Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
lunedì, 24 dicembre 2018
Buon 2019
Come accade dal 2000, anno di nascita di questo sito, Nybramedia si concede un periodo di vacanza invernale. Auguriamo buon anno ai nostri visitatori e diamo loro appuntamento a gennaio quando riprenderemo le pubblicazioni.
venerdì, 21 dicembre 2018
Prontuario pornogrammaticale (1)
Lo sapevate che fissando una qualunque pagina siete un voyeur? Ma sì, certo. State spiando accoppiamenti d’ogni tipo fra lettere e interpunzioni, amplessi dal più tradizionale al più acrobatico, dal più freddo al più appassionato, un kamasutra di segni inchiostrati perfino se state leggendo libri di preghiere. Continuate a non crederci? Ho il modo di persuadervi: andate in libreria e comprate Prontuario pornogrammaticale sottotitolo La punteggiatura, edito da Lindau, libro scritto da Adriano Allora. È un autore come pochi ce ne sono in giro, capace di scalare le luminose vette della Semantica e scendere nei notturni bassifondi di Logolandia. Nato nel 1976, dopo un dottorato in Ingegneria linguistica, ha insegnato per alcuni anni Grammatica italiana, Linguistica generale e Informatica applicata alla Comunicazione presso le Università di Torino e Guglielmo Marconi di Roma. Oggi lavora in una startup nel settore edtech. Detto così può sembrare anche tipo in papalina e lunga camicia da notte che si aggira in pantofole, candela in mano, in tenebrose biblioteche. Niente di più falso. È uno scavezzacollo coltissimo e, quindi, non dovete sorprendervi se vedete comparire accanto a un paragrafo dedicato semmai a Saussure una riflessione sui pom pom da cheerleader, oppure se appare un palo della lap dance vicino a un ragionamento sulla parola “endolessematica”. Questo libro meraviglioso riesce attraverso un gioco godibilissimo a “presentare la grammatica come non ve l’hanno mai fatta vedere, la lingua italiana come non ve l’hanno mai fatta sentire”, così come recita una scritta in quarta di copertina. “Perché” – scrive Allora – “studiare la grammatica significa anche osservare come parole e pezzi di parole facciano piccole orge per creare altre parole e testi. Guardare la lingua che fa sesso invece di fare sesso con la lingua è meno divertente, ma continuiamo a trovarci nel parco giochi della comunicazione interpersonale”. Dalla presentazione editoriale. «La punteggiatura non la sbaglia chi non l’ha studiata, ma chi non l’ha capita, perciò invece di sgranare rosari di regole ed esempi, questo prontuario svela le relazioni, i meccanismi di funzionamento e i torbidi segreti dei segni d’interpunzione smontando i testi, trasformandoli e mettendoli alla prova, e dimostrando che per capire la punteggiatura è necessario analizzare il sistema linguistico nel suo complesso. Il tutto con uno stile diretto e anti-accademico, anzi spesso piccante e trasgressivo, come del resto può esserlo l’uso della lingua e della punteggiatura. Perché lo studio delle relazioni tra le parole, le ragioni per cui si accoppiano o si separano, si attraggono e si respingono, ha molto di erotico e questo libro è qui per spiegarcelo». Segue ora un incontro con Adriano Allora.
Prontuario pornogrammaticale (2)
Ad Adriano Allora (in foto) ho rivolto alcune domande. Hai intitolato il libro “Prontuario pornogrammaticale” Ti rivolgo la domanda che nella prima pagina immagini ti sia rivolta da un lettore: che cosa c’entra la punteggiatura col sesso? Ti rispondo diversamente da come faccio nel Prontuario: la punteggiatura sta al testo come il sesso sta a una relazione, se la relazione è breve come un sms puoi anche fare a meno della punteggiatura (e comunque ti perdi qualcosa), ma se occupa almeno qualche riga della tua biografia allora devi punteggiare bene, altrimenti il testo, come la relazione, sprofonda nella noia o nell'incomunicabilità. Scrivi di lingue bigotte e lingue disinibite. Come riconoscere la differenza a meno che non si tratti di quella fra un libro di orazioni e di un volumetto hardcore? Tutto dipende dal tuo grado di perversione: se hai voglia di sbirciare nella camera da letto delle lingue e vedere come i pezzi di significato si accoppiano e si ammucchiano per produrre parole e poi frasi, viene naturale distinguere le lingue che si toccano appena da quelle per le quali il contatto o le (ef)fusioni tra morfemi sono necessarie per far vibrare di piacere le corde vocali. I messaggi che ci scambiamo in sms o in msg che cosa hanno cambiato nell’uso della punteggiatura? Penso che abbiano cambiato poco perché l'uso della punteggiatura soggiace a principi ben più vecchi e robusti del modo in cui si punteggia da pochi decenni a questa parte; prendi due caratteristiche della punteggiatura via sms/msg: la sovrabbondanza dei punti esclamativi (talvolta intercalati dall'altro segno che condivide il tasto del punto esclamativo, il numero 1) e l'assenza del punto fermo al termine dei messaggi. In realtà entrambe queste trasformazioni rispettano i principi fondamentali della punteggiatura: l'espressività del punto esclamativo (moltiplicabile quando la moltiplicazione non ha un costo) e l'importanza di segnalare la chiusura del messaggio. L'elemento forse maggiormente innovativo è dato dalle emoticon, in cui la combinabilità dei segni interpuntivi diventa uno strumento di costruzione (avrei detto "montaggio", ma pare volgare) del significato; ma dal punto di vista della funzione svolta ci troviamo di fronte poco più che nuove declinazioni di qualcosa che già esisteva prima: il punto interrogativo è nato come ricombinazione della prima e dell'ultima lettera della parola "quaestio", domanda. La punteggiatura è una ponteggiatura? E se lo è, quand’è che crolla? E che cosa bisogna fare affinché non frani? Certo (bello lo slittamento di significato e di significante!): la punteggiatura è ponteggiatura e crolla ogni volta che quello che scriviamo non rispecchia quello che intendevamo significare. Per evitare che crolli bisogna non studiarla ma capirla, e per capirla bisogna ragionarci sopra e non subirla. Perché il “punto” è il segno che gode il maggiore numero di ricorrenze nei modi di dire: dal punto cruciale al punto critico… giunti al punto… essere a un punto morto… fare il punto… e via di seguito . Il punto è il segno di interpunzione più antico (i punti interrogativo ed esclamativo furono introdotti dagli amanuensi medievali e il punto e virgola fu inventato da Aldo Manuzio... carne fresca, insomma) ed è quello che per primo ha assunto valore anche fuori dall'ambito testuale: Dante, Leonardo, Alberti, Fibonacci lo menzionano per le sue proprietà geometriche. Recentemente la linguistica ha iniziato a spiegare che quando, leggendo, arriviamo al punto il nostro cervello tira le somme di tutto quello che ha letto e desume o verifica un significato complessivo; ecco, io credo che una percezione intuitiva dell'importanza del punto ci sia da quando esiste il punto ed è per questo che il punto è stato caricato di tanti significati. O magari è perché "avercelo in punto" già in italiano antico (seconda metà del 1300) significava avere il pene turgido, bisognerebbe capire se è venuto prima questo o tutti gli altri modi di dire. Ultima domanda: qual è il segno d’interpunzione che più ami ? Sarebbe come dover scegliere tra l'incudine, il cucchiaio, l'amazzone e il 69: ogni segno ha i suoi modi di dare piacere, di sorprendere o meravigliare. Amarne uno solo è impossibile! ………..………………………… Adriano Allora Prontuario pornogrammaticale Pagine 126, Euro 11.00 Lindau
giovedì, 20 dicembre 2018
Il museo delle relazioni interrotte
È un museo tra i più originali al mondo. Si chiama Museo delle relazioni interrotte sta a Zagabria e ha una succursale a Los Angeles. Se lo volete visitare e non avete tempo o voglia di andare in quelle due città, oggi disponiamo di un libro assai ben curato, nell’allestimento tipografico e nella documentazione fotografica, pubblicato da Mondadori che permette di accedere a quello straordinario museo. Titolo: Il museo delle relazioni interrotte Ciò che resta dell’amore in 203 oggetti (traduzione di Claudia Durastanti, 224 pagine, 22.00 euro)
Se avete letto il link che prima ho segnalato già sapete che gli autori sono Olinka Vistica e Drazen Grubisic, fondatori di quelle stanze museali che testimoniano lacerazioni e separazioni attraverso gli oggetti usati, scambiati, smarriti, di tante ex coppie. Dalla presentazione editoriale «La cartolina del primo amore. Un biglietto con scritto: "Ti amo più di chiunque altro". Un abito da sposa in un barattolo. Un paio di scarpe di vernice rossa. Del filo spinato. Un'ascia. Questi e altri oggetti popolano le stanze di un luogo curioso, ormai di culto. È il Museo delle relazioni interrotte di Zagabria, che da anni custodisce ricordi di amori finiti di tutto il mondo. A fondarlo, una coppia di fidanzati che più di dieci anni fa hanno dovuto fare i conti con la fine della loro relazione: cosa sarebbe accaduto alle rovine del loro amore, che a distanza di tempo continuavano a ricordare loro momenti felici e sogni infranti? Nasce così l'idea di creare un rifugio per custodire i cimeli della loro e di altre "relazioni interrotte". Da allora, migliaia di persone di tutto il mondo hanno scelto di accomiatarsi dal proprio amore mandando un ricordo in esilio al Museo, insieme al racconto della propria storia, con la speranza che continui a risuonare nei cuori dei visitatori. Storie emozionanti, a volte amare, altre divertenti, che sono una fonte di ispirazione e ci ricordano quanto sia importante apprezzare i momenti di comunione con l'altro. Una celebrazione dell'amore, dedicata a chiunque sia stato innamorato almeno una volta nella vita». Anni fa, nel 2010, su queste pagine mi occupai di un libro straordinario, uno dei più belli che io abbia letto, della canadese Leanne Shapton. Sono, con quella segnalata in apertura, operazioni gemelle anche se il Museo fu fondato prima del volume della Shapton. Eppure, è proprio quest’ultimo volume che – pur stimando e piacendomi molto l’idea del Museo – preferisco alla pubblicazione dei due artisti croati. Quello è un Museo di plurali, vere, relazioni interrotte, la Shepton riporta citazioni verbovisive, in forma di catalogo d’una casa d’aste, di un solo, immaginario, amore per sempre finito, immaginario sì, ma si sospetta non troppo immaginario. Altri avrebbero scritto un romanzo, pfui! Mi piace citare parole che scrisse tempo fa Benedetta Tobagi raffrontando il museo ideato dal duo Vistica - Grubisic e il libro della Shapton, e trattenendosi sul perché in quelle pagine c’è qualcosa di più: “Colto e raffinato nell’estetica, nella foresta di sottotesti, questo bizzarro oggetto paraletterario smuove sentimenti contraddittori. Oscilla tra straniamento e commozione. È il fondo del cinismo o l’apice della poesia?”. Azzeccatissima la citazione di Novalis in epigrafe sul libro della Shapton: Cerchiamo ovunque l’Assoluto, e troviamo sempre soltanto Cose.
Roma Fringe Festival
Cominciamo dal termine fringe che qui va interpretato come “innovativo” o, come si diceva un tempo, “alternativo” e non nel più corrente uso di “frangia” o “ciuffo” che stavolta potrebbe essere inteso solo come “ciuffo ribelle”. Perché il Fringe Festival è una composizione teatrale che si avvale di un esteso cartellone di spettacoli che rivendicano il ruolo di marginalità come valore e mai per esclusione o, peggio ancora, secondarietà. È, infatti, il più importante festival mondiale di spettacolo dal vivo. Un evento che si replica in ogni capitale culturale del mondo. Nato nel 1947 a Edimburgo, conta oggi circa 240 festival annuali, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Asia all’Europa. Per capire che cos’è il Fringe e cosa rappresenta per il settore delle arti sceniche basta guardare i numeri: ogni anno, 19 milioni di persone in tutto il mondo vedono 170 mila artisti replicare 79 mila spettacoli. Una sfilata di talenti, ma non solo. Sono parecchi gli attori affermati che vogliono provare l’emozione di un contatto diretto con un pubblico tanto giovane quanto esigente. All’estero, negli oltre 60 anni di vita, il Fringe è stato scelto come palco da interpreti quali Ewan McGregor, Hugh Jackman, Tim Roth, Hugh Grant. Il Fringe arriva a Roma nel 2012, patrocinato dalla World Fringe Society, grazie all'impegno e alla direzione artistica di Davide Ambrogi. Fin dal primo anno coinvolge un vasto pubblico. La caratteristica del Roma Fringe Festival fin dal principio è, infatti, quella di portare il teatro e la nuova drammaturgia all'attenzione di un pubblico solitamente lontano dai teatri, presentando compagnie provenienti da tutta Italia, Europa e a volte anche USA. Grazie a “Roma Fringe Festival”, dal 2012 al 2014, nasce a Roma il Parco del Teatro, a Villa Mercede, poi spostato nel 2015 nei Giardini di Castel Sant'Angelo, per poi tornare a San Lorenzo nel 2017. Oggi rappresenta un punto di riferimento per tutti gli artisti indipendenti che ambiscono a una platea internazionale. Dal comunicato stampa «Dopo essersi affermato come festival teatrale estivo della capitale, il Roma Fringe Festival torna dal 7 al 27 gennaio 2019 – ospitato negli spazi del Mattatoio La Pelanda - in un'inedita versione invernale che vedrà confermata la mission e la storica formula a gara già apprezzata dal pubblico. Ad andare in scena saranno, per la prima volta, 36 spettacoli mai presentati al pubblico romano e, per la maggior parte, prime nazionali assolute, selezionati dalla commissione artistica guidata da Fabio Galadini: 36 spettacoli provenienti da Italia, Inghilterra e Israele, tra commedia dell’arte e tradizione italiana, comicità, noir, drammi, teatro civile e commedie, per raccontare un paese e una società dalle tante e complesse sfaccettature, offrendone uno spaccato non solo teatrale ma anche sociale, politico e storico. Saranno presentati al pubblico 6 spettacoli differenti a sera alternati su 2 palchi. Dice Fabio Galadini direttore artistico del Festival: Diamo il via a una nuova edizione del Roma Fringe Festival, la VII, completamente rinnovata. Sì, perché sono molte le novità introdotte a partire da quest’anno. La prima, quella che salta subito all’occhio, è la data, 7-28 gennaio, vale a dire in pieno inverno. Questa è la sfida, che a nostro avviso rappresenta un modo per puntare l’attenzione sul teatro e sulla proposta di nuova drammaturgia che è l’essenza stessa del Fringe, svincolando questo evento da una collocazione estiva che rischiava di assorbirlo nella più generale e ricchissima proposta di intrattenimento estivo della Capitale. Il teatro, e, in particolare, il teatro indipendente. Indipendente è, infatti,la parola chiave di questa edizione perché partendo da questo concetto abbiamo creato, grazie all’adesione di 14 teatri in tutta Italia, a partire dal prestigioso Teatro Vascello di Roma, un circuito che abbiamo chiamato, appunto, Zona Indipendente. Una rete di 14 teatri che ospiteranno nella stagione 2019/2020 lo spettacolo vincitore del Roma Fringe Festival 2019. Questo, insieme alla possibilità di partecipare a uno dei Fringe mondiali, è un premio, che al di là di riconoscimenti o titoli (che sono pur sempre prestigiosi e importanti), rappresenta in concreto una seria opportunità per l’artista o la compagnia vincitrice di far conoscere il proprio lavoro. Da quest’anno, cambia anche la location. Il Roma Fringe Festival si trasferisce nei locali de La Pelanda, nel complesso del Mattatoio, nel cuore del quartiere di Testaccio che, con il suo fermento e la sua vitalità, crediamo si presti bene ad accogliere un festival come il Fringe. Per la finale, poi, appuntamento, al Teatro Vascello, un Teatro storico della Capitale. Accanto alle esibizioni delle compagnie e dei singoli artisti, ci saranno poi una serie di appuntamenti, sia all’interno de La Pelanda che al Macro Asilo, che offriranno al nostro pubblico un’offerta culturale ancora più ampia. Colgo l’occasione di ringraziare chi, negli scorsi anni, ha lavorato per costruire un festival che, piano piano, ha conquistato l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori diventando una realtà solida nel panorama teatrale italiano. In particolare ringrazio Davide Ambrogi che, sei anni fa, ha avuto l’intuizione di portare il Fringe, conosciuto e frequentato in tutto il mondo, in Italia. Raccolgo il suo testimone con orgoglio e con la certezza di poter dare il mio contributo per continuare a farlo crescere in vitalità e prestigio. La giuria sarà composta da Manuela Kustermann, Flavia Mastrella, Antonio Rezza, Ulderico Pesce, Valentino Orfeo, Ferruccio Marotti, Giorgio de Finis, Pasquale Pesce. Oltre agli spettacoli, il Roma Fringe Festival 2019 conferma la sua visione inclusiva e in collaborazione con Il Seme Bianco – Controluna / Castelvecchi editore presenterà anche una vetrina sulla nuova editoria con una serie di presentazioni di libri e ospiti d’eccezione come Luca Zingaretti e altri La finale è prevista il 28 gennaio al Teatro Vascello di Roma. Ufficio Stampa: HF 4 Marta Volterra marta.volterra@hf4.it 340 – 96 900 12 Alessandra Zoia alessandra.zoia@hf4.it 333 – 76 230 13 Roma Fringe Festival al Mattatoio - La Pelanda Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma dal 7 al 27 gennaio 2019
mercoledì, 19 dicembre 2018
Il libro della Terra
Pubblicato da Editoriale Scienza è nelle librerie Il libro della Terra La straordinaria storia del nostro pianeta. Testo di Mark Brake, illustrazioni di Brendan Kearney. Brake è un divulgatore scientifico, ed è stato cofondatore del gruppo di comunicazione dell’Istituto di Astrobiologia della Nasa. Kearney, abbandonati gli studi di architettura, è diventato illustratore per libri destinati ai ragazzi. Quando non disegna, suona la chitarra o il banjo. Il libro si avvale della consulenza del ricercatore scientifico Mike Goldsmith. Il pianeta Terra spiegato ai ragazzi è la finalità, ben realizzata, del volume. Come spiegarlo? A partire dai quattro elementi classici: aria, fuoco, terra e acqua. Com’è nata la Terra. Qual è la sua struttura. Di che cosa è fatta l’aria. Cos’è il ciclo dell’acqua. Il ruolo del fuoco. Da qui la divisione in altrettante quattro sezioni Acqua: è dappertutto e ricopre il 71% del nostro pianeta. È in maggior parte acqua salata di mari e oceani, il resto è ghiaccio e acqua dolce. Modella il paesaggio, è alla base dei sistemi climatici ed è stata uno dei grandi motori di sviluppo della civiltà umana. Scorre sulla superficie del pianeta e nelle sue profondità sotterranee, ed è presente negli strati alti dell’aria. Esiste in tre forme: allo stato solido, liquid, gassoso. Aria: è una miscela di gas diversi che riscopre la Terra con uno strato che può essere alto fino a diecimila km. Fornisce l’ossigeno che ci serve per vivere, crea i fenomeni meteorologici e rende possibile la trasmissione dei suoni. Fuoco: Dal momento in cui ha iniziato a rischiarare il pianeta, spesso il fuoco è stato visto come un simbolo di progresso e conoscenza. Ancora oggi può essere pericoloso e indomabile, e va utilizzato con grande attenzione. La sua potenza è impossibile da ignorare: basta alzare gli occhi e vedere la sfera fiammeggiante del Sole per ricordare che il fuoco domina nello spazio come sulla Terra. Terra: per studiare questo elemento è considerato tutto ciò che è solido, dalle rocce e dai fossili nel suolo al terreno e alle piante, ma anche agli esseri umani. Molte delle sostanze che compongono la Terra sono presenti infatti nel nostro corpo. Ecco un libro che si presta come pochi a risolvere il problema di noi adulti circa che cosa mettere sotto l’albero di Natale facendo un regalo che è al tempo stesso divertente e utile per le ricerche scolastiche a ragazzi – come suggerisce la casa editrice – dagli 8 anni. Le pagine del “Libro della Terra” offrono un ottimo spunto anche per riflettere sullo stato di salute attuale del pianeta. Tutto quanto è scritto e illustrato in quelle pagine è, infatti, avvelenato e distrutto da noi umani. Fino a rendere sempre meno abitabile il pianeta e costringere alla ricerca di altre terre nella nostra galassia dove emigrare. Problema di non facile soluzione non perché quelle terre non esistano, ma perché bisogna trovarle con caratteristiche simili e, meglio ancora, uguali a quelle nelle quali viviamo e anche a distanze che siano raggiungibili con tempi compatibili con la durata della vita animale e vegetale. Una volta risolti questi problemi, se ne apre un altro, gigantesco, di natura sociale: come trasferire tutta l’umanità nel nuovo pianeta. Il volume di Editoriale Scienza, nel descrivere la storia e le risorse della Terra, è un ottimo spunto per avviare con i giovani lettori una proficua riflessione sulle responsabilità che abbiamo verso l’ambiente e, sia pure con i gravissimi ritardi fin qui accumulati, come rispettarlo e ritardare così il momento dell’abbandono del nostro pianeta, dando tempo agli scienziati di trovare per noi una nuova casa dove non fare gli stessi errori che quaggiù abbiamo commesso. Mark Brake Il libro della Terra Illustrato da Brendan Kearney Pagine 256, Euro 22.90 Editoriale Scienza
lunedì, 17 dicembre 2018
Là dove s'inventano i sogni (1)
È nelle librerie un gran bel libro edito da Guanda, è intitolato Là dove s’inventano i sogni Donne di Russia. L’autrice è Margherita Belgiojoso. Nata a Milano nel 1978, ha studiato storia dell’arte al Courtauld Institute di Londra ed economia politica alla London School of Economics. Ha vissuto per oltre dieci anni in Russia e viaggiato diffusamente nei paesi dell’ex Unione Sovietica, scrivendo per le maggiori testate italiane e lavorando come curatrice di manifestazioni culturali. Vive a Roma con il marito e due figli. Per visitare il suo sito web: CLIC!
Si tratta di 16 ritratti, resi in 3D da una scrittura che sembra in pixel, tanto è precisa quanto vivace, di donne russe vissute in due secoli di storia della Russia. L’autrice proietta ogni figura nello scenario storico, nell'ambiente sociale in cui quella visse, sicché lo sguardo del lettore scorge non solo i tratti psicologici di quelle donne, ma anche il clima degli anni in cui nacquero sogni, desideri, passioni, delusioni. Quando ho finito di leggere il libro, mi è sorta la voglia d’inviarlo a Judy Chicago per dirle aggiungi un posto a tavola alla tua famosa installazione dalla mensa triangolare “The Dinner” perché – hai visto mai? – forse hai dimenticato qualcuna fra le donne che hai invitato. E se per caso nessuna delle 16 donne di questo libro ti vanno a genio, invita almeno Margherita Belgiojoso. Vai sul sicuro. Conoscerai un'autrice di qualità. Dalla presentazione editoriale. «Questo libro raccoglie in una lunga catena le vite di sedici donne russe formando una staffetta ideale dove il testimone è la storia della Russia negli ultimi due secoli. Si passa dall’abolizione della servitù della gleba alle rivolte dei decabristi, dall’assassinio dello zar Alessandro II alla rivoluzione bolscevica, dall’assedio di Leningrado ai gulag e alla perestrojka. Scrittrici, poetesse, ballerine, rivoluzionarie, artiste, figure di potere, dissidenti: donne che si sono incontrate, hanno avuto una casa in comune o hanno lottato per gli stessi ideali. Ecco l’attrice preferita di Stalin e il ministro della Cultura di Chruščëv, Anna Achmatova e Nina Berberova, la musa di Majakovskij e la moglie di Andrej Sacharov. Attraverso il racconto delle loro storie straordinarie, che meritano tutte di essere conosciute, emerge anche il disegno di un mondo complesso di cui sappiamo troppo poco. L’epilogo è dedicato a Anna Politkovskaja, che l’autrice ha incontrato di persona nei suoi undici anni a Mosca da giornalista». Segue ora un incontro con Margherita Belgiojoso.
Là dove s'inventano i sogni (2)
A Margherita Belgiojoso (in foto) ho rivolto alcune domande.
Com’è nato questo libro? Dalla mia passione per la Russia e dal desiderio di far conoscere in Italia queste storie emozionanti, piene di avventure e sentimenti, peripezie, angosce e pazze gioie, accelerazioni, brusche frenate, straordinarie coincidenze e incroci con la Storia. Nell’accingerti a scrivere qual è la cosa che per prima hai deciso assolutamente da farsi e quale per prima assolutamente da evitare? La cosa assolutamente da farsi: volevo che il lettore “vedesse” le donne di cui scrivevo. Le vedesse muoversi, camminare – ed è per questo che ho fatto ricorso continuo ai nomi delle strade e alle descrizioni dei negozi che avevano sotto gli occhi. Ecco anche perché ci sono tanti dettagli sulla moda: come si vestivano, come uscivano di casa la mattina? Mi pare che la moda sia un perfetto “termometro della storia”: indica come cambiano i tempi, quando ci sono scatti nell’evoluzione di una società. Non è per frivolezza che ho spiegato come si vestivano. Oppure l’arredamento delle loro case, del loro ufficio, e i quadri e le fotografie che le contornavano: i ritratti che avevano loro fatto, per esempio nel capitolo di Zinaida Gippius immagino cosa lei doveva pensare del meraviglioso ritratto di Leon Bakst che è poi quello sulla copertina del mio libro; o le fotografie, per esempio la figlia di Stalin che girando per la dacha del padre descrive le fotografie di loro due insieme incorniciate sulla scrivania di Stalin. Assolutamente da evitare: il “tono garzantina”. Le informazioni su come sarebbe andata la Storia. Scrivendo, mi dicevo sempre che la “telecamera” doveva essere sulla spalla della mia eroina, e lei naturalmente non poteva sapere come sarebbero andate a finire le cose. E ho voluto evitare il mio giudizio su di loro. Io non le giudico, sono loro che si giudicano tra di loro, ridimensionandosi a vicenda, spettegolando o parlandosi male alle spalle. Ho cercato di evitare accuratamente una voce narrante onnisciente che sapesse come va a finire la Storia e le loro storie, e che desse un giudizio delle loro azioni o delle loro personalità. Il libro è senz’altro didattico: insegna tante cose ignote, specialmente al pubblico italiano che di Russia conosce pochissimo, ma ho cercato di farlo senza mai usare il tono didascalico della maestrina… Quale criterio hai seguito nello scegliere i 16 nomi? La vita della donna doveva riflettere una pagina della storia russa che mi interessava raccontare. Ma le mie donne dovevano essersi anche in qualche modo incrociate, conosciute, aver lottato per gli stessi ideali o aver avuto una casa in comune. Le mie donne dovevano entrare e uscire dai capitoli, avrei voluto che, alla fine di un capitolo, il lettore provasse la sensazione di non lasciare veramente quel personaggio, sapendo che quella stessa persona sarebbe rientrata più avanti, in un’altra veste, vista da un'altra angolatura. Le donne scelte dovevano, naturalmente, non esser più in vita, in qualche modo esser personaggi storici. Infine dovevano rappresentare vari tipi di professioni o di caratteri: non potevano essere tutte poetesse! C’è qualcosa – pur nella pluralità di esperienze e di pensiero – che unisce queste donne da te descritte? Penso che condividano tutte un sogno di libertà. Libertà dal potere, dall’oppressione, dalle condizioni sociali, dal genere, da quel che dice la gente etc. Sono controcorrente e anticonformiste. Mi sembra che abbiano tutte in corpo la “fiamma danzante” di cui scrisse la Cvetaeva in un famoso verso. Hanno in comune il fatto che declinano il loro ardore su due piani differenti. Hanno tutte un sogno proprio, e uno che esula dal loro particolare e che abbraccia una realtà superiore, che sia la letteratura, la città dove vivono, la Russia, il socialismo, i diritti umani. Lottano e si muovono sempre su due piani e hanno sempre bisogno di qualcosa di più grande a cui tendere. Quale, fra le donne citate, senti a te più vicina o meno lontana? Le amo tutte, alcune mi stanno più o meno simpatiche, ma non ne sento una in particolare più vicina. Svetlana, la figlia di Stalin, è quella per cui ho più simpatia, Olga Berggolc, la voce di Radio Leningrado, quella che più mi ha colpito, per la sua forza nel tenere in vita la città stretta dall’assedio nazista, e forse la Kollontaj, il commissario per la famiglia del primo governo bolscevico, quella in cui mi sono più rivista. Le sue parole sulla maternità, per quanto terribili nella morale di oggi, come possono non essere in parte condivise? Quando lei dice di sentirsi risucchiata dal figlio, e di voler affidare alla società la responsabilità della sua educazione... parole terribili ma credo segretamente condivise da molte madri! ……………………………… Margherita Belgiojoso Là dove s’inverano i sogni Pagine 304, Euro 19.00 Guanda
venerdì, 14 dicembre 2018
Fenomeno Ufo (1)
“Qualcuno dice che i marziani sono un'intelligenza superiore, come i comunisti. Qualcun altro dice: sono mostri assassin, distruggeranno il mondo, come i communisti. Ma tutti sanno che i marziani non esistono. Che i marziani sono una invenzione letteraria, una straordinaria storia di fantascienza, come il comunismo”. (Ascanio Celestini) “La delusione più cocente e insieme più astratta della mia vita fu senza dubbio il mancato sbarco dei marziani nel decennio tra il 1950 e il '60”.. (Giorgio Manganelli) Uno dei temi che più affascina e suscita tanti interrogativi è racchiuso nella famosa domanda: “Siamo soli nell’Universo?”. Trasmissioni radiotelevisive, libri, articoli, film, appassionano più pubblici, perché coinvolgono strati colti e meno colti di spettatori e lettori. Molti testi stampati o proposte audiovisive puntano sul sensazionalismo, pochi quelli scientifici. Ancora di numero inferiore quelli che si pongono il tema del come e del perché ci sia tanta attenzione specialmente su quella parte d’informazione che presentandosi in forma documentaristica, o pseudo tale, provoca allarmi o speranze presentando casi che mai finora hanno avuto prove di assoluta certezza su quanto proposto. Oggi presento un libro che riflette sulle modalità psicosociali in cui sono avvenute certe testimonianze in una particolare epoca, ed effettuando poi anche una puntata sull’oggi. Edito da Mimesis è nelle librerie Fenomeno Ufo Science and Fiction (1947 – 1961). L’autore è Riccardo Gramantieri. Laureato in Ingegneria e in Psicologia clinica, è autore di numerosi articoli e saggi letterari. Ha pubblicato, fra le altre cose, William Burroughs: manuali di sopravvivenza, tecniche di guerriglia (Mimesis 2012); Ipotesi di complotto, paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento (con Giuseppe Panella, 2012); Sogno Mito Pensiero. Freud Jung Bion (con Fiorella Monti, 2014); Post 11 settembre. Letteratura e trauma (2016). Suoi articoli sono apparsi su “Psicoterapia e Scienze Umane”, “Il Minotauro. Problemi e ricerche di psicologia del profondo”. Collabora alla rivista “IF”. Il volume ha più meriti, il primo fra tutti quello di trattare un tema complesso con una scrittura scorrevole che permette l’accesso alle pagine a più lettori e non solo, quindi, agli specialisti in ufologia e sociologia. Il tema “Ufo” è letto dall’autore, specie nel decennio lungo 47’ – 61’, contestualizzandolo nel panorama socioculturale di quegli anni, nulla escludendo neppure la nascita a quel tempo di nuovi culti religiosi. Inoltre, altro pregio del testo, come nota Giuseppe Panella in una brillante postfazione è «di aver ricostruito e decrittato il libro alla luce delle sue molteplici variabili e possibilità di lettura, senza prendere posizione e senza usare nessuna derisione nel descriverlo per quello che è stato (e come le analisi del carattere clinico del fenomeno oggi ampiamente dimostrano): l’aspirazione a trovare fratelli nello Spazio […] Credere di aver visto un Ufo ha costituito, per molti loro osservatori in buona fede, la “domenica della (loro) vita”». Circa la possibilità di verificarsi un incontro con alieni, Margherita Hack nel suo ultimo libro, “C’è qualcuno là fuori?”, scritto poco prima della sua scomparsa, afferma: Credo del tutto probabile che ci sia vita in altri mondi abitati, ma credo anche che non avremo mai modo di incontrare un extraterrestre. Le distanze non ce lo permettono. In conclusione, penso che siamo destinati alla solitudine. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a cercare. Circa gli Ufo… gli alieni venuti sulla Terra migliaia di anni fa… tutto senza una prova: l’irrazionalita’ danneggia la scienza e il cervello.. Dalla presentazione editoriale di “Fenomeno Ufo” «La visione dei dischi volanti fu qualcosa di socialmente rilevante durante i primi decenni del dopoguerra americano. Nel 1947, contemporaneamente all’avvistamento dei primi ufo, si assiste al moltiplicarsi di diversi fenomeni socioculturali: avviene la nascita di nuovi culti religiosi; si diffonde la paranoia maccartista; psicologi e psicoanalisti come Leon Festinger, Carl Gustav Jung e Wilhelm Reich formulano le loro teorie sul caso; si assiste al boom editoriale della fantascienza. Con l’avvicinarsi degli anni Sessanta poi, mentre nasce l’astronautica e comincia la corsa americana allo spazio, il fenomeno ufo progressivamente si smorza. Il libro si concentra su quello che qui viene chiamato il “decennio lungo” degli ufo, e cioè il periodo 1947-1961: dopo quegli anni il fenomeno assunse altre caratteristiche e nacquero nuove teorie di interpretazione» Segue ora un incontro con Riccardo Gramantieri.
Fenomeno Ufo (2)
A Riccardo Gramantieri, (in foto), ho rivolto alcune domande
Come è nato questo libro e perché? Il libro nasce come ampliamento di un articolo pubblicato oltre dieci anni fa, dove cercavo di evidenziare il rapporto fra il boom della fantascienza degli anni Cinquanta ed altri fenomeni solo in parte collegati ad essa quali la nascita dell'astronautica e la visione dei dischi volanti. Negli Stati Uniti, scienza, tecnologia (e quindi astronautica), e fantascienza trovavano spesso uno spazio comune sulle riviste, anzi la fantascienza era nata proprio sulle riviste di elettrotecnica di Gernsback, e questo accadde anche in Italia a partire dalla fine degli anni Cinquanta con la rivista “Oltre il Cielo”, che pubblicava articoli di missilistica e fantascienza. Più conflittuale è stato il rapporto fra i lettori di fantascienza e chi credeva nel fenomeno ufo o nelle pseudoscienze, due campi questi ultimi che all'epoca erano strettamente legati. Questo accadeva perché, e risultava dai sondaggi, parte dei lettori era incuriosito sia dagli avvistamenti che in quegli anni ebbero un picco, sia da alcune pseudoscienze. Poi il fenomeno ufo si smorzò, e si smorzò l'interesse dei lettori: all'inizio degli anni Sessanta gli avvistamenti di ufo calarono drasticamente, come pure la pubblicazione e le vendite dei periodici di fantascienza. Il lancio del russo Sputnik, e poi i lanci americani, di colpo avevano reso reale la fantascienza inventando le capsule spaziali. La spiegazione di questa concomitanza di eventi non poteva essere solo una coincidenza, e la teoria junghiana poteva spiegare il fenomeno. Da questo punto di partenza, ho descritto le teorie psicologiche, i movimenti religiosi e sociali che nacquero attorno al fenomeno, ma anche l'interesse per l'astronautica da parte di giornalisti come Oriana Fallaci e Tom Wolfe, e alla fine è nato il libro. Quale il motivo della scelta del periodo 1947 – 1961? Il periodo 1947-1961, quello che ho definito “decennio lungo”, è il periodo in cui il fenomeno ufo ebbe la sua massima diffusione: migliaia di avvistamenti, nascita di gruppi di credenti con caratteristiche religiose, un interesse della stampa, anche non specializzata, sul fenomeno. È il periodo dei dischi volanti. Dopo tale periodo, il fenomeno dei contattati è cambiato: gli avvistamenti nel cielo sono pochi e chi è contattato lo afferma sulla base di pseudo-ricordi emersi durante l'ipnosi o nei sogni notturni. Quanto è pesato sul fenomeno Ufo il fatto che fosse quello il periodo della Guerra fredda? È pesato molto. Il periodo della Guerra fredda ha influito sia nella rappresentazione fantascientifica del fenomeno, sia nei racconti dei contattati. Nella fantascienza americana, a parte pochi sporadici esempi, l'invasione aliena era rappresentata come mortale, e non era altro che una paventata invasione del comunismo in Occidente. Fra i credenti negli ufo invece la Guerra fredda ebbe l'effetto contrario: spesso i contattati riportavano messaggi di pace e fratellanza; più sporadici erano i messaggi che indicavano proprio nel comunismo un pericolo mortale. E c'è da chiedersi come facessero questi alieni provenienti da lontani pianeti, a conoscere l'Unione Sovietica… Già, gli Ufo erano percepiti, in ordine alfabetico, come paura o come speranza? Erano percepiti in entrambi i modi. La prima sensazione nei confronti degli avvistamenti fu di paura. Basti pensare a cosa successe quando Orson Welles trasmise per radio la sua Guerra dei mondi: la gente si riversava in strada e scappava dalle città. Ma al di là della rappresentazione mediatica, nei gruppi di ufologi emergeva un bisogno di pace. Questi gruppi avevano caratteristiche religiose, e a loro modo vedevano negli ufo un salvatore più vicino e concreto che non quello tramandato dalle religioni rivelate. Sia Jung sia Reich si sono interessati agli Ufo. Quale la differenza fra i due approcci? C'è una differenza abbastanza grande. Jung descrive un fenomeno ma vi rimane estraneo: non avvista ufo; Reich invece “subisce” il fenomeno e li avvista. Jung dà alla visione degli ufo una spiegazione essenzialmente socio-culturale: in un periodo di crisi storica e morale, l'uomo è spinto a cercare qualcosa che gli ridia fiducia. Emergerebbe quindi dall'inconscio collettivo un archetipo come il mandala, che è una forma circolare presente nelle culture orientali e rappresenta il Sè. In un'epoca tecnologica quale è quella del dopoguerra, una forma circolare diviene a propulsione, cioè un disco volante. Jung chiama gli ufo “voci visionarie”: l'ufo non sarebbe altro che una proiezione mentale. Reich invece crede negli ufo, e li incorpora nella sua teoria energetica della psiche. Egli asserisce di averli avvistati, crede che siano i responsabili della siccità che affligge il sud degli Stati Uniti e cerca di eliminarli con lo strumento che aveva ideato per provocare la pioggia. Gli ufo cui mirava, dopo poco sparivano, si dissolvevano, e non precipitavano come un aereo. Erano quindi più degli aggregati di energia che non dei velivoli. La sua è una visione del tutto negativa degli ufo. Diceva di essere in guerra con gli ufo. Hai avvertito la necessità di concludere il libro con l’inizio della sperimentazione astronautica, con la nascita del Seti, con l’oggi. Perché? Perché la nascita dell'astronautica e dei vari progetti di ricerca di messaggi extra-planetari nascono proprio alla fine del “decennio lungo” e coincidono con lo smorzamento del fenomeno. Se è vero che c'era un bisogno inconscio di vedere qualcosa nel cielo, questo qualcosa che prima erano gli Ufo, è stato sostituito dai satelliti artificiali e dagli astronauti, che sono in carne e ossa e riescono per questo a soddisfare meglio i desideri inconsci. Anche l'idea di quello che diverrà il progetto Seti nasce in quegli stessi anni. Ho concluso con la contemporaneità, inserendo un'appendice dove descrivo le ipotesi psicologiche e mediche che spiegherebbero i rapimenti ufo, perché sono spiegazioni divenute possibili solo oggi con la medicina contemporanea, ma che possono spiegare retrospettivamente gli avvistamenti di quegli anni. Esiste una differenza e, se sì quale, fra la percezione degli Ufo nel periodo ’47 – ’61 e quella dei nostri tempi? Nel periodo '47-'61 gli “youfers” percepivano i velivoli come forme nei cieli, i contatti con i presunti alieni erano praticamente inesistenti, e solo i capi dei gruppi asserivano di aver incontrato messaggeri celesti. Dopo gli anni Sessanta il contatto con gli alieni diviene personale. Non c'è un gruppo a fare da tramite. Il contatto avviene spesso nel sonno. Quando la scienza inizia a parlare di fecondazione in vitro alla fine degli anni Sessanta, ecco che i contattati iniziano a parlare di contatti sessuali con gli alieni; oggi si parla di ibridazione. Da fenomeno di massa, l'esperienza ufo è diventata intima e personale. …………………………… Riccardo Gramantieri Fenomeno Ufo Postfazione di Giuseppe Panella Pagine 252, Euro 22.00 Mimesis
Cina 1978
Nel presentare una mostra fotografica di cui riferirò fra poco, voglio far precedere la presentazione stessa da alcune riflessioni di firme illustri. Anche i grandi possono dire delle cospicue castronerie. Ne volete un esempio? E’ di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita... sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”. Pure il grandissimo Kafka, a proposito d’immagini riprodotte, ne disse una che, forse, oggi più non direbbe: “Se il cinema è una finestra sul mondo, ha le persiane di ferro”. Con Walter Benjamin, la musica cambia: “Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l'analfabeta del futuro”. Ecco il pensiero di un fotografo più vicino a noi nel tempo: il fotografo tedesco naturalizzato australiano Helmut Newton (1920 – 2004). Interrogato sulla fotografia, disse: “Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, questi i tre concetti che riassumono l’arte della fotografia”. Questi tre momenti ci avvicinano alla mostra di cui dicevo in apertura. Domani, 15 dicembre, inaugura a Bologna – con il patrocinio dell’Istituto Confucio dell’Università di Bologna – Cina 1978 Appunti di viaggio, mostra di Paolo Gotti. In foto: Soldatesse cinesi di spalle
Gotti, bolognese, si laurea in architettura a Firenze, dove frequenta il Centro di studi tecnico-cinematografici conseguendo nel 1971 un attestato d’idoneità alla professione di fotografo. Nel 1974 sceglie l’Africa come meta del suo primo vero viaggio, quello in cui, come dice l’artista, “si sa quando si parte, ma non si sa quando si torna”. Con la sua vecchia Land Rover attraversa il Sahara fino al Golfo di Guinea in Costa d’Avorio per poi fare ritorno in Italia dopo quasi 5 mesi a bordo di un cargo merci. In seguito intraprende a tempo pieno l'attività di architetto, grafico e fotografo. Dopo varie esperienze nel campo della pubblicità, e una maturata esperienza nello still life, si dedica sempre più al reportage. Gira il mondo con la sua Nikon per immortalare persone, paesaggi e situazioni che archivia accuratamente in un gigantesco atlante visivo, da cui nascono i calendari tematici che realizza da circa vent’anni. L'obiettivo della sua macchina fotografica è in oltre 70 paesi. L’esposizione “Cina 1978” consiste in una serie di scatti in bianco e nero che documentano diversi aspetti della Cina di quarant’anni fa, e che il fotografo ha realizzato in occasione di un viaggio d’inchiesta organizzato dall’Istituto politico culturale Edizioni Oriente di Milano nella parte settentrionale del paese, partendo dalla capitale Pechino per poi visitare le città di Dalian, Shenyang, Changchun, Harbin e i pozzi di petrolio di Daqing, fino ai confini settentrionali della Manciuria. Dal comunicato stampa L’indagine si inserisce all’interno di una situazione politica segnata dai clamorosi avvenimenti seguiti all’arresto della “banda dei quattro” che rappresentò la fine più evidente di quel movimento politico noto come Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao nel 1966 contro le strutture del Partito Comunista Cinese. L’obiettivo del viaggio era comprendere quanto stava avvenendo e le ragioni che avevano scatenato un'inversione di rotta che avrebbe portato nel tempo a un nuovo schieramento del paese nello scacchiere internazionale, ma questo avveniva registrando non tanto i luoghi della politica quanto piuttosto quelli frequentati dalla gente: fabbriche, scuole, quartieri urbani, zone rurali. Per i redattori della stampa, radio, tv, web: Ufficio Stampa, Irene Guzman, 349 – 12 50 956 Paolo Gotti Cina 2078 Temporary Gallery Via Santo Stefano 91/a Bologna Fino al 31 gennaio ‘19
L'etichettario
Giorni fa, in queste pagine, rivolgevo un garbato rimprovero a degli organizzatori di un Festival a Roma i quali – come fanno in tanti – esponevano in rete il loro sito integralmente in inglese. Scrivevo: “Capisco la comunicazione internazionale, ma pubblicatelo almeno anche in italiano”. Rinunciare alla propria lingua è rinunciare a un sacco di cose. Ecco perché il massimo dell’infamia, a mio avviso, è la decisione del governo renziano di chiamare una sua legge: jobs act. Cioè una legge dello Stato italiano chiamata con una lingua straniera! Ve li immaginate tedeschi, francesi o inglesi che chiamino Legge sul Lavoro una loro disposizione legislativa in quella materia? Nello scrivere a quegli organizzatori, avevo presente un prezioso libro uscito quest’anno: Diciamolo in italiano di Antonio Zoppetti. Ve lo consiglio. Ora, dello stesso autore, è uscito, un altro volume edito da Franco Cesati, è intitolato L’etichettario Dizionario delle alternative italiane a 1800 parole inglesi.
Dalla presentazione editoriale. «Negli ultimi 30 anni, le parole inglesi entrate nella nostra lingua sono più che raddoppiate, e anche la loro frequenza d’uso è aumentata. Ogni giorno abbiamo a che fare con termini britannici, non sempre trasparenti (kiss&ride, caregiver) – anzi, talvolta impiegati volutamente proprio per mascherare o per edulcorare come stanno le cose (jobs act, spoils system). Pensiamo poi al linguaggio dei giornali (gig economy, flexicurity), dell’economia (quantitative easing, subprime), delle aziende (customer care, front office), della Rete (hater, spyware) o della moda (clutch, waist bag)… Siamo proprio sicuri di conoscere il significato di tutte le parole che leggiamo e ascoltiamo? E che non ci sia un’alternativa italiana che non siamo più abituati a usare? Parole come sponsor, budget, staff, catering, display o trailer sono davvero “necessarie”? O forse stiamo perdendo la capacità di dire finanziatore, stanziamento, personale, ristorazione, schermo o anteprima? Di pensare prima in italiano? Noi ci siamo “armati” di etichettatrice e abbiamo messo insieme 1800 alternative e sinonimi agli anglicismi più frequenti, senza proporre traduzioni “azzardate” (come guardabimbi per babysitter o fubbia per smog). Senza alcun purismo, e alcun elenco di forestierismi da bandire: conoscere più parole, più sinonimi, più alternative ci permette di ampliare il nostro lessico, di esprimerci in modo più ricco e vario, e questo partendo proprio dalla nostra lingua – uno dei pochissimi strumenti che più si usa e meno si usura!» Antonio Zoppetti L’etichettario Pagine 212, Euro 16.00 Franco Cesati Editore
lunedì, 10 dicembre 2018
Gli special di Cosmotaxi
Convegno Antonio Ligabue: pittore, paziente, uomo. Resa pubblica la cartella clinica a 70 anni dalla dimissione dall’ospedale psichiatrico
Reggio Emilia – Gualtieri: 2 e 9 dicembre 2018
Convegno su Ligabue
Senza il condimento della follia non può esistere genio alcuno. (Erasmo da Rotterdam)
Ligabue: il convegno
Il pittore Antonio Ligabue (Zurigo 18 dicembre 1899 – Gualtieri 27 maggio 1965) fu ricoverato tre volte all’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia; ma nonostante l’interesse dei media e di studiosi della sua opera e biografia, finora non era stato possibile consultare la cartella clinica per effetto della normativa sulla protezione dei dati personali. Il 6 novembre 2018 sono scaduti i 70 anni dalla sua terza ed ultima dimissione dal San Lazzaro ed è stato possibile, quindi, rendere pubblica quella cartella. Quest’accadimento ha dato l’occasione per una riflessione sul pittore svolta in due tempi con la collaborazione fra l’Ausl di Reggio Emilia, la Fondazione Palazzo Magnani, il Comune di Gualtieri, il Centro di Storia della Psichiatria e la Fondazione Ligabue. In foto: Antonio Ligabue, Autoritratto. Primo appuntamento il 2 dicembre nel Palazzo Magnani a Reggio Emilia. Lì è in corso la mostra – finissage il 3 marzo ’19 – a cura di Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger Jean Dubuffet: L'arte in gioco, e anche giovandosi dell’attenzione rivolta all’Art Brut esposta in città, è stato ricordato il patrimonio dei tanti artisti definiti “irregolari” conservati nell’ex manicomio e sono state date informazioni su com’è possibile consultare la cartella di Ligabue. Sono intervenuti: Giorgio Bedoni, psichiatra e docente dell’Accademia di Brera e Chiara Bombardieri, responsabile dell’archivio dell’ex ospedale psichiatrico San Lazzaro Successivamente, il 9 dicembre, a Gualtieri, patria adottiva di Ligabue e sede della Fondazione che prende il suo nome, si è tenuto il convegno Antonio Ligabue: pittore, paziente, uomo Lettura della cartella clinica a 70 anni dalla sua dimissione. Dopo un’introduzione di Davide Zanichelli presidente di Palazzo Magnani, Renzo Bergamini, sindaco di Gualtieri e di Marcello Stecco assessore alla Cultura, sono intervenuti Marzio Dall’Acqua, storico dell’arte e della psichiatria, Gaddomaria Grassi, psichiatra, presidente del Centro di Storia della Psichiatria, Sergio Negri, presidente del comitato scientifico della Fondazione “Museo Antonio Ligabue”.
Convegno su Ligabue
Il genio abita semplicemente al piano di sopra della follia. (Arthur Schopenhauer)
Ligabue: Documenti e testimonianze
In foto una pagina della cartella clinica di Ligabue. Le parole non leggibili in questa riproduzione fotografica dicono: Scaricato… n.185… uscito il 6 Nov. 1948… dimesso per guarigione… fatto rimpatriare a mezzo Questura. Un raro documentario, girato da Raffaele Andreassi per la Rai, proposto in Rete dal sito web “La capanna del silenzio”. Nelle immagini, agisce lo stesso Ligabue, lungo il fiume e nella sua casa. CLIC per la visione. Un video con Sergio Negri Presidente del comitato scientifico della Fondazione “Museo Antonio Ligabue”. E' fra i massimi esperti della figura e dello stile del pittore. L’intervento è stato ripreso in occasione di una mostra tenutasi a Pavia. Testimonianza di un allievo. Un servizio tv della “Clessidra” con Giuseppe Amadei, Marzio Dell’Acqua, Sergio Negri. QUI una serie di opere di Ligabue
Covegno su Ligabue
Il genio? Pazzia con metodo. (Frank Herbert)
Convegno su Ligabue: Gaddomaria Grassi
Lo psichiatra Gaddomaria Grassi, (in foto), è Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e dipendenze patologiche della Ausl di Reggio Emilia e Presidente del Centro di storia della psichiatria. Ha pubblicato "Emergenza in psichiatria. Strategie e percorsi operativi nel servizio pubblico" (Franco Angeli, 1993); “Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani“ (con Chiara Bombardieri, Franco Angeli 2016). A lui ho rivolto alcune domande.
Il convegno su Ligabue inevitabilmente ricorda una vecchia questione. Nell’antichità Aristotele diceva “Gli uomini eccezionali, in filosofia, poesia o arte, sono alcuni al punto da essere considerati matti”. Ieri, Cesare Lombroso: “Nulla somiglia più ad un matto, quanto un uomo di genio, che mediti e plasmi i suoi concetti”. Oggi Foucault: “Se l'uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto, non può essere insensato. Il pensiero non può ospitare il suo contrario”. Esiste, oppure non esiste, una relazione fra Genio e Follia? In epoca positivista, quando Cesare Lombroso scriveva “Genio e follia”, la psichiatria, disciplina giovane, cercava di accreditarsi socialmente e di estendere i confini del suo sapere. Ogni differenza da una ipotetica normalità era oggetto di studio e di diagnosi psichiatrica. Così anche chi usciva dalla media per talento o creatività doveva essere studiato e poteva essere etichettato come patologico. Lombroso stesso, a Mosca per un convegno, si recò in visita da Lev Tolstoj nella sua tenuta per intervistarlo e raccogliere elementi a favore della sua tesi. Sappiamo peraltro che l’impressione che suscitò in Tolstoj il nostro neuropsichiatra non fu delle migliori. Oggi credo che non abbia un gran senso porre la questione in questi termini. Piuttosto, ogni persona, sulla base di determinanti di tipo biologico, psicologico e sociale ha specifiche caratteristiche sia sul piano emotivo che intellettivo che a loro volta si traducono i comportamenti che possono essere valorizzati o meno dal sistema sociale. Anche le persone a cui viene diagnosticato un disturbo psichiatrico, come le altre, possono avere sensibilità specifiche e potenzialità in campo artistico e non solo. Credo in sostanza che sia improduttivo, a fronte di un’opera d’arte, chiedersi qual è il funzionamento mentale dell’artista o peggio ancora cercare collegamenti fra determinate forme di espressione artistica e specifiche diagnosi. Mi limiterei, ad esempio, a registrare la malattia di Antonio Ligabue e la sua esperienza manicomiale, che certamente hanno avuto un grande impatto nella sua vita e sulla sua produzione, per ciò che sono e cioè come elementi biografici. Semir Zeki – docente di Neurobiologia all’Università di Londra – nel suo libro “La visione dall’interno” (Bollati Boringhieri, 2007), prospetta la nascita di una neurologia dell’estetica, che chiama ‘Neurestetica’, e scrive: <…esprimo l’impressione che le teorie estetiche diventeranno comprensibili e profonde solo quando saranno fondate sul funzionamento del cervello, e che nessuna teoria estetica che non abbia una forte base biologica può essere completa e profonda>. È d’accordo o no con quell’affermazione? Indubbiamente lo sviluppo delle neuroscienze potrà contribuire anche in questo campo a migliorare la nostra conoscenza e contribuire ad un confronto costruttivo fra chi ha competenze filosofiche e scientifiche. Personalmente credo che la cultura, e non solo la biologia, abbia anche in questo ambito, nonostante i progressi delle neuroscienze, un ampio spazio. Franco Basaglia, nel 1967, in ‘Che cos'è la Psichiatria’, scrisse “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione”. Al di là di clamorose manifestazioni esteriori, esiste un confine identificabile tra follia e ragione? Negli anni 60 e 70 si è giustamente messo in discussione questo confine la cui rigidità nei decenni e secoli precedenti aveva avuto come conseguenza l’esclusione manicomiale e anche la legittimazione di pratiche irrispettose dei diritti elementari dell’individuo, basti pensare alla psicochirurgia o addirittura all’eugenetica o ai programmi di eliminazione del regime nazista. Tuttavia occorre dire che in ogni epoca, quantomeno nel mondo occidentale, i sistemi sociali hanno sentito la necessità di dotarsi di modelli di lettura dei fenomeni psichici e di delegare ad alcuni dei loro membri (che oggi chiamiamo psichiatri e ieri alienisti) il difficile compito di distinguere fra salute e malattia. L’obiettivo, come è noto, era in primo luogo quello di escludere i malati dalla società perché pericolosi o disturbanti ma anche, e lo è tuttora, di fornire assistenza e cura o di valutarne l’imputabilità di fronte alla legge o ancora di riconoscergli il diritto a tutele giuridiche o sociali. L’importante è essere consapevoli del fatto che questo confine è mutevole nel tempo e cultura-dipendente. E anche che si basa su un sistema di conoscenze interdisciplinare perché la psichiatria, come scrisse Ferruccio Giacanelli, non dispone di un corpus dottrinale autonomo ma deve appoggiarsi e fare sintesi dei campi di studio della psicologia, delle neuroscienze, delle scienze sociali. Ha scritto Umberto Galimberti “La psichiatria organicista riduce tutti i fenomeni psichici ai principi che presiedono la biochimica del cervello; la psicoanalisi riduce le manifestazioni della psiche alla dinamica che presiede la sessualità infantile; le neuroscienze riducono gli scenari psichici alle dinamiche dei sistemi neuronali; la genetica riduce i disturbi psichici alla componente ereditaria e solo in seconda battuta ai fattori ambientali” Le chiedo: a quale direzione appellarsi per saperne di più su noi umani? L’unico modo per saperne un po’ di più (condivido il fatto che non dobbiamo illuderci di arrivare a sapere tutto sul nostro funzionamento psichico e sui comportamenti umani) è a mio avviso rifiutare ogni forma di riduzionismo, in primis biologico, come pure posizioni fideistiche e dogmatismi di ogni genere. Il paradigma di riferimento oggi non può che essere quello bio-psico-sociale, che deve conciliare, pena l’autoesclusione da parte della realtà, questi tre aspetti fondamentali della nostra vita. Aggiungo che sforzarsi di mantenere sempre un approccio rispettoso di tutte queste tre dimensioni è molto più faticoso che abbandonarsi a letture semplificate. Non vedo però alternative: semplificare questioni complesse porta in genere alla loro banalizzazione, e se veramente vogliamo “saperne di più su noi umani”, non possiamo permettercelo.
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Convegno Antonio Ligabue: pittore, paziente, uomo. Resa pubblica la cartella clinica a 70 anni dalla dimissione dall’ospedale psichiatrico
Reggio Emilia – Gualtieri: 2 e 9 dicembre 2018 FINE
venerdì, 7 dicembre 2018
Piccola città (1)
No, non sto per parlare della città immaginaria di Thornton Wilder né di quella cantata da Francesco Guccini, ma di una città italiana che vive nelle pagine di un libro di grande forza pubblicato da Laterza. Titolo: Piccola città una storia comune di eroina. L’autrice è Vanessa Roghi. Storica, ha girato documentari per “La Grande Storia” di Rai Tre. Ha insegnato Storia contemporanea all’Università Roma Tre, Storia e Tv nella Facoltà di Lettere della Sapienza, Università di Roma. Per dirla in breve, storica della cultura, così com’è dimostrato da un altro suo libro La lettera sovversiva in cui riflette su Don Milani contestualizzando la sua figura nel tempo e notando le polemiche e le influenze che ha avuto “Lettera a una professoressa”. Conduce il sito web Immaginiimmaginario. Il libro racconta una storia vera che intreccia tre percorsi: quella del padre dell’autrice e dei guai cui va incontro per via della tossicodipendenza, della città di Grosseto e dell’infanzia della scrittrice negli anni in cui si accendevano speranze e, al tempo stesso, arrivava l’eroina anche in quella piccola città. Avvertimento d’obbligo: non è un romanzo. Altrimenti, come sanno i generosi che leggono le mie note non starei qui a parlarne; nei diciannove anni di vita di questo sito, romanzi non se ne trovano. È un libro meraviglioso perché intreccia la narrazione con il documentario e con il saggio senza che uno di questi segmenti prevalga sugli altri sicché il tracciato della scrittura, secca e veloce, procede compatto e ogni versante spiega gli altri e viceversa. .Dalla presentazione editoriale «Guardate questa bambina. Questa bambina sono io. Ho un buffo cappello di lana colorato, lo so perché c’è un’altra foto a colori che me lo dice. Sto con M. Deve essere il 1977. Sono felice. La città per me è ancora una soltanto. Nessun muro la divide in due. Per ora. Dopo non sarà mai più così.» Decine di migliaia di tossicodipendenti, una ‘generazione scomparsa’ su cui si è steso un velo di oblio. Un libro di storia, un memoir che squarcia un muro di silenzio e lo fa partendo dal punto di vista più difficile e doloroso: quello personale. Quando arrestano mio padre per spaccio di eroina ho 15 anni, frequento il ginnasio, nell’unico liceo classico di Grosseto. Un liceo di provincia, frequentato dai figli dei professionisti della città. Quando lo arrestano io non dico niente a scuola. Non trovo le parole per farlo, non credo di averle neanche cercate, è qualcosa che accade, e basta. Quando le cose accadono a me io non so come raccontarle. Per questo faccio la storica, racconto le cose che accadono agli altri, eppure questa di mio padre voglio raccontarla, così inizio a parlarne con gli altri, ma solo all’università, quando mi sento ormai protetta dalla distanza, ne parlo e ne parlo, e una giovane storica senza immaginazione si domanda se sono matta ad andare a dire in giro che mio padre si è fatto di eroina. Perché questa è una cosa che non si racconta. Non è neanche un fatto degno di storia. È una piccola storia ignobile». Segue ora un incontro con Vanessa Roghi.
Piccola città (2)
A Vanessa Roghi, (in foto), ho rivolto alcune domande. Il principale motivo all’origine della scrittura di questo libro… Questo libro nasce da una doppia esigenza: personale e storiografica. Volevo ricostruire la mia storia familiare inserendola all’interno di una storia più grande che ha riguardato tanti uomini e donne nell’Italia degli anni settanta. La storia è quella dell’eroina e della sua diffusione. Nell’accingerti a scrivere “Piccola città” qual è stata la cosa che hai scelto di fare assolutamente per prima e quale la prima assolutamente da evitare? La prima cosa che ho cercato di fare è stato trovare la mia voce, recuperando da un lato il mio punto di vista di bambina che si trova in mezzo a una storia che non capisce, di cui raccoglie segni, tracce. Dall’altro il mio sguardo di donna adulta che per scelta è diventata una storica. Ho lavorato sugli indizi che avevo, mettendoli in fila, così facendo ho cercato nessi con quanto accadeva in Italia negli stessi anni. Ho preso la piccola città, Grosseto, e ho provato a studiarla come luogo al centro di un processo che riguardava tante altre piccole città. Seguendo le indicazioni di antecedenti illustri che l’avevano già fatto: Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, per esempio, che negli anni Cinquanta avevano scritto che la provincia è un ottimo punto di osservazione per capire cosa si sta muovendo nel paese. La cosa che ho cercato di non fare assolutamente è stato giudicare, non so se ci sono riuscita, credo di sì. Quale responsabilità attribuisci al Pci negli anni in cui nasce il problema della tossicodipendenza? Al Pci non attribuisco responsabilità specifiche, anzi. Sicuramente il Partito Comunista ha avuto il merito di porre la questione delle tossicodipendenze al centro della sua riflessione politica fin dagli esordi del problema, Luigi Cancrini è stato il primo a condurre studi seri sull’argomento, e l’ufficio studi del PCI ha lavorato bene per un decennio. I comunisti avrebbero potuto fare di più e meglio per esempio nella gestione dei servizi territoriali dopo il 1975 ma certo in confronto a quello che hanno fatto i partiti di destra e anche la DC che stava al governo non ci si può certo lamentare in una prospettiva storica che tiene insieme tutto il decennio. Nel tuo libro perché è citata la figura di Guido Blumir? Guido Blumir, sociologo, mise in luce subito le insufficienze di un approccio basato esclusivamente sull’analisi delle cause sociali della dipendenza, che pure erano e rimangono rilevanti. La dimensione individuale, della scelta, veniva dalla lettura “politica” dei partiti di sinistra, completamente elusa. Questo sicuramente negli anni Settanta non l’avevano chiaro in molti. Certo non i partiti tradizionali. Questo ha determinato l’incomprensione verso tanti “compagni” che senza alcuna ragione apparente hanno intrapreso la strada dell’ago in vena. Negli anni dell’arrivo dell’eroina in Italia, esiste, oppure non esiste, una differenza fra gli ambienti di consumatori nelle grandi città e in quelle di provincia? La differenza è cronologica: nelle grandi città il fenomeno arriva prima, fra il 1973-74 a Roma e Milano l’eroina è già visibile. In provincia ci vorranno più anni: dopo il 1975 però in proporzione le province saranno più colpite delle grandi città Scrivi: “In Francia o nei paesi anglosassoni, la storia dell’eroina è diventata parte della storia sociale e culturale e non più, soltanto, di quella criminale”: Perché, in Italia, nonostante tante pubblicazioni – qualcuna anche di valore – ciò non è accaduto? Credo che abbia prevalso in Italia uno sguardo fortemente segnato da quello che già alla fine degli anni settanta era diventato un luogo comune: l’eroina era stata immessa nei movimenti politici post 68 per distruggerli. Questo teorema da solo spiegava tutto. In realtà, a mio parere, non spiega niente e ha determinato un grande ritardo nell’affrontare storicamente il fenomeno. Perché nell’ultima pagina del libro, nei ringraziamenti, scrivi che “questa non è una ricerca storiografica”? Direi che è una provocazione surrealista: “Piccola città” è una ricerca storiografica ma nel metodo e nel merito può sembrare altro. Come scrive Michele Mari a volte è necessario chiedere soccorso alla letteratura per raccontare gli interstizi della storia. Ho provato a farlo. Ma certo rimango una storica, anche quando parlo di me, di mio padre, della mia famiglia e della mia piccola città. Piccola città è un libro di storia. …………………………………... Vanessa Roghi Piccola città Pagine 230, Euro 19.00 Laterza
Her
Se a Roma abitate, oppure vi trovate di passaggio in città, consiglio una puntata nel quartiere S. Lorenzo, zona universitaria, oggi ricca di bar, osterie, negozi caratteristici. Un tempo è stato l’unico quartiere romano ad opporsi alla Marcia su Roma, gli Arditi del Popolo riuscirono perfino a fermare i fascisti. Poi successivamente il quartiere fu occupato dagli uomini di Italo Balbo che arrivarono a uccidere 13 abitanti. Quartiere vittima di un terribile bombardamento il 19 luglio del 1943 che provocò circa 3000 morti e migliaia di feriti: sei giorni dopo vi fu la caduta di Mussolini. Quel bombardamento ha ispirato a Francescoi de Gregori una sua canzone. Durante gli anni ’70 il Movimento Studentesco e vari gruppi di Sinistra resero il quartiere un laboratorio di idee e di pratiche sociali risultando fra i più attivi dei rioni di Roma. Come accaduto in tante parti d’Italia, sono seguiti anni in cui è sceso anche su S. Lorenzo un velo di appannamento ma evidentemente quei lontani tempi qualche traccia l’hanno lasciata perché oggi vari segni indicano una rinascita di fermenti e proposte. Ecco, ad esempio, HER: She Loves S. Lorenzo il primo festival di quartiere dedicato all’arte, ai dati e alla cultura dei dati. È ideato e realizzato dal Centro di Ricerca Her (Human Ecosystems Relazioni) ed è a cura di Arianna Forte con la direzione scientifica e artistica di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. Dal comunicato stampa. «L’iniziativa è parte del programma di Contemporaneamente Roma 2018 promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale e realizzato in collaborazione con la Siae. Il programma è progettato intorno all’esigenza di esplorare e comprendere la complessità del ruolo dei dati nel mondo contemporaneo, attraverso i linguaggi dell’arte. Allo stesso tempo il festival mira a rivitalizzare la micro-circolazione e stimolare le connessioni fra gli attori del quartiere di S. Lorenzo, creando network e cortocircuiti fra mondi diversi, basati sulla condivisione del progetto culturale. Con la seconda edizione il festival estende la sua programmazione a due interi mesi: un incontro di quartiere, tre workshop, due call aperte per stimolare la produzione e la fruizione artistica contemporanea nel tessuto urbano, una mostra diffusa inaugurata da una passeggiata rituale nelle vie di S. Lorenzo alla scoperta di inaspettate opere d’arte fatte di dati aperta al pubblico per due settimane, una lectio magistralis immersiva e due conferenze tematiche per indagare il rapporto fra arte, dati, scienze e tecnologie, a partire da due temi caldissimi: le “fake news” e il cambiamento climatico». Tutti gli eventi della programmazione, dai workshop, alla mostra, agli incontri sono aperti e gratuiti per il pubblico. CLIC per il programma. Concludendo un’Iniziativa tutta da elogiare sia per il tema trattato e sia per come è congegnata la macchina del programma. Solo applausi? In verità, una piccola contrarietà ce l’ho. Perché il sito (molto ben fatto) di Her è tutto in inglese e non (perlomeno) anche in italiano? Rinunciare alla propria lingua è rinunciare a tantissime cose. E, soprattutto, la questione diventa incomprensibile per un’iniziativa che vuole (e ci riesce) valorizzare il territorio, ed è credo legittimo chiedere se non rifarsi a un “genius loci” almeno rispettarne l’idioma. Nel ribadire i complimenti, assolutamente non formali, agli organizzatori, consiglio loro la lettura di Diciamolo in italiano, recente libro illuminante al proposito. HER: She Loves S. Lorenzo Informazioni: he-r@pec.it 9, 10, 11 Dicembre Roma
mercoledì, 5 dicembre 2018
Piedi
Puntare i piedi… fare un lavoro coi piedi… essere una palla al piede… tenere il piede in due staffe… licenziato su due piedi… darsi la zappa sui piedi… potrei andare avanti ancora per molto, tante sono le locuzioni popolari in cui sono citati i piedi che, talvolta, con colpevole pudicizia sono chiamati estremità. Piedi: importante parte anatomica non sono per equilibrio e motilità del corpo ma anche perché è fonte d’ispirazione e applicazione nelle arti visive fin dalle statue dell’antichità arrivando a Leonardo e in pittura si pensi alla cura che ebbe Caravaggio nel ritrarli e date uno sguardo in tempi meno lontani a Magritte e Tom Wesselmann, solo per fare alcuni esempi fra i tantissimi. Ai nostri giorni ne registriamo la loro presenza in tante occasioni espressive e se i Modena City Ramblers stanno Coi piedi per terra, Erri De Luca ne tesse un Elogio in versi. E la pubblicità? Vi servo subito. Con un vecchio ricordo. I meno giovani ricorderanno la réclame (così si chiamava un tempo) di un callifugo, il callifugo Ciccarelli. Ebbene quella pubblicità vedeva la più straziante smorfia che mai più s’è vista in stampa, neppure quella immaginabile nel martirio ai piedi fatta a un torturato nel Giardino dei supplizi di Mirbeau, Perché storceva i lineamenti? Perché ai suoi piedi non aveva applicato il balsamico ritrovato da Ciccarelli che dava sollievo ai più induriti piedi. Oggi poi la pubblicità è piena di piedi, dalla testa ai piedi, per via di spot dedicati alle calzature. Ma non basta. Perché i piedi occupano anche una parte della psicologia clinica. Fin dai tempi dello psichiatra tedesco Krafft-Ebing (1840 – 1902) che nel suo “Psychopathia sexualis”, pubblicata nel 1886, nel tracciare un panorama delle parafilie, nel capitolo dedicato al “feticismo”, segnalò quella del piede come preminente su quella della mano, su vari tessuti, sui capelli, su oggetti. Quel testo oggi è ampiamente superato da nuovi studi, ma resta un classico perché per la prima volta ci fu chi studiò tanto estesamente i vari comportamenti sessuali di noi umani. In ogni caso, l’edizione più recente del decennale DSM, una sorta di bibbia della psichiatria mondiale (la più recente edizione tradotta in Italia è del 2014), mentre, ad esempio, espulse fin dal 1973 l'omosessualità dalla classificazione psicopatologica, ha mantenuto tra le devianze, anche nel DSM-5, il feticismo. Pure del piede, ovvio. Patologia, azzardo, che, senza necessità d’arrivare alle ipotesi postbiologiche del Postumanesimo, vede progressivamente ridotto il suo campo di realizzazione, perché già oggi credo ci sia scarsa eccitazione di fronte a un arto di titanio.
E con queste righe ci siamo avvicinati a un libro che segnalo alla vostra attenzione. È intitolato, manco a dirlo, Piedi Pensieri per un feticista. Pubblicato da Fefè Editore nella collana ‘Superfluo Indispensabile’ diretta da Lucio Saviani. Ne è autrice Laura De Luca. Radiogiornalista, autrice e regista radiofonica e teatrale, disegnatrice e producer di progetti discografici, ha recentemente curato diverse edizioni librarie, radiofoniche e teatrali di interviste impossibili. Tra le ultime pubblicazioni: Domande impossibili (Lev, 2018), La radio disegnata (Mimesis, 2017), L’armadio di una donna (L’Erudita, 2017). Tra gli ultimi allestimenti scenici: Corde tese. Una chitarra dimenticata, con le musiche di Luigi Picardi e Mauro Restivo (Villa Capo di Bove, Roma 2018) e Incontro con Artemisia Gentileschi (Museo di Roma, Palazzo Braschi, 2017). QUI il suo sito Web La copertina che riporta un’immagine da Dürer “Piedi di un apostolo” (1508) – se andate a Rotterdam lo trovate nel Museo Boymans-van Beuningen – introduce una vertiginosa variazione sul tema piede, per nulla pedestre ma assai raffinata, che esplora alti quartieri del pensiero e bassifondi della psiche in brevi capitoli percorsi con piedi e cervello sani assai. Anche se non me l’avete chiesto, vi dico la frase che più mi è piaciuto del libro: “Dove guardano i piedi? È facile: in avanti. Anche se non sempre sanno dove andare”. Chi vuol capire, l’ha capita. Dalla presentazione editoriale «Le forme, i modi, le variazioni, i vizi, le virtù, le stranezze del piede offrono stimolanti spunti di conversazione ai feticisti così come a chiunque (da Cenerentola a Caravaggio). Il segreto del piede, paradosso sospeso tra invisibilità e passione erotica, è scandagliato con tono ironico nei suoi vari aspetti, dai più omessi ai più citati in letteratura e medicina. Per giungere a capire che così tante cose dipendono dal piede, anche se ce ne dimentichiamo. Ne risulta una miscela di frammenti, poesie e citazioni d’autore idealmente destinati a un feticista da parte di una feticista. E' il quarto titolo – dopo “Peli” di Francesco Forlani, “Mani” di Lucio Saviani e “Naso” di Pasquale Panella – della serie ‘Oggetti del desiderio’ diretta dal filosofo Lucio Saviani». • QUI Laura De Luca legge l'introduzione a “Piedi”. Laura De Luca Piedi Pagine 234, Euro12.00 Fefè Editore
Industriarsi per vincere
"Alcuni sostenevano che dipendeva dall'assassinio di un arciduca; ma questo non sembrava un motivo sufficiente per lo scoppio di una conflagrazione mondiale. La gente aveva bisogno di una spiegazione più realistica. Allora, ecco: è una guerra per la difesa della democrazia. Eppure la minoranza aveva più cose da difendere della maggioranza. Conclusione: le perdite furono crudelmente democratiche”. Così diceva Charlie Chaplin.
Sulla prima guerra mondiale sono stati scritti tanti volumi sia in saggistica sia in narrativa, eppure più di ogni pagina, le fotografie e i documentari cinematografici di quel tempo posseggono una forza comunicativa insuperabile. Non solo i volti, i posti ritratti nelle trincee, ma anche quelle di luoghi lontani dal teatro di guerra, perché molti di quei luoghi alla guerra erano collegati per varie necessità militari. Oppure perché risentivano dei grandi disagi economici che la guerra provocava. Fra i volumi che documentano quell’epoca, la casa editrice Interlinea ha scelto un originale taglio di racconto per immagini che mostrano lo sforzo bellico visto nelle fabbriche che producevano armi o altro ancora in rapporto con il conflitto. Titolo: Industriarsi per vincere Le imprese e la Grande Guerra Un’impresa editoriale che dobbiamo al monumentale lavoro di ricerca di Andrea Pozzetta e agli incisivi testi dello storico Alessandro Barbero che nella presentazione scrive: La prima guerra mondiale è la prima guerra totale, in cui ogni paese belligerante è interamente mobilitato per la vittoria, i governi assumono la direzione pressoché dittatoriale della vita nazionale in tutti i settori, ai popoli sono chiesti tutti i sacrifici: agli uomini in età militare, di lasciare lavoro e famiglie e andare in trincea a farsi uccidere; a tutti gli altri, di mangiare, vestirsi e scaldarsi in modo insufficiente e di lavorare con orari pesantissimi rinunciando a tutte le conquiste sindacali In altro testo introduttivo, Carlo Robiglio dice: La prima guerra mondiale resta ancor oggi, soprattutto oggi, un periodo storico per un verso esaltato dalla narrazione epica che vide in questa vicenda il definitivo compimento dell’unità nazionale; dall’altro si è fatta sempre più nitida l’immagine del conflitto mondiale quale “inutile strage” […] Oggi cerchiamo con questo volume, di coprire al meglio uno spazio di conoscenza vuoto da troppo tempo, che è uno dei compiti dell’editoria di cultura. Dalla presentazione editoriale «Borracce, gavette, panni di lana e carne in scatola, munizioni, automezzi, vanghe e piccozze. La prima guerra mondiale è stata anche uno straordinario sforzo tecnico e produttivo che ha visto impegnate officine, manifatture, grandi e piccole aziende in una mobilitazione industriale senza precedenti. Attraverso documenti, immagini, cartoline e fotografie storiche, l’edizione del volume Industriarsi per vincere ripercorre il ruolo delle aziende italiane di fronte all’emergenza bellica, in un inedito sguardo sul “fronte interno” in grado di raccontare la quotidianità del conflitto. Un’opera antologica interamente dedicata a oggetti e strumenti divenuti veri e propri simboli degli italiani in guerra, su cui si è costruita l’identità collettiva di generazioni di soldati. Un libro fondamentale che ci racconta come la Grande Guerra fu una fase di grandi trasformazioni da cui discese la nostra idea di “modernità”». Industriarsi per vincere Curatore: Andrea Pozzetta Testi di Alessandro Barbero Con foto d’epoca b/n e colore Pagine 208, Euro 30.00
lunedì, 3 dicembre 2018
Misteri svelati (1)
Diceva Friedrich Nietzsche: “Si considera la cosa non spiegata e oscura più importante di quella spiegata e chiara”. Gente, infatti, che crede a cose impossibili ce ne sono tanti e tanti in giro. Forse non lo sapete, ma c’è perfino gente che crede sia possibile a una donna partorire pur essendo vergine, altri semmai credono a chi dice loro che c’è stato qualcuno che è risorto dopo morto (senza alcun riferimento alla crionica praticata all’Alkor). Sì, ce ne sono tanti di creduloni. Per fortuna ci sono anche – pure se inferiori per numero – di svelatori di quei misteri. Non c’è solo Martin Mystère, io, ad esempio conosco una Martina Mistère, meglio nota con il suo vero nome: Sonia Ciampoli che ha scritto un gran bel libro sull’argomento intitolandolo Misteri svelati Viaggio razionale tra i classici dell’ignoto. Lo ha edito il Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) nella collana I Quaderni del Cicap. Ciampoli, laureata in filosofia con una tesi su Tirannicidio e Riforma protestante, ha lavorato per alcuni anni come redattrice e traduttrice. Ora si occupa d’informatica, mentre per passione si dedica a serie tv, cucina e casi bizzarri che analizza, come questo libro dimostra, con ragionato scetticismo. Vive a Roma con il marito e il figlio verso i quali, con ragione, scettica non è. Se leggete le sue pagine, come v’invito a fare, scorrerà davanti ai vostri occhi un panorama che fa venire dubbi sulla giustezza della Legge Basaglia perché troverete un’infinità di casi in cui la fede in fenomeni paranormali viene smontata dalla Ciampoli con dimostrazioni che evidenziano l’inconsistenza di quelle convinzioni. L’elenco delle cose indagate dall’autrice è tanto lungo che rende dissuasiva la citazione; alcuni esempi li troverete qui appresso in una scheda editoriale. Ma allora non esistono i misteri? Certamente, esistono. Perché non sono stati ancora svelati. O si finge di crederli non ancora tali. Circa quei misteri ci soccorre Oscar Wilde: “Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”. Dalla presentazione editoriale «Se è vero, come diceva Tolkien, che non hanno mai fine i grandi racconti, lo stesso si può dire di molte storie del mistero: alcune circolano da decenni, persino secoli, pur essendo state a più riprese scientificamente e incontrovertibilmente smentite. Dal fantasma di Azzurrina di Montebello alle foto spettrali, dall'Uomo Falena alla maledizione di Tutankhamon, passando per casi meno celebri ma altrettanto affascinanti quali gli scheletri impossibili, Tamàm Shud o i bambini reincarnati, questa introduzione ripercorre i classici del mistero indagandone l'origine, la diffusione e la spiegazione razionale che è stata trovata o che è ritenuta più probabile. Il lettore viene guidato in un percorso tematico che, con tono lieve e d'intrattenimento, prende in esame un centinaio di fenomeni insoliti tra i più famosi in un vero e proprio viaggio razionale tra i classici del mistero». Segue ora un incontro con Sonia Ciampoli.
Misteri svelati (2)
A Sonia Ciampoli (in foto) ho rivolto alcune domande,
Qual è stato il principale motivo che ti ha indotto a scrivere questo libro? Questo libro nasce in realtà da una serie di articoli che avevo scritto nei due anni precedenti per QueryOnline, la versione digitale della rivista ufficiale del CICAP, Query. Proposi di mettere su la rubrica perché mi ero resa conto che spesso e volentieri le conclusioni delle indagini scientifiche sui misteri non ricevevano la stessa attenzione e risonanza dei casi stessi, e pensavo fosse il caso di raccoglierle in un solo punto. Quando ti sei accinta a scrivere “Misteri svelati” che cosa hai deciso assolutamente da fare per prima e quale per prima assolutamente da evitare? Il caso che più tenevo a raccontare, all’inizio, era quello del presunto fantasma di Azzurrina di Montebello, che era un po’ anche la storia per la quale mi ero avvicinata al CICAP in origine. Poi decisi di mantenere un tono “leggero”, evitando casi più tragici o drammatici, e di non trattare quindi i complottismi (11 settembre, scie chimiche, i cosiddetti false flag), che già avevano ricevuto spiegazioni e risposte accurate e ineccepibili. Dagli studi da te compiuti, quale idea ti sei fatta sul meccanismo psicologico che induce tanti a reputare per vere cose impossibili? Le versioni alternative sembrano appagare il bisogno di altro e di oltre, di sentirsi parte di una schiera di eletti e di star combattendo contro un nemico invisibile ma potentissimo. Perché affascina il convincimento che un mondo senza misteri sia meno meraviglioso di uno popolato da enigmi, meglio ancora se tenebrosi? Tentare di capire la magia e l’ignoto è stato uno degli elementi centrali dell’incredibile evoluzione umana, (per seguire virtute e canoscenza…), ma in tanti trovano che una spiegazione razionale sia meno affascinante di quella misteriosa, probabilmente per timore che si finisca in un mondo gelido, privo di poesia e anelito vero l’oltre. Ovviamente non è così: dare una spiegazione mette ordine, e l’ordine consente di ammirare la straordinaria bellezza dell’universo senza essere distratti da rumori di fondo. Internet ha ridotto o favorito la diffusione della credulità nel mondo da te indagato? Credo che il risultato finale si equivalga: se da un lato è facilissimo incappare in mille assurde storie di misteri o presunti tali, altrettanto facile è accedere alle spiegazioni razionali e scientifiche proposte da debunker e studiosi. Semmai il problema è che debunker e studiosi sono ancora in minoranza, e avrebbero decisamente bisogno di nuove leve, che – lo dico per chi ci legge – aspettiamo tutti a braccia aperte! ………………………… Sonia Ciampoli Misteri svelati Pagine 202, Euro 9.90 I Quaderni del Cicap
L'embardage-Duras
La più recente produzione di VS Gaudio è intitolata L’embardage-Duras Il pentagramma narrativo du désir nel “Moderato cantabile” . Quella che segue è la dichiarazione a lui richiesta da Cosmotaxi su quel suo lavoro.
«È un mio saggio, testo, quello che è, di critica polimaterica che risale al 2003: una ricognizione quasi sensoriale sul pentagramma narrativo del désir nel “Moderato Cantabile” di Marguerite Duras, Minuit 1958. Il mio testo è una sorta di Stimmung, se vogliamo, anche linguistica, difatti analizzo il testo originale della Duras e quindi la mia ricognizione sensoriale, tattile, visiva, a volte anche muscolare, nervosa, avviene anche in francese. Come se fossi al cinema a guardare il film di Peter Brook con Jean-Paul Belmondo e Jeanne Moreau però dentro il romanzo di Marguerite Duras: insomma, rifaccio il film, un remake testuale ma, questo è sicuro, con i personaggi del romanzo come se fossero interpretati da Belmondo e Moreau, specialmente Jeanne è lei il corpo, nel film del 1960, della protagonista del romanzo, Anne Desbaresdes. Comincio con un gioco d’avvio, una sorta di caffè-game, di quelli compresi nei “giochi di società” della psicologia transazionale di Eric Berne, e il gioco è, appunto, così lo chiamo: L’ embardage, che è l’embardement, lo sbandamento, la sbandata nella forma di “embardée”, che attiene, di solito, a un’imbarcazione e che è perciò correlabile al “gioco sessuale” che si svolge in un café du port in una piccola cittadina industriale. Da qui, c’è tutto il pentagramma del Désir analizzato nei vari capitoli nell’ambito della psicologia transazionale, ma c’è anche la psicanalisi freudiana e lacaniana (Heimlich, Unheimlich), Roland Barthes (punctum, senso ottuso, musica, generi musicali, contrappunto), la macrostruttura di Isenberg e anche Todorov, un po’ d’argot di Delesalle. A specchio, annoto rifrazioni della critica durasiana: Rosaria Guacci, Edda Melon, Bruna Morelli, Mireille Calle-Gruber, Nadia Setti. Questa è la sequenza dei capitoli-paragrafi, nella dinamica quasi cinematografica: l’embardage, il copione del “Moderato Cantabile”, il sexualcafé game per misurare il désir, lo script e il contrappunto, il farsi sentire e il tempo-orologio della Sonatine, la tavola dell’esecuzione e dei tempi, generi di musica e tipo di relazione, la tavola del genere e dell’armonia, la tavola del pentagramma narrativo di “Moderato Cantabile” e la macrostruttura della Sonatine, le parallele nascoste del Désir, il punto-Heimlich, la seduzione del senso ottuso, la metonimia del Désir, l’Unheimlich che sanziona la voglia di Chauvin, l’Unheimlich che svela la voglia di Anne Desbaresdes, il pentagramma narrativo e gli incontri tra navigazione astronomica e sociologia urbana di Ledrut». CLIC per avere la copia in dono (112 pagine, formato 15x15).
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