatte con una videocamera 360°. Certamente ci sarà chi continuerà a farsi dei selfie simpatici con questi mezzi, ma ci saranno per fortuna, anche artisti, che come Lino, forzando il sistema, faranno dire a questi strumenti quello per cui non sono stati programmati e apriranno la visione a un impensato modo di forme impenetrabili ai modi conosciuti e praticati, di narrare, pensare, immaginare l’arte. Per esempio, usarle per generare immagini stereoscopiche che diventano l’apoteosi di un quadro di Braque. Le tecnologie permettono un vedere aumentato, caleidoscopico, permettono di immaginarci una super vista, come avessimo una protesi innestata, nel senso macluhiano del termine. E non è questo forse il sogno di ogni avanguardia, un’estensione della nostra visione, della percezione oltre i confini dei nostri corpi e dei nostri sensi? Questo non vuol dire diventare macchine ma assumere dei punti di vista diversi, allargati anche a teatro. Quel mondo impensato verrebbe finalmente liberato, sbalzato fuori dal suo stato latente. A dimostrare che c’è sempre una quarta parete da squarciare e un teatro da inventare.

……………………………………

Anna Maria Monteverdi
Memoria, maschera e macchina
nel teatro di Robert Lepage
Prefazione di Fernando Mastropasqua
Pagine 412, Euro 28.00
Con inserto fotografico a colori
Editore Meltemi


Janis


Questa nota va on line in anticipo sulla data che ricorda perché questa sezione del sito quel giorno è impegnata in un altro servizio.

4 0ttobre 1970: il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin.
Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni.
Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano dal titolo che visto quanto accadde, appare ancora più decisamente inquietante: Buried Alive In The Blues . .
L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri.
Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo.

«Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie».
E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».

Un grande ritratto di Janis lo trovate su Kainowska, sito bellissimo che vi consiglio di mettere tra i preferiti.

QUI Cosmotaxi ricorda Janis Joplin con uno dei suoi maggiori successi.


Contro i bei tempi andati

Ecco un libro che mi vede fra i suoi accesi sostenitori a partire dal titolo.
L’ha pubblicato Bollati Boringhieri e a scriverlo non è un giovane, ma un grande filosofo prossimo ai novant’anni, accademico di Francia dal 1990, ha insegnato Storia della Scienza presso l’Università di Paris 1 e la Stanford University.
Si tratta di Michel Serres, per biografia e altri libri nel catalogo Bollati Boringhieri: CLIC.
Di lui ha detto Umberto Eco: “Michel Serres è la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia” (Lectio magistralis al Festival della Comunicazione, settembre 2015).
Contro i bei tempi andati, è una felice sintesi di una significativa parte del pensiero di Serres schierato a favore delle giovani generazioni che praticano il virtuale e amico di quanto si trova nella nuova espressività digitale sia nell’informazione sia nelle arti.
Proprio in Francia, patria del Méthode, evidenzia in tutti i suoi libri d’essere contro il Metodo perché “dal Metodo non nasce niente” come recita il sottotitolo di una sua opera.

Una delle cose che ascoltiamo più di frequente da tanti sono le lodi del passato sempre unito ad un’accigliata condanna dei nostri giorni dove “chissà come andremo a finire”.
Tanti arretrano di fronte all’oggi, e, peggio, al futuro che scienza e tecnologia propongono a ritmi sempre più accelerati, si rifugiano in un passato immaginato, chissà perché, sempre migliore del presente. Sono gli stessi che parlano male del progresso, ma ben felici che sia stata inventata l’anestesia quando siedono dal dentista.
Serres mette in scena un Vecchio Brontolone che ottusamente cammina con la testa rivolta all’indietro e una vivace Pollicina che allegramente non gliene perdona una.
Appena ieri “siamo stati guidati” – scrive Serres – “da Mussolini e Franco, Hitler, Lenin e Stalin, Mao, Pol Pot, Ceasescu… raffinati specialisti di campi di sterminio, torture, esecuzioni sommarie, guerre, epurazioni”.
Era meglio una volta?
E poi, ancora nel secolo scorso, e, peggio prima ancora, la vita era segnata da terribili condizionamenti: la malnutrizione, la durezza del lavoro che spossava i corpi, i massacranti spostamenti per località che oggi raggiungiamo in breve e comodamente, l’esistenza stentata in ambienti malsani, la scarsissima igiene personale che provocava malattie e favoriva epidemie, alle donne erano riservati sudore, sottomissione e imposta l’ignoranza.
Era meglio una volta?

Concludendo, merita una lode la traduzione di Chiara Tarantini che si è cimentata con una prosa tanto brillante quanto non facile per i riferimenti storici che contiene e per divertenti giochi di parole resi comprensibili grazie a puntuali note a piè di pagina.

Dalla presentazione editoriale
«Ovunque celebrato tra i più acuti epistemologi dei nostri giorni, Michel Serres rivendica per sé un unico privilegio: sconfessare motivatamente chiunque deprechi il presente in nome di un passato migliore. Catastrofisti e declinisti di ogni risma sono avvertiti. Non sarà consentito loro alcun vagheggiamento del buon tempo andato. Ogni nostalgia del “prima” dovrà mostrare il proprio volto ipocrita di difesa di prerogative acquisite e chiusura preconcetta al nuovo. Le conquiste di civiltà tanto macroscopiche quanto sottovalutate dai passatisti – il balzo della speranza di vita, la sensibilità ecologica, la parità di genere, i progressi giganti dell’igiene e della medicina – sono perfettibili, certo. Ma perché dimenticare gli oltre settant’anni di pace, condizione eccezionale nella storia d’Europa? Serres e la sua giovanissima eroina positiva, Pollicina, che con il cellulare tiene in mano il mondo intero, parteggiano per una vita dolce e lieve, solo adesso possibile. Se è ottimismo, non presenta però tratti di ingenuità. È combattente, argomentato, trascinante come il brio occitano di una prosa che non ha eguali».

Michel Serres
Contro i bei tempi andati
Traduzione di Chiara Tarantini
Pagine 74, Euro 8.00
Bollati Boringhieri


Donne nel '68

“Voglio essere orfano”.
Queste tre parole furono tracciate su d'un muro della Normale di Pisa nel ’68.
A me pare che ben riassumano lo spirito di quel tempo. Nella sua radicalità, esprimevano la voglia di liberarsi del passato a costo di rimetterci perché quel passato era troppo spesso usato come carico oppressivo e repressivo.
Quella scritta idealmente ne anticipa un’altra su di un muro parigino: “Siamo realisti: chiediamo l’impossibile”.
In quel grande rivolgimento sociale e politico, spesso, è stato trascurato il ruolo delle donne che fu oscurato allora anche dai “compagni” di lotta e solo con molta difficoltà e altrettanta forza riuscì a imporsi nello scenario socioculturale di quell’anno (e di quelli seguenti) con i temi femministi che andavano dal lavoro al sesso.

Un libro pubblicato da il Mulino ricorda alcune delle figure che in Italia, fra geniali intuizioni e anche errori, proposero un nuovo modo delle donne di essere, come verbo e come sostantivo.
Titolo: Donne nel Sessantotto.
Le autrici del volume: Paola Cioni – Eliana Di Caro – Paola Gaglianone – Claudia Galimberti – Lia Levi – Dacia Maraini – Maria Serena Palieri – Francesca Sancin – Cristiana Di San Marzano – Mirella Serri – Chiara Valentini.
Fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini.
Per il Mulino hanno pubblicato anche «Donne del Risorgimento» (2011), «Donne nella Grande Guerra» (2014) e «Donne della repubblica» (2016).
Per altri editori: «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008).
“Quanto c’è però da fare ancora” – scrive giustamente Maria Teresa Palieri – “quanto ancora c’è da mobilitarsi e ribellarsi, perché ‘il Sessantotto delle donne’ arrivi a compimento? E non solo quanto a leggi, ma nella vita di tutti i giorni, nel privato, nel lavoro, nella cultura”?
Molto, indubbiamente. Eppure, senza quella grande scossa di cinquant’anni fa quei problemi, e altri ancora, oggi neppure sarebbero considerati problemi.
“Donne nel Sessantotto” è uno di quei libri da leggere per capire atmosfere, desideri, volontà, ma anche sbagli e sconfitte di quegli anni. Perché come accade a tutti i grandi sommovimenti della Storia, nel ’68 insieme con il grande rinnovamento che pervase tutto l’Occidente, insieme con un nuovo, positivo, pensiero sulla società, non mancarono sbagli e anche qualche goffaggine, però, come ha scritto Stefano Benni: “Tutte le volte / che lo dichiarano morto / su giornali e tivù / il Sessantotto / dura un giorno di più”.

Dalla presentazione editoriale
«Il libro tratteggia sedici ritratti biografici di donne che hanno partecipato, anche senza essere militanti, a quel grande passaggio d’epoca che va sotto il nome di Sessantotto. Così Franca Viola che si ribellò agli arcaici costumi siciliani e rifiutò il matrimonio riparatore, così Mara Cagol che pagò con la vita la scelta del terrorismo brigatista. Due ribellioni diverse, una pacifica e una violenta, emblematiche di quegli anni. E in mezzo ci sono le altre, Amelia Rosselli, Carla Accardi, Patty Pravo, Giovanna Marini, Perla Peragallo, Krizia, Emma Bonino, Rossana Rossanda, Carla Lonzi, Letizia Battaglia, Annabella Miscuglio, Mira Furlani, Elena Gianini Belotti, Tina Lagostena Bassi: ogni “scatto” disegna un percorso, politico, artistico, culturale, civile, ora luminoso ora tormentato, sullo sfondo di quella rivoluzione femminile, che – come ha scritto Eric Hobsbawm - è stata l’unica rivoluzione riuscita del Novecento».

AA. VV.
Donne nel Sessantotto
Con inserto fotografico in b/n
Pagine 292, Euro 23.00
e-book Euro 15.99
il Mulino


Edipo tiranno!


In uno dei film di Troisi, gli viene chiesto “Vuoi sapere la verità?” e lui, deciso, “No”.
Non l’avesse cercata con tanto accanimento Edipo, interrogando ora questo ora quello! Avesse dato ascolto al servo di Laio che lo supplicava di non fare troppe domande! Ma niente, quello cocciuto come un mulo riuscì nel suo intento e andò incontro al cieco, buio destino che lo attendeva.
Quanta saggezza, a mio avviso, aveva il servo di Laio!
Che, chissà non avesse previsto pure gli ulteriori guai che, ispirandosi proprio a Edipo, un medico viennese tempo dopo avrebbe procurato aggirandosi nei malfamati bassifondi della psiche di noi umani.
Sia come sia, l’Edipo di Sofocle, composto fra il 430 e il 420 a. C (la data precisa è incerta, ma anche qui non indaghiamo troppo, dovesse venircene del male?), è giudicato da Aristotele nella “Poetica” uno degli esempi paradigmatici dei meccanismi di funzionamento della tragedia greca.
Tante le messe in scena di questo classico, oggi rivisitato da uno dei maggiori nomi della scena italiana: Giorgio Barberio Corsetti.
I più distratti possono rinverdire la loro memoria sull’opera di questo regista QUI.

Questo suo nuovo lavoro vede in scena venti attori della Compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico che moltiplicano e riassemblano il personaggio di un Edipo alla ricerca di se stesso e dell’altro da sé.
Lo spettacolo prende avvio all’esterno del teatro, un “fuori” ambientato in un campo profughi. Si fa così subito chiara la forte volontà di lettura del presente attraverso la pièce. Gli spettatori sono invitati a seguire gli attori lungo un percorso che si struttura in due parti, quasi a simboleggiare le due città attraverso le quali dovrà muoversi Edipo. Due città: la città del mondo e la città interiore.
Dice Barberio Corsetti: La città del mondo è malata, l’umanità intera è contaminata. La sterilità divora le risorse, gli uomini non hanno di che mangiare, le donne partoriscono sangue. Questo è fuori, è l’esterno, un accampamento di migranti che non hanno più un luogo dove stare. Edipo può salvare il mondo, ma deve penetrare nella città interiore, nel cuore stesso dell’Io. Edipo deve portare a termine la sua indagine, sapere chi ha ucciso il Re. Edipo si riflette all’infinito, nella sua mente tante parti di lui diventano i personaggi. Tanti Edipi che si moltiplicano e devono districarsi all’interno della sua anima per arrivare al fondo dell’indagine.

Questo spettacolo rinnova per il secondo anno consecutivo la collaborazione fra Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. “Tiranno Edipo!” si inserisce, infatti, all’interno di un percorso condiviso tra le due istituzioni culturali, che vede al Teatro India quattro spettacoli interpretati e diretti dalla neonata Compagnia dell’Accademia, con l’obiettivo di sostenere la creatività e il perfezionamento degli allievi neodiplomati attraverso la formazione e il confronto con maestri e registi affermati.

Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino
mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net ; tel. 06. 684 000 308 I I I 345. 44 65 117

Tiranno Edipo!
da Sofocle
Drammaturgia e regìa di Giorgio Barberio Corsetti
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma
Info: 06 . 68 4000 311 / 14
Dal 27 settembre al 3 ottobre


Il viaggiatore mentale


Credo che non tutti i fans di Oneohtrix Point Never, pseudonimo del musicista sperimentale Daniel Lopatin, sappiano che dietro certi splendidi video dallo scenario distopico ed dalle atmosfere angosciose – un esempio QUI – c’è anche lo zampino di Jon Rafman un artista che esplora la nuova espressività digitale attraversando in modo trasversale i più recenti dispositivi tecnologici.
Un maiuscolo esempio intermediale d’incubi vissuti tra reale e virtuale; una metafora di una civiltà affidata ai devices governati da gruppi di potere che s’impossessano delle nostre abitudini, dei nostri gusti, delle nostre vite.
Rofman è nato nel 1981 a Montreal, dove vive e lavora.
Dopo gli studi in lettere e filosofia alla McGill University si diploma in film, video e new media presso la School of the Art Institute di Chicago. Sin dai suoi esordi l’artista si concentra sulle conseguenze dell’uso della tecnologia sulla nostra percezione della realtà. Ad esempio, per creare Kool-Aid Man (2008-11) ha frequentato per tre anni la piattaforma virtuale Second Life per scoprire le innumerevoli e multiformi rappresentazioni dei suoi “abitanti” digitali con un avatar che dà il nome all’opera. Rafman si astiene dal giudicare o criticare gli abitanti di Second Life poiché il suo intento è di mostrare come la tecnologia consenta alle persone di creare nuove rappresentazioni di sé all’interno di ambienti fantastici, dando loro la libertà di plasmare nuove identità e iconografie.

Questa mostra dell’artista canadese, presentata da Fondazione Fotografia Modena insieme con la Galleria Civica di Modena, è curata da Diana Baldon che dirige la Fondazione Modena Arti Visive da circa un anno (si veda su questo stesso sito QUI).

Per una guida critica alla mostra CLIC.

Ufficio Stampa Fondazione Modena Arti Visive
Irene Guzman; +39 349 – 12 509 56; i.guzman@fmav.org

Jon Rafman
Il viaggiatore mentale
A cura di Diana Baldon.
Assistente curatrice: Chiara dall'Olio
Galleria Civica di Modena,
Palazzina dei Giardini
Corso Cavour 2 – Modena
T +39. 059 – 42 70 657
Fino al 24 febbraio 2019


L'ultima notte di Aldo Moro

L’Italia è il Paese europeo che ha avuto il maggiore numero di stragi originate da moventi politici e, a maggiore vergogna, di stragi impunite a cominciare da Portella delle Ginestre fino ai più recenti anni.
Quelle tragedie è come fossero state fatte da una sola raffinatissima mente che abbia provveduto prima a compierle e poi a depistare le indagini per accertare verità.
Il 14 novembre del 1974, sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini firmò il famoso articolo in cui diceva “Io so i nomi dei colpevoli… “ ed elencava fatti di sangue, tentativi di golpe, torbidi affari fra Stato e malavita, e concludeva con “… ma non ho le prove”.
Lo scrittore, ucciso un anno dopo, il 2 novembre 1975, non ebbe la possibilità di conoscere altre carneficine che avrebbero insanguinato il nostro Paese ma quell’articolo già le conteneva tutte perché i modi d’esecuzione e i fini che si proponevano erano gli stessi che lui aveva denunciato.
Stragi per destabilizzare e anche stragi per stabilizzare (come affermano alcuni osservatori), eppure una su tutte ha segnato i destini dell’Italia. Avvenne il 16 marzo 1978, quando fu massacrata la scorta di Aldo Moro che fu rapito e assassinato 55 giorni dopo.
Quel giorno il presidente della Dc si recava al Parlamento per il voto che – per la prima volta dal 1947 – avrebbe sancito l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo.
Un assetto politico voluto fortemente da Moro, contrastato da molti ambienti italiani e stranieri. Famosa fu un’intimazione a lui rivolta da Kissinger che doveva contenere sostanziose minacce perché Moro da quell’incontro uscì scosso e tale vi restò a lungo.

Sul caso Moro sono stati scritti un’infinità di articoli e libri, non posso dire di averli letti tutti ma, almeno quelli più citati e ritenuti validi dagli studiosi, sì.
Con tutto il rispetto per quanti hanno lavorato su quel caso, mai mi era capitato di leggere un volume tanto documentato quanto innovativo nelle deduzioni come mi è capitato con L’ultima notte di Aldo Moro Dove, come, quando da chi e perché fu ucciso il presidente Dc pubblicato dalla dalla casa editrice Ponte alle Grazie. .
L’autore è Paolo Cucchiarelli (1956), scrittore e tra i migliori giornalisti investigativi, già caposervizio e oggi collaboratore dell’ANSA.
Ha seguito i casi politico-giudiziari più clamorosi: la strage di Piazza Fontana, la vicenda Moro, l’attentato a Giovanni Paolo II, Gladio, Tangentopoli, il dossier Mitrokhin.
Le sue inchieste hanno portato alla riapertura di parecchi fascicoli giudiziari.
Dal suo “Il segreto di Piazza Fontana” (Ponte alle Grazie, 2009) Marco Tullio Giordana ha tratto il film “Romanzo di una strage” (2012).
La sua inchiesta “Morte di un presidente” che precede “L’ultima notte di Aldo Moro”, è stata pubblicata da Ponte alle Grazie nel 2016.
Il volume è strutturato in due parti. La prima, scandita giorno per giorno dal 16 marzo all’8 maggio, ultimo giorno della vita di Moro, illustra e spiega modi e personaggi della trattativa per salvare la vita al prigioniero. Alcuni sinceri, altri meno.
La seconda, fa luce sui brigatisti e la loro condotta, soffermandosi sull’ultima notte e su quanto avvenne in quelle ore.
Riassumere quanto rivela Cucchiarelli è impossibile in una nota come questa perché tante sono le cose che l’autore porta alla luce, facendo uscire dall’ombra (con nomi e indirizzi di sedi) personaggi di un gruppo – il Secret Team – specializzato in omicidi e attentati, fino all’assassino vero di Moro: Giustino De Vuono. Il tutto passando attraverso sordità di alcuni inquirenti a testimonianze che avrebbero portato a una delle prigioni di Moro (ce ne fu, infatti, più di una), macroscopici errori (errori?) sulle rilevazioni di luoghi, origine dei proiettili, traiettoria dei colpi.
Una lettura sconvolgente perché si apprendono fatti tutti rigorosamente documentati.
Del resto, la Seconda Commissione presieduta da Fioroni ha “tombato” (bruttissima parola, e, giustamente l’autore tiene a precisare che è parola usata nella relazione finale e non sua) per i prossimi 50 anni i risultati delle indagini condotte perché accanto a verità dicibili, altre non lo sono. Per niente.
“L’ultima notte di Aldo Moro”: un libro dal quale sarà necessario passare per tutti quelli che da oggi in poi vorranno studiare e scrivere su quei foschi 55 giorni.

La presentazione editoriale
La vicenda del rapimento e della morte di Moro rimane fra le più misteriose e peggio spiegate della nostra Storia, e fra le meno compatibili con le versioni ufficiali che continuano ad essere propagandate da commissioni d’inchiesta, stampa e TV.
“L’ultima notte di Aldo Moro” di Paolo Cucchiarelli rappresenta una tappa decisiva e irreversibile verso il chiarimento della reale dinamica e dei motivi profondi di quei tragici 55 giorni. Qui Cucchiarelli ricostruisce – grazie a documenti inediti, nuove testimonianze e perizie, fotografie mai viste prima – il rapimento, la prigionia e le ultime ventiquattr’ore del presidente DC, scardinando pezzo dopo pezzo il castello di menzogne costruito negli anni. Ne emerge una realtà sconcertante, fatta di operazioni d’intelligence internazionali – che per la prima volta vengono qui precisate, con tanto di nomi e cognomi –, trattative fra istituzioni e terroristi, patti con la malavita organizzata, personaggi rimasti totalmente ai margini delle vicende giudiziarie. Anche se il termine è ormai screditato, proprio di un complotto bisogna parlare: un piano articolato, volto alla distruzione politica e poi fisica di quello che sarebbe con ogni probabilità divenuto il presidente della Repubblica.

Paolo Cucchiarelli
L’ultima notte di Aldo Moro
Pagine 256, Euro 18.00
Con inserto fotografico in b/n
Ponte alle Grazie


Andare per i luoghi di confino

Questa nota è dedicata al nuovo libro di una grande storica italiana: Anna Foa.
L’ho avuta ospite su questo sito in occasione di sue pubblicazioni, ad esempio, quando uscì Portico d'Ottavia 19 e più recentemente per La famiglia F.
Ora, il Mulino ha mandato nelle librerie Andare per i luoghi di confino; in catalogo della stessa casa editrice anche «Eretici» (2012), «Andare per ghetti e giudecche» (2014), «Giordano Bruno» (2016).
L’autrice (QUI in un flash sull’importanza della memoria) ha nelle pagine di tutti i suoi libri la capacità di narrare, senza cedimenti a romanzerie, fatti, luoghi, persone, con il tono raccolto di un emozionato racconto in voce.

In “Andare per i luoghi di confino” conduce i lettori attraverso un viaggio nei posti dove furono confinati gli antifascisti.
Mussolini li definì “luoghi di villeggiatura” e Berlusconi riprese con sfacciataggine la stessa locuzione per indicare quei luoghi. Fa loro eco oggi Salvini definendo “crociere” i viaggi dei migranti nel Mediterraneo.
Ponza, Ventotene, Lipari, allora non erano le località turistiche di oggi (che perfino adesso soffrono di qualche mancanza d’attrezzature) ma luoghi di estremo disagio e a questo si aggiunga la sofferenza dei condannati tenuti lontani dai loro cari che, spesso, senza il capofamiglia vivevano pressoché in miseria.
Tanti furono i confinati. Alcuni nomi: Antonio Gramsci, Altiero Spinelli, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Leone Ginzburg, Carlo Levi, Eugenio Colorni, Sandro Pertini, Cesare Pavese, Lina Merlin, Cesira Fiori, i fratelli Rosselli.
Foa nota come fu un benvenuto errore del fascismo riunire in alcuni di quei luoghi tanti oppositori, i capi sottovalutarono del tutto la tempra di quelle donne e di quegli uomini che pure fra tante difficoltà riuscirono a elaborare tante idee e strategie di lotta che sarebbero poi fiorite in anni successivi nella Resistenza prima e nella nascita della Repubblica poi.
Le ultime righe del libro: “Il confino e l’internamento favorivano la conoscenza del mondo dell’altro. Il regime fascista non avrebbe mai potuto immaginare che dalla relegazione di Carlo Levi sarebbe nato Cristo si è fermato a Eboli, famoso in tutto il mondo. Questo non rende migliore il confino, né giustifica il fatto che l’Italia fascista si sia, con l’entrata in guerra, riempita di campi di ogni genere dove furono rinchiusi uomini, donne, vecchi, bambini. Ma non può non interrogarci sull’eterogenesi dei fini e sulla forza travolgente del pensiero umano”.

Dalla presentazione editoriale
«Tra il 1926 e il 1943 l’Italia è disseminata di luoghi di confino: isole, da cui fuggire è più difficile, ma anche borghi arroccati e sperduti nell’Abruzzo-Molise e nel Sud, dove il regime fascista invia gli oppositori e successivamente anche gli ebrei. Luoghi desolati, abitati da contadini spesso analfabeti, stupefatti all’arrivo di gente ammanettata come delinquenti. Oggi le isole di, e le Tremiti, così come i paesini di montagna, sono mete turistiche in cui nulla sembra evocare quel doloroso passato. Eppure, sulla ricostruzione politica e sulla vita morale del nostro paese nel dopoguerra quelle esperienze di confino hanno contato molto. Uomini e donne di estrazione borghese si erano accostati a un mondo umile ma autentico, mentre la popolazione locale aveva potuto incontrare persone alle quali il privilegio non aveva impedito uno sguardo partecipe e perfino affettuoso, come quello di Carlo Levi».

Anna Foa
Andare per i luoghi di confino
Pagine 136, euro 10.20
Il Mulino


Vite spezzate

Shoah... non mi meraviglierei troppo se tanti ragazzi non conoscessero questa parola e la scambiassero per il nome di una cantante o di un giocatore di calcio. Non è colpa loro. Ma di chi da settant’anni e passa, non ha permesso, scientemente o per lassismo, che i programmi scolastici fossero seriamente impegnati nello studio di ciò che avvenne tempo fa e determinò stragi.
Ricordo quanto, su questo sito, lucidamente mi disse – nel 2004! – Claudio Facchinelli (a proposito, un suo libro: “Voci dalla Shoah”, è stato pubblicato da La Nuova Italia; più di recente ha scritto Dosvidania Nina): Con l’istituzione del Giorno della Memoria, la scuola fa qualcosa, ma l’obiettivo da porsi è che quel coinvolgimento non si esaurisca in una reazione emotiva, ma diventi patrimonio comportamentale, contribuisca a far sì che mai più, in nessuna parte del mondo, quelle cose abbiano ad accadere di nuovo (e invece continuano a ripetersi). Ma, ancora di più, è importante far riflettere che, ogni volta che blateriamo luoghi comuni sugli albanesi, gli zingari, gli arabi, o che parliamo senza carità degli sbarchi di clandestini a Lampedusa, ci incamminiamo sulla strada del razzismo, al fondo della quale ci sono i forni crematori di Auschwitz. Anche se ho una contiguità familiare con l’ebraismo, la tragedia della Shoah mi interessa fondamentalmente per il suo valore paradigmatico ed universale di violenza dell’uomo sull’uomo .

Che cosa è stato fatto per prevenire il razzismo?
Basti pensare che la Federazione Calcio fa soltanto una multa a una squadra di calcio che ha visto parte dei suoi tifosi usare l’immagine di Anna Frank per disprezzare gli avversari.
E ricordate quando un Presidente del Consiglio alla vigilia della Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager?
E il presentatore Paolo Limiti che invita su Raiuno un coro in camicia nera a cantare l’inno della X Mas (Presidente del Consiglio un muto D'Alema)?
E i tanti social che incitano sulla Rete a colpire stranieri ed ebrei?
E gli sdoganamenti del razzismo di Salvini contro gli immigrati?
E le vergognose cose decise dal sindaco di Trieste appena giorni fa?
Tutto quanto sta accadendo viene da lontano.
Il calendario ricorda che 80 anni fa furono promulgate in Italia le leggi contro gli ebrei.
Dice la scrittrice Lia Levi: “L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole dove non c’erano scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio”.

QUI si può leggere l’elenco completo di tutti i divieti (dall’istruzione alle professioni e ai mestieri) imposti agli ebrei da Mussolini il 5 settembre 1938.

Segnalo oggi una mostra ancora in corso, a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger, che, nel tempo presente è opportuna, quindi, in modo speciale.
Inaugurata a Roma alla Fondazione Museo della Shoah il 26 aprile, è intitolata 1938 Vite spezzate.
In questo video vari interventi fra i quali quelli di Mario Venezia, Presidente della Fondazione Museo della Shoah e di Virginia Raggi sindaca della Capitale.
La mostra è molto bene allestita con documenti fotografici e filmati che riportano agli anni di quella tragedia, lontane immagini che ci ammoniscono circa pericoli che mai sono trascorsi e in momenti della storia, come ai giorni nostri, si fanno nuovamente minacciosi.

Ufficio Stampa: Micol Mieli

Fondazione Museo della Shoah
“1938 Vite spezzate”
Casina dei Vallati
Via del Portico d’Ottavia 29, Roma
tel. +39.06.68139598
fax +39.06.68805387
info@museodellashoah.it
Fino al 18 novembre '18


Aristotele


L'Editoriale Scienza ha dedicato una sua recente pubblicazione a due grandi personaggi e al loro incontro.
Capirete chi sono quei due dal titolo: Aristotele Il prof. di Alessandro il Grande.
Autore del testo e illustratore: Luca Novelli.
Il libro esce nella fortunata collana ‘Lampi di genio’ ideata nel 2000 proprio da Novelli. Contiene “autobiografie” di grandi personaggi; ‘Lampi di genio’ ebbe anche un seguito di realizzazioni televisive.
Nel 2001 Legambiente, all'interno del “Premio libro per l’ambiente”, a Novelli assegna il riconoscimento alla carriera per la produzione di volumi divulgativi per ragazzi; nel 2004 riceve il “Premio Andersen” come migliore autore proprio per la divulgazione scientifica.

Aristotele (384 Stagira – Calcide 322 avanti Cristo), ha un nome che, come il dizionario spiega, deriva “dall'unione di ἄριστος (aristos) ‘migliore’ e τέλος (telos) ‘fine’, alla lettera può intendersi con il significato di «il fine migliore», oppure «che giungerà ottimamente alla fine», in senso più ampio”.
Fu allievo di Platone (Atene, 428/427– Atene, 348/347 a.C.), il quale - ad alcuni potrà apparire strano - detestava la scrittura. La giudicava un “pharmacon”, cioè un veleno, perché, a suo dire, danneggiava la memoria. Credeva, invece, che la conoscenza andava incisa nell’anima. Tale cosa ai nostri giorni ha ispirato laiche riflessioni del filosofo Maurizio Ferraris espresse nel suo saggio “Anima e iPad”.
Torniamo ad Aristotele. Fondò ad Atene una scuola tutta sua, il Liceo, dal nome del dio Apollo Licio, al quale erano dedicati il giardino e la palestra. Qui teneva le lezioni camminando all’aperto o sotto il colonnato, e proprio per questo lo chiamavano “peripatetico”, non è una parolaccia, significa “passeggiatore”. E, passeggiando, distribuiva pensieri che oggi, ventitre secoli dopo, ancora studiamo.
Alle lezioni di retorica, dialettica e politica tenute da Aristotele in tanti partecipavano con entusiasmo.
Tra i suoi allievi, ce ne fu uno che come il suo maestro è ancora ricordato 23 secoli dopo, non come pensatore, come condottiero, conosciuto col nome di Alessandro il Grande conquistatore del più grande impero dell’antichità, che dalla Grecia arrivava fino al fiume Indo, il più lungo e importante fiume dell’odierno Pakistan.

Luca Novelli fa raccontare al filosofo in prima persona non solo la sua vita avventurosa, ma anche le gesta del suo celebre allievo Alessandro.
Com’è nello stile di Editoriale Scienza, il libro si conclude con un dizionarietto illustrato per chiarire concetti e illustrare personaggi incontrati nella lettura.

Età consigliata: da 8 anni.

Luca Novelli
Aristotele
Pagine 128, Euro 9.90
Editoriale Scienza


Non solo libri

La nuova mostra di Ruggero Maggi (in foto) inaugura domani a Matera presso la Arti Visive Gallery..
Ecco un estratto dalla presentazione di Emma Zanella
.
Le opere di Maggi selezionate per “Non solo libri” rappresentano molto bene questo desiderio di ricorrere a continui sconfinamenti tra le arti e le tecniche espressive tanto che il libro viene pensato e realizzato come oggetto artistico autonomo, creato per esplorare inediti territori di ricerca, per aprire finestre al di là delle quali si aprono infiniti nuovi mondi.
Maggi come artista ha da sempre privilegiato la progettazione e realizzazione del libro come pratica artistica innovativa, lontana dai rigori di opere di grandi dimensioni e capace di innescare una sorta di cortocircuito tra la parola, l’immagine, il supporto, il formato e l’interazione con lo spettatore chiamato a cambiare il suo approccio con il libro e con l’opera d’arte
[…] Maggi artista e Maggi grande promotore di cultura e di riflessione sulla contemporaneità, capace di sensibilizzare con chiarezza ma anche delicatezza di opere e azioni su questioni che toccano noi tutti. Così è anche per questa mostra pensata quasi come una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, da percorrere con uno sguardo non superficiale ma curioso dei particolari intrinseci in ogni lavoro. Le meraviglie, le curiosità sono i libri, le pagine, gli innumerevoli oggetti che dialogano con le pagine a stampa, disegnate, negate, trasformate, sovrapposte, incollate, bucate con sapienza ed anche con una certa ironica leggerezza e casualità che le avvicina a oggetti di sapore surrealista. I ricordi di infanzia, suoi o della figlia, gli amori spinosi, i ricordi letterari, gli omaggi a grandi artisti, l’attenzione alla natura, ai particolari soprattutto della natura, tutto converge in un continuum che rende la mostra un unicum in cui procedere con stupore e attenzione.

Ruggero Maggi
Arti Visive Gallery
Via delle Beccherie 41 - 75100 Matera
info: franco.dipede@gmail.com
0835 - 385641 ||| 340 – 3049740
dal lunedì al sabato 18.30 – 21.00 | domenica chiuso
20 - 30 settembre 2018


AAA Alternative Agli Aglicismi


Va di moda parlare d’invasioni. Di migranti, si capisce no?
Chi lancia l’allarme in modo drammatico, sdoganando allegre aggressioni razziste, si riferisce a marocchini, siriani, camerunensi e così via... chi così parla (e pure chi negli anni scorsi ha avuto responsabilità di governo) ignora, o finge d’ignorare, che la più grande invasione è cinese attraverso l’economia - dal commercio all’industria alle banche - ma poiché quei signori asiatici sono ricchi, vanno rispettati. Anzi c’è chi dice che è un’opportunità raccogliere qualche raviolo al vapore e qualche chicco di riso alla cantonese che lasciano cadere sotto il tavolo. Bel pirla quello lì, non sa che in futuro sotto quelle tavole imbandite più nulla cadrà. E quei resti dovremo comprarli, come in parte già facciamo, mentre ai cinesi nulla riusciamo a vendere.
Poi c’è un’altra invasione: linguistica. In Italia, anzi in Italy, va affermandosi l’itanglese.
"Già, che cos’è l’itanglese?" – si chiede Annamaria Testa - "Una moda? Un segno di provincialismo? Un fatto di pigrizia? Di superficialità? Un espediente per pavoneggiarsi davanti agli interlocutori? …per intimidirli? …per ingannarli? È il latinorum contemporaneo? Un effetto collaterale dell’importare pratiche, discipline e tecnologie nate e sviluppate altrove, senza riuscire a farle davvero nostre?".
Non a caso ho citato queste parole scritte dalla Divina Testa, perché firmò l'introduzione a un libro uscito l’anno scorso, edito da Hoepli, di Antonio Zoppetti intitolato Diciamolo in italiano.
Ebbi il piacere di recensirlo segnalando anche un virtuosistico assolo dell’autore in una irrresistibile traduzione dell’incipit di un nostro grande classico; se la vostra giornata è cominciata storta, quel brano letterario vi rischiererà l’umore, se è cominciata bene, meglio ancora la proseguirete. Per divertirvi, cliccate QUI.
.
Diciamolo in Italiano è passato dalla cellulosa al silicio e, infatti, oggi Internet si avvale di un website… ops! scusate, diciamolo in italiano… di un sito in Rete che contiene un prezioso dizionario: AAA Alternative Agli Anglicismi, un progetto gratuito a disposizione di tutti, ideato e realizzato da Antonio Zoppetti.
Anni fa, nella taverna che ho aperto nel 2000 sull’astronave Enterprise di Star Trek lo ospitai per fare quattro chiacchiere fra un bicchiere e l’altro.
Perché lo invitai nello Spazio?
Perché Zoppetti, in arte Zop, è un terrestre speciale. Un terrestre extra.
Se avete aperto i links che precedentemente ho dato già lo sapete. Se così non è, rintracciatene lì adesso la biografia. Per ascoltare quella conversazione che ebbi con lui: CLIC.

Ancora una cosa. Non scambiate Zoppetti per un purista, un conservatore.
Lo chiarisce bene in quest'intervista con Giacomo Russo Spena apparsa su MicroMega.

Dalla presentazione in Rete.
«AAA – Alternative Agli Anglicismi è un dizionario che ha come obiettivo quello di raccogliere gli anglicismi più diffusi nella lingua italiana e nella stampa per spiegarli e affiancarli, quando possibile, alle alternative e ai sinonimi italiani. Si tratta di un’opera di consultazione pratica: non c’è alcun intento puristico, né la pretesa di suggerire alternative che non siano in uso o possibili (come per esempio guardabimbi al posto di baby sitter che proponeva Arrigo Castellani). Le alternative e i sinonimi proposti sono spesso contestualizzati attraverso esempi di uso tratti dai giornali».


Rome Bondage Week


Se è vero, com’è vero, che il bondage appartiene oggi all’area dei giochi erotici, è altrettanto vero che ha origini molto antiche rintracciabili in cerimonie religiose nipponiche.
Chiamato “shibari”, è una tecnica d’immobilizzazione che nel XV secolo era utilizzata dai samurai e come tale rimase fino al XVIII secolo. Molti studiosi di tradizioni orientali sostengono che entrò nell'immaginario erotico giapponese nel periodo Edo (1600-1860).
In occidente si diffonde al principio del XX secolo, dapprima specie in ambienti BDSM poi la sua conoscenza si propaga tanto che diventa anche forma artistica e ne troviamo plurali tracce, ad esempio, nella Body Art.
Il termine Body Art è stato inizialmente adottato negli Stati Uniti e in Europa negli anni sessanta del Novecento e successivamente inscritto nel più ampio àmbito della performance art.
Con Body Art, s’intendono tutte quelle forme artistiche che utilizzano il corpo come mezzo d'espressione e di linguaggio. I modelli espressivi più comuni sono il tatuaggio e il piercing. Altre pratiche della body art comprendono la scarificazione, le ustioni, gli impianti sottopelle, ed altre forme di modificazione corporea.
«Vivere il proprio corpo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient'altro che il riflesso dei miti creati dalla società».
Sono parole queste di Gina Pane (“la sua è arte come sacrificio, martirio, offerta”, copyright Lea Mattarella) che insieme con le volute operazioni chirurgiche antiestetiche di Orlan, le dislocazioni anatomiche dell’australiano Stelarc, le modificazioni elettroniche del corpo di Marcel.Li Antunez Roca, è protagonista di quell’area artistica di cui si trova profilo e interpretazione critica in “La Body art” (Fabbri, 1975) da parte del grande storico dell’arte Gillo Dorfles recentemente scomparso.

La tematica della corporeità, grazie a un particolare utilizzo pubblico del corpo, è visitata dalla nuova edizione, presentata da Ritual The Club, di Rome Bondage Week... ma almeno Roma perché non scriverla in italiano?... dove, è opportuno dirlo, non sono presenti pratiche estreme del tipo prima accennate,
La direzione artistica è di Red Lily che è maestra (QUI in video) di bondage e una delle donne “rigger” (ossia "legatrici") più famose; coautrice del libro “Bondage, la via italiana all’arte di legare” edito da Castelvecchi nel 2010.
La settimana, si annoda… pardon!... si snoda attraverso molti avvenimenti: 27 artisti delle corde per 40 ore di workshop, performance, spettacoli, peer rope, eventi ludici.
Un evento a 360°, dalle 10 di mattina alle 5 di notte, con focus sull'aspetto artistico, teatrale e culturale del bondage giapponese.

Ufficio Stampa HF4 – Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it; 340.96 900 12

Rome Bondage Week
Direzione artistica Red Lily
Largo Venue Via Biordo Michelotti 2, Roma
Dal 20 al 23 settembre 2018


Elogio della zoccola

Diceva Gesualdo Bufalino: “Quanto male è nato dal pregiudizio che il biasimo sia intelligente e l'elogio stupido”.
Se non fossi ateo, direi: parole sante!
Si pensi all’elogio dantesco di S. Francesco nel canto XI del Paradiso, all’Elogio della Follia di Erasmo, all’Elogio degli Uccelli nelle Operette morali di Leopardi, e i tanti elogi spesso anonimi, alla modestia, all’eroismo, alla maternità, e, perfino, alla povertà, alla miseria, alla morte… ma qui francamente mi pare che si esageri.
Né mancano ai nostri giorni (escludendo quelli fatti per servilismo su qualche foglio) altri nobili scritti: Elogio della lettura di Vargas Llosa, Elogio della letteratura di Zygmunt Bauman, Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini, Elogio della penna stilografica di Giuseppe Neri, Elogio della Disarmonia di Gillo Dorfles… insomma un elenco che a scorrerlo tutto facciamo notte.
Eppure fra le tante passioni, le tante idee, le tante figure, a torto o a ragione elogiate, mi risulta (spero di non sbagliare) che una parte, pur cospicua, dell’umanità sia stata ingiustamente trascurata. O meglio era stata trascurata. Perché ora, per la gioia di alquanti, e, soprattutto, di alquante, se fate, come vi consiglio, una capatina nelle EdizioniSabinae troverete un titolo che ripara quell’ingiustizia: Elogio della zoccola.
Una panoramica storica, linguistica, sociologica, letteraria, di quell’importante personaggio, importante non solo nella nostra società.

Ne è autore Mauro Giancaspro che così si presenta a chi legge il suo librino.
"Carissimo lettore, quasi settanta anni fa sono nato a Napoli per caso, da genitori non napoletani, abruzzese mamma e pugliese papà, che, vai a capire perché, si è sempre fatto chiamare babbo (…) Ho vissuto per quarant’anni a contatto diretto col patrimonio librario italiano. Dopo otto anni alla Biblioteca Universitaria di Napoli, dieci alla Direzione della nascente Biblioteca Nazionale di Cosenza, poi finalmente a Napoli, venti anni trascorsi alla direzione della Biblioteca Nazionale della città con la ripresa quotidiana del dialetto”.

La penna colta e birichina di Giancaspro si è prodotta anche in altri Elogi indirizzandoli al Filobus, alla Lettera anonima, al Recupero.
Ma torniamo all’Elogio della zoccola. Ho rivolto all’autore alcune domande.

Come nasce questo libro?

Si chiacchierava tra amici dopo cena di calcio e qualcuno ricordò lo striscione srotolato sulla curva B dello stadio San Paolo contro la tifoseria veronese con la scritta cubitale: “Giulietta è una zoccola”. A quel punto Simone Casavecchia, editore di Sabinae, chiese delucidazioni sull’uso della parola zoccola a Napoli. Io dissi la mia attribuendo alla parola zoccola una valenza non solo dialettale, ma nazionale essendo stata accolta nei dizionari di italiano. Questo fece sì, aggiunsi, che la tifoseria veronese certamente comprendesse l’entità dell’offesa. Poi si discusse tutti insieme delle differenze tra la parola zoccola e tutti i suoi possibili sinonimi. A quel punto Simone mi chiese se potevo mettere in un libretto una sintesi di quello che ci eravamo detto. Così è nato l’“Elogio della zoccola”.

C’è una differenza tra la puttana e la zoccola?

Dall’uso che comunemente viene fatto delle due parole si potrebbe stabilire, ferma restando l’ambiguità e la variabilità dell’una e dell’altra, che la puttana esercita un mestiere e la zoccola segue una vocazione. Va preso atto che spesso l’una e l’altra parola vengono usate non sempre correttamente come sinonimi. Non si può comunque negare che sia il figlio di puttana che il figlio di zoccola, più che la condizione del figlio di padre dubbio sono appellativi che indicano l’uomo scaltro e furbo. Analogamente la figlia di zoccola è ritenuta donna assai avveduta e disincantata.

……………………………………………………….

Mauro Giancaspro
Elogio della zoccola
Pagine 54, Euro 8.00
EdizioniSabinae


L'Ateo


L’Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti), come già altre volte ho segnalato in queste pagine, tra i suoi mezzi di comunicazione si avvale del bimestrale L’Ateo diretto da Francesco D’Alpa e Maria Turchetto.
Prima di soffermarmi su questa pubblicazione, desidero dare una notizia di pochi giorni fa.
Al Festival di Venezia il Premio Brian dell’Uaar è stato assegnato quest’anno dalla giuria (Michele Cangiani - Paolo Ghiretti - Maria Giacometti - Maria Chiara Levorato - Marcello Rinaldi) al film "Sulla mia pelle" del regista Alessio Cremonini con le seguenti motivazioni: «“Sulla mia pelle” è un film coraggioso di impegno civile, che documenta come nella nostra società sia possibile che le regole dello Stato di diritto vengano violate; che la dignità e i diritti delle persone non vengano rispettati. Il film denuncia come il raggiungimento della verità venga artatamente ostacolato da un clima di omertà e di complicità tra le istituzioni dello Stato».

Torniamo adesso al bimestrale “L’Ateo”.
Nel suo più recente numero ha dedicato uno special al tema Cibo e religioni.
I divieti di questo e di quello, ovviamente, si sprecano in tutte le religioni che sono le principali nemiche del piacere.
Alcune severissime inclinano pericolosamente verso il digiuno proibendo un po’ troppo, altre sono più concessive. Eccezione da fare per la ebraica e la musulmana, roba che sei inviti a pranzo uno di loro è debilitante fatica immaginare il menu.
Leggendo i vari articoli, la più ipocrita mi appare quella cattolica, proibisce ma perdona facilmente, quasi prima che il credente compia il peccato.
Bel numero questo dell’Ateo che informa sui costumi dettati da più credi religiosi facendo conoscere anche strane cose. Sapevate, ad esempio, che i giainisti, oltre a rifiutare la carne, non lavorano la terra per non uccidere gli insetti che vivono nelle zolle?

Sul tema, articoli dei due direttori e di Marco Accorti, Stefano Bigliardi, Stefano Scrima, un grazie particolare a Enrica Rota che c’illumina sulla sola religione cui sono tentato di convertirmi: il Pastafarianesimo (a capo hanno una donna – la credente Scialatiella Piccante – detta la Pappa). Praticano una sola proibizione: la carne di pinguino. Via, ci si può stare.
Lo special si conclude con consigli di lettura presentando, a cura della redazione, una ricca bibliografia esplorando campi antropologici, sociologici, storici.

Altre firme, su altri argomenti, di Bruno Gualerzi, Franco Ajmar, Andrea Atzeni, Carmelo La Torre.

Seguono rubriche dedicate a recensioni e lettere dei lettori, il tutto scandito da divertenti vignette.

Redazione de L’Ateo: Casella Postale 755, 50123 Firenze Centro.
E-mail della redazione: lateo@uaar.it
Per la rubrica delle lettere: lettereallateo@uaar.it

L’Ateo costa 4.00 euro ed è acquistabile nelle seguenti librerie.

In queste biblioteche lo si può consultare.

Cliccare QUI per l’Archivio dei numeri precedenti.



Julian Baggini: Ateismo

“Dio ha una sola scusa: quella di non esistere”.
(Stendhal)

“Che sia io stesso invidioso di Stendhal? Mi ha portato via la più bella battuta da ateo, che avrei potuto dire proprio io: “Dio ha la sola scusa di non esistere”.
(Friedrich Nietzsche)

Una recente pubblicazione delle edizioni Nessun Dogma – il progetto editoriale dell’UARR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) – è rivolta a tutti quelli che vogliono capire velocemente cos’è l’ateismo, conoscere la sua essenza, le posizioni etiche, i suoi scopi.
Titolo: Ateismo Una brevissima introduzione firmato da Julian Baggini uno dei più noti filosofi inglesi contemporanei, co-fondatore della rivista The Philosophers’ Magazine.
Tra i suoi libri tradotti in italiano: Le grandi domande: Etica --- Il maiale che vuole essere mangiato e altri 99 esperimenti mentali --- Il tassista, il poeta e il senso della vita.

Il catalogo di Nessun Dogma – che affianca la traduzione di classici inediti in Italia a opere che affrontano tematiche arroventate con un impertinente approccio laico-razionalista – comprende libri di eccellente levatura.
Tra le più recenti segnalo: Contro la religione. Gli scritti atei di H. P. Lovecraft --- E Gesù diventò Dio di Bart D. Ehrman --- L'Islam e il futuro della tolleranza.
Un dialogo di Sam Harris e Maajid Nawaz --- O scienza o religione di Jerry A. Coyne --- Il multiculturalismo e i suoi critici di Kenan Malik.

Torniamo al libro di Julian Baggini.
Che cosa si proponga facciamolo dire allo stesso autore.
Il libro è pensato per una molteplicità di lettori diversi, fra cui atei in cerca di difese e spiegazioni sistematiche della loro posizione, agnostici che, tutto sommato, pensano che potrebbero anche essere atei e credenti animati da un sincero desiderio di capire che cos’è l’ateismo. L’idea guida è stata quella di scrivere un libro che gli atei potranno passare agli amici per motivare le proprie convinzioni, non prima di averne fatto uso essi stessi perché li aiuti a mettere in ordine le proprie idee.

Il volumetto mantiene le promesse di quella dichiarazione perché attraverso brevi capitoli affronta sinteticamente i principali temi contro l’ateismo.
Il primo fra tutti è di natura etica: comportarsi bene in questa vita non perché si temano punizioni da chissà chi chissà dove, ma perché è giusto e bene comportarsi in modo onesto e generoso.

Dalla presentazione editoriale.
«Nonostante la sua crescente diffusione, soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione, l’ateismo è infatti un fenomeno ben poco compreso e spesso presentato in modo negativo. Nulla di più falso: l’ateismo può essere positivo, etico e pieno di significato. Ed è quello che dimostra Julian Baggini, tra i più noti filosofi inglesi contemporanei, in Ateismo. Una brevissima introduzione. Un testo agevole, argomentato nelle critiche alla religione e improntato a un approccio costruttivo: un libro che gli atei potranno passare agli amici per motivare le proprie convinzioni, non prima di averne fatto uso essi stessi, perché li aiuti a mettere in ordine le proprie idee».

L’Ufficio Stampa di Nessun Dogma è diretto da Ingrid Colanicchia: uffstampa@uaar.it

Julian Baggini
Ateismo. Una brevissima introduzione
Traduzione di Oscar Cavagnini
Pagine 164, Euro 12.00
Edizioni Nessun Dogma


Cicap Fest 2018


Da domani la prima edizione del CICAP Fest Festival della scienza e della curiosità che si terrà a Padova da venerdì 14 a domenica 16 settembre.
L’appuntamento è stato anche accreditato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università̀ e della Ricerca, per la formazione del personale scolastico.
Per approfondire: CLIC.

Il Festival promosso dal CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) che a Padova ha la sua sede storica, illustrerà attraverso incontri e spettacoli come solo la scienza, nelle sue plurali aree, possa essere guida e difesa di noi tutti che ogni giorno siamo accerchiati da bugie, bufale, e altre amenità che, però, condizionano tanti nei loro comportamenti dannosi per loro stessi e per gli altri.
Si pensi, per fare un esempio, ai disastri che ha prodotto la distorta, e più spesso falsa, informazione contro i vaccini suscitando addirittura movimenti d’opinione.

La storia della nascita del CICAP sarà ripercorsa sabato 15 settembre alle 12 – a Palazzo Bo e in collegamento streaming presso tutte le sedi del festival – quando Piero Angela presenterà la nuova edizione, curata dal CICAP, del suo Viaggio nel mondo del paranormale, la prima inchiesta scientifica sui fenomeni paranormali condotta in Italia.

Padova per tre giorni diventerà la capitale italiana della scienza e della curiosità, ospiterà tantissimi eventi e incontri in diversi luoghi della città:
- L’Orto Botanico: l'auditorium e il teatro, saranno scenario d’incontri sull’alimentazione, la scienza e l’informazione oltre a ospitare i laboratori per ragazzi.
- Il Caffè Pedrocchi ospiterà ogni mattina le rassegne stampa con i giornalisti di Focus e le dirette di Radio CICAP che trasmetterà nel corso dei tre giorni interviste e incontri con i protagonisti del festival.
- Il Museo di Storia della Medicina dedicherà un’intera giornata sfatando bufale e falsi miti sulla salute.
- Alla Galleria Cavour sarà aperta una mostra interattiva sulle illusioni ottiche.
- Il Palazzo Bo, con le sue sale, e in particolare con l’Aula Magna sarà la cornice per parlare di fake news, pseudoscienze, paranormale, con numerosi relatori.

QUI il programma giorno per giorno.

Per i Soci CICAP ci sono sconti speciali che vanno dal 20% fino al 50% per chi non ha ancora compiuto i 25 anni d’età.
QUI approfondimenti e, sul Festival, un video trailer guidato da Massimo Polidoro.

I 3 giorni padovani sono promossi dal CICAP in collaborazione con il Comune di Padova e l’Università degli Studi della città, con il patrocinio della Regione Veneto, della Provincia di Padova e dell’Istituto Superiore di Sanità, la rivista Queryonline, con Partner Istituzionali quali Istituto Mario Negri, Fondazione Umberto Veronesi, Fondazione Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza, Orto botanico di Padova, il Museo di storia della medicina, la Fondazione Antonveneta come Partner, Coop Alleanza 3.0 e di I.N.D.I.A. come Sponsor, e con la Media partnership de Il mattino, Focus, Il Bo Live, PLaNCK!, Radio Padova.

Ufficio Stampa, Sonia Ciampoli: ufficiostampa@cicap.org

Cicap Fest 2018
Padova
Varie sedi
14 – 15 – 16 settembre


La ribelle

Esistono libri che profilando una microstoria hanno la capacità di rimandare alla grande Storia e alle plurali domande poste da quella storia con la S maiuscola.
Quasi sempre quelle pagine appartengono alla memorialistica, redatte anche da personaggi poco noti o ignoti, spesso sotto l’incalzare di un’esistenza straziata.
È il caso del libro che presento oggi, meritoriamente pubblicato da Guanda, intitolato La ribelle.
L’autrice si chiama Evgenija Jaroslavskaja-Markon, moglie di un poeta, Aleksandr Jaroslavskaij, fu atea, anarchica, fucilata a 29 anni, nel 1931, nel gulag alle isole Solovki, lo stesso terribile campo di concentramento dove era stato prima giustiziato il marito.
Perché condannata a morte? Non mi soffermo su questo per non togliervi il gusto della lettura; ho scritto di come morì perché è l’editore stesso a dirlo in bandella.
Dobbiamo la conoscenza di questa autobiografia a Olivier Rolin che l’ha tratta dai tenebrosi archivi della polizia sovietica durante le ricerche che effettuava per scrivere un libro che pubblicherà col titolo Il Meteorologo.
Dicevo in apertura di microstorie che proiettano domande, suscitano questioni che appartengono alla grande storia.
“La ribelle” ne propone alquante.
Ad esempio: quale fu la condizione delle tante donne internate nel Gulag.
Un interessante studio sulle memorie femminili di quei luoghi di pena si trova QUI.
Inoltre, questo volume parlandoci del gulag comunista fatalmente rinnova la vecchia querelle del parallelo con il lager nazista.
Chi nega l’uguaglianza fra le caratteristiche di quelle due detenzioni, indica come finalità del lager l’annientamento degli ebrei mentre il gulag avrebbe avuto solo un còmpito cosiddetto rieducativo, destinato agli anticomunisti.
Parzialmente vero. Nel criminale lager nazista erano rinchiusi e uccisi in netta prevalenza ebrei, ma consistente fu il numero di altri prigionieri: oppositori politici del nazismo, omosessuali, zingari.
Le condizioni nel gulag erano durissime e conducevano alla morte molti detenuti, oltre a quelli rinchiusi provvisoriamente lì in attesa di essere giustiziati in seguito alla condanna capitale già emessa dopo un processo spesso farsesco.
Scrive Solženicyn, in “L’Arcipelago Gulag”: “Nel pieno fiore del grande secolo Ventesimo, in una società ideata secondo un principio socialista, negli anni quando già volavano gli aerei, erano apparsi il cinema sonoro e la radio, il sistema del gulag fu perpetrato non da un unico malvagio, non in un unico luogo segreto, ma da decine di migliaia di belve umane appositamente addestrate, su milioni di vittime indifese” per poi concludere: “Per fare le camere a gas, ci mancava il gas”.
Stalin è accusato, giustamente, di aver praticato l’uso massiccio del gulag, ma è Lenin ad avere indicato la strada. Secondo lo storico Andrea Graziosi, le prime repressioni appartengono ai tempi di Lenin, e pure l'uso della carestia del 1921-22 per liquidare i nemici, accompagnata dalla deportazione degli intellettuali «insegnò qualcosa a Stalin».
All'ingresso di Auschwitz c’era scritto «Il lavoro rende liberi», prima ancora, al principio degli anni 20, entrando nel gulag alle isole Solovki si leggeva: «Il lavoro fortifica l'anima e il corpo».

Torniamo a Evgenija Jaroslavskaja-Markon, l’abbiamo lasciata all’ingresso del gulag dal quale mai più uscirà, ritta sulle sue protesi. Sì, perché fu vittima da giovanissima di un incidente che le troncò i piedi, giusto per non farsi mancare niente.
Dopo l’arresto e la fucilazione del marito, smise d’essere l’ardente conferenziera e l’aspra giornalista che aveva caratterizzato in precedenza la sua vita e scelse di far parte della piccola criminalità dandosi a furti, borseggi e truffe fingendosi indovina, che le procurarono più arresti. Ho usato il verbo “scelse” perché conferì a quel tipo di vita un connotato politico credendo che quel mondo di malfattori fosse la sola forza d’opposizione ideologica al regime.
Pensiero ingenuo e pericoloso perché proprio in quell’ambiente si celavano gli informatori della polizia che non reprimeva quanto sarebbe stato necessario farlo proprio per scovare oppositori nelle strade e nelle bettole.
Inoltre, nota nella prefazione Olivier Rolin, che tutti i grandi testimoni dei gulag comunisti “da Solženicyn a Salamov, da Evgenija Ginzburg a Julius Margulin, descrivono in modo unanime i delinquenti comuni come collaboratori dell’amministrazione del gulag, nemici feroci dei detenuti politici”.
Sulla ribelle Evgenija, nella postfazione di Irina Flige – Direttrice del Centro di ricerca Memorial di San Pietroburgo – apprendiamo varie notizie e, inoltre, che “Questo manoscritto, trentanove fogli coperti da una grafia fitta e serrata, è stato ritrovato nel 1996 da me negli archivi della Direzione del FSB”.
Va detto che il testo, peraltro di pregevole stile – non è da dimenticare che l’autrice era una giornalista professionista – riferiva della sua aperta ostilità al governo comunista, dei furti commessi, del suo fingersi chiromante, e sa benissimo che quei fogli finiranno, come infatti accadde, nelle mani dei giudici ai quali si rivolge in modo beffardo.
Il libro è corredato da molti documenti: L’interrogatorio, l’atto d’accusa, un estratto del verbale del processo e, infine, l’agghiacciante racconto di una guardia del gulag che assiste agli ultimi istanti di vita della condannata alla “Più alta misura di difesa sociale”, così si esprimeva il linguaggio burocratico stalinista per evitare l'espressione ‘condanna a morte’.

Dalla presentazione editoriale
«Questo libro è l’autobiografia senza filtri – riemersa dagli archivi dei servizi segreti russi – di una donna appassionata e idealista. Scritta tutta d’un fiato, quasi come un diario, in una cella del gulag delle isole Solovki, ci consegna il racconto della vita ardente di Evgenija Jaroslavskaja-Markon. Nata ai primi del Novecento, fin da giovanissima dimostrò un amore viscerale per gli ultimi e un’insofferenza assoluta nei confronti di ogni potere costituito, compreso il nuovo regime bolscevico. Giornalista e conferenziera, girò la Russia e l’Europa assieme al marito, il poeta Aleksandr Jaroslavskij, personalità talentuosa e originale, molto nota nei circoli poetici e anarchici dell’epoca. Quando lui fu arrestato per propaganda antisovietica, Evgenija scelse il mondo della piccola criminalità, finendo a vivere di espedienti e piccoli furti. In una lingua schietta e senza fronzoli, le sue pagine ci raccontano l’universo degli emarginati – scippatori, ubriaconi, prostitute, ragazzi di strada –, la sola “classe” autenticamente rivoluzionaria, secondo lei, offrendoci così uno spaccato impareggiabile della Mosca e della Leningrado degli anni Venti, lontano dalla narrazione ufficiale del potere sovietico. Evgenija non teme le conseguenze della sua scelta, fino in fondo: ‘Se sto esponendo tutto ciò con la massima sincerità, è perché mi aspetto comunque di essere fucilata’».

Evgenija Jaroslavskaja-Markon
La ribelle
Prefazione di Olivier Rolin
Postfazione di Irina Flige
Traduzione di Silvia Sichel
Pagine 166, Euro 16.50
Guanda


Duilio Cambellotti in mostra

A Roma, a Villa Torlonia, è in corso la mostra monografica dedicata a Duilio Cambellotti [per una biografia dell’artista (Roma 1876-1960): CLIC ] , organizzata dalla Galleria Russo, e realizzata con il sostegno della “Fondazione Cultura e Arte”.
Titolo: Duilio Cambellotti, Mito, sogno e realtà.
Promossa da Roma Capitale Assessorato alla Crescita culturale, dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dall’Archivio di Roma dell’Opera di Duilio Cambellotti, l’’esposizione è curata da Daniela Fonti, responsabile scientifico dell’Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti e da Francesco Tetro, ideatore e direttore del Civico Museo Cambellotti di Latina, Museo che ha prestato 35 delle oltre 200 opere in mostra.
L’ottimo allestimento è opera di Alessandro Cambellotti, pro nipote dell’artista e componente del comitato scientifico della mostra.
Il catalogo (272 pagine, 28 euro), pubblicato da Silvana Editoriale, contiene saggi dei curatori e di Giovanna Alatri, Francesca Maria Bonetti, Alberta Campitelli, Carlo Fabrizio Carli, Monica Centanni, Anna Maria Damigella, Daniela De Angelis, Elena Longo, Nadia Marchioni.

A Daniela Fonti ho rivolto alcune domande.

Cambellotti, figlio di un intagliatore e decoratore, è definito un artista-artigiano.
Quale ruolo ha avuto l’abilità artigiana nella sua produzione artistica
?

Più che parlare di un artista-artigiano, che finisce in qualche modo per essere riduttivo, preferirei parlare di un artista dotato di una manualità e di una sensibilità per tutte le tecniche altissima e tale da diventare essa stessa una fonte di sperimentazione e verifica. Nella mostra che ho curato con Francesco Tetro, abbiamo messo in rilievo come la sperimentazione di tecniche diverse dia luogo, anche nella ripresa di uno stesso soggetto, a risultati estetici sorprendentemente diversi fra loro; per questo di un suo capolavoro scultoreo, la “Conca dei bufali”, abbiamo esposto la prima sensibile redazione in terracotta, il gesso – dall’apparenza quasi metafisica – e il bronzo davvero monumentale.

Orafo, ceramista, illustratore, pittore, scenografo teatrale e cinematografico, costumista, fotografo, ma in molti affermano che le opere di maggiore suo rilievo sono le sculture.
Lei è d’accordo su questo giudizio e, se sì oppure no, perché
?

Cambellotti è stato un artista veramente versatile – preferisco questo al termine, più abusato, “eclettico”- che si è posto fin dall’inizio il dogma di non stabilire una gerarchia fra le arti. Ad ogni suo pensiero o suggestione creativa, corrisponde una tecnica che li realizza e li rende opera; così se nella scala del piccolo oggetto decorativo destinato a suggerire eleganza e bellezza, prevale il cesello (si vedano in mostra i raffinati disegni per spille), se sui muri della città moderna dovranno spiccare i suoi manifesti pubblicitari dall’incisivo segno liberty, più avanti ciò che porterà nell’arredo domestico la bellezza e la varietà della natura saranno le sue ceramiche ispirate al mare, i suoi squisiti ed espressivi bronzi animalistici.

Perché, come si legge nel catalogo “…la più recente storiografia artistica lo identifica come il vero antagonista del dinamismo plastico boccioniano”?

Cambellotti avvertì e condivise con gli altri protagonisti del suo tempo l’istanza moderna di rompere l’isolamento formale della scultura, per così dire la sua insensibilità allo spazio nel quale è immersa (cioè l’immutevole qualità ereditata dall’arte classica) per aprirla alla suggestione dell’ambiente sulla strada aperta dal grande Medardo Rosso. Tuttavia questa necessità – che costituisce il nodo intorno a cui Boccioni costruisce la sua teoria del “dinamismo plastico”, non derivò a Cambellotti dalla suggestione dettata dalla moderna civiltà meccanica, ma dalla osservazione attenta della natura e dei suoi processi continuamente mutevoli. Natura vs meccanica, dunque. Così il grande bassorilievo de “I cavalli della palude” restituisce mirabilmente la sensazione improvvisa dell’emergere davanti ai nostri occhi di una mandria di puledri scatenati nella corsa, con le zampe che si sovrappongono e quasi non si contano, come nello stesso tempo farà Boccioni nei primi gessi (perduti) per Forme uniche nella continuità dello spazio. Più avanti sculture come l’Avo o Magister equitum , dalle tese superfici plastiche, includeranno anche il turbine d’aria sconvolto dal movimento nella fusione fra il cavaliere e il suo cavallo.

Cambellotti non accettò d’essere futurista. Quali le ragioni che determinarono questa sua decisione? Furono solo di matrice estetica o anche politica?

La intensa passione che questa artista provò per tutta la vita per gli spettacoli offerti dalla natura, la suggestione unica che gli proveniva dal paesaggio severo e spoglio della Campagna Romana - che ne alimentò la creatività tutta la vita - alla cui “intensa malia” si accostò fin da giovane, e dai territori delle paludi pontine poi oggetto degl’’interventi di bonifica negli anni fra le due guerre, lo misero in qualche modo definitivamente a riparo da quella idolatria della meccanica che sostenne il Futurismo italiano dagli esordi fino alle sue varie e risorgenti stagioni creative. Furono dunque, ritengo, ragioni eminentemente estetiche, quelle che lo tennero lontano dal Futurismo, di mancata condivisione di alcune premesse individuate con tanta chiarezza nei manifesti marinettiani. Non certo mancanza di stima, da parte sua, dei protagonisti del movimento, perché di Balla fu amico e sodale tutta la vita, come di Boccioni (che lo gratificò di un grande apprezzamento) nel suo giovanile soggiorno romano d’inizio secolo.
Quanto al legame fra Futurismo e fascismo, che è forse sotteso alla sua domanda, questo non si esplicitò fino agli anni ’30, un periodo nel quale tutte le correnti artistiche italiane in qualche modo dovettero fare i conti con il regime che era un poderoso e convincente committente.

……………………………………………..

Roma, Musei di Villa Torlonia
Duilio Cambellotti, Mito, sogno e realtà
Da martedì a domenica ore 9.00 – 19.00
Fino all’11 novembre 2018


La Falange di Cristo (1)

Tra i meriti della casa editrice Odradek, c’è la pubblicazione di giovani studiosi impegnati sulla storia italiana del secolo scorso.
In tempi recenti, ad esempio, ho recensito Via Tasso di Fabio Simonetti (nato nel 1984): una cronaca di quanto avveniva in quel rerribile luogo, uno studio valoroso su di un centro nevralgico della repressione nazifascista. Altro testo: Il caso Roatta di Laura Bordoni (nata nel 1991): un’accurata ricostruzione della figura di un criminale di guerra italiano e sul perché della sua mancata punizione.
Così come un giovane è l’autore del libro di cui oggi mi occupo: La falange di Cristo Per una storia dei Comitati Civici, lo firma Luca Leoni, nato a Montegranaro (Marche) nel 1983.
Dottore di Ricerca in Scienze umane, attento studioso dell'età contemporanea, concentra i suoi studi sulle relazioni tra Chiesa, politica e società.
È coautore di Romolo Murri. L'opera di un pensatore fermano, e autore di Preti e politica nel Novecento. il caso di don Aleramo Rastelli.

La nascita dei Comitati Civici, in moltissimi Comuni italiani, nel secondo dopoguerra e il carattere della loro azione rappresenta uno dei momenti centrali della lotta contro la Sinistra intrapresa dalla parte più arretrata della nostra società di allora. Un’azione che, sia pur spentasi negli anni ‘60, ha un suono di cui ritroviamo l’eco ancora ai nostri giorni. Difatti Renzi il 20 agosto in un’’intervista a Repubblica (la trovate ripresa sul sito web del Pd ha detto “Da qui a Natale nasceranno in tutti i Comuni comitati civici contro questo governo”… niente, il suono di quel nome gli è troppo caro!).
I Comitati Civici, furono fondati e guidati da Luigi Gedda. Fu tra le 360 personalità ed intellettuali che aderirono pubblicamente al “Manifesto in difesa della razza”. Hanno provato a smentire tale cosa, ma basta leggere le parole che troverete QUI per capire il pensiero di quel tale. Che fu anche – e non deve, quindi, meravigliare – un acceso fautore di un’alleanza Dc-Msi nella seconda parte degli anni ’40.
La propaganda dei Comitati fu rozza ma proprio per questo assai efficace visto il target (diremmo oggi) cui si rivolgeva; famoso, ad esempio, lo slogan: “In cabina elettorale Dio ti vede Stalin no”
Alla propaganda democristiana, dopo Gedda, non sempre andò bene. Ecco un episodio che faccio raccontare dalla mia amica pubblicitaria Anna Maria Testa.
“Esilarante un caso nazionale di contro-campagna politica virale. Siamo nel 1963. In occasione della nuova sfida elettorale la Democrazia Cristiana tenta di far proprie le tecniche persuasive americane e chiama in Italia lo psicologo Ernest Dichter, mago delle ricerche motivazionali. Il quale fa, appunto, una ricerca e scopre una certa stanchezza nei confronti di un partito ininterrottamente al potere da quando è nato, vent’anni prima.
Così, viene prodotto un manifesto meno democristiano e più moderno del consueto: una bella ragazza vestita di bianco che evoca la pubblicità del sapone Lux. Commenta l’immagine lo slogan “La Dc ha vent’anni”. Al quale centinaia di manine clandestine, in tutta Italia, aggiungono la chiosa “è ora di fotterla”.

Dalla presentazione editoriale del volume “La Falange di Cristo”.
«Il 1948 segna uno spartiacque fondamentale per la storia dell'Italia repubblicana sancendo con le elezioni politiche del 18 aprile non soltanto una schiacciante vittoria elettorale della Democrazia Cristiana (che ottenne da sola la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento ed il 48,5% dei voti) ma il prevalere di un sistema economico, politico e valoriale (quello occidentale a guida Usa) su un altro (quello orientale a guida Urss).
I Comitati Civici fondati e organizzati da Luigi Gedda per sostenere la «crociata anticomunista» divennero il motore di una macchina propagandistica che investì con le sue parole d'ordine, i suoi slogan, il suo attivismo politico l'intero Paese divenendo quella “voce di Dio” in grado di guidare le masse italiane, appena riemerse dalle macerie materiali della guerra e da quelle morali della dittatura fascista, verso un approdo non solo conservatore ma anche, nella sua misura ideologica, ‘integralista’.
Collocata in questa dimensione nazionale ed internazionale, la vicenda dei Comitati Civici ricostruita da Luca Leoni prende avvio da una documentazione inedita, corposa ed interna all'organizzazione di Gedda (rinvenuta nel comune di Fermo nelle Marche) e muove da un punto d'osservazione che, pur in apparenza geograficamente periferico, riesce in realtà a restituire la centralità delle grandi questioni che hanno attraversato la storia dell'Italia repubblicana: la Guerra fredda, la democrazia bloccata, la conventio ad excludendum anticomunista; la proiezione del confronto ideologico internazionale sul teatro della giovane democrazia costituzionale».

Segue ora un incontro con l’autore.


La Falange di Cristo (2)

A Luca Leoni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro? Da quale tuo particolare interesse?

Nasce da una grande ricerca iniziata con il ritrovamento casuale di un archivio appartenuto a don Aleramo Rastelli, personaggio di importanza strategica per tutta la realtà cattolica dell’Archidiocesi di Fermo nelle Marche durante gli anni della guerra fredda. “La falange di Cristo”, in realtà è il secondo di tre libri, infatti, il primo è “Preti e Politica nel Novecento. Il caso di don Aleramo Rastelli”, e il terzo è quello a cui sto lavorando. Concentro la mia attenzione sulle relazioni tra Chiesa e Società in quanto ritengo che in Italia non è possibile studiare le due realtà separatamente. Se si vuole capire veramente la storia d’Italia occorre analizzarla in tutte le sue articolazioni, compresi i patti di omertà che dall’Unità in poi, e, con una presenza maggiore dopo la seconda guerra mondiale, sono stati i veri protagonisti del quadro politico economico e sociale. La Chiesa, come istituzione ecclesiastica, è una dei protagonisti.

Perché nacquero i Comitati Civici? Perché secondo Gedda l’Azione Cattolica e la Dc non bastavano ?

Le due domande sono strettamente collegate, in quanto per il Concordato del 1929 l’Azione Cattolica non poteva fare politica, poi erano cambiate le necessità dopo il secondo conflitto. Serviva una associazione che facesse da coordinamento per tutte le altre, una associazione di quadri e di attivisti, ben preparati. Il compito era arduo: bisogna “distruggere” la propaganda comunista e vincere i comunisti sul loro stesso campo di battaglia. Vi era un grande studio dietro all’attività dei Comitati.

Quale fu la chiave emotiva prevalente nello stile di comunicazione dei Comitati?

Bisognava comunicare quel clima di guerra fredda che da un momento all’altro poteva trasformarsi in una guerra calda, caldissima.

Che cosa determinò il declino prima e la scomparsa poi dei Comitati Civici?

I Comitati iniziarono la loro lunga agonia negli anni Sessanta fino alla “scomparsa” negli anni Ottanta. Vi furono diversi motivi. Stava cambiando la società pertanto quel tipo di lotta doveva essere superata, in primis la secolarizzazione sempre più imperante imponeva il cambiamento. I Comitati andarono a scomparire in quanto venne meno l’esercito vero e proprio: i “crociati”.

Nello scenario politico dei nostri giorni sono scomparse del tutto o vi sono ancora tracce di quanto i Comitati Civici sparsero in Italia?

Le tracce sono evidenti in diverse mentalità conservatrici sia all’interno della cattolicità sia in società sul versante politico, come le questioni del voto utile e quella di crearsi sempre un nemico interno. La capacità della gerarchia ecclesiastica e dei vertici laici di esercitare un certo potere sulla società non si è modificata, poiché se è vero che le chiese si stanno svuotando in favore delle nuove cattedrali: i centri commerciali, dove andiamo ad esercitare il rito del consumismo, è altrettanto vero che l’istituzione ecclesiastica esercita, come nel passato, una grande influenza sulle istituzioni politiche. La cosa più importante è capire, come nel corso degli anni, questa influenza sia avvenuta e come si è concretizzata. Non sono assolutamente contro la fede cristiana e la Chiesa come comunità, tantoché sono un credente, ma reputo fondamentale capire cosa sia avvenuto veramente attraverso una ricerca libera e sana in quanto parecchie ricostruzioni ufficiali fanno acqua da tutte le parti. Inoltre, non bisogna aver paura di portare a conoscenza il fatto che le istituzioni ecclesiastiche si sono trovate e si trovino dietro a diversi patti di omertà. Solo una reale conoscenza dei fatti ci rende liberi di affrontare il futuro.

………………………………………………………………..

Luca Leoni
La falange di Cristo
Introduzione di Otello Lupacchini
Pagine 180, Euro 18.00
Edizioni Odradek


Pignotti al Centre Pompidou


Proprio ieri, a Parigi, al Centre Pompidou, si è concluso Extra! Festival delle letterature fuori dal libro.
Nell'àmbito del Festival si registra la maiuscola presenza di Lamberto Pignotti, uno dei fondatori della poesia verbovisiva in Italia (prima patria di quel genere espressivo ripreso poi in tutto il mondo), autore di un un’infinità di performances multisensoriali, di alcuni radiodrammi sperimentali, nonché d’una notevole quantità di pubblicazioni teoriche imperniate sulla "cultura del neo-ideogramma" (copyright Pignotti) intendendo proprio la nuova civiltà dell'immagine, della tecnologia e dei mass-media.
Al Centrre Pompidou ha presentato un arazzo realizzato in collaborazione con l'azienda tessile Bonotto.
L’opera è frutto di un periodo di residenza negli spazi della Fondazione Bonotto e dei suoi laboratori rigorosamente artigianali.
È nato così "Verso libero e indipendente" (in foto) che per la prima volta è stato esposto al pubblico; l'arazzo, al Pompidou, faceva parte di un percorso espositivo all'interno del quale Pignotti ha presentato anche alcuni lavori inediti di recente composizione.

A lui ho rivolto tre domande.
Tu, da sempre pestifero discolo antiaccademico, come ti vedi esposto in un importante museo qual è il Pompidou?

Quando negli anni ‘60 nei manifesti e nei convegni del Gruppo 70 scrivev… no, non è una confusione di date, è che il Gruppo ’70 lo fondammo nel 1963… scrivevo che era l’ora per l’arte di passare dal museo al luna park non pensavo di essere stato anche troppo presto preso sul serio. Ora che tutta l’arte è entrata schiamazzando in massa nel luna park, mi son detto che non è male ritornare al museo, magari dalla porta di servizio, da quella di emergenza… di soppiatto… da intruso.
A Parigi ho esposto dunque qualcosa “che esce dal libro”, qualcosa di “Extra” come dice il titolo del Festival nel cui articolato contesto si situano i miei arazzi e i miei stendardi, progettati per la Fondazione Bonotto che li ha realizzati e sostenuti non solo in qualità di committente e mecenate, ma pure in quella di attiva partecipante alle varie fasi delle opere, grazie anche agli artigiani di quella impresa che vi hanno lavorato con entusiasmo.
Eccomi dunque al Pompidou, ma anche in altri luoghi altolocati, dove peraltro ero già entrato con qualche mio “badge” all’occhiello (una sorta di performance concettuale visibile-invisibile miniaturizzata in un distintivo…), ma non col passaporto di un’arte istituzionale. Sono un apolide ufficialmente non riconosciuto dalle autorità dell’”Arte” e della “Letteratura”.

Hai realizzato l’arazzo “Verso libero e indipendente” su invito della Fondazione Bonotto. Quale differenza fai tra committente e sponsor?

Da qualche tempo sto rivalutando la figura del committente che interagisce con l’artista rispetto a quella dello sponsor che spesso si limita a seguire un artista puntando all’incremento delle sue quotazioni di borsa.
È un tema che si è sviluppato fin dagli anni ‘60 e ‘70, in prevalenza connesso alla varietà delle scritture verbovisive, e oggi ancora di viva attualità, come emerge anche in una mia intervista apparsa il 26 agosto sul “Giorno”, a cura di Gian Marco Walch. Si parte dalla poesia tecnologica e visiva e dai suoi supporti concettualmente o manifestamente metropolitani per arrivare all’arte elettronica, al web e alla street art, che secondo me sono validi solo nel caso che ricerchino e manifestino un nuovo linguaggio.

La poesia verbovisiva ha trovato con il web un suo nuovo linguaggio?

Un nuovo linguaggio non sempre è raggiungibile usando un nuovo strumento e mirando di arrivare sparati al prossimo casello dell’autostrada. Talora è consigliabile svicolare per un trascurato viottolo e dare un’occhiata alla cassetta dei vecchi arnesi. Non per nulla gli strutturalisti consigliavano a poeti e pittori di prestare più attenzione ai nonni che ai padri.


Asiatica Film Festival

Esiste a Roma dal 2000 un festival – Asiatica Film Festival – considerato il più autorevole esistente in Europa fra quelli dedicati al cinema asiatico..
La rassegna, ideata e diretta dal regista Italo Spinelli, oltre a presentare pellicole inedite in Italia, si avvale d’incontri con autori e produttori asiatici, presentazioni di libri e studi sulle dinamiche culturali e sociali di quei lontani paesi.
Quest’anno il Festival svolgerà le proiezioni al Nuovo Cinema Sacher, mentre mostre e dibattiti saranno ospitati dall’adiacente Palazzo WeGil.
La direzione del Festival ha lanciato un appello che volentieri qui di seguito rilancio.

«Quest'anno la 19^ edizione di Asiatica Film Festival porterà in rassegna circa 30 film asiatici inediti in Italia e in Europa.
Dal 2016 la manifestazione si è svolta solo grazie ai suoi sostenitori e al suo pubblico, la cui solidarietà e partecipazione hanno confermato il valore del festival. Nonostante le difficoltà e i drammatici tagli economici continuiamo a svolgere il nostro lavoro, per completare, con il vostro sostegno, il programma di questa edizione.
Verrà posta particolare attenzione alle tematiche di grande attualità quali le migrazioni, la violazione dei diritti umani e narrazioni che riguardano i rapporti genitori\figli e uomo\donna, storie d’amore e di speranza, la condizione della donna raccontata dalle molte opere dirette da giovani registe.
Presso il palazzo WeGil (adiacente al cinema Nuovo Sacher) avranno luogo incontri e presentazioni di libri, eventi enogastronomici, performance di artisti provenienti dall’Asia, video installazioni.

Se ritieni Asiatica un appuntamento importante nel panorama culturale romano con la sua
storia lunga e ricca di significato, ti preghiamo di aderire al nostro appello, compatibilmente
con le tue convinzioni e le tue possibilità, utilizzando il Conto Corrente (21566):

IBAN IT35X0103003283000002156621
Bic\Swift PASCITM1A25
Intestato a: JOINT CULTURAL INITIATIVES.
Causale: Sostengo Asiatica
Monte dei Paschi di Siena
Roma Filiale 8684 - Via del Corso 297a 0086 Roma RM
Altrimenti attraverso la piattaforma di crowdfunding n.1 in Europa Ulule al seguente link:
https://it.ulule.com/asiatica-film-festival/

Ti ringraziamo del sostegno che darai e di quello che hai dato in tutti questi anni.
Il Direttore Artistico e il Team di Asiatica
».

Asiatica Film Festival
Direttore: Italo Spinelli
Nuovo Sacher e Palazzo WeGil
Largo Ascianghi, Roma
CLIC per il sito web
Info: asiaticaencounters@gmail.com
Dal 4 al 10 Ottobre ‘18


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