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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Figli di un io minore (1)

La casa editrice Marsilio ha pubblicato un saggio di grande attualità perché ragiona sull’esercizio del pensiero critico oggi in una società che soggiace ai poteri della finanza e delle reti.
Titolo: Figli di un io minore Dalla società aperta alla società ottusa.
L’autore è Paolo Ercolani.
Nato a Roma nel 1972, insegna filosofia all’Università di Urbino Carlo Bo.
Scrive per varie testate, tra cui «L’Espresso», e ha collaborato con «il Manifesto», «MicroMega» e «la Lettura» del «Corriere della Sera».
Cura il blog L'urto del pensiero e collabora con Rai Educational Filosofia.
È autore di vari articoli e libri, tra i volumi: «La Storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche» (Napoli 2011); «L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana», prefazione di Umberto Galimberti, (Bari 2012); «The West Removed. Economics, Democracy, Freedom: A Counter-History of Our Civilization», prefazione di Santiago Zabala (London – New York 2016); «Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio» (Venezia 2016, vincitore del Premio Nazionale Com&Te).
Nel catalogo Marsilio: “Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio” (2016).

Ercolani ha già viaggiato a bordo di questo Cosmotaxi come sanno donne e uomini che generosamente leggono queste mie pagine.
.
• Come può aiutarci la filosofia a sciogliere i nodi davanti ai quali ci pone la società del nostro tempo? Quali grandi pensatori del passato hanno colto e descritto in anticipo l’egemonia del potere finanziario e il dominio della realtà virtuale in cui siamo immersi? E come è possibile oggi, a partire da quelle riflessioni, avviare un percorso per contrastare la crisi della democrazia rappresentativa? Paolo Ercolani tenta di fornire strumenti di analisi efficaci per giungere a un dibattito consapevole, sempre più necessario in quanto, sostiene l’autore, non si tratta semplicemente di combattere singole prese di posizione (No vax, sovranisti, complottisti ecc.), ma di ritrovare la capacità di affrontare i temi che ci riguardano come singoli e come società esercitando il pensiero critico. La questione non può limitarsi alla cultura di ciascuno o all’appartenenza a un ceto sociale, come si è tentato di sostenere in passato; vanno prospettate soluzioni in grado di invertire la tendenza ad affidarsi alle tecnologie come panacea di tutti i mali e di opporsi al dissolvimento di ogni posizione dissonante in un senso comune che non ammette alternative •

Segue ora un incontro con Paolo Ercolani.


Figli di un io minore (1)


A Paolo Ercolani, in foto, ho rivolto alcune domande.
Qual è l’intento di questo tuo libro?

Da una parte ricostruire come, quando e perché siamo piombati in quella che chiamo«società ottusa», una dimensione in cui si è lasciato che forze aride e impersonali come il mercato e la tecnologia conquistassero ogni dimensione dell’umano e dettassero non solo l’agenda politica, ma anche la tavola dei valori verso cui proiettare tutto il pensare e l’agire. Dall’altra, a fronte dell’analisi storica e filosofica di quanto detto sopra, individuare idee e proposte concrete attraverso cui uscire dalla «dementocrazia»e ricostruire un consesso in cui l’essere umano, il pensiero critico e autonomo e la conoscenza tornino ad occupare un ruolo centrale. Intenti ambiziosi, ma sono soddisfatto di questo lavoro che ha impiegato tre anni di studio. Poi, naturalmente, il giudizio spetterà ai lettori.

Come dici in apertura, prendi a prestito da Karl Popper i termini di “società aperta” e “società chiusa”.È possibile, in sintesi, una definizione della prima e della seconda?

La società aperta è quella non regolata da dogmi imposti dall’alto, che affermano e impongono delle verità certe e indiscutibili, ma abitata da cittadini forniti di un pensiero autonomo e critico con cui aprirsi alla conoscenza, all’azione ragionata e consapevole, quindi alla democrazia del dialogo e non del fanatismo depositario di certezze. In questo tipo di società i singoli devono cimentarsi con decisioni personali, utilizzando le proprie conoscenze e abilità per operare responsabilmente in vista del bene comune.
La società chiusa è quella in cui gli abitanti devono sottomettersi a ordini superiori considerati magici e dunque indiscutibili, in vista della tutela di una dimensione che è esclusivamente quella personale e della propria cerchia ristretta.

Quali, invece, le principali caratteristiche di quella da te definita “società ottusa”?

Si tratta di una società in cui da una parte si procede alla spoliazione progressiva del pensiero critico e della conoscenza autonoma, così da ridurre gli individui a cellule di risposta funzionale rispetto ai dogmi imposti dal potere finanziario e da quello tecnologico. Dall’altra è una società in cui si sta operando in vista della distruzione della sfera pubblica e della democrazia politica come le abbiamo conosciute nella seconda metà del Novecento.

La frequentazione assidua, fino alla tossicodipendenza, delle nuove tecnologie perché peggiora la nostra capacità di pensiero individuale”?

Perchè la tecnologia non è mai neutra, non si tratta di semplici strumenti che possiamo utilizzare come vogliamo. Queste macchine provocano degli effetti di ritorno importanti, che nel libro analizzo minuziosamente, in grado di riconfigurare i nostri cervelli e i nostri comportamenti. Ciò avviene in maniera tale da spingerci a diventare sempre più schiavi di un sistema tecno-finanziario che ci vuole ridotti a consumatori passivi e compulsivi, a uomini senza pensiero e perciò pronti a realizzare docilmente i dogmi stabiliti ai piani alti della catena sociale.

Ho visto pubblicità di banche che spingono i giovanissimi ad aprire conti per precocemente conoscere con modalità ludiche le pratiche finanziarie. Che cosa ti dice questo tentativo di rendere un ragazzo “apprendista consumatore” come tu scrivi citando Vance Packard? Com’è che questo comportamento non è attuato come un tempo in modo pudico o da persuasore occulto, ma in maniera chiara, scoperta?

Mi dice due cose chiare, nette e che nel libro analizzo in maniera chirurgica: ossia che è in atto una vera e propria operazione pedagogica volta ad addestrare delle persone che si comporteranno come aziende, il cui scopo principale sarà quello di conformarsi ai voleri e ai valori del mercato. Dall’altra che tutto ciò viene fatto in maniera palese poiché non vi è più alcun pensiero critico in grado di mettere in discussione il trend di cui sopra, e quindi di reagire con idee e proposte concrete alla finanziarizzazione e alla macchinizzazione della vita quotidiana e di ogni ambito dell’umano. Il fatto che il potere finanziario opera in maniera palese, fornisce la misura della sua forza acquisita, che gli permette di essere spudorato.

Concludi il libro ricordando due terribili figure, il comunista Kaganovič e il nazista Eichmann, come esempi di grandi assassini mossi dall’assenza di pensiero critico; citando le tue parole: “sonnambulismo, fede cieca in forze o figure superiori (…) hanno prodotto i frutti più avvelenati e insanguinati che l’uomo abbia sperimentato”.
Quale via intraprendere oggi per sfuggire a un futuro atroce
?

La risposta è contenuta già nella domanda: occorre operare a vari livelli e su molteplici piani per la ricostruzione di un «pensiero forte»,che ci permetta di rinsavire dalla sbornia post-modernista. Quella che ha posto le basi per la crisi dell’umanesimo, e per l’affermazione di una teologia economica che ha affermato il mercato alla stregua di una divinità. Divinità che si è sostituita alle entità metafisiche di origine umana (Dio, la conoscenza, la verità, il logos, l’Io), rendendosi in questo modo indipendente dalla volontà e dal controllo della ragione dell’uomo, che ne è risultata colonizzata e dominate. Nel libro formulo molte idee e proposte concrete, perché sarebbe un peccato mortale arrenderci alla divinizzazione dell’inumano, che inevitabilmente comporta la subordinazione e forse la distruzione dell’umano.

…………………………………..

Paolo Ercolani
Figli di un io minore
Prefazione di Luciano Canfora
Pagine 334, Euro 16.00
Marsilio


Teatro Rebis


Il Teatro Rebis è un progetto artistico ideato e diretto dal regista Andrea Fazzini.
Vincitore dei premi Claudio Gora di Roma, con lo spettacolo Il dolce miraggio di Ulisse, Rota in festival di Mercato San Severino con Lucky e Pozzo e del Fringe2Fringe di Napoli con Di una specie cattiva, spettacolo ispirato alla vita e alle opere di Sylvia Plath.
Ha rappresentato i suoi spettacoli in Italia e all’estero (Romania, Francia, Svizzera, Germania, Senegal) con partecipazione a festival, tra i quali Sant’arcangelo dei Teatri, Volterra teatro, Ars Amando, Nutrimenti Terrestri, Teatri di vetro, Orestiadi di Gibellina, Mirabilia Festival, Napoli Fringe Festival.
QUI il suo sito in Rete.

Rebis parte adesso con una nuova tournée, prima piazza: Roma.
Dal 4 al 6 aprile a Carrozzerie n.o.t. in scena Scarabocchi e Il papà di Dio riuniti sotto il titolo Dittico in carta e ossa.

Ad Andrea Fazzini, in foto, ho rivolto alcune domande
Come, quando e dove nasce il Teatro Rebis e perché si chiama così?

Il Teatro Rebis nasce una prima volta a Macerata nel 2003, dalle ceneri di un altro progetto che avevo chiamato Ecate Teatro con altri compagni di ventura universitari. Facemmo una serie di studi su un iper-testo che avevo scritto a Roma, dove vivevo in quel periodo, ispirato all’opera di Giordano Bruno, ‘Mnemosyne’, poi un adattamento dal ‘Supermaschio’ di Alfred Jarry e uno spettacolo di strada disastrosamente ispirato alla ‘Nave dei folli’ di Sebastian Brandt.
Eravamo tutti molto giovani e troppo narcisisti.
Poi nasce e rinasce più volte fino a raggiungere una sesta volta, l’attuale.
Ora sta germinando, anzi quasi fiorendo, dentro un’ennesima crepa, lo sento…
Ci chiamiamo Rebis perché mi ha sempre affascinato la figura dell’Androgino nell’alchimia, come fusione dei contrari, mistero del paradosso, figura doppia, ma per me sostanzialmente trina: ha dentro il femminile, il maschile e la simbolica compresenza e compenetrazione dei due elementi.
Probabilmente per questo spesso nei miei lavori si cela una matematica trigonometrica.

Qual è il pensiero teatrale del Teatro Rebis?

Pensare Teatro è farlo.
Dunque per rispondere a questa domanda, tento di rintracciare una linea continua di ricerca che attraversa i nostri spettacoli.
Sicuramente è quella intorno al concetto di Figura, o meglio del Figurale.
Cezanne individuava due vie per sfuggire al carattere narrativo della pittura: una verso la forma pura, per astrazione, l’altra attraverso la sensazione, quella che Lyotard prima e Deleuze poi, chiameranno via del figurale, che avviene per estrazione e isolamento.
In questo senso nei nostri lavori la scena non è abitata da personaggi, ma da figure, cioè da presenze intensificate, soglie in una materia deserta, corpi che si incontrano, si distanziano, si attraggono, si respingono, si mostrano gli uni agli altri evocando contemporaneamente dietro di loro, intorno a loro, dentro di loro, la notte incorporea della loro provenienza.
Una notte che non cessa di cadere. Un teatro della sensazione, non dei sensi, ma dell’oscillazione tra senso e immagine.

Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?” Tu come risponderesti a tali domande?

L’attore è il medium tra la maschera e la persona, tra il reale e la finzione, tra la presenza e l’immagine. Yoshi Oida, attore giaponese del C.I.R.T. di Peter Brook, paragonava l’attore al ninja, dicendo che l’attore che evoca la luna deve sparire stando in scena, per far comparire nello sguardo dello spettatore la luna che non c’è.
L’attore incarna questa oscillazione tra il visibile e l’invisibile.

Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per te “teatro di ricerca” oggi?

Un teatro che avanza se stesso, che sperimenta la sua negazione, alternativo ad ogni preventivo risultato, un neo infetto incastonato nella scabrosità di un corpo immacolato, un post scritto bene e lanciato male, la Transiberiana.

Chi è per te lo spettatore ideale?

Non credo che esista uno spettatore ideale.
Se ci fosse bisognerebbe disinnescarlo.
Forse lo spettatore ignoto, camuffato nel buio, ci si potrebbe avvicinare.

Una parte della produzione di Rebis è rivolta alle scuole.
Quali i motivi di questa scelta
?

Ci sembra imprescindibile rivolgerci all’infanzia.
All’infanzia presente del bambino e a quella remota dell’adulto.
Educazione, poesia e teatro hanno radici comuni, anche se efflorescenze diverse.
Ci interessa esplorarle e risvegliarle in noi, attraverso il confronto con gli studenti, che sono spugne e casse di risonanza, se onestamente solleticati.

La scena che segue è ambientata in un lontano futuro.
Ma chi risponde alla domanda che segue non lo sa e parla al presente.
Atelier Teatro governa in Italia. Che cosa decide per il teatro?
Che cosa mette via? Che cosa legifera
?

Se Atelier Teatro fosse al governo si suiciderebbe.
Lo so, una parte di me, nonostante tutto, rimane idealista.


Naso nel Parnaso

"I critici non recensiscono che se stessi. La recensione è un prolungamento dell'ufficio stampa e della casa editrice: non serve a nulla!".
Questo vale pure per le righe che state leggendo, anche se di professione un critico non sono ma qui questa veste indosso e, quindi, ben mi sta.
Di chi è quella frase? È di Pasquale Panella.
QUI la biografia.

L’occasione per parlare di questo compositore e scompositore di parole è data dalla pubblicazione - Fefè Editore - di un suo libro intitolato Naso o delle cattive letture, delle scritture impure.
Appare nella collana diretta da Lucio Saviani chiamata ‘Superfluo Indispensabile’. Mai titolo di collana fu più adatto a ospitare un testo di Panella con quei due aggettivi accostati in modo malandrino che ben si attagliano a tutta l’opera sua. Di sé stesso scrive in risvolto: “Rinuncia a epiteti quali scrittore, poeta e altri più giocosi, per non volerli condividere e perché ormai insignificanti. Ma sì, ha scritto anche versi cantabili, evidenti frammenti di un romanzo vita, infatti vive di quel che scrive. Questo testo è la prova che è stato anche un ragazzo”
“Naso” è candidato al Premio Strega 2019, ora al vaglio degli Amici della Domenica, presentato dal linguista Giuseppe Antonelli
La copertina riporta il particolare di un’opera del pittore René Magritte “La lampe philosophique”. Magritte e Panella hanno qualcosa in comune: entrambi amano Hegel, il pittore con il quadro ''Le vacanze di Hegel'' (1958) e lui con il brano “Hegel” (1994).
Né meravigli se questo scrittore ami Magritte perché ama gli squilibri della realtà e gli equilibri dell’immaginazione; in Rete si legge che fra i suoi autori preferiti ci sono Sterne, Pound, Céline. E qui avverto una sintonia con lui perché Sterne e Celine sono i due sommi che adoro; nei suoi gusti – almeno a quanto riporta il web – non vedo il nome di Queneau, ma non posso pretendere tutto dalla vita.

“Naso” – dice l’autore – è stato scritto sui banchi di scuola, se così è stato ha avuto per compagno di banco Lucignolo che lo ha convinto ad andare nel Paese della Letteratura dove saltare allegri da un tomo all’altro, tirar sassi ai crociani, entrare in commedie, scalare sonetti. Perché il libro “Naso” è così fatto (e anche strafatto), di teatro, narrazioni, memorie, epifanie, fino all’ultima pagina dove più che finire il libro, l’autore pare si rifiuti di proseguirlo e fa come il Pinocchio di Malerba che evade dall’ultimo capitolo, la cella numero XXXVI, perché non vuole diventare un ragazzino per bene e perciò il libro di Collodi finisce lì. Neanche Panella vuole diventarlo. Lui dalla letteratura non vuole farsi prendere per il Parnaso.

Dalla presentazione editoriale.
«Il naso è il senso e l’organo del nostro corpo più letterario, è disparo, non simmetrico, “si sdegna o si appassiona, oppure tutt’e due”, scrive Pasquale Panella. Panella – con spirito di scoperta poetica ma anche “sensuale” – ricostruisce con impareggiabile abilità e profondità la “personalità” del nostro. Lucio Saviani lo aiuta con un saggio introduttivo che “fissa i paletti” filosofici e culturali».

Pasquale Panella
Naso
Introduzione di Lucio Saviani
Pagine 144, Euro12.00
Fefè Editore


Superman & Co. (1)


La casa editrice Mimesis nella collana Il caffè dei filosofi diretta dal tandem Claudio Bonvecchio – Pierre Dalla Vigna ha pubblicato Superman & Co. Codici del cinema e del fumetto.
L’autore è Giorgio E.S. Ghisolfi che in Cosmotaxi già viaggiò in occasione dell’uscita del suo libro Star Wars. L'epoca Lucas.
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Ghisolfi è regista, docente di sociologia della comunicazione e di discipline attinenti al cinema e all’audiovisivo presso accademie quali l’Istituto Europeo di Design di Milano, l’Università degli Studi dell’Insubria, la Scuola Superiore di Mediazione Linguistica di Varese, il Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Locarno e la Scuola Specializzata Superiore di Arti Applicate di Lugano.
Professionista con una lunga esperienza nel cinema d’animazione, ha lavorato con Bruno Bozzetto e Enzo d’Alò.
Con Mimesis, oltre al titolo ricordato poco fa, ha pubblicato il saggio ‘Indiana Jones e il cinema di animazione’, in “La filosofia di Indiana Jones” (2011).

Dalla prefazione editoriale
«I novant’anni dalla nascita di Mickey Mouse e gli ottanta da quella di Superman diventano un’occasione per riflettere sulla natura crossmediale degli eroi della mitologia contemporanea. Dal medium di partenza entrambi si sono diffusi rapidamente ad altri supporti, sviluppando nuove narrazioni e creando, tra la pagina e il grande schermo, le condizioni del loro successo. Un percorso seguito da tanti altri eroi dell’immaginario, compresi quelli dell’universo Marvel creato da Stan Lee. Oggi, nell’epoca della crossmedialità, della convergenza dei media e dei cinecomics, sembra naturale che esista uno stretto legame tra fumetto e cinema, che sussistano una serie di reciproche influenze. Tuttavia il pubblico si chiede ancora quale genere sia più “nobile”, quale sia nato prima, se l’uno sia figlio dell’altro, o quanto l’uno dipenda dall’altro. Gli studiosi si sono lungamente impegnati nel tentativo di definire la natura di tale relazione, senza però mai analizzarne i codici con un rigoroso metodo comparativo. Un’operazione al centro di questo libro che, grazie all’ausilio di numerose illustrazioni, si pone come rinnovato momento di discussione e di critica e introduce anche la prima teoria per una semiologia del cinema d’animazione».

Segue ora un incontro con Giorgio E.S. Ghisolfi.


Superman & Co. (2)


A Giorgio E.S. Ghisolfi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nasce prima il cinema o il fumetto?

Per rispondere a questa domanda ho indagato anch'io, come già altri studiosi, le origini del cinema, del cinema d'animazione e del fumetto. Tuttavia nelle mie intenzioni la ricerca storica era anche volta a capire la natura di questi tre media, per stabilire una volta per tutte la tanto dibattuta natura della loro relazione. Fatto poco sottolineato, tutti e tre nascono, con grande sintonia e precisione, negli stessi anni, alla fine dell'Ottocento. È evidente che non si tratta di una coincidenza. Esprimono tutti la necessità sociale di una comunicazione che, oltre alle parole, ha ormai un urgente bisogno di immagini. Nel corso dell'Ottocento infatti l'illustrazione diventa un'arte adulta e industrializzata, nasce la fotografia, si moltiplicano i giocattoli ottici che propongono sequenze di animazioni e le proiezioni delle lanterne magiche. La società ottocentesca ama la velocità della macchine a vapore, del treno e del pallone aerostatico, e l'immagine è più veloce della parola. Il pubblico è ormai maturo per il cinema. Su un altro versante è la diffusione della stampa periodica a preparare il terreno alla pratica di lettura del fumetto.

Perché il fumetto nei suoi primi anni in America si destina agli adulti, mentre quando arriva in Europa è un prodotto editoriale rivolto ai ragazzi?

Il fumetto nasce negli USA, sui quotidiani naturalmente destinati ad un pubblico adulto, destinati anche a lettori semianalfabeti come gli immigrati europei, in grado tuttavia di decifrare il linguaggio del disegno. Agli inizi del Novecento il fumetto è essenzialmente la striscia, la strip umoristica, che alimenta e riflette il cinema delle comiche. Superman, e dopo di lui la lunga teoria dei supereroi, arriverà solo nei tardi anni Trenta. Alla società borghese europea, abituata a una concezione "alta", "seria" della cultura, la striscia appare come un parente povero dell'illustrazione, un genere minore, la cui comicità, semplice e grossolana, richiama da vicino il gioco e i giocattoli, e sembra perciò più adatta al mondo infantile.

Perché il fumetto, a differenza del cinema, appare non gradire e, quindi, non praticare le nuove tecnologie?

Anche il fumetto è stato tentato dal computer, sin dai primi anni Novanta del secolo scorso. E in effetti il computer interviene oggi nella pipeline di lavorazione, soprattutto nelle ultime fasi, legate alla coloritura, agli effetti e al lettering. Tuttavia è vero che il disegno tridimensionale non ha attecchito: il fumettista predilige uno strumento povero ma che gli consenta una maggiore libertà e individualità artistica, laddove il computer tende a irrigidire la figuratività e a omologare i risultati, poichè divenuti ormai alla portata da tutti.

Quale tipologia di trasposizione ha avuto maggiore successo, dal fumetto al cinema o viceversa?

Le trasposizioni tra i due media sono iniziate immediatamente e nel corso di oltre un secolo sono ormai centinaia, con un picco nei nostri ultimi anni, quelli contraddistinti dal cinema digitale. Nel mio volume cito Topolino e Superman come due dei primi e migliori esempi di eroi transmediali: migranti, cioè, da un medium all'altro. Il fenomeno della trasposizione può essere visto come il tentativo, industriale e commerciale prima che artistico, di catturare un pubblico più vasto, e questo fatto già rivela che cinema e fumetto non condividono, in linea di massima, lo stesso pubblico. È un fenomeno in effetti bidirezionale, ma non si può negare che una delle due direzioni presenti dei vantaggi rispetto all'altra, in termini di probabilità di successo presso l'audience. Ne spiego diffusamente le ragioni nel libro, anche riportando il parere dei diretti interessati, ovvero di registi e fumettisti.

Come si colloca l’animazione rispetto al cinema e al fumetto?

Ho definito il cinema d'animazione come un “medium-ponte”: mutua il disegno dal fumetto e il movimento dal cinema. Ma finisce poi col diventare un medium con caratteristiche proprie, del tutto autonomo e con un suo pubblico. Stranamente, a differenza della critica, la semiotica del cinema non se ne è mai interessata. Col mio scritto ho cercato di colmare questa lacuna, contando anche sulla mia lunga esperienza professionale nel settore.

Qual è il primo passo per inoltrarsi in una semiologia dell’animazione?

La strada che propongo è innanzitutto quella di identificare i codici del cinema e del fumetto, per poi vedere come e quanto cambino nel coniugarsi all'animazione. Allo scopo ho recuperato dalla tradizione una modalità di analisi che è essenzialmente strutturalista, fondata su analogie linguistiche. Ma a tutto ciò vanno poi aggiunti i codici specifici che il cinema d'animazione ha creato per sé e che ne contraddistinguono il linguaggio. Li individuo ed espongo nell'ultima parte del libro, dove elaboro anche una teoria, fondata sulla concezione del "fotogramma animato", che mi auguro possa dare finalmente il via ad una feconda stagione di studi di carattere semiologico sul cinema d'animazione, al fine di attenuare il divario con gli studi dedicati da anni al cinema dal vero.

………………………

Giorgio E.S. Ghisolfi
Superman & Co.
Con ill. b/n e colore
Pagine 236, Euro18.00
Mimesis


Naturans (1)


Torna, graditissimo, su questo sito Angelo Capasso che qui già fu ospite in occasione di alcune sue pubblicazioni: Opere d'arte a parole e Sadiesfaction.

Adesso la casa editrice Skira di lui ha pubblicato un nuovo importante libro intitolato Naturans Il paesaggio nell’arte contemporanea.
Capasso, è critico e docente di Storia dell’arte contemporanea, ha pubblicato, oltre ai libri prima citati, “Nottefonda. Rituali del buio” (Roma 2000), “A.B.O. Le arti della critica” (Milano 2001), “AA l’arte per l’arte” (Roma 2002), “Satoshi Hirose. Viaggio” (Milano 2008), “L’orlo del vuoto. Vita, morte e arte di Luigi Di Sarro” (Milano 2008).
Ha curato numerose mostre di arte contemporanea; è stato commissario per “Europalia Italia” (2003), codirettore della Fondazione Volume! e curatore della Collezione Farnesina Design.

Fin qui notizie le biobibliografiche di questa forte voce dello scenario storico-critico delle arti visive. Questo suo saggio sul paesaggio è uno di quei libri che restano per estensione e profondità del pensiero, e non mi meraviglia che sia frutto – come l’autore afferma – di una maturazione durata parecchi anni.
Leggerete fra poco un colloquio che ho avuto con lui, intanto propongo la presentazione editoriale di “Naturans”.

Il “paesaggio” è il genere nella storia dell’arte che meglio ci aiuta a comprendere lo sguardo dell’artista. Nasce liberamente dal desiderio di dare forma al mondo e di coglierne l’essenza che si sostanzia nella Natura.
“Naturans. Il paesaggio nell’arte contemporanea” analizza questo sguardo in uno scorcio storico – dalla seconda metà dell’Ottocento al Novecento, fino ai giorni nostri – durante il quale, attraverso la creazione artistica, il paesaggio si trasforma in un modello per verificare la complessità del fare arte: a partire dalla pittura, passando per gli interventi sul territorio, fino alla riproduzione fotografica, in video e cinematografica.
L’arte contemporanea ha articolato attorno al “paesaggio” un discorso appassionato che ha superato ogni confine, attraversato culture diverse, avvicinando Oriente e Occidente, ed è giunta a proporre una possibile risposta all’interrogativo più antico, “che cosa è l’arte?
.

Segue ora un incontro con Angelo Capasso.


Naturans (2)


Ad Angelo Capasso (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale obiettivo di comunicazione ti sei proposto con questa pubblicazione?

“Naturans” è il primo studio dedicato all’arte del paesaggio nell’arte contemporanea, ovvero in quello scorcio della storia che per la cultura Europea ha inizio con le Avanguardie storiche e giunge fino ai giorni nostri. Tra i libri che ho scritto è quello che ha avuto la gestazione più lunga. A parte i tempi di scrittura, il progetto è in cantiere da lungo tempo. Mi occupo di questioni relative al paesaggio da anni. Nel 2003 ho realizzato una mostra in due città diverse del Belgio, Bruxelles (Grand’Place) e Eupen (Ikob), dal titolo “Luoghi d’affezione: paesaggio-passaggio” con artisti internazionali: Andy Warhol, Joseph Beuys, Thorsten Kirchhoff, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Sol Le Witt, H.H. Lim, Urs Luthi, Hidetoshi Nagasawa, Cy Twombly, Francesca Woodman, Sisly Xhafa, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Francesco Clemente, Alighiero Boetti, Carlo Maria Mariani, Gina Pane, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Francesco Vezzoli, Valerio Adami Stefano Cagol, Alberto di Fabio, Flavio Favelli, Domenico Gnoli, Luigi Ontani, (…). Cui è seguita la conferenza “LandEscape” per l’AISNA (Associazione Italiana Studi Nord Americani) nel 2007, e una serie televisiva “Art Eco” (2013) prodotta in Italia da RAI Educational e il Ministero dell'Università e dell’Istruzione. “Naturans” ha quindi raccolto una lunga esperienza. Un obiettivo difficile, ma penso raggiunto.

Nell’accingerti a scrivere questo saggio, qual è la prima cosa che hai deciso fosse assolutamente da evitare e quale la prima assolutamente da fare?

Posso certamente dire che in quanto saggio di un critico d’arte “Naturans” non è un elenco alfabetico degli artisti che hanno prodotto paesaggi, ma di una lettura del novecento secondo l’ottica del paesaggio, così come è nata nei due emisferi, tra la Cina e l’Europa. Nel confronto con la tradizione cinese, in cui il paesaggio o meglio la pittura “shan shui” (letteralmente “montagna e acqua”) risale al V secolo (dinastia Sung meridionale), nella pittura italiana ed europea, il paesaggio acquista la fisionomia di “genere” solo alla fine di un lungo percorso, durante il quale la Natura (gli scorci naturali, i motivi floreali e vegetali, le decorazioni fitomorfe) ha invaso la pittura, la scultura, l’architettura ponendosi come fondale decorativo per racconti epici, mitologici, fantastici o religiosi, al cui centro la vicenda umana ha mantenuto un carattere di protagonismo assoluto. Nel mondo occidentale la nascita della pittura di paesaggio è convenzionalmente legata al comparire del termine “landschap” nella lingua olandese (trasposto successivamente in Inglese, da “landscipe” o “landscaef” a “landscape”). Il termine emerse intorno al volgere del XVI secolo per indicare un dipinto il cui principale oggetto è lo scenario naturale. Il paesaggio nel Novecento è un argomento particolarmente seducente perché traspone un’ottica “retinica” allo sguardo mentale avanguardistico. Il Paesaggio nel mio libro è un Componimento/Composizione che mette il suo De-Comporsi.

Perché scrivi che “Étant donnés” di Duchamp «ha definitivamente segnato un cambio di rotta nell’arte contemporanea?

La bellezza del Novecento è nella sua intensità. Il “secolo breve” ha bruciato ogni tappa, e forse anche l’arte, ma soltanto per restituircene una versione rigenerata. La tanto evocata “morte dell’arte”, che ha invaso il dibattito sull’arte negli anni ’60 e ‘70 non è mai giunta. L’unica morte a cui abbiamo assistito è stata quella del Post Modern che ci ha offerto, sia nell’arte che nella critica, soluzioni molto approssimative e parziali. Scrivere un libro di storia per me ha rappresentato una scelta di campo: ho voluto uscire fuori dagli aforismi e i raccontini e riproporre una critica dallo sguardo lungo che si accosta alle grandi narrazioni. E’ proprio Duchamp ad indicare la via oltre il Post Modern, di cui in realtà è il vero ispiratore. Con “Étant donnés” Duchamp ci lascia intendere che il ready made non è una risposta definitiva. Étant donnés è un paesaggio interattivo, intermediale, un’installazione ante litteram. Come il ready made, comprime la “quarta dimensione” in uno sguardo bidimensionale, ma a differenza di questo è una costruzione nel dettaglio, pensata sia senso orizzontale (media) e in senso verticale (storia). E’ la sua vera Grande Opera, un’opera ricca di aneddoti tra cui i l’amicizia e collaborazione con Salvador Dalì, co-autore, sembrerebbe, proprio del paesaggio che fa da sfondo leonardesco all’opera: un vero Capolavoro, quindi, anche per il modo con cui si è rivelata a noi. È l’ultimo paesaggio inconscio del Novecento, un’Opera che riconduce l’arte nella Società segreta dei suoi affiliati.

Con la Land Art come cambia il rapporto fra l’artista e il paesaggio?

Il rischio più grave per un libro come “Naturans” è quello di cadere nei luoghi comuni. Vorrebbe essere invece un libro di “luoghi straordinari” (i “luoghi d’affezione” cui mi riferivo nella mostra). In un libro che tratta il binomio Arte e Natura, la Land Art, ma anche l’Arte Povera o Mono-ha, sono effettivamente il punto di svolta: la dimostrazione che il paesaggismo non è mai finito, e che anzi il vero “paesaggio-passaggio” consiste nell’ “Entrare nell’opera” come indico in un capitolo del libro. Andando oltre questo assunto, però, la risposta alla questione su “entropia e morte dell’arte” fornita dagli “land” artisti in realtà ha incontrato anche risposte più complesse, come nel lavoro di un outsider qual è Maurizio Mochetti. Mochetti ha dato vita ad Opere saltano a piè pari l’ostacolo dell’obsolescenza/consunzione/morte perché sono figlie di un pensiero visivo che non resta incagliato nella forma/mezzo. Le sue opere sono aggiornabili così come le tecnologie dimostrando che l’arte s’incarna in un corpo glorioso sempreverde e si sublima in termini leonardeschi come fatto puramente “mentale”.

Che cosa ha comportato l’avvento del video (e di altre tecnologie) nell’interpretazione del paesaggio?

“Naturans” si apre con un incipit su Leonardo e sull’arte olandese di paesaggio poi si immerge nel 900 seguendone le trasformazioni anche attraverso i media: pittura, scultura, fotografia, cinema, video. Ogni mezzo è una lente attraverso la quale la prospettiva ottica diviene culturale. Seguendo un perfetto senso circolare, il mio libro si apre con l’arte cinese e olandese per chiudersi con i nuovi paesaggisti dalla Cina e e il film di Pieter Rim de Kroon “Duchlight”, regista olandese. Quest’ultimo fornisce una chiave attuale per guardare al paesaggio oggi: ci ricorda le sue origini all’interno della cultura Europea, la sua luce tutta fisica e naturale (natura naturans spinoziana), la sua possibile perdita ma anche l’onda infinita di paesaggi che ne deriva, figli di una grande vicenda che compare e riappare all’interno della Storia.

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Angelo Capasso
Naturans
Pagine:256
Illustrazioni in b/n:62
Euro 25.00
Skira


L'Ateo

L’Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti), come già altre volte ho segnalato in queste pagine, tra i suoi mezzi di comunicazione si avvale del bimestrale L’Ateo diretto da Francesco D’Alpa e Maria Turchetto.

Questo numero si apre con l’editoriale di Francesco D’Alpa di cui mi piace riportare un passaggio: “Sotto un punto di vista antropologico, dovrebbe essere chiaro che se le religioni esistono, un motivo (evidentemente biologico per noi materialisti) deve pur esserci: forse un vantaggio evolutivo. Ma dobbiamo essere bene attenti a distinguere fra religiosità, religioni e Chiese organizzate (…) la Chiesa (fra tutte quella cattolica) è altra cosa, ovvero potere, commercio, asservimento delle coscienze, dunque richiede suggestioni rituali, prove storiche circa i fondatori e profeti, e quant’altro di conveniente”:
Segue un incisivo articolo a doppia firma (Enrica Rota e Maria Turchetto) intitolato “Che cos’è la religione?” in cui, presentando i successivi articoli, si risponde a domande quali: In che cosa consiste? Da dove deriva? A che cosa serve?
Nelle pagine Francesco Paolo Raimondi dà largo spazio alla vita e all’importanza di Giulio Cesare Vannini. Dalla sua nascita a Taurisano (Lecce) nel 1585 a quando il 9 febbraio del 1619 il boia gli strappò la lingua, lo appese alla forca e, per andare sul sicuro, gettò il corpo sul rogo.
Nei giorni 17 e 19 aprile, a Tolosa, sarà dedicato a Vannini un convegno sulla sua presenza storica e morale organizzato dall’Università locale, dal Comune di Taurisano, dall’Università del Salento.
Da leggere molti altri contributi tutti interessanti, né mancano le solite rubriche dedicate a recensioni e lettere dei lettori, il tutto scandito da divertenti vignette.

Redazione de L’Ateo: Casella Postale 755, 50123 Firenze Centro.
E-mail della redazione: lateo@uaar.it
Per la rubrica delle lettere: lettereallateo@uaar.it

L’Ateo costa 4.00 euro ed è acquistabile nelle seguenti librerie.

In queste biblioteche lo si può consultare.

Cliccare QUI per l’Archivio dei numeri precedenti.


Minarelli live in San Francisco


Le creazioni poetiche, verbovisive e sonore, devono molto, quanto a diffusionee valorizzazione, a Enzo Minarelli che da anni, sul piano internazionale, è attivissimo quale autore e anche custode e promotore delle performances di altri artisti.

"Enzo Minarelli” – scrive Pasquale Fameli – “è oggi tra i più notevoli promotori di un approccio poetico totalizzante, per la sua comprovata capacità di assimilare e coniugare forme e modi della poesia sonora in tutte le sue declinazioni, un atteggiamento in tutto e per tutto rispondente agli eclettismi fioriti sul finire degli anni Settanta".
"La qualifica che più compete a Enzo Minarelli” – aggiunge Renato Barilli – “è quella di poeta, magari risalendo nell'occasione al significato etimologico della parola, per cui si tratterebbe di un "fabbricatore" col materiale più nobile a disposizione dell'uomo qual è la parola, nei suoi due volti, sonoro e grafico".

Ora è in distribuzione un suo disco:Enzo Minarelli live in San Francisco
Si tratta della registrazione live della doppia performance tenuta al Festival di Poesia Sonora OM23 di San Francisco lo scorso aprile 2018. Doppia performance perché su un lato si trova il suo “Polipoesia 10” e sull'altra una interpretazione di testi futuristi di Marinetti e Depero.
CLIC per conoscere i brani eseguiti.
Per ordini: j.vantoorn@ziggo.nl

A Enzo Minarelli ho rivolto alcune domande.
Quale differenza di segno trovi tra la performance dal vivo e quella registrata?

La stessa differenza che passa tra il giorno e la notte. Sin da quando ho iniziato, se ti ricordi sul finire dei Settanta, ho sempre detto che una performance la puoi provare fin che vuoi in studio ma fintanto che non ha la prova del fuoco del pubblico, non sai se funziona o no. Il che vuol dire che gli elementi spazio-temporali del luogo, gli elementi umorali del pubblico hanno un valore immenso. E poi un pubblico anche silente, manda precisi segnali. Ho dei pezzi che eseguiti a Berlino hanno scatenato risa incontenibili, mentre a Tokyo o New York sono stati accolti nel silenzio più glaciale. Dal vivo si instaura volente o nolente un rapporto simbiotico tra performer e audience, un do ut des, io sicuramente do, ma anche il pubblico rilancia sempre. Quando sono solo sul palco, il pubblico lo senti vivo, palpitante soprattutto quando pende dalla tue labbra, ogni minimo sospiro o gesto che fai è un atto di seduzione verso di lui. In uno studio di registrazione tutto questo non esiste, è come essere alla catena di montaggio. Ecco perché sono particolarmente orgoglioso di questo LP che come ha detto il direttore del festival di San Francisco “ it has memorialized Enzo's wonderful appearance here”.

Quali i criteri della scelta di quei brani futuristi cui ho accennato in apertura di questa nota?

Tu ben sai che Marinetti oltre ad essere il capo carismatico del gruppo era anche il fine dicitore per eccellenza, e quindi ho scelto quei brani che mi permettessero di esprimere l’essenza delle tavole parolibere vale a dire il tratto optofonico, dove per optofonico si intende la forma grafica dei fonemi o dei lemmi in funzione sonora, in mancanza del rigo del pentagramma e non essendo le parole equiparabili alle note. Questo aspetto lo ritrovi in un pezzo come “Savoia” che tra l’altro ha scatenato letteralmente il pubblico californiano, nonostante o forse proprio in virtù della sua brevità, sintesi estrema grafico-sonora. La mia interpretazione live ha seguito questa regola optofonica calcando il giusto sui toni.
Discorso a parte merita Depero. Io penso in generale che sia stato da sempre sottovalutato, infatti negli States non era affatto noto sotto questo aspetto sonoro, nonostante lui abbia vissuto a New York negli anni della grande crisi economica del ’29. Considerato più per il versante visivo, si dimentica che è l’inventore del “Manifesto dell’Onomalingua” così caratteristico della performance futurista, introducendo la pratica della onomatopea, indiscusso cavallo di battaglia di Marinetti. I pezzi scelti (nessuno o quasi li conosceva), sono quelli riferiti al suo soggiorno americano.

Il vinile: necessità di produzione o tua preferenza?

Armando, sono vinil-dipendente e morrò tale. Sono stato editore nei primi anni Ottanta della serie 3ViTre Edizioni di Polipoesia (ora un vero cult per collezionisti doc), seguivo i miei dischi dal master sui nastri, fino all’acetato osservandolo solco dopo solco attraverso il mirino ingranditore. Se nutro una maniacale ossessione verso la produzione in vinile, altrettanto per l’ascolto. Quel fruscio che provoca la puntina del pick-up sulla pasta luccicante del disco io lo considero da sempre parte integrante dell’opera, per cui l’avvento del CD per me è stato uno shock, quella pulizia asettica stonava e stordiva. Mi sono adattato al digitale ma appena ne ho avuto l’occasione, sono tornato alle origini, e penso che anche i prossimi lavori saranno in vinile. Tra poco uscirà una nuova rivista in vinili LP da me curata “GroundSound” con materiale inediti selezionati dal mio archivio.


Biblioteca Bruno Munari

Bruno Munari (Milano 1907 - 1998) è stato uno dei massimi protagonisti del design e della grafica del 20° secolo, dotato di un’inesauribile forza creativa ha condotto sperimentazioni visive e tattili applicando la sua fantasia anche all’arte di comunicarla in modo innovativo attraverso parole, oggetti, giocattoli. Negli anni ’70 concentrò il suo interesse sul mondo dell’infanzia: creò la prima struttura abitabile trasformabile e nel 1977 il primo Laboratorio per l’Infanzia alla Pinacoteca di Brera.
Tra le altre realizzazioni che lo hanno reso noto in tutto il mondo, notevoli sono le «macchine inutili», congegni meccanici presentati come modelli sperimentali che indagano sulle possibilità percettive, questo fece di lui – come hanno scritto storici dell’arte – anche un precursore dell'optical art.

Intitolata proprio a Munari, è da ieri aperta al pubblico la nuova Biblioteca di Design dell’ISIA di Faenza con l’adesione dell’Associazione Bruno Munari che così vede dedicato questo luogo di cultura e scambi d’esperienze al Maestro che fu ideatore del progetto didattico dell’ISIA.
Oltre 3.500 volumi tra design, architettura, arte, scienze umane, letteratura trovano spazio negli antichi ambienti, appositamente ristrutturati, del monumentale Palazzo Mazzolani, nel cuore di Faenza.

Modernizzare e aprire il nostro patrimonio librario, depositato nei decenni, agli studenti dell’ISIA, agli appassionati, ai bibliofili e, in generale, a tutto il pubblico interessato, è fonte di orgoglio istituzionale e d’impegno sociale nei confronti della comunità - dichiara il direttore di ISIA Faenza Marinella Paderni - Il progetto è nato dalla volontà della nostra Presidente, Giovanna Cassese, a cui ho risposto con lo stesso entusiasmo e passione credendo fermamente nell’azione formativa dei saperi librari nella formazione accademica degli studenti e nella vita delle persone.

E il presidente di ISIA Faenza, Giovanna Cassese: È stata una gioia e un onore inaugurare – in concomitanza con la giornata del Ministero Affari Esteri che celebra l’eccellenza del Made in Italy nel mondo – la nuova Biblioteca di design “Bruno Munari” dell’Isia di Faenza, frutto di un progetto pluriennale, articolato e complesso, che seguo in prima persona dall’inizio del mio mandato qui all’Isia, convinta da sempre della centralità di biblioteche moderne, attrezzate, aggiornate e accoglienti nelle istituzioni di formazione universitaria. Assolutamente in controtendenza, l’Isia di Faenza ha puntato tanto su questo ambizioso obiettivo, portando a termine il restauro e la ristrutturazione degli antichi spazi di Palazzo Mazzolani, mettendo in rete il patrimonio esistente, acquisendo tramite acquisti e donazioni nuovo e prezioso materiale bibliografico, con il coinvolgimento di personale specializzato e dei tanti donatori, a cui va tutta la nostra gratitudine. Così tra stucchi e affreschi un moderno arredamento con pezzi di design accoglierà quotidianamente studenti, docenti e studiosi non solo per leggere ma anche per dialogare su design e arte. È una scelta di politica culturale chiara, che include investimenti significativi anche laddove non ci sono purtroppo fondi ad hoc, una scelta che punta sulla centralità della ricerca nelle istituzione di Alta Formazione Artistica e sulla salvaguardia e valorizzazione del loro ricchi e preziosi patrimoni materiali e immateriali.

Ufficio stampa ISIA: Irene Guzman
Cell: +39 349 -12 50 956; Email: ufficio.stampa@isiafaenza.it

Biblioteca “Bruno Munari”
Tel: 0546 – 22 293;
fax: 0546 – 66 51 36
email: isiafaenza@isiafaenza.it
Palazzo Mazzolani
Corso Mazzini 93, Faenza


Troppo lontani, troppo vicini

La casa editrice Quodlibet ha mandato nelle librerie un testo di piccole dimensioni tipografiche, ma di grande taglia di pensiero Troppo lontani, troppo vicini Elementi di prossemica virtuale.
Ne è autore Emanuele Fadda.
Nato a Cagliari nel 1972 insegna Semiotica e Linguistica all’Università della Calabria.
È membro del Comitato editoriale dei «Cahiers Ferdinand de Saussure». La sua produzione, che conta vari contributi in opere collettanee e in riviste nazionali e internazionali, ha come àmbiti la storia delle idee filosofico-linguistiche (in particolare autori come Saussure, Peirce, G. H. Mead, Eco), le relazioni tra semiotica ed estetica e l’ontologia sociale.
I suoi precedenti libri sono Peirce (Carocci, 2013) e Sentimento della lingua (Edizioni dell’Orso, 2017).

Dalla presentazione editoriale di “Troppo lontani, troppo vicini”: «Il testo è diviso in tre parti: spazi, branchi, segni. Nella prima l’occupazione, la fruizione e la creazione di luoghi fisici sono comparate a quelle dei luoghi virtuali. Nella seconda si fa ricorso all’etologia (e in particolare alla primatologia) per mostrare come le interazioni in cui non vi è una forma di galateo appreso per via tradizionale tendono ad assomigliare per certi aspetti a quelle tra animali non umani. Nella terza si riprendono gli strumenti tradizionali della semiotica e della linguistica e alcuni principî generali sulla dimensione sociale dell’interazione comunicativa».

A Emanuele Fadda ho rivolto alcune domande.
Qual è stata la principale motivazione che ti ha spinto a questo lavoro?

La principale di queste ragioni è il conflitto tra il mio interesse per i social network (e Facebook in particolare, che è un SN abbastanza “parlato” rispetto ad altri, e dunque più confacente ai miei gusti) e il disagio che alcune interazioni sui social mi procuravano, e a volte mi procurano ancora. Ciò che mi stupiva è in particolare il modo in cui persone che ritenevo lucide, affabili, e in generale stimabili, si comportassero in quell’ambiente in modo che a me sembrava privo di ritegno. Ecco, mi affascinava l’idea di definire una nozione di ‘ritegno’ riguardo a quel tipo di interazione. Sono convinto che la grammatica sia la forma più sublime di ritegno, e che grammatica e morale siano parenti strette.
Il mood, lo stato d’animo, con cui ho concepito il testo (a fine estate del 2017) non era affatto positivo, ma invece il mio umore nel periodo in cui l’ho steso effettivamente (primavera 2018) era, per fortuna, assai migliore. Questo mi ha impedito di essere troppo (per rifarmi alla dicotomia che sempre viene richiamata in questi casi) apocalittico.

Qual è l’importanza della prossemica nello studio delle relazioni fra noi umani?

La prossemica cerca di rendere conto del fatto che le relazioni linguistiche e comunicative coinvolgono corpi, che occupano spazi comuni e li ‘costruiscono’ a partire dalle modalità dell’interazione. Io credo si tratti di un aspetto fondamentale e irriducibile. Certo, non tutti la pensano così. La teoria linguistica più influente nella seconda parte del XX secolo partiva dall’idea che la comunicazione non fosse la funzione primaria del linguaggio, ma un adattamento un po’ casuale. Io mi situo esattamente all’opposto: ritengo che il pensiero (come ci hanno insegnato, Vygotskij, Mead e altri – ma in fondo l’aveva detto già Platone) sia un’interiorizzazione della comunicazione. Come uomini, possiamo essere individui (persone) solo perché siamo comunità. Questo fa sì che vi sia qualcosa di analogo alla prossemica in ogni forma di uso del linguaggio o di altri sistemi di segni. Molte teorie della comunicazione, anche letteraria (da Benveniste a Eco a Genette) potrebbero essere ripensate in termini prossemici.

Perché hai scelto in epigrafe un brano di Brancati che riflette sulla folla in Piazza S. Pietro mentre ascolta Pio XII?

Brancati è l’antidoto più formidabile che io conosca contro il fascismo. La sua adesione giovanile, e la disillusione sopravvenuta prima dell’abitudine, lo hanno reso non solo immune, ma estremamente sensibile a dettagli che segnalano che (qualche) forma di fascismo è possibile, o alle porte.
Io credo che il fascismo sia alle porte quando qualcuno si sente obbligato a manifestare sentimenti o emozioni “per dovere sociale”, delegando anche la propria sfera intima alla massa. In questo senso, difficile non definire almeno potenzialmente fascisti i nostri social network, perché la frontiera tra pubblico e privato (o tra scena e retroscena, per dirla à la Goffman) vi si fa sempre più labile. D’altra parte, dosi più o meno forti di totalitarismo sono presenti in ogni modalità della nostra vita sociale, e la lingua stessa (come diceva Roland Barthes) è fascista. Imparare a parlare è imparare regole che vanno seguite assolutamente, e senza chiedersi perché. La possibilità del perché si innesta sull’adesione incondizionata.
Quanto al brano con cui apro, e a cui fai riferimento, ciò che mi colpisce di più è la conclusione, presentata come una regola matematica: quando le distanze sono troppo strette, la percentuale di individualità che si salva è inversamente proporzionale alle dimensioni della massa. Se io sono con altre duecentomila persone, valgo un duecentomillesimo di persona. Un determinismo assoluto, terribile. Eppure faccio fatica a dargli torto.

Il tuo saggio propone la prossemica dei luoghi virtuali quali luoghi fisici.
Quale ragionamento ti ha portato a quella conclusione
?

Il fatto che gli effetti dell’interrelazione virtuale siano assimilabili a quelli dell’interazione fisica. Il fastidio per piccolezze, la facilità con cui si fa e si riceve danno. In qualche modo, è come essere stretti nello stesso ascensore, in cui basta allargare un gomito per fare male a qualcuno, e creare disagio un po’ a tutti. Il titolo del libro parte proprio da questa constatazione: il problema non è (come si diceva qualche tempo fa) che siamo troppo lontani (e dovremmo uscire e incontrarci di persona), ma che siamo (virtualmente) troppo vicini, e che non possiamo scappare (perché non “vogliamo”, anzitutto).
Si aggiunga che la comunicazione virtuale non è effimera. La lista dei commenti sotto a un post di Facebook, per dire, è in teoria assimilabile a un insieme di verba che volant, ma è fatta invece di scripta che manent. Quindi se qualcuno ti attacca o ti sbeffeggia e tu non rispondi subito a tono, questa sorta di “ferita” resta visibile a chiunque, e chiunque potrà rilanciarla, moltiplicandone l’effetto.

Nel tuo saggio, mi ha particolarmente interessato un momento in cui rifletti sulle nuove tecnologie giudicate da alcuni quali forme che limitino, o addirittura annientino, alcune importanti capacità umane. Che cosa rispondi a quelle critiche?

Lo stile cognitivo dell’animale che siamo – la scimmia nuda, per dirla con Desmond Morris (e con Gabbani) – e il suo rapporto con le tecnologie linguistiche (memoria, versificazione, scrittura, grammatiche, ecc.) è piuttosto fluido, ed è cambiato più volte nei secoli. Di questa fluidità (supportata dall’incredibile plasticità che il nostro cervello presenta rispetto a quello di altri animali anche molto “vicini” a noi) la nostra specie ha fatto un’arma formidabile. D’altra parte, il cervello va allenato “per sé”, senza riguardo alla necessità immediata: il fatto, per esempio, che non abbiamo più bisogno come prima di ricordare tante informazioni, perché abbiamo grande facilità a reperirle, non significa che dobbiamo esimerci dal nostro “allenamento” cognitivo. Non abbiamo più bisogno di correre chilometri, o di sollevare grossi pesi, per assicurarci la sussistenza immediata. Ma facciamo sport per sentirci meglio, per sfruttare al massimo le nostre potenzialità umane, per assicurarci una vecchiaia meno dura.
Mille volte di più dovremmo ragionare così per quello che riguarda il cervello.
Mens sana in corpore sano, certo, ma pure il contrario: un paio di bicipiti attaccato a un cervello da gallina è solo un’arma in mano al primo dittatore che si presenti sulla scena.
Tornando alle capacità cognitive “sotto attacco”, è vero – purtroppo – che l’uso di queste tecnologie provoca “fatalmente” una redistribuzione dei compiti tra memoria a lungo termine e memoria di lavoro, con un sovraccarico su quest’ultima e un’oggettiva diminuzione delle capacità di concentrazione. Per quanto ci adoperiamo per controbilanciare quest’effetto, credo sia impossibile farlo del tutto. Ma è importante, per esempio, continuare a insistere, in età infantile e non solo, sulle abilità cognitive “classiche” legate alla civiltà della memoria e della scrittura: al netto di questi problemi, innestare le nuove capacità cognitive su quelle vecchie resta comunque un vantaggio, e non si vede perché dovremmo rinunciarci.

Jaron Lanier invita nel suo recente “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” ad abbandonare quei siti. Sei d’accordo con lui oppure no?

Non credo sia utile fornire approcci generalizzanti, né anatemi o messe all’indice. Per conto mio sia lo “stare dentro” o lo “stare fuori”, sia eventualmente il “come” si debba “stare dentro” sono scelte personali, che possono cambiare nel corso del tempo, e che maturano in base all’esperienza, alle situazioni e ai contesti. Certamente, vi sono cose che sconsiglierei, e che io tendo a non fare. Immettere (troppe) immagini di bambini, per esempio. Usare Facebook per accedere a tutte le app.
Nell’ultima parte del libro rispolvero un bell’aggettivo di derivazione greca – “fronetico” – che designa l’intelligenza sociale che non può contare su regole assolute, ma impara dall’esperienza (e dagli errori) a valutare caso per caso. Non conosco altre ricette che il tempo, la volontà e la cautela, e non pretendo di fornirne ad altri. La possibilità di sbagliare non attenua la responsabilità – ma insomma, vivaddio, è questo che ci fa umani, se abbiamo il coraggio di esserlo.

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Emanuele Fadda
Troppo lontani, troppo vicini
Pagine 90, Euro 10.00
Quodlibet


Il caso Kravcenko


La casa editrice Guanda, ha pubblicato un importante libro di cui è autrice Nina Berberova (San Pietroburgo, 8 agosto 1901 - Filadelfia, 27 settembre 1993); ha scritto saggi, romanzi, poesie e lo straordinario reportage Il caso Kravčenco di cui mi occupo oggi.
Nina – protetta da Aleksandr Blok e Anna Achmatova – abbandonò la Russia nel 1922 incalzata dalla persecuzione operata dai Soviet contro gli intellettuali ritenuti allora (ma dopo non andrà meglio) nemici naturali della Rivoluzione Si stabilì a Parigi nel 1925, rimanendovi fino al 1950, anno in cui si trasferì negli Stati Uniti dove morirà per le complicazioni avvenute dopo una caduta.
È ampiamente tradotta in Italia. Tra le sue opere Guanda ha pubblicato: ”Il ragazzo di vetro. Cajkovskij”; “Felicità”; “Le signore di Pietroburgo”, ”Il male nero”, “Roquenval”, “Un figlio degli anni”; “La resurrezione di Mozart”.

Dicevo in apertura di un importante libro, riferendomi a “Il caso Kravčenco”, perché incrocia storia e letteratura.
Storia, perché mostra errori della Sinistra di molti anni fa che si sono ripetuti fino all’altro ieri volendo a tutti i costi difendere l’indifendibile “fratello sovietico”.
Letteratura, perché è un grande documento letterario che nasce dalla magistrale cronaca di un processo.
Nell’aprile 1944 Viktor Kravčenko, addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, ruppe con il suo Paese e decise di passare all’Occidente. Scrisse quindi un libro, pubblicato in America nel 1946, in cui spiegava le cause di questa rottura e raccontava la terribile vita in Unione Sovietica sotto il regime staliniano.
Un settimanale politico-letterario, “Les lettres françaises”, condusse una campagna diffamatoria contro Kravčenko, e questi intentò causa al periodico. Il processo ebbe luogo tra il gennaio e il marzo del 1949. Nina Berberova, allora redattrice di una rivista dell’emigrazione russa, seguì le fasi della causa da giornalista.
La struttura del libro è scandita udienza per udienza: “Primo giorno”, “Secondo giorno”, “Terzo giorno”, e così via fino alla sentenza finale del primo dibattimento e poi nello svolgimento dell’appello.
La scrittura, pur nella sua secchezza, riesce a profilare caratteri di giudici, avvocati e testimoni, con pochi tratti restituisce al lettore vampe e geli che attraversano il tribunale.
“Nina” – scrive Marco Belpoliti nella prefazione – “possiede l’arte dell’entomologo: infilzare i suoi personaggi con pochi tocchi di penna”.
Com’è stato già notato, a tratti sembra di leggere un legal thriller perciò mi sembra qui giusto non rivelare come finirà il processo così almeno quelli che non sanno di Kravčenco possono meglio appassionarsi alle pagine. Ma a chi conosce l’esito finale di quella storia giudiziaria, consiglio lo stesso la lettura perché meglio capiranno l’atmosfera di quel tempo, meglio il volto di chi mentiva a favore dell’Urss e di chi ne indicava terrori e crudeltà.
Voglio ricordare un solo episodio che mi ha particolarmente colpito. Un giorno alla sbarra c’è una donna, nuora del filosofo ebreo Martin Buber che, sfortunatissima, è stata prima in un gulag comunista poi in un lager nazista. Il suo racconto è agghiacciante nella rappresentazione dei due universi totalitari.

Dalla presentazione editoriale.
«Nel resoconto che la Berberova fa del processo Kravčenco, cui assistono fra il pubblico figure come quelle di Aragon e Sartre, scorre l’impressionante sequenza dei testimoni a carico (profughi russi, scampati alle purghe staliniane, uomini e donne con alle spalle storie atroci raccontate con estrema dignità) e la folla dei testimoni della difesa (funzionari e militari russi inviati da Mosca e destinati a impersonare ruoli grotteschi, comunisti e filocomunisti francesi accecati dal mito staliniano o semplicemente in malafede). Ecco così che, accanto al documento agghiacciante della cecità degli intellettuali di allora e dell’inevitabile violenza delle ideologie, abbiamo oggi uno straordinario racconto-verità».

Nina Berberova
Il caso Kravčenco
Traduzione di Francesco Bruno
Introduzione di Marco Belpoliti
Pagine 298, Euro 18.50
Guanda


Colloquio con Fabio Isman


Nei giorni scorsi ho presentato un libro di grande valore, pubblicato dall'editrice il Mulino.
Titolo: 1938, l’Italia razzista.
QUI le informazioni editoriali e la recensione.
Libro non soltanto utile a ricostruire l’ambientazione storica (con un’accuratissima documentazione) in cui nacquero e furono attuate le leggi razziali dal fascismo, ma libro necessario quant’altri mai ai nostri giorni che vede rinascere un clima di odio e d’intolleranza colpevolmente trascurato (e in alcuni casi incoraggiato con silenzi o deplorevoli dichiarazioni) dal governo Lega-M5S.
Autore di quel volume è Fabio Isman, (in foto) un grande giornalista e scrittore, firma storica del quotidiano “Il Messaggero”.
QUI la sua biografia .

A lui ho rivolto alcune domande.

Nell’accingerti a scrivere “I938, l’Italia razzista” qual è la prima cosa che hai deciso assolutamente da evitare e quale la prima assolutamente da fare?

Resistere a occuparmi dei deportati, dei Lager, di chi «è cenere», come dice Liliana Segre, per indagare soprattutto su quanto (tantissimo, e pochissimo poi restituito) è stato portato via in Italia agli ebrei, e sulle condizioni in cui 50 mila cittadini italiani erano costretti a vivere.

Quale fu la reazione – se reazione ci fu – nell’opinione pubblica italiana all’annuncio delle leggi razziali?

Una generale indifferenza, quando non peggio. C'era perfino chi ne approfittava; perfino chi (pagato e magari per il proprio interesse) faceva il delatore. La solidarietà, da parte di tanti, è arrivata unicamente dopo il 1943: quando cominciò la "persecuzione delle vite". Poi, nessuno si aspettava queste leggi (420 provvedimenti dal 1938 al 1945): nemmeno gli stessi ebrei. E tanti ci hanno guadagnato, sia in modo - diciamo così - "legale", sia con altri mezzi, assai meno nobili.

È vero oppure è da smentire che le leggi razziali non erano sentite dal fascismo e furono fatte solo per via dell’alleanza con Hitler?

La politica antiebraica italiana è totalmente autoctona, e italiani erano tanti che vi hanno collaborato nelle più svariate maniere: da chi scriveva gli ordini di deportazione, a chi era l'interprete dei nazisti e delle Ss, a chi conduceva i camion verso la morte sicura. E' stata figlia delle leggi adottate dal fascismo durante l'espansione colonialista, e non certamente di Hitler. La "persecuzione delle cose" è stata capillare in misura incredibile: venivano portate via perfino "due paia di mutandine sporche": è scritto negli inventari dei sequestri e delle confische.

Perché la letteratura storica in Italia – anche quella democratica - ha trascurato a lungo l’antisemitismo fascista in Italia diffondendosi in larghissima parte solo sulle colpe naziste?

Per molto tempo, è stato scomodo parlarne, per tutti; anche per gli stessi testimoni, che temevano di non venir creduti. L'Italia ha indagato sulle "cose" portate via agli ebrei appena nel 2000; certe leggi razziali sono state abolite appena nel 1997 e nel 2008; l'ente creato per amministrare i beni loro sottratti, l'Egeli ("Ente Gestione e Liquidazione": non occorreva aggiungere "dei beni ebraici", tanto era ovvio e sottinteso) è stato cancellato, da Ciampi, appena nel 1997. Quando si parla di questa persecuzione, di solito si pensa solo (ed è comprensibile, tale è la portata del fenomeno) alla Shoah, alla deportazione. E sul resto (che era tantissimo), si è indagato troppo poco e troppo tardi.

Perché non c’è stato un processo simile a quello di Norimberga in Italia? E neppure una vera epurazione?

Perché, nel nome dell'unificazione nazionale, il guardasigilli Palmiro Togliatti ha emanato un'amnistia. Nicola Pende, scienziato e il cui nome era in calce al "Manifesto della razza", è stato condannato nei tre gradi dell'epurazione: sentenza cassata dal Consiglio di Stato per un vizio di forma, e processo non ripetuto appunto per l'amnistia. Così, è ritornato in cattedra. Il fenomeno delle leggi razziali è ancora attuale: troppo non è stato restituito, e, per dirne una, la scuola a Noicattaro, città metropolitana di Bari e città natale di Pende, è stata recentemente fusa con un altro istituto; così oggi, e sembra una bestemmia soltanto scriverlo, esiste la scuola Gramsci-Pende.

L’Italia, oggi, è più razzista di quella del 1938?

Certamente non è più razzista; ma non ha ancora chiarito e risolto tutti i problemi di quel periodo, odioso e terribile. C'è ancora tantissimo da indagare, e moltissimo non ritornerà mai più a coloro cui è stato portato via. Scomparsi per sempre infiniti ricordi di famiglia; sparite ricchezze più o meno ingenti. E, formalmente, questo Paese non ha mai nemmeno chiesto scusa: qualcuno si ricorda, per caso, una seduta del Parlamento a Camere riunite per farlo? Il rischio è che stilemi non troppo dissimili siano adottati, senza che ci pensiamo troppo, per altre minoranze: quando sento proporre un censimento per qualcuna di queste categorie, mi corre un brivido per la schiena: anche la persecuzione degli ebrei è iniziata così.

A settant’anni dalla sconfitta fascista vediamo risorgere organizzazioni politiche e pratiche di quelle idee.
A chi, in Italia, attribuisci le maggiori responsabilità dell’attuale, allarmante, stato di cose
?

Organizzazioni che si richiamano al fascismo ci sono sempre state, fin dall'immediato dopoguerra. Quelle che lo praticano, in qualche caso sono state sciolte. Ma oggi vedo che non si è fatto abbastanza lezione di quelle vicende antiebraiche. C'è addirittura chi, di nuovo, cita i "Protocolli dei Savi di Sion", uno dei più famosi falsi. Bisognerebbe forse ricordare di più (e indagare ancora) quanto è successo 80 anni fa: farlo ogni giorno, e ogni mattina.

………………………………
Fabio Isman
1938, l’Italia razzista
Prefazione di Liliana Segre
Pagine 296, Euro 22.00
Il Mulino



Un ricordo di Pino Caruso


Giovedì 7 marzo ci ha lasciato Pino Caruso.
Nonostante abbia avuto larga popolarità, ne avrebbe meritata di più.
Detesto l’aggettivo ironico perché troppo spesso usato a sproposito, è accaduto anche a Caruso d’essere definito così e, invece, fu caustico, mordace, riuscendo ad essere dolce e velenoso al tempo stesso.
Di grandissima bravura ha frequentato tutti i campi dello spettacolo, dal teatro al cinema dalla tv alla radio (attraversando più generi) e su ognuna di questi ne ha padroneggiato il linguaggio. Vale a dire che senza snaturare il suo stile lo ha sapientemente declinato alle opportunità offerte dai vari mezzi.
Alla radio ho avuto la fortuna di lavorare con lui nei primi anni ’70, l’anno con precisione non lo ricordo ma il titolo, imposto da un funzionario, sì: “Girotondo intorno al mondo”. Quel titolo a lui non piaceva e in apertura della prima puntata lo affermò dicendo che quel titolo non gli garbava e oltre a girare intorno al mondo gli faceva girare anche qualcos’altro. Poche volte nella mia carriera mi sono divertito quanto in quella produzione.
L’esperienza maturata sulla scena, sul set, negli studi radiofonici e televisivi la trasfuse anche sulla pagina dove, dall’aporìa alla consonanza, dall’aggettivazione alla punteggiatura, tutto è disposto in una progressione che giunge con efficacia al traguardo dell’indignatio.
QUI un mio incontro con lui in occasione dell’uscita del suo libro “Il venditore di racconti”.
Sue parole anche qui quando scrissi sull’altro volume “L’uomo comune”.
L’ultima volta l’ho sentito circa un anno fa, parlammo delle nostre vecchiaie e lui ripeté un suo aforisma dicendo: “Armà ricordati: la vecchiaia nuoce gravemente alla salute”.


Il fascismo dalle mani sporche (1)

La casa editrice Laterza ha mandato nelle librerie un volume tanto interessante quanto necessario.
Titolo: Il fascismo dalle mani sporche Dittatura, corruzione, affarismo, a cura del tandem Paolo GiovanniniMarco Palla che hanno ideato e coordinato il lavoro di eccellenti saggisti.
Oltre allo stesso Giovannini, in ordine di apparizione nell’Indice: Paul Corner – Matteo Di Figlia – Matteo Mazzoni – Alessandro Volpi – Paolo Ferrari – Vittorio Coco – Federico Melotto – Umberto Sereni – Emanuele Ertola.

Una perniciosa favola ha accompagnato la fine del fascismo e ancora vive sostenuta in colpevole innocenza oppure in chiara malafede: la presunta onestà dei governanti in camicia nera.
Una grande bugia che ancora oggi distorce visioni e giudizi sul famigerato ventennio.
Onesti? Per niente.
Su questa menzogna riflette e illumina, come meglio non si potrebbe, “Il fascismo dalle mani sporche”.

Qualche cenno biografico sui due curatori.
Paolo Giovannini insegna Storia contemporanea all’Università di Camerino.
Ha studiato la storia sociale della psichiatria, del movimento cattolico e del fascismo.
Tra le sue pubblicazioni, La prima democrazia cristiana. Progetto politico e impegno culturale (Edizioni Unicopli 2014), La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale (Edizioni Unicopli 2015) e Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918).

Marco Palla ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Firenze.
Ha studiato a lungo il periodo 1914-1945 e ha pubblicato, tra l’altro, Firenze nel regime fascista 1929-1934 (Olschki 1978); Fascismo e Stato corporativo (Franco Angeli 1991); Mussolini e il fascismo (Giunti 1993).
Ha curato volumi sullo Stato fascista, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, l’antifascismo a Prato e la storia della Resistenza in Toscana.

Dalla presentazione editoriale.
«Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una ‘dittatura degli onesti’. Un regime, che pretendeva di forgiare un ‘uomo nuovo’ e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell’industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma ‘mani sporche’ sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei ‘pesci piccoli’ a caccia di buone occasioni nelle colonie dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia. Un iceberg,quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda».

Segue ora un incontro con Paolo Giovannini.


Il fascismo dalle mani sporche (2)

A Paolo Giovannini (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

All’origine del libro ci sono principalmente due esigenze da tempo maturate dal prof. Palla e da me.
In primo luogo la consapevolezza che i fenomeni della corruzione, dell’affarismo, del clientelismo e del nepotismo non fossero soltanto significativi per l’intero arco temporale del regime fascista, ma talmente estesi e progressivamente radicati da condizionare il sistema politico sia per quanto riguarda il potere centrale dello Stato che per quanto si riferisce ai poteri locali. Nonostante tali elementi consolidati, la storiografia italiana sul fascismo in gran parte li ha finora considerati di non primaria importanza o comunque non ha insistito con forza sul nesso politica-corruzione-affarismo in questi anni, della professionalizzazione della politica come risorsa per migliorare le proprie condizioni economiche. In tal senso abbiamo voluto colmare un vuoto, costruendo per primi un libro sulla “questione morale” durante il fascismo, con il proposito di approfondire alcune sue dinamiche e articolazioni e di incentivare nuove ricerche sull’argomento, laddove la corruzione e l’affarismo – a nostro parere – rappresentano aspetti assai importanti attraverso cui approfondire la conoscenza delle strutture e del reale esercizio del potere nello Stato fascista.
La seconda esigenza parte dalla contemporaneità, ossia dal perpetuarsi sino a oggi in non marginali settori dell’opinione pubblica italiana della falsa idea che corruzione e affarismo fossero estranei al regime fascista, che in questi anni da questo punto di vista le cose fossero andate in maniera diversa rispetto al periodo repubblicano, segnato da ripetuti scandali. Un’immagine costruita dal regime attraverso la censura e la propaganda e finora mai sottoposta a verifica sul piano storiografico.

Quali le linee guida proposte ai saggisti che avete invitato a intervenire?

Innanzitutto abbiamo cercato di costruire un libro che a una rigorosa impostazione scientifica affiancasse una leggibilità tale da renderlo fruibile anche ai “non addetti ai lavori”.
Poi abbiamo costruito una griglia tematica attraverso la quale abbiamo individuato alcune questioni che ci sono sembrate particolarmente rilevanti, a partire dall’esame del contesto generale, per poi passare a casi di importanti gerarchi come Roberto Farinacci, Costanzo Ciano e Carlo Scorza, al caso di Giuseppe Volpi (il più eminente uomo d’affari designato a far parte del governo Mussolini) e a quello di Ugo Cavallero (elemento di collegamento e sutura fra industria privata e dicasteri militari). Inoltre ci siamo soffermati su situazioni relative a diverse aree del paese (il Veronese, le Marche e la Sicilia), estendendo l’indagine anche alle colonie africane, sulle quali ancora perdurano malintese certezze circa il comportamento italiano. A tal proposito ci siamo rivolti a studiosi di diverse generazioni, che avevano - almeno in parte – lavorato sulle tematiche proposte, che si sono trovati a convergere sulle linee guida prospettate dai curatori e hanno raggiunto, ciascuno nel proprio ambito e sviluppando le proprie specifiche ricerche in autonomia, una complessiva sintonia interpretativa.

Perché ancora oggi, sopravvive in parte dell’opinione pubblica la bugia di un fascismo che, pur con colpe, aveva il merito dell’onestà?

Come accennato, in parte dipende dal fatto che i temi dell’affarismo e della corruzione, pur spesso presenti o evocati dalla storiografia, non sono stati sottolineati con forza e continuità. In tal modo, in fasi particolarmente critiche della storia repubblicana, come quella di Tangentopoli, il discorso neofascista del regime come “dittatura degli onesti” ha potuto riproporsi in modo pressoché incontrastato. Ma si tratta anche di una questione più generale, riferita all’ampia diffusione di ricostruzioni del nostro passato di alcuni giornalisti-storici, recepite anche dai media, tese a proporre un’immagine “edulcorata” del passato fascista.

Mussolini, con quanto combinato dai suoi uomini, era fuori oppure no dal malaffare?

Rispetto a ciò, si può senz’altro sostenere che per Mussolini la cosiddetta “questione morale”, di cui era ampiamente a conoscenza, non rappresentasse affatto un problema di primaria importanza, privilegiando, nel rapporto con i suoi gerarchi e ministri, la fedele subordinazione a sé stesso e alle sue direttive. A cavallo degli anni venti e trenta il tentativo del sottosegretario agli Interni Leandro Arpinati di parziale moralizzazione dei fascismi provinciali e di accertamento delle fortune economiche di vari gerarchi si arena allorché il duce si rende conto che tale attività avrebbe portato in superficie e all’attenzione del pubblico le dimensioni di un fenomeno di ampie proporzioni, con pesanti ricadute sull’immagine che andava costruendo del fascismo. Peraltro lo stesso Mussolini (insieme al fratello Arnaldo), sin dall’inizio del Ventennio, appare coinvolto in affari decisamente poco puliti.

Vedi una differenza (e, se sì, quale) fra la corruzione ai tempi del fascismo e quella portata alla luce da “mani pulite”?

I contesti sono molto diversi e non comparabili. Fra l’altro nello Stato democratico la libertà di stampa (pur con tutti i suoi limiti) assicura la possibilità di denuncia pubblica, impossibile in un regime dittatoriale. Ma al di là di tale evidenza, come ha scritto uno storico tedesco a proposito dell’importanza della corruzione nel Terzo Reich, non soltanto essa aveva assunto delle proporzioni inedite, ma aveva trovato nella struttura stessa del potere hitleriano un terreno specificatamente favorevole, un discorso che – a mio parere - si può estendere al regime fascista, dove la corruzione appare anzi per vari aspetti funzionale al sistema. La comparazione è certamente utile, ma credo che vada fatta con i regimi totalitari (nazismo e stalinismo).

……………………………………

AA. VV.
Il fascismo dalle mani sporche
a cura di
Paolo Giovannini
Marco Palla
Pagine 250, Euro 22.00
Laterza


8 marzo


Oggi ci sarà un diluvio di pezzi giornalistici su carta stampata, radio, tv, web, sulla Festa delle Donne.
Voglio astenermi da quel coro di un giorno solo.
Chi generosamente legge queste mie pagine, sa che preferisco occuparmi di femminismo durante tutto l’anno attraverso riflessioni su libri, film, arti visive, spettacoli teatrali che trattano quei temi e quei problemi.

Oggi voglio solo ricordare un’iniziativa dell’Osservatorio Caduti sul Lavoro, guidato da Carlo Soricelli, che dedica questa giornata a Lisa Picozzi (in foto).
Lisa – si legge sul sito dell’Osservatorio – era un ingegnere che ha perso la vita precipitando in un lucernario non coperto a norma di legge né segnalato, mentre eseguiva un sopralluogo sulla superficie di un edificio in Puglia.
Era il 29 settembre 2010.

Mentre nelle piazze si festeggia l’8 marzo (ed è bene che avvenga), molte lavoratrici non possono farlo perché impegnate sul lavoro e, quel che è peggio, spesso, com’è capitato a Lisa Picozzi, in condizioni ambientali sprovviste di strumenti di sicurezza pur previsti da disposizioni legislative.


Avrò cura di me


La casa editrice Sonzogno ha pubblicato un libro che tratta della sofferenza fisica, è intitolato Avrò cura di me Il mio viaggio intorno al mondo per guarire dal dolore cronico.
Ne è autrice Julia Buckley .
Giornalista, collabora con The Sunday Times e The Independent, ed è inviata dall’Italia per “National Geographic Traveller” e “Condé Nast Traveler”. Vive in Cornovaglia.

Ho avuto più di un’esitazione prima di presentare questo volume perché trattandosi di un cammino dalla disperazione a una felice conclusione, temevo che indicasse una precisa terapia per risolvere un grave malanno. Questa cosa, infatti, è, purtroppo, diffusa in molti libri, in rubriche sulla carta stampata, in tante tv, sulla Rete. Aldilà di notizie truffaldine, anche quelle espresse con onestà, possono avere conseguenze disastrose perché non esiste una medicina che per lo stesso male sia valida per tutti quelli che ne sono affetti.
Ovviamente le eccezioni ci sono. Ad esempio, è criminoso negare (e c’è chi lo fa) la necessità di chemioterapia per combattere i tumori; altrettanto opporsi (e c’è chi lo fa) alle vaccinazioni in età scolare.
In molti altri casi, però, non esiste una soluzione buona per tutti, perché prima della malattia c’è il malato che risponde a una terapia e non a un’altra pur buona.
Alla fine delle pagine di “Avrò cura di me”, sono stato rassicurato dall’autrice che, a proposito del dolore cronico, proprio questo sostiene e raccomanda: “Quello che funziona per una persona non funziona per un’altra. Chi mi ha restituito la mia vita, non ha fatto niente, infatti, per il dolore alla schiena di una mia amica”.
Alla Buckley l’infelicità in forma di dolore acutissimo si presenta in una mattina di maggio dell’anno 2013 mentre allunga il braccio per prendere una tazza, infelicità che non la lascerà più devastandole la vita fino al 27 giugno 2016: “erano passati 1504 giorni dall’inizio del dolore e questa volta era finita. Ce l’avevo fatta”.
Rivelando il finale di questa storia nulla ho tolto ai lettori perché è la stessa autrice ad anticipare il finale nelle prime pagine e, inoltre, l’importanza del libro sta nell’attraversamento di quegli anni.
In un saggio “Sulla malattia” del 1926 che meriterebbe d’essere più conosciuto, Virginia Woolf scrive: “Appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura […] abbiamo bisogno di una nuova gerarchia delle passioni: l’amore si ritiri davanti a quaranta di febbre, la gelosia lasci il posto agli attacchi di sciatica...".
Altra cosa: non curatevi da soli. Anche questo, con la diffusione della comunicazione, è diventato più di ieri un pericolo. Più di ieri perché già nel ‘700 trovo un divertente episodio. Un pessimo medico decise di curarsi da solo e, naturalmente, morì. Un suo collega immaginò per lui il seguente epitaffio: A te pria / terapia / ti parea / arte pia / e pirata / pari a te / terapia / rapìa te... a proposito, ogni verso è un anagramma della parola terapia.

Dalla presentazione editoriale di “Avrò cura di me”.

«A Julia Buckley serve un miracolo. Come un quinto della popolazione europea, Julia soffre di dolori cronici. Secondo i suoi medici non c’è niente da fare, se non imparare a conviverci. Ma lei non vuole rassegnarsi, è troppo sofferente e non può permettersi di non tornare al lavoro e a una vita normale. Inizia così il suo viaggio intorno al mondo, alla ricerca di un metodo di guarigione. Incontrerà professionisti della medicina tradizionale e di quella alternativa, ed esplorerà le frontiere tra fede, scienza e psicologia. Dalla terapia neuroplastica a San Francisco alla marijuana per uso medico in Colorado, dai rituali vodou nell’isola di Haiti alla “chirurgia spirituale” brasiliana: Julia prova tutto, senza trascurare nemmeno Lourdes e le reliquie di Padre Pio. Al termine di questo pellegrinaggio durato quattro anni, l’autrice ha voluto raccontare il suo cammino verso la guarigione, con un reportage avventuroso e personale che solleva interrogativi di fondo sul rapporto tra i nostri mali e la tenace volontà di combatterli».
.
Julia Buckley
Avrò cura di me
Traduzione di
Maura Parolini
Matteo Curtoni
Pagine 410, Euro 17.50
Sonzogno


Visione Molteplice

Con la nascita di Hermes Intermedia, voluta da un gruppo di poliartisti, formato da Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat, Antonio Poce, si arricchì lo scenario di produzioni e ragionamenti ispirati all’intercodice.
Il pensiero del gruppo è ora ben articolato in un volume pubblicato da Armando Editore intitolato Visione Molteplice La videoarte di Hermes Intermedia, a cura di Marco Maria Gazzano con testi di Marcello Carlino, Simone Dompeyre, Giovanni Fontana, Marco Maria Gazzano, Germano Montecchi, Ennio Morricone, Antonio Poce.

Scrive Giovanni Fontana: “Nell’opera di Hermes Intermedia, codici e linguaggi interagiscono in visioni sincretiche. Ambiti diversi vengono rivisitati e riorganizzati in un unico processo creativo, dove la reciproca integrazione degli elementi determina un simultaneismo acustico-visivo, sulla strada di una sincronia metodologica e di un contrappunto parasinestetico, che sfugge a meri parallelismi, optando, invece, per interrelazioni sghembe che prediligono la sorpresa, pur nell’assoluto rispetto della coerenza formale del progetto.
La lingua di Hermes Intermedia nasce, in effetti, dalla leggerezza di stringhe in vibrazione che, tagliati i cordoni dai loro ambiti caratteristici, si ricompongono armonicamente in un contesto di risonanze e di bagliori, dove l’immagine si fa musica e la musica si fa immagine.
Hermes Intermedia è oltre il video. Il suo atteggiamento translinguistico lo pone al di là delle categorie del video d’artista e/o della video-arte, spesso riconducibili all’area concettuale o alla dimensione della sperimentazione tecnologica, talora fine a se stessa e spesso stancamente reiterata. Quello di Hermes Intermedia è un processo di sintesi che non lascia spazio alla reversibilità, che però abbraccia la dimensione del molteplice non sottovalutandone gli aspetti metamorfici. Ecco, allora, apparire il video “in situazione”, aperto a rivisitazioni performative che ne snervano le strutture, ne amplificano i ranghi, pur nel rispetto della matrice originaria. Tutto ciò in coerenza con la volontà espressiva del gruppo, che articola un pensiero non-lineare, prediligendo strutture tridimensionali aperte, forme stellari organiche alla trasversalità, che, tuttavia, non cedono un millimetro alla provvisorietà, pur esponendosi ed autoalimentandosi sulla strada della ricerca della compiutezza, ma secondo la prospettiva dell’opera aperta. Ed è per questo che le matrici audio videografiche del gruppo si predispongono e si dispongono al trattamento della spazializzazione del suono, della multiproiezione, dell’interattività tra immagine dinamica, corpo e voce, in un fertile processo di esplorazione di spazi e di contesti”.

Dal testo di Ennio Morricone: “Se si dovesse indicare un elemento che caratterizzi globalmente queste opere non avrei dubbi nel parlare di centralità della musica. È stata infatti la complessità che è propria della composizione musicale a spingere il Gruppo Hermes Intermedia a superare i confini delle singole arti. Essi hanno affrontato per primi il tema della ‘scrittura intermediale’ non soltanto sul piano teorico, ma anche attraverso una pratica produttiva quotidiana, come dimostra il loro già ampio catalogo (…). Il loro merito è proprio questo: aver elaborato una tecnica compositiva in grado di comprendere, nel medesimo contesto, materiali e figure di provenienza diversa (sia sul piano sensoriale che disciplinare) e di integrare tutto in un solo progetto creativo”.

AA. VV.
Visione Molteplice
A cura di Marco M. Gazzano
Pagine 160, Euro 15.00
Con ill. a colori
Armando Editore


Post 11 settembre


A Cosmotaxi piace occuparsi anche di libri non stampati da poco quando trattano argomenti originali; temi, insomma, che non si trovano affrontati nello scenario letterario.
Mi sembra il caso del volume che presento oggi che, almeno in Italia, mi pare corrisponda a quei requisiti cui mi riferivo prima.
L’ha pubblicato la casa editrice Persiani, il titolo: Post 11 settembre Letteratura e trauma.
Ne è autore Riccardo Gramantieri che Cosmotaxi ha già proposto per una sua recente pubblicazione: Fenomeno Ufo.

Dalla presentazione editoriale

«L’abbattimento delle Torri Gemelle ha segnato in maniera indelebile il passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo. Con l’attacco al World Trade Center ha generato un moto dell’inconscio che ha trovato modo di esprimersi attraverso una produzione letteraria caratterizzata da figure fantasmatiche, oggetti dispersi e ritrovati, guerre e conflitti in universi alternativi. L’evento è diventato, infatti, oggetto di molte opere letterarie, tanto da poter parlare oggi di una “letteratura post 11 settembre” (o post- 9/11). La narrativa di Brian Aldiss, Don Delillo, Stephen King, Cormac McCarthy, solo per citare alcuni autori, descrive e/o reinventa il mondo scaturito dal crollo delle Twin Towers. Le opere prese in esame rappresentano meccanismi mentali di risposta all’evento diversi, ma comunque riconducibili allo stesso trauma. Più che una semplice descrizione dei fatti, la letteratura post 11 settembre ha la capacità di rendere visibili quei processi psichici che si sono sviluppati in seguito allo spaventoso e angosciante attacco terroristico»

A Riccardo Gramantieri - (in foto) - ho rivolto alcune domande.

Che cosa o quali cose caratterizzano la “letteratura post-11settembre”?

La definizione è ormai normalmente utilizzata dai critici per riferirsi a quei libri, principalmente angloamericani, che trattano, direttamente o indirettamente, dell’attacco al World Trade Center di New York. È stato detto che quello che è successo nel 2001 è “la quintessenza del trauma culturale”. Esso ha prodotto un vero e proprio choc. Nel libro tratto l'evento in termini di pensabile e impensabile. L’America non aveva mai subito sul proprio suolo un attacco come quello avvenuto l’11 settembre 2001. Per cercare un precedente occorre ricordare la vicenda traumatica di Pearl Harbor, che però avvenne in una base militare alle Hawaii e l’azione non venne percepita come accaduta in madre patria. Non essendoci esperienze confrontabili, l'attacco a Manhattan è perciò un evento “impensabile”. Per renderlo “pensabile”, molti scrittori l'hanno trattato in termini fantascientifici, perché il genere catastrofico, negli USA, ha una lunga tradizione, e dunque è più “pensabile” del fatto reale. Penso a “La strada” di Cormac McCarthy, ad esempio.

Perché ad autori importanti quali “DeLillo o McInerney” – come tu scrivi – “è mancata apparentemente la capacità di elaborare il ‘lutto’, cioè del farsi una ragione del perché il World Trade Center sia stato attaccato”?

Il superamento di un trauma consiste nella sua rielaborazione e comprensione. Se il trauma non lo si supera, si tende a descriverlo negli stessi termini in cui lo si è vissuto.
Ad esempio, alla fine di “Good Life” di McInerney sembra che il crollo delle torri sia servito a modificare le relazioni interpersonali dei protagonisti producendo solo delle situazioni di compromesso. Ne “L’uomo che cade” anche DeLillo si concentra sui cittadini di New York e anche qui sembra non ci sia un cambiamento vero e proprio, un nuovo modo di “pensare”. L’apocalisse di Manhattan infatti fa riconciliare per qualche tempo il protagonista Keith e la sua ex moglie, ma poi l’uomo torna fra le braccia dell'amante. Non ci sono differenze fra il Keith pre e post 11 settembre. Le cose che Keith sentiva come minacciose, sono rimaste invariate rispetto all’attacco delle torri, e la sua vita è povera come lo era prima dell’11 settembre.

Dopo il 1945 nacque la cosiddetta “letteratura del megatone” in conseguenza del terrore dell’atomica. Anche allora esempi maiuscoli vennero dalle pagine di fantascienza. Quale differenza o similitudine leggi fra i due fenomeni?

La fantascienza è un genere letterario che, in realtà, non predice il futuro ma descrive il presente in maniera alternativa. Dopo la Seconda guerra mondiale nella fantascienza trovarono posto soprattutto storie post-apocalittiche di mutanti. Una rivista come “Astounding” ne pubblicò incessantemente e prese un tono molto pessimista.
Dopo il 2001 è avvenuta la stessa cosa: storie di catastrofi più o meno naturali, come pure ucronie e distopie, sono divenute il genere più frequentato da chi voleva trattare l'evento senza descrivere banalmente quanto accaduto. L'hanno fatto autori come Philip Roth, e nella fantascienza Brian Aldiss, Ken MacLeod, Stephen King, Lucius Shepard, K. Tempest Bradford e Adam-Troy Castro. L'invenzione fantascientifica inoltre ha avuto il pregio, attraverso l'azione creativa, cioè la fantasia, di dare un significato ad un evento che nella mente degli Americani, prima del 2001, non poteva essere nemmeno possibile.

…………………………………….

Riccardo Gramantieri
Post 11 settembre
Introduzione di Javier Fiz Perez
Pagine 166, Euro 16.90
Casa Editrice Persiani



Dappertutto è la felicità

La casa editrice L'Orma, ben guidata dal tandem Marco Federici Solari - Lorenzo Flabbi, nel suo catalogo propone una collana, chiamata “I Pacchetti” che grazie ad un’ingegnosa idea grafica sono piccoli libri da chiudere, affrancare e imbucare in una delle tante (ma in Italia spesso ben nascoste) cassette postali. Questi librini racchiudono lettere dei massimi pensatori, artisti e uomini politici di tutti i tempi.
Finito di stampare nel dicembre ’18 è una raccolta epistolare intitolata Dappertutto è la felicità Lettere di gioia e barricate.
La mittente ha un nome famoso: Rosa Luxenburg (Zamość, 5 marzo 1871 – Berlino, 15 gennaio 1919), rivoluzionaria polacca naturalizzata tedesca.
Mi piace ricordare che a lei nel 1986 fu dedicato un riuscitissimo film di Margarethe Von Trotta, con Barbara Sukowa nel ruolo di Rosa.

Ecco un suo ritratto che traggo da un saggio di Maria Turchetto sull’Ateo (2010, n. 5) di cui è condirettrice: “Lenin la definì un’aquila e volò molto in alto in una società che era ancora profondamente maschilista. Primeggiò in un’epoca di giganti: i suoi interlocutori erano personaggi del calibro di Lenin, Trotsky, Kautsky, Bernstein, Hilferding, Bebel. Quanto alla famiglia, non la prese nemmeno in considerazione. Rivoluzionaria anche nelle scelte private e nei rapporti interpersonali, a ventisette anni fece un matrimonio di comodo per ottenere la cittadinanza tedesca, per vivere poi con Leo Jogiches una relazione libera e intensa […] Non so se Rosa si possa definire femminista: appoggiò con energia, anche contro il suo partito, la battaglia per il voto alle donne ma non fece sue le posizioni del femminismo di quell’epoca, era assai più attenta alle questioni di classe che a quelle di genere. Nel 1914 la maggior parte dei partiti socialisti europei si pronunciò a favore della guerra: per Rosa Luxenburg fu una delusione disperante. Per il suo attivismo antimilitarista passò in prigione la maggior parte degli anni della guerra. Poi, assieme a Karl Liebknecht assunse l’indiscusso comando dell’ala rivoluzionaria del movimento socialista tedesco e diresse il giornale “Die Rote Fahne” […] Rosa e Karl, inseguiti, braccati dai paramilitari dei Freikorps, furono catturati e assassinati brutalmente il 15 gennaio del 1919. A lei spaccarono la faccia con il calcio di un fucile. La finirono con un colpo di pistola. Il suo corpo gettato in un canale, venne recuperato solo alcuni mesi più tardi”.

Il saggio di Maria Turchetto passa poi ad analizzare gli scritti della Luxenburg e noi torniamo alla sue lettere che ben selezionate dimostrano come accanto all’intrepida e dura rivoluzionaria vivesse una donna che ben conosceva la tenerezza
Dal carcere di Wronki, infatti, scrive all’amica Mathilde Jacob: Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai "compagni".
Sulla sua tomba avrebbe voluto il verso dell’uccellino tanto amato: zvi-zvi

Nell’Introduzione scrivono Cristiano Armati ed Eusebio Trabucchi: “A cent’anni esatti dalla morte di Luxenburg, la presente breve selezione del suo epistolario ridà voce alle prodigiose passioni che animarono un’esistenza inestinguibile, chiamata, anche suo malgrado, a indicare una direzione. E fu una direzione squisitamente biopolitica, in cui l’unico tempo dove collocare la grande rivoluzionaria è lo stesso per il quale vale la pena di avere nostalgia: il futuro; che non è ciò che verrà, ma ciò che c’era quando Rosa Luxenburg veniva assassinata”.

Rosa Luxenburg
Dappertutto è la felicità
A cura di Eusebio Trabucchi
Introduzione di
Cristiano Armati - Eusebio Trabucchi
Pagine 64, Euro 7.00
L’Orma Editore


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