Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 31 maggio 2019
Il laboratorio del Gulag
Nonostante di crudeltà sia pieno il libro della Storia, la specialità del mondo concentrazionario spetta al secolo scorso. Tra i tanti orrori, ne spiccano due: il lager nazista e il gulag comunista. Sul lager molto è stato pubblicato e mi auguro che molto ancora lo sia, sul gulag – pur disponendo di una considerevole biblioteca – si è comunque scritto meno. La ragione è presto detta, mentre fu possibile agli Alleati entrare in territorio tedesco, reperire testimonianze e acquisire documenti fotografici, filmati, stampati e anche documentazioni riservate negli uffici del partito hitleriano, la stessa cosa non è stata possibile in egual misura sul gulag poiché le principali fonti di documentazione erano – e sono – in territorio sovietico o ben rinchiusi in forzieri del Kgb (erede a sua volta della GPU e della Ceka, oggi Fsb) da qualche anno a disposizione, solo parzialmente, molto parzialmente, degli studiosi. Il Gulag, triste sigla che sta per Glavnoe Upravlenie LAGrei (Amministrazione Centrale dei Campi) fu quella terribile cosa di cui largamente si apprese dal capolavoro di Alexander Solgenitzin. La letteratura sul Gulag ha prodotto anche qualche equivoco. Primo fra tutti l’esistenza di quell’orrore attribuita a Stalin che, invece, ne fu un perfezionatore e, potremmo dire oggi, un utilizzatore finale. La vera responsabilità è da attribuire dapprima a Trockij (aveva scritto. “Il terrore rosso è l'arma da impiegare contro la borghesia, una classe votata a morire e che non vi si rassegna") e in modo maiuscolo a Lenin. È una cosa ben chiarita e da cui parte un libro imperdibile pubblicato da Lindau intitolato Il laboratorio del Gulag Le origini del sistema concentrazionario sovietico Ne è autrice Francine-Dominique Liechtenhan che leggiamo in un’efficace traduzione di Federica Giardini. Liechtenhan è nata nel 1956 a Basilea si è laureata in Storia contemporanea e in Filologia russa a Parigi, città nella quale risiede e dove insegna alla Sorbonne Université. Membro dell'École doctorale della stessa università, è direttrice di ricerca presso il CNRS. È autrice, oltre che di numerosi saggi pubblicati in riviste, dei volumi Les trois christianisme et la Russie. Les voyageurs occidentaux face à l’Eglise orthodoxe russe (2002) Elisabeth de Russie (1709-1762), l’autre impératrice. (2007), Le crépuscule des empereurs; la fin des grandes dynasties européennes (2012), Pierre le Grand, le premier empereur de toutes les Russies (2015), Le grand pillage; du butin des nazis aux trophées des Soviétiques (2017). Il primo gulag apparve alle isole Solovki, vicino al Circolo Polare Artico. Entrando in quel gulag voluto da Lenin, in funzione dal 1919, si leggeva: «Il lavoro fortifica l'anima e il corpo». All'ingresso del lager nazista di Auschwitz, operativo dal 1940, c’era scritto «Il lavoro rende liberi». Chissà perché il Pcus non denunciò per plagio lo Nsdap alla Siae. Quando i sovietici occuparono il lager nazista di Sachsenavsen (campo in cui non c’erano i forni crematori) trovarono già tutto pronto anche per i loro gusti e non fu necessario cambiare il regolamento esistente, Il libro si avvale della Prefazione di uno dei più importanti storici francesi moderni: Emmanuel Le Roy Ladurie. È stato direttore didattico dell'École pratique des hautes études di Parigi a partire dal 1965, poi professore di scienze sociali all'Università di Parigi (dal 1970) e, infine, professore di Storia della civiltà moderna al Collège de France (dal 1973). Ricchi gli apparati che contengono. un glossario, una bibliografia, un indice dei box di approfondimento, una ricca scheda di riferimenti storici dal II e I millennio a. C. al 2003; un indice dei nomi propri ciascuno con una sintetica biografia del personaggio, Dalla presentazione editoriale. «Tra i monasteri e gli eremi delle Solovki – l’arcipelago del Mar Bianco, nell’estrema parte nord-occidentale della Russia, al largo di Archangel’sk – fu creato il primo campo di concentramento sovietico, il laboratorio di quella rete di 476 campi divenuti tristemente famosi con il nome di «Gulag». A partire dal 1923 e fino al 1939 i bolscevichi vi deportarono i «nemici» del comunismo: aristocratici, preti, «borghesi », contadini, operai, intellettuali, funzionari, artisti, quadri del Partito caduti in disgrazia. «Inventato» da Trockij, adottato da Lenin e perfezionato da Stalin, il campo delle Solovki arrivò a ospitare 70.000 detenuti e nel solo 1937 furono eseguite 2000 fucilazioni. Il modello delle Solovki (e, più in generale, il Gulag) influenzò profondamente la costruzione della società sovietica: si calcola che in quei decenni un adulto su sette trascorse almeno alcuni mesi in un campo. L’esperienza penitenziaria serviva a distruggere le «strutture» dell’epoca imperiale, a livellare le classi sociali e, soprattutto durante lo sforzo bellico, a fornire la manodopera necessaria all’industrializzazione del paese. L’«armata del lavoro» teorizzata da Trockij nel 1918, che avrebbe dovuto fare le fortune dell’Unione Sovietica, non consistette in altro che in migliaia e migliaia di esseri umani ridotti in schiavitù, mutilati e uccisi (anche mediante l’uso, sempre negato dalle autorità, di armi batteriologiche). Costruito sulla scorta di una vasta documentazione originale, resa in gran parte accessibile dall’apertura degli archivi dell’ex Unione Sovietica, e con l’ausilio di molte testimonianze inedite di prigionieri sopravvissuti e dei loro familiari, questo libro di Francine-Dominique Liechtenhan è un contributo di eccezionale valore alla conoscenza della verità e un omaggio alla memoria delle vittime del comunismo, ancora oggi dolorosamente neglette, in Russia come in Occidente». Francine-Dominique Liechtenhan Il laboratorio del Gulag Prefazione di Emmanuel Le Roy Ladurie Traduzione di Federica Giardini 320 pagine, 6 ill. in b/n Euro 26.00 Lindau
giovedì, 30 maggio 2019
Luigi Pericle: Beyond the visible
È in corso a Venezia alla Fondazione Querini Stampalia – resterà aperta fino al 24 novembre di quest’anno – una retrospettiva a cura di Chiara Gatti dedicata a Luigi Pericle (Basilea 1916 - Ascona 2001).
Pittore, illustratore, letterato, è impossibile inquadrarlo in una sola casella delle arti visive perché agì su più cursori. Fu, ad esempio, fumettista creando Max, la marmotta protagonista dell’omonimo fumetto senza testo, destinata a divenire un volto noto, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Giappone. Con il suo lavoro di illustratore, Pericle acquistò fama internazionale e i suoi lavori vennero pubblicati dall'editore Macmillan di New York e su quotidiani e periodici come il “Washington Post”, “Herald Tribune” o la rivista “Punch”. Parallelamente a questa attività pop, la sua seconda vita di pittore votato all’astrattismo informale lo vide ragionare ossessivamente su tecniche di lavorazione particolari, sulla sperimentazione su vari materiali. La sua ricerca puntava a vedere oltre il visibile, una realtà nascosta dietro quella apparente. QUI Philippe Daverio parla della sua scoperta di Pericle. Una buona occasione per conoscere quest’artista è data dal maiuscolo catalogo di Silvana Editoriale a cura di Chiara Gatti ordinatrice dell’esposizione. Dalla presentazione editoriale «Il volume celebra Luigi Pericle, pittore, ma anche pensatore, letterato, studioso di teosofia e di dottrine esoteriche, rivelando la sua storia straordinaria, fatta di ricerche profonde e grandi incontri. Dal noto collezionista Peter G. Staechelin a Sir Herbert Read, trustee della Tate Gallery; dal museologo Hans Hess, curatore della York Art Gallery, al celebre artista e regista tedesco Hans Richter. Tutti furono attratti dal suo carisma, dalla sua personalità versatile, dalla sua arte “chiaroveggente”. Con Luigi Pericle, la storia dell’arte informale del secondo Dopoguerra si apre inaspettatamente alla filosofia, alla spiritualità alternativa, ai misteri del cosmo, sullo sfondo dell’era spaziale. Autori dei saggi: Marco Pasi, Luca Bochicchio, Chiara Gatti, Michele Tavola, Andrea Biasca-Caroni, Valeria Malossa, Giovanni Cavallo». Beyond the visible Pagine 200, Ill. n. 200 Euro 39.00 Silvana Editoriale
mercoledì, 29 maggio 2019
Le forbici di Manitù
C’è un gruppo musicale che a me piace nonostante il loro nome contenga uno strumento apparentemente più castratorio che musicale: Le forbici di Manitù. Lame guidate dal 1983 dall’enigmatico Manitù Rossi e responsabili di una dozzina di album per stimate etichette internazionali, Le Forbici di Manitù si trovano a loro agio nei più disparati idiomi sonori, dal rumorismo post-industriale a versioni di classici pop-rock, dal minimalismo elettronico al lounge jazz. L’immagine che vedete è la copertina del disco di cui fra poco apprenderete. Ritrae una serena famigliuola con sullo sfondo un ridente fungo atomico; l’autore è Stefano Zattera. Ora con la complicità mailartistica del sulfureo Vittore Baroni (lui da anni affila forbici non solo di Manitù) mi arriva un comunicato che sforbicio di poco e rilancio. Augh! «L'Italia è un paese di santi, poeti, navigatori e aspiranti cantanti che gorgheggiano sotto la doccia, fischiettano in bicicletta e partecipano speranzosi a infiniti talent show. Il bel canto è parte del dna tricolore e ciò si manifesta in mille modi, dai fischi del loggione se qualcosa va storto all'opera ai milioni di visualizzazioni per beniamini emergenti dell'italo-Trap. Le Forbici di Manitù si confrontano in maniera del tutto originale con questo passatempo nazionale, rivisitando alcuni aspetti della propria formazione culturale in un progetto concettualmente temerario, che associa in modo inaspettato e sorprendente le canzoni dell'adolescenza (nella fattispecie, l'imprinting indelebile lasciato nel loro impressionabile immaginario dall'inarrivabile musa-icona Mina) con la sperimentazione post-industriale ed elettronica dei primi esperimenti sonori avviati negli anni '80. In questo ibrido che ricorda un surrealistico "incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello" (su una console di mixaggio), la spiazzante giustapposizione tra vecchi hit di Mina Mazzini e sfondi sonori industrial-noise-ambient non vuole essere un'operazione irrispettosa e tantomeno dissacrante o nostalgica, bensì suggerire un ampio ventaglio di possibili letture e interpretazioni. Ad esempio, lasciando emergere da brani pop di successo latenti prospettive alienate e cupi malesseri esistenziali (vedi “Città vuota” e “Un’ombra”), evidenziando occulte corrispondenze e causando corti circuiti mentali (come quando si canta di "fumo blu" sul ‘field recording’ di un fuoco crepitante), disseminando subliminali riverberi LGBT (per i testi lasciati al femminile) e sciogliendo le redini alle inesauribili possibilità combinatorie del caso/caos. Una vera e propria ZonaMinata che nasconde insidie, bizzarrie, attriti, paradossi e folgorazioni. Nel gioco da "cadavere squisito", in parte aleatorio “game piece” e in parte sincero tributo allo spumeggiante genio di parolieri e compositori che hanno contrassegnato un'epoca (come le coppie di autori Amurri-Canfora e Mogol-Battisti, qui ben rappresentate), le Forbici di Manitù hanno coinvolto una nutrita pattuglia di "amici" della scena elettronico-industrial non solo italiana, chiedendo loro di inviare a scatola chiusa una breve traccia strumentale inedita il più possibile "astratta" e priva di melodie o ritmi definiti. In alcuni casi, gli scenari sonori necessari al progetto sono stati ricavati, col consenso degli autori, da rare registrazioni conservate nell'archivio E.O.N./TRAX, riportando alla luce soundscape industriali "old school" di maestri del genere come M.B./Maurizio Bianchi, Nocturnal Emissions e Mind Invaders (alias sonoro dell'indimenticato agitatore culturale Piermario Ciani). Per il fondatore del gruppo Manitù Rossi - che da decenni ha in repertorio il classico “Se telefonando...” e di Mina ha già interpretato “Eclisse Twist” per l'album “Terrore nello Spazio” (2002) - si è trattato di un vero e proprio tour de force vocale, con l'assistenza del "coach" Gabriella Marconi e il supporto di Vittore Baroni nella selezione, abbinamento e mixaggio delle tracce. C'è chi sostiene che in musica tutto è già stato fatto: avete mai udito qualcosa di simile a questo psicotico e straniante (anti)karaoke di meta-cover? Puoi richiedere copia del disco inviando con PayPal € 26,00 (€ 19.00 + 7.00 spese postali) a vittorebaroni@alice.it». Le Forbici di Manitù & Friends Zona Minata
lunedì, 27 maggio 2019
Stare al gioco
La più recente volta che Antonella Sbrilli (in foto) è stata ospite di questo sito è stato in occasione del Compleanno dell'Arte. Già, però, avevo avuto la gioia di ricordare sue imprese sapienti e festose quali, ad esempio: Ah, che rebus! - Dall'oggi al domani - Tempo e Denaro mostre tutte ideate sul versante del colto e non del culturale. Come questo libro Stare al gioco Intermezzi ludici e replicabili tra parola e immagine pubblicato da Alfabeta2 che nel suo numero di ieri segnala le vicine occasioni collettive previste per ricordare la figura di Nanni Balestrini che lunedì 20 maggio ci ha lasciato più soli. Proprio da quella rivista web traggo uno scritto di presentazione di “Stare al gioco” firmato da Antonella Sbrilli. Aggiungo che dal mese di dicembre 2016 Antonella tiene una rubrica (“Alfagiochi”) quindicinale di giochi con i lettori e le lettrici sulla rivista on line “Alfabeta2“: giochi con le parole, con la scrittura, con il tempo, con le immagini. «Nel volume Stare al gioco. Intermezzi ludici e replicabili tra parola e immagine, ci sono molti degli alfagiochi che abbiamo giocato insieme dal dicembre del 2016, due volte al mese, su “alfabeta2”. Chi legge ritroverà alcuni dei fili conduttori maggiori, fra cui l’anagramma di nomi d’artista, il rinvenimento di lettere nelle opere d’arte, il passaggio dalla scrittura all’immagine, la consultazione casuale dell’archivio della rivista, la ricerca collettiva di dettagli, di citazioni, di collegamenti. Insomma, la gamma di proposte - spesso legate all’attualità - che si sono susseguite in questi anni nella rubrica, con alcune delle risposte arrivate via posta elettronica, ma soprattutto via Twitter e a volte via Instagram: testi brevi, immagini, video, gif animate. Impossibile mantenere la natura multimediale di queste interazioni, trasferendole sulla carta. È difficile mantenerne la natura interattiva. Il libro ci prova, proponendo una selezione riveduta e rielaborata dei testi e delle immagini che dal 2016 al 2018 sono apparsi nella rubrica quindicinale. Ma l’antologia è solo una parte del volume, che si apre con la trascrizione di una conversazione fra Umberto Eco e Andrea Cortellessa avvenuta nel 2015, in occasione di una puntata - dal titolo Giocare - della trasmissione Alfabeta, andata in onda su Rai5. Un intervento di Marco Dotti esplora, con incroci di dati e di interpretazioni, i fenomeni dell’azzardo, del gaming, del gambling, riassunti nel titolo eloquente di “governo (ludico) dei viventi”. A corollario di questa analisi, si può leggere l’estratto da un libello settecentesco - finora inedito in italiano e tradotto da Maria Teresa Carbone - di Talleyrand, in cui l’abilissimo diplomatico affronta il tema delle lotterie, discutendone aspetti etici e politici. Termine ubiquo e dai molti significati, il gioco compare con impressionante frequenza anche nel campo dell’arte, ricorrendo nei titoli di opere ed esposizioni, di eventi e performance, e investendo con i suoi dispositivi tanto gli allestimenti di mostre e di musei, quanto le attività di coinvolgimento dei pubblici. Il libro apre a questi aspetti con un saggio di Paolo Fabbri sulle pratiche ludiche degli artisti del Surrealismo che hanno “lungamente, seriamente, collettivamente giocato con ogni tipo di segno: il linguaggio e le immagini, scritti, pittogrammi, figure e oggetti”. E si affaccia su un campionario di esempi recenti di mostre e iniziative artistiche che pongono il gioco in primo piano. Un campionario continuamente aggiornabile, come dimostra anche la rubrica, in cui abbiamo giocato con gli Artonauti, una fortunata impresa editoriale che coniuga l’educazione artistica con l’album di figurine da collezionare. A scandire le pagine del libro “Stare al gioco”, ci sono le sculture polimateriche che riproducono icone del fumetto e dell’animazione, come Pippo o Betty Boop: sono opere dell’artista Sam Havadtoy, nato a Londra nel 1952, cresciuto a Budapest, formatosi a New York, intervistato da Piero Addis in chiusura del volume». Antonella Sbrilli Marco Dotti Stare al gioco Pagine 108, Euro 12.75 Alfabeta2 – DeriveApprodi
venerdì, 24 maggio 2019
Volevo scrivere un'altra cosa
Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da tempo non recensisco romanzi (né poesia stampata, ma quella sonora o video sì). Riservo solo un interesse per i racconti perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza altro che scrivere romanzi o romanzoni. Non è un caso che nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupi largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, a Tzvetan Todorov ad altri ancora. “Toccherà a Genette” - scrive Francesco Muzzioli (Le teorie della critica letteraria, 1994) – “con ‘Discorso sul racconto’ sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione breve uscendo dalla mera sequenza delle funzioni narratologiche […] Todorov, ad esempio, arriverà addirittura nella compilazione di una “grammatica” del Decameron, a tradurre l’intreccio in formule algebriche”. Insomma i racconti m’interessano, ma mica tutti, solo in quelli in cui vi scorgo una scintilla d’immaginazione capace d’illuminare in poche (meglio se pochissime) pagine angoli di vissuti vertiginosi, profili d’enigmatici personaggi, storie semplicissime e fatali. Uno che sa scrivere trasfigurando il reale in immaginario e capace di fare anche il percorso inverso è Luciano Curreri. Nato a Torino nel 1966, è dal 2002 ordinario di Lingua e Letteratura italiana presso l’Università di Liegi. Scrittore di saggistica e di narrativa non è un caso che già altre volte mi sono occupato di sue pubblicazioni: Pinocchio in camicia nera; D'Annunzio come personaggio nell'immaginario italiano ed europeo; L'elmo e la rivolta; Pinocchio e pinocchiate; Fiction, propagande, témoignage, réalité. Curreri ha ora pubblicato una raccolta di racconti intitolata Volevo scrivere un'altra cosa. Dalla presentazione editoriale «Un libro di racconti di ispirazione varia, spesso di tono beffardo e a volte anche un po' noir, alla cui origine sta sempre una sorta di filo conduttore apparentemente un po' paradossale: ogni racconto si chiude infatti con una sorta di cappello finale dell'autore che si scusa in quanto la storia che voleva in realtà raccontare doveva essere diversa da quella raccontata, un'altra storia che magari c'entrava poco o nulla e che poi, in quella nota conclusiva, lo stesso autore riepiloga. Al di là della sua intelligenza critica, questa idea permette all'autore di offrire al lettore il confronto di due storie diverse, quasi un dialogo narrativo interno al racconto». Luciano Curreri Volevo scrivere un'altra cosa Pagine 134, Euro 14.50 Passigli
giovedì, 23 maggio 2019
L'artista bambino
Ancora 10 giorni per visitare alla Fondazione Ragghianti - diretta da Paolo Bolpagni – la mostra L’artista bambino Infanzia e primitivismi nell’arte italiana del primo Novecento a cura di Nadia Marchioni.
Nella fotina: Carlo Erba “Le trottole del sobborgo (1915), foto di Lucio Ghilardi, courtesy Filippo Bacci Estratto dal comunicato stampa. «L’esposizione esplora la “regressione” verso il disegno infantile e la volontà di recuperare un linguaggio di stampo primitivista da parte di importanti artisti dei primi decenni del XX secolo. Partendo dagli arcaismi di pittori toscani votati allo studio dei maestri del Duecento e del Trecento, la mostra sviluppa un appassionante percorso attraverso le opere di artisti affascinati dal mondo infantile, di cui riprendono – in varie forme e stili – la semplicità, la poesia e la soavità dei colori e dei soggetti rappresentati. Nelle sale della Fondazione Ragghianti sono esposti, divisi in sei sezioni, oltre cento pezzi (dipinti, grafiche, sculture, fotografie, riviste d’epoca, documenti) di artisti come Giorgio Morandi, Giacomo Balla, Pablo Picasso, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Ardengo Soffici, Alberto Magri, Lorenzo Viani, Ottone Rosai, Renato Birolli e Alberto Salietti. La mostra è realizzata grazie al costante supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e con il patrocinio della Regione Toscana, della Provincia di Lucca e del Comune di Lucca». Afferma la curatrice Marchioni: “La mostra parte per ricostruire la storia della regressione al linguaggio dell’infanzia nell’arte, che si avvia con Magri e Viani poco dopo la metà del primo decennio del Novecento e si diffonde fra una selezionata cerchia di artisti che ebbero modo di confrontarsi più o meno direttamente con queste espressioni formali, grazie anche al contributo di contemporanee affermazioni critiche pronte ad avallare la validità di questa scelta controcorrente: fatale appare la coincidenza fra la data dell’inaugurazione della mostra di Magri al Lyceum (2 giugno 1914) e quella della pubblicazione su “Lacerba” del saggio di Carrà Vita moderna e arte popolare (1 giugno 1914), in cui l’autore si scaglia contro la “falsissima idea di potersi creare artificialmente una verginità e una sensibilità moderna andando nel lontano centro d’Africa”, inneggiando alle opere eseguite “per semplice diletto da bambini, operai, donne” come l’unico modo per “osservare e assimilare le leggi plastiche manifestate nella loro primordiale purezza”. Ha scritto Angela Madesani su Artribune: “È una mostra assai specifica, strettamente collegata alla missione dell’istituzione toscana. Nel 1969 Ragghianti, infatti, scriveva: «Il problema dell’arte infantile tra il ‘900 e il 1920, tanto fuori d’Italia quanto in Italia, è uno di quelli che esigono una ricerca e una precisazione, tra tante altre da compiere per un periodo che ha acquistato così rapidamente una distanza archeologica». Sono trascorsi cinquant’anni da quelle parole e finalmente si approfondisce, attraverso artisti noti e altri meno noti, una questione interessante dell’arte del nostro Paese, con richiami ad altri mondi, per esempio a quello dell’editoria che sottende a buona parte della mostra”. Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori, elena.fiori@fondazioneragghianti.it Fondazione Ragghianti Via San Micheletto 3, Lucca “L’artista bambino” a cura di Nadia Marchioni info: 0583 – 467 205 Fino al 2 giugno ‘19
mercoledì, 22 maggio 2019
Bolle di sapone
In un dizionario delle locuzioni popolari, una “bolla di sapone” sta a indicare cosa che ha vita breve e trascurabile. Spesso quell’espressione, oltre a sentirla ripetere in giro, la leggiamo nelle cronache giornalistiche sempre intesa come faccenda di poco conto per durata e sostanza. Pure il vocabolario se la sbriga sul veloce: “Una bolla è una sacca di gas o di vapore immersa in un'altra sostanza, generalmente un fluido (liquido o gas)”. Definizione giusta, non c’è che dire, ma quella volatile forma sferica ha suggerito riflessioni serissime agli scienziati. Quei voli dai riflessi mobili e cangianti esprimono una teoria – detta appunto delle bolle di sapone – che si fonda, come si rileva da testi scientifici, su tre fenomeni-principi: “la tensione superficiale; l’azione di un tensioattivo: il sapone; la legge delle superfici minime”. Temi questi che convocano ben tre discipline: fisica, chimica e matematica. Non solo ma hanno dato ispirazione ad artisti dell’altro ieri e di oggi, da Leonardo a Hokusai. Non sorprende, quindi, che un uomo che spazia tra arte e scienza qual è Michele Emmer lo troviamo curatore della mostra Bolle di sapone Forme dell’utopia tra vanitas, arte e scienza insieme con Marco Pierini che dopo i successi ottenuti dirigendo prestigiose istituzioni a Siena e a Modena ora sta dando nuova luce alla perugina Galleria Nazionale dell’Umbria. La mostra raccoglie una sessantina di opere provenienti da tutto il mondo, dal ‘500 ai giorni nostri con Man Ray, Max Beckmann, Giulio Paolini. Così Pierini spiega in catalogo l’origine dell’esposizione: Nasce da un’idea di Michele Emmer e da un suo libro, bello e fortunato, che si aggiudicò nel 2010 il Premio Viareggio: Bolle di sapone. La mostra, nelle prime intenzioni, avrebbe dovuto costituire quasi una messa in scena del volume convocando a raccolta fisicamente le immagini che ne corredano il testo. Su quest’ossatura, però, a mano a mano che procedeva il lavoro organizzativo e in parallelo quello della ricerca –, si sono sorrette varianti, aggiunte, deviazioni che hanno modificato le linee guida e arricchito il catalogo iniziale, già abbondantemente vasto e articolato. L’immersione nell’universo iconografico delle bolle di sapone è risultata infatti densa di sorprese e di continue scoperte, tanto da suscitare nell’équipe coinvolta nel progetto un sincero sentimento di meraviglia di fronte alla constatazione che una mostra tematica sull’argomento non fosse stata ancora allestita.
“Bolle di sapone” presenta inoltre una sezione dedicata a stampe, incisioni, fotografie, locandine, manifesti pubblicitari. Importanti in questo senso sono le affiche provenienti dalla Collezione Salce di Treviso, che illustrano la grande fortuna di questo soggetto a scopi pubblicitari per la vendita di prodotti legati soprattutto alla cura della persona, a partire dal celebre esempio del manifesto del sapone Pears, rielaborato dal dipinto Soap Bubbles, del pittore e illustratore britannico John Everett Millais (1829-1896). Accanto al percorso artistico, è documentato il fondamentale ruolo giocato dalle bolle di sapone nelle ricerche settecentesche sulla rifrazione della luce e sui colori, fino a quelle successive circa le teorie sulle superfici minime o sulle forme di aggregazione organica della materia. Molti gli eventi collaterali: spettacoli e performance sul tema delle bolle di sapone, visite guidate, proiezioni, laboratori didattici per adulti e bambini, conferenze, tutti momenti tesi a illustrare la interdisciplinarità che sta dietro a quel gioco infantile e proprio ai più piccoli è dedicato un delizioso librino (in doppia lingua: italiano e inglese), dovuto a Michele Emmer e Francesca Greco, edito da Aguaplano, intitolato, manco a dirlo, “Bolle Bolle Bolle". Interdisciplinarità fra materie scientifiche ma anche pluralità d’ispirazione, infatti, le bolle di sapone non hanno coinvolto nelle arti solo pittori, incisori, pubblicitari. In musica ricordo Vasco Rossi con la canzone intitolata proprio “Bolle di Sapone”, quelle che Mina vede colorate in blu, senza dimenticare nella classica Georges Bizet con Les Bulles de savon. In teatro, mi piace ricordare le Bolle del Teatro Lunatico e quelle di Michele Cafaggi. “E poi” – si chiede Sergio Caldarella in ‘Filosofia delle bolle di sapone’, nella "Rivista di Scienze e Lettere", Vol. XXVII – “se c’è una filosofia delle finestre (Pessoa), delle candele (Bachelard), delle radure (Heidegger), dei limiti (Wittgenstein) e persino un’ontologia dei buchi, perché non dovrebbe anche esserci una filosofia delle bolle di sapone?". Insomma con quelle sfere volanti, rappresentazioni, sorprese e metafore non finiscono tanto presto. Il catalogo (192 pagine, 34 euro) è stato pubblicato da Silvana Editoriale; oltre alle firme dei due curatori si avvale di un saggio di Carla Scagliosi, di un vasto repertorio iconografico, schede sulle opere esposte e una ricca bibliografia Ancora una cosa. Conoscete ‘D’Artagnan il mago delle bolle’? Se non sapete di lui, è presto detto. Stefano Righi (questo il suo vero nome) è entrato nel Guinness dei Primati due volte. La prima avendo creato a Empoli il 20 febbraio 2018, una bolla esplosiva che misurava 66 centimetri composta con miscela di glicerina, lievito in polvere, gomma di guar e acqua demineralizzata. Non contento due giorni dopo ha creato la catena di sapone più lunga che si sappia con un totale di 40 bolle. Usciti dalle sale della mostra sulle bolle di sapone, la Galleria offre un’altra ghiottoneria. Non perdetevi “Atomi e nuvole” le miniature di Cesare Franchi detto il Pollino. A conclusione di questa nota Cosmotaxi ringrazia Lara Anniboletti che della Galleria Nazionale dell’Umbria cura la promozione e comunicazione. Preziosi, infatti, sono stati i materiali prodotti e i suoi suggerimenti. Galleria Nazionale dell’Umbria Corso Pietro Vannucci 19, Perugia “Bolle di sapone” “Atomi e nuvole” Entrambe fino al 9 giugno ‘19 Informazioni: gnu@sistemamuseo.it T. +39 075 5721009
sabato, 18 maggio 2019
Sodoma
Pubblicato contemporaneamente in 8 lingue – da Feltrinelli In Italia – Sodoma ha richiesto 4 anni di lavoro, sono state intervistate quasi 1500 persone in Vaticano e in 30 paesi. Nelle interviste: 41 cardinali, 52 vescovi e monsignori, 45 nunzi apostolici e ambasciatori, oltre 200 sacerdoti e seminaristi. Tutte le interviste sono state realizzate sul campo, di persona, nessuna per telefono o via mail. L’autore di questa monumentale impresa è Frédéric Martel. Giornalista presso Radio France e Senior Researcher presso la ZHdK University (Zurigo). Per Feltrinelli sono usciti “Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media” (2010), “Global Gay” (2014), “Smart. Inchiesta sulle reti” (2015).
Dalla presentazione editoriale. «La misoginia del clero, la fine delle vocazioni sacerdotali, la cultura del silenzio in caso di abuso sessuale, le dimissioni di papa Benedetto XVI, la guerra contro papa Francesco: lo stesso segreto collega tutte queste zone d’ombra della Chiesa. Questo segreto è stato a lungo indicibile, ma oggi finalmente ha un nome: Sodoma. La città biblica di Sodoma sarebbe stata distrutta da Dio a causa dell’omosessualità dei suoi abitanti. Eppure, il Vaticano ospita una delle più grandi comunità omosessuali al mondo. Una rete smisurata di relazioni creatasi attorno alla vita intima dei sacerdoti, capace di sfruttarne le fragilità più profonde e di influenzare l’esercizio del potere della Chiesa, non solo nei corridoi della curia romana. Per quattro anni Frédéric Martel ha vissuto immerso nelle stanze vaticane e ha condotto indagini sul campo in circa trenta paesi. Ha intervistato dozzine di cardinali e ha incontrato centinaia di vescovi e sacerdoti. Questo libro rivela il volto nascosto della Chiesa: un sistema costruito, dai seminari più piccoli alla curia romana, sulla doppia vita omosessuale e sull’omofobia più radicale. Martel getta luce su una schizofrenia rimasta fino a oggi insondata: più un prelato si mostra omofobo in pubblico, più è probabile che sia omosessuale in privato. La questione gay naturalmente non spiega tutto, ma è una chiave decisiva per comprendere il Vaticano e la sua posizione nella nostra società. Se si ignora questa dimensione relativa all’omosessualità, ci si priva di un elemento essenziale per decifrare gran parte dei fatti che hanno segnato la storia e la politica degli ultimi decenni. “Dietro la rigidità c’è sempre qualcosa di nascosto, in tanti casi una doppia vita.” Nel pronunciare queste parole, papa Francesco ci ha consegnato un segreto che questa inchiesta sconcertante rivela per la prima volta. C’è un segreto in Vaticano che non può essere ignorato. Perché coloro che tacevano ora hanno accettato di parlare? Un’inchiesta capace di riscrivere la storia della Chiesa». In questo video un’intervista con l’autore.
Indagine Doxa sull'ateismo in Italia
L’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) ha commissionato all’Istituto Doxa un’indagine che ha dato interessanti risultati. Prima di esporli, riprendendo un comunicato dell’Uaar, voglio ricordare che a Rimini, l’11 e il 12 maggio, si è tenuto il XII Congresso dell'Uaar che ha eletto nuovo segretario Roberto Grendene. Ecco i risultati del sondaggio Doxa. «L’Italia è divisa quasi perfettamente in tre: cattolici praticanti, cattolici non praticanti, altri. Atei e Agnostici, da soli, fanno quasi metà degli "altri". I credenti sono infatti l’82% (di cui 66,7% cattolici e 15,3% altro) mentre i non credenti sono il 15,3% della popolazione (di cui 9% atei e 6,3% agnostici). Rispetto a 5 anni fa i credenti cattolici sono in diminuzione (-7,7%) mentre crescono gli atei (+3,8%). L’ateo o agnostico tipico è maschio, del nord, giovane (il 25,6% ha tra i 15 e i 34 anni, mentre si registra solo un 10,1% tra gli ultra 55enni), più istruito e benestante della media. È il quadro che emerge dal sondaggio su religiosità e ateismo che l'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar) ha commissionato all'istituto Doxa (a cinque anni di distanza da un’analoga indagine). La rilevazione (condotta su un campione nazionale rappresentativo della popolazione italiana adulta, 15+ anni) si è svolta tra la metà di gennaio e la fine di marzo 2019 e ha sondato anche l’opinione su alcuni temi specificamente legati alla Chiesa cattolica, con un occhio particolare alle fonti di finanziamento. Ne risulta che quasi metà degli italiani (45,6%) non conosce o non ha informazioni corrette circa l’effettivo funzionamento dell’8xmille; la maggioranza non sa che lo Stato finanzia scuole private, costruzione di nuove chiese, cappellani nell’esercito e assistenti religiosi negli ospedali: il 55,9% è poco e per niente d’accordo a finanziare le scuole private; il 51,6% è poco o per niente d’accordo a finanziare nuove chiese; quasi pari i favorevoli e i contrari al finanziamento dei cappellani cattolici nell’esercito e degli assistenti religiosi negli ospedali. Il 54% degli italiani vuole che la Chiesa versi allo Stato le imposte su tutti gli immobili di sua proprietà, a cui va aggiunto il 30,2% che si limiterebbe agli immobili su cui incassa redditi. Solo il 9,4% della popolazione è contrario a ogni tipo di tassazione. Le questioni politiche di governo dovrebbero restare separate dalla religione per il 61,5% della popolazione mentre solo secondo il 28,5% il governo dovrebbe operare tenendo in considerazione le credenze religiose; il 78,4% è molto o abbastanza d’accordo a che il governo operi tenendo in considerazione in egual misura i valori dei credenti e quelli dei non credenti. L’83,4% ritiene che sia molto o abbastanza importante il principio di laicità dello Stato (separazione tra sfera politica e sfera religiosa). Gli ultras clericali che lo vorrebbero abolire sono soltanto il 2%. Il 45% vorrebbe rivedere completamente il Concordato o aggiornarlo in una direzione laica. Il 60,9% vuole l’abolizione o il ridimensionamento dell’obiezione di coscienza all’aborto; il 66,6% vuole mantenere l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole». Per maggiori informazioni: Ingrid Colanicchia, uffstampa@uaar.it - 320.02.23.130
giovedì, 16 maggio 2019
Nativi digitali
La casa editrice il Mulino ha pubblicato: Nativi digitali Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media. Ne è autore Giuseppe Riva. È professore ordinario di Psicologia della comunicazione nell’Università Cattolica di Milano, dove dirige il Laboratorio di interazione comunicativa e nuove tecnologie. È presidente dell’Associazione Internazionale di CiberPsicologia (i-ACToR). Per il Mulino ha pubblicato tra l’altro «I social network» (nuova ed. 2016), «Selfie» (2016) e «Fake news» (2018). Dalla presentazione editoriale «Il libro esplora l’impatto delle tecnologie sulla Generazione Y, ovvero sui giovani che sono nati e cresciuti con esse, sul loro modo di pensare, sentire e relazionarsi. Cosa cambia quando si parla a un amico guardandolo negli occhi o quando si posta un messaggio sulla sua bacheca di Facebook? La virtualità dei nuovi media ci aliena dalla realtà o, al contrario, ci aiuta ad affrontare le sfide della modernità? E le strutture educative in che modo possono formare i nativi digitali»? A Giuseppe Riva ho rivolto alcune domande. Psicologia dei nuovi media definita anche Cyberpsicologia Qual è il suo profilo? Si giova di altre discipline? Questa nuova area della psicologia ha come sfondo teorico la psicologia cognitiva e della comunicazione, la psicologia sociale e l’ergonomia e utilizza concetti e riflessioni che derivano da molte discipline affini: sociologia, informatica, ergonomia, filosofia, antropologia filosofica, linguistica, scienze dell’educazione e scienze della comunicazione. Oggetto principale di questa nuova disciplina è infatti l’analisi dei processi di cambiamento attivati dai nuovi media. In particolare, la psicologia dei nuovi media ha come obiettivo lo studio, la comprensione, la previsione e l’attivazione dei processi di cambiamento che hanno la loro origine principale nell’interazione con i nuovi media comunicativi. “Nativi digitali”. Come nasce questo libro? Oltre ad occuparmi da tempo di nuove tecnologie sono padre di due figlie di 8 e 12 anni che ricadono in pieno nella definizione di “native digitali”: se fosse per loro starebbero sempre utilizzando una tecnologia digitale. Da qui il desiderio di capire meglio i motivi e gli effetti – positivi e negativi - di un uso così massiccio della tecnologia per poterle aiutare e comprendere nella loro scoperta del mondo digitale. Qual è la finalità che si propone questo suo saggio? Il volume è destinato a tutti i lettori che a qualche titolo – studenti, ricercatori o professionisti, genitori e insegnanti – si devono confrontare con il mondo dei nativi digitali e hanno la necessità di comprendere a trecentosessanta gradi l’impatto di queste tecnologie sui processi individuali e sociali. Visto il taglio pratico del volume, ho realizzato anche un sito dedicato – www.natividigitali.com – che raccoglie una serie di strumenti operativi per aiutare genitori e insegnanti nel difficile compito di guidare i propri figli/studenti alla scoperta delle opportunità e dei rischi della tecnologia. Nell’accingersi a scrivere “Nativi digitali” qual è la cosa che ha deciso da farsi assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare? Uno dei rischi dello studio delle tecnologie digitali è quello di cadere nella dicotomia tra “apocalittici” e “integrati” che Umberto Eco aveva raccontato cinquanta anni fa. Per cui ci sono libri che vedono la tecnologia solo come un’opportunità ed altri solo come un problema. Ho cercato di superare questa visione cercando di ascoltare entrambi le voci cercando di usare un approccio oggettivo. Per questo la prima cosa che ho fatto è stato leggere i principali articoli scientifici gli articoli su questo tema pubblicati dai ricercatori di tutto il mondo. “Esistono i nativi digitali?” Sono le prime parole del suo libro. Perché non c’è ancora una risposta univoca sulla collocazione storica della nascita del nativo digitale? Perché le tecnologie sono evolute. In vent’anni siamo passati dall’e-mail alle App, dai forum ai social media. E ogni generazione di giovani ha cercato di sfruttare al meglio le opportunità offerte da diversi strumenti a disposizione. Per questo, non possiamo parlare genericamente di “nativi digitali” ma dobbiamo distinguere tra almeno quattro diverse generazioni ciascuna delle quali ha progressivamente imparato ad utilizzare le diverse interfacce dei nuovi media - interfaccia testuale, interfaccia web, interfaccia web 2.0, interfaccia touch – in maniera via via più efficace. Infatti, le diverse generazioni, oltre differenziarsi tra loro per la disponibilità di una nuova interfaccia e per la creazione di nuove «pratiche» ad essa collegate, hanno capitalizzato le opportunità e gli strumenti di quelle precedenti. All’interno della generazione dei nativi digitali lei distingue 4 fasi evolutive ciascuna delle quali legata al cambiamento dell’interfaccia utilizzata: testuale, web, web 2.0, touch. Può in sintesi indicarne le diverse caratteristiche? La «generazione text» è, in termini cronologici, la prima a usare i nuovi media come strumento avanzato di comunicazione e raccoglie al suo interno i nati a partire dalla metà degli anni Settanta. Grazie all’interfaccia testuale – offerta da strumenti come l’e-mail, le chat, i newsgroup e i messaggi testuali – i nativi digitali di questa generazione sono in grado di comunicare e di creare comunità virtuali svincolate da limiti spazio-temporali. La «generazione web» raccoglie invece al suo interno i nati a partire dalla metà degli anni Ottanta, che sono stati i primi a usare il web come strumento di accesso multimediale all’informazione. Grazie alla capacità dell’interfaccia web di indicizzare e integrare grandi quantità di dati multimediali, i nativi digitali di questa generazione sono in grado di accedere e di sfruttare un’enorme intelligenza collettiva. La «generazione social media» è invece la prima a usare il web 2.0 come strumento espressivo e relazionale e raccoglie al suo interno i nati a partire dalla prima metà degli anni Novanta. Grazie alla capacità dell’interfaccia web 2.0 di facilitare la dimensione espressiva e relazionale all’interno di reti sociali chiuse, i nativi digitali di questa generazione sono in grado controllare in modo nuovo la propria identità sociale e le proprie relazioni. A chiudere, per il momento, l’evoluzione dei nativi digitali è la «generazione touch», che include i nati dal 2007 in poi. A caratterizzare questa generazione è il superamento della barriera linguistica, che ha rappresentato a lungo il principale requisito di base per accedere alle potenzialità dei nuovi media. Grazie alla «manipolazione diretta», resa possibile da smartphone e tablet, sono in grado di interagire con le tecnologie digitali da giovanissimi: prima di iniziare a leggere e in alcuni casi ancora prima di imparare a parlare. Nel capitolo che affronta il tema di come educare il nativo digitale, dopo aver illustrato le linee sulla psicologia dell’educazione secondo Jean Piaget e Lev Vygotskij orientate diversamente su plurali punti, lei fa riferimento al costruttivismo. In che cosa consiste? Il costruttivismo, e in particolare il socio-costruttivismo ritengono che i processi di apprendimento non avvengano solo nelle menti degli studenti ma siano il risultato della loro interazione con il contesto, di cui la tecnologia è parte, e con gli altri attori sociali (docente e compagni). Per questo, il fuoco sui processi della conoscenza individuale e concettuale viene integrato con l’analisi e il supporto delle interazioni sociali generate per produrre collaborativamente artefatti tecnologici di conoscenza condivisi e utili per la comunità̀. In questo processo il docente si comporta da «saggio digitale» svolgendo due funzioni. La prima è quella di moderare il gruppo, consentendo l’espressione della maggior parte dei componenti. La seconda, invece, è quella di favorire il processo riflessivo, attraverso la riformulazione parafrasata degli interventi del gruppo e l’introduzione di elementi divergenti. Nel concludere quest’incontro una domanda che non riguarda direttamente il suo libro, eppure il suo testo mi suggerisce di fare. Diceva John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”. Perché in tanti, perfino non della terza età, arretrano di fronte alle nuove tecnologie? Da dove viene quel panico? Per il nativo digitale, che utilizza fin da bambino la tecnologia, l’utilizzo degli strumenti digitali avviene intuitivamente, senza pensare. Invece, per l’immigrato digitale che alla tecnologia ci è arrivato da adulto, la tecnologia è opaca e richiede sempre un ragionamento, uno sforzo. In pratica, l’utilizzo massiccio della tecnologia e l’acquisizione degli schemi che ci permettono di utilizzarla intuitivamente producono un profondo cambiamento nella mente degli utenti che ha come conseguenza uno squilibrio, una divisione normalmente definita «digital divide». Infatti, quando l’uso della tecnologia diventa una pratica sociale condivisa e intuitiva (non richiede sforzo) non poterlo fare significa sperimentare due barriere: 1. non ne cogliamo il senso: il significato che ha per noi la tecnologia è diverso da quello che ha per il gruppo sociale che la usa intuitivamente; 2. non ne cogliamo la trasparenza: la tecnologia non è per noi trasparente, ma opaca; è un problema e non un’opportunità. La maggior parte dei problemi tra genitori e figli nasce proprio qui: nell’impossibilità di capire immediatamente il senso di quello che fa il proprio figlio. Per questo, in molti casi, quando non capiamo quello che i nostri figli fanno con la tecnologia, il modo migliore per capirlo è chiederglielo. ………………………… Giuseppe Riva Nativi digitali Pagine 224, Euro14.00 e-book Euro 9,99 Formato: ePub, Kindle Il Mulino
Neema Fest
Il razzismo ha molte forme e tra queste una che – specialmente in Italia – si manifesta con perniciosa assiduità è l’afrofobia. L’ha studiata e la spiega benissimo il sociologo Mauro Valeri in un'intervista rilasciata giorni fa a questo sito. I proverbi, spesso, più che saggezza esprimono basse e pigre convinzioni, come ad esempio “Ogni mondo è paese”. Mica vero. Perfino in una stessa nazione basta muovere un passo per trovarsi di fronte a tradizioni e forme di relazioni diverse, figuriamoci fra un continente e un altro. Perciò dire “gli africani” è una sciocchezza. C’è un sito che ben profila parte di questo problema. Qualche cifra sull’Africa. È formata da più di 50 paesi e da non meno di 3.000 gruppi etnici; ci vivono circa 1 miliardo di persone e i demografi pensano che entro il 2050 diventeranno 2 miliardi e 300.000; è il continente con più giovani al mondo; l’aspettativa media di vita è di 58 anni ; la povertà raggiunge livelli intollerabili ma il sottosuolo ha grandi ricchezze sfruttate da multinazionali d’ogni parte del nostro pianeta anche perché molti governi locali sono corrotti e per profitto di pochi non s’oppongono a chi sfrutta; ad eccezione di Etiopia e Liberia, tutta l'Africa è stata colonizzata da paesi non africani: Regno Unito, Francia, Belgio, Spagna, Italia, Germania e Portogallo; dopo la seconda guerra mondiale molti paesi africani hanno riconquistato la loro indipendenza, ma i confini sono stati decisi dalle potenze coloniali ignorando differenze culturali fra i vari popoli e questo ha determinato guerre che durano tuttora e causano emigrazioni con i problemi che comportano, primo fra tutti il conflitto fra la popolazione europea e i nuovi arrivati. Quei problemi s’inaspriscono a causa da una parte di ideologismi ispirati a pensieri e condizioni del passato ben diversi da oggi, e dall’altra da feroci egoismi e da paure incoraggiate a maligna arte da chi vuole ricavare vantaggi politici ingigantendo i disagi.
Ecco perché un’iniziativa qual è Neema Fest assume una grandissima importanza perché porta alla ribalta la cultura dell’Africa nei suoi plurali aspetti: Arte, Moda, Editoria, Artigianato, Cucina. Abbattendo in tal modo molti luoghi comuni che impediscono comprensione e integrazione reciproche. Estratto dal comunicato stampa. «Un’occasione unica in Italia che vede protagonista l’eccellenza africana nelle città del melting-pot, e che negli ultimi due anni ha portato migliaia di interessati da ogni parte dello stivale, per scoprire da vicino le tante anime dell’Africa, protagonista nel processo di integrazione di popoli e culture, in un clima cosmopolita introvabile altrove in Italia. Una rinascita nel segno di NEEMA, cioè in italiano “prosperità”. Stiamo assistendo ad una vera e propria rinascita artistico-culturale dell’Africa a livello internazionale – ha dichiarato il direttore artistico Serge Itela – un processo di riappropriazione della propria storia e delle proprie radici che, unito a studio, tecnica e contaminazione con altre realtà, sta portando a creazioni d’avanguardia. Così nasce “Neema”, che in italiano significa prosperità, una piattaforma socio-culturale che intende diffondere in Italia il meglio della cultura africana contemporanea, elemento centrale nel processo di integrazione NEEMA porterà all’attenzione del pubblico la cultura africana contemporanea nella sua quasi totalità; all'interno del festival, nell'arco delle giornate verrà dato spazio ad esposizioni fotografiche, alla pittura, alla moda, alla danza, alla cucina, all'editoria ed al tema dell'integrazione: tanti diversi tasselli facenti parte di un unicum. Ancora Serge Itela: Tutto questo per arrivare al nocciolo-della-questione: la tematica dell'integrazione; proprio su questo, assieme ad alcune associazioni di afro-italiane/i attive sul territorio nazionale, verrà sviluppato un dibattito pubblico che coinvolgerà esponenti del mondo della cultura, della politica, delle istituzioni, della società civile e dello spettacolo». Ufficio Stamp: H F 4, Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it ; 340.96 900 12 Neema Fest Il 17 maggio allo Spazio 900 di Roma, Piazza Guglielmo Marconi 26b Il 18 maggio ai Magazzini Generali di Milano Via Pietrasanta 16 Info: (+39) 348 - 35 57 332
domenica, 12 maggio 2019
Afrofobia (1)
Quando uscì il libro “Gli africani siamo noi” del genetista Guido Barbujani, lo invitai su questo sito e fra le cose allora da lui dette cito le seguenti: “Tutti i fossili umani più antichi, fra 6 e 2 milioni di anni fa, vengono dall’Africa, e quindi l’umanità in senso lato viene sicuramente di là. Ma c’è di più. Esseri umani come noi, con la nostra fronte verticale e un Dna simile al nostro, compaiono in Africa 200mila anni fa, e a partire da 100mila anni fa si diffondono su tutto il pianeta, rimpiazzando le forme umane precedenti. Dunque, se vogliamo rintracciare i nostri antenati di 100mila anni fa, non è in Europa, ma in Africa che dobbiamo cercarli”. A causa di guerre, carestie, e altre disgrazie, dall’Africa in molti approdano (quando non muoiono in mare durante traversate da incubo) sulle sponde europee e in tanti in Italia per effetto della vicinanza geografica dai punti d’imbarco. Come vengono accolti? Lo sapete dalle cronache. Spessissimo con gesti (talvolta sanguinosi) dettati da afrofobia. Questa forma di razzismo ha indotto il Parlamento europeo ad adottare un atto su cui si sono sprecati allarmi, e spese tante bufale (o fake news, se preferite) smentite punto per punto QUI. La casa editrice Fefè ha pubblicato un saggio, tanto intenso quanto necessario, proprio intitolato Afrofobia Razzismi vecchi e nuovi. L’autore, meritevole di ragionati elogi, è Mauro Valeri. Dottore in sociologia e psicoterapeuta, ha diretto l’Osservatorio Nazionale sulla Xenofobia dal 1992 al 1996, e dal 2005 è responsabile dell’Osservatorio su Razzismo e Antirazzismo nel calcio. Ha insegnato Sociologia delle Relazioni Etniche alla Sapienza Università di Roma. Ha pubblicato diversi saggi sul tema del razzismo, tra cui: “La razza in campo. Per una storia della rivoluzione nera nel calcio” (Edup, 2005); “Black Italians. Italiani neri in maglia azzurra” (Palombi, 2007); “Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico” (Palombi, 2008); “Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano” (Donzelli, 2010); “Stare ai Giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni” (Odradek, 2012); “Mario Balotelli. Vincitore nel pallone” (Fazi, 2014); con Mohamed Abdalla Tailmoun e Isaac Tesfaye, “Campioni d’Italia? Sport e seconde generazioni” (Sinnos, 2014); “Il generale nero. Domenico Mondelli: bersagliere, aviatore e ardito” (Odradek, 2015); “A testa alta verso l’Oriente eterno. Liberi muratori nella Resistenza romana” (Mimesis, 2017). Dalla presentazione editoriale «Nei documenti ufficiali Onu e Ue si fa sempre più uso del termine “Afrofobia” per indicare “paura eccessiva” e avversione nei confronti di africani e afrodiscendenti. In realtà il razzismo moderno nei confronti dei neri ha origine molto antica e mutazioni recentissime. Il libro ricostruisce, attraverso un’analisi storica e sociologica, le metamorfosi del razzismo da quello schiavista a quello coloniale, da quello di Stato a quello democratico, da quello ribaltato a quello di guerra. Con particolare attenzione al razzismo italiano dal 1860 ad oggi». Prima d’incontrare l’autore di “Afrofobia”, v’invito all’ascolto di un brano d’un compositore e cantante che appartiene all’élite del nostro scenario musicale: Flavio Giurato. Un suo album è presente nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo Rolling Stone. Il brano intitolato “Le promesse del mondo” fa parte della sua più recente produzione, e con l’afrofobia, i viaggi disperati, il cimitero Mediterraneo, ha alquanto a che fare. Ecco il video. Segue ora un incontro con Mauro Valeri.
Afrofobia (2)
A Mauro Valeri ho rivolto alcune domande.
Quando nascono le prime teorizzazioni del razzismo? Il termine razzismo, così come lo intendiamo noi, è un termine che è entrato nei dizionari solo all’inizio del Novecento. Tuttavia, già intorno alla metà dell’Ottocento si affermano le cosiddette “teorie della razza”, che, dichiarando di basarsi sulla scienza, poggiavano su quattro pilastri: 1) l’umanità è divisibile in diverse razze; 2) le diverse razze possono essere disposte su una scala gerarchica che pone al gradino più alto la razza ritenuta superiore e ai gradini più basso la razza ritenuta inferiore; 3) la posizione che una razza ha nella gerarchia razziale è immodificabile; 4) ogni razza deve essere mantenuta pura, quindi ogni mescolamento, ogni meticciato è una degenerazione. Questo razzismo ottocentesco trova ancora oggi diversi adepti, nonostante la scienza abbia dimostrato che le razze, così come intese nell’Ottocento, non esistono, e che la stessa definizione di superiorità ha perso significato. Tenendo conto di questo, nel libro provo anche a evidenziare che non sempre comportamenti razzisti hanno bisogno di teorie razziste. Quando nel Cinquecento i neri africani iniziano ad essere vittime della tratta e della schiavitù nelle Americhe, non c’erano teorie scientifiche a giustificare tale situazione. Bastava accusarli di essere i discendenti di Cam, maledetto da Dio. Quindi, il razzismo non è solo una dottrina ma è anche una pratica. Qual è la sostanza psicosociale dell’Afrofobia? Io penso che ogni forma di razzismo abbia alla sua origine un pregiudizio di tipo psicologico. Per questo motivo penso che sia più corretto parlare di razzismi che non di un generico razzismo. L’afrofobia, ad esempio, poggia su una visione della persona con la pelle nera essenzialmente di tipo biologico sessuale. Come diceva Fanon, nell’inconscio del bianco, il nero assume una sua specificità: rappresenta il pericolo biologico, laddove, ad esempio, l’ebreo rappresenta il pericolo intellettuale. Ovviamente, come insegna la psicoanalisi, ogni paura si confonde spesso con il desiderio. Proprio per negare questo desiderio, si accentua la paura, che obbliga il nero a essere quello che il bianco gli impone di essere, data l’asimmetria di potere tra i due. Tant’è che possiamo anche dichiarare che il nero è un’invenzione del bianco. Diceva ancora Fanon che il nero, per il bianco, deve “rappresentare sentimenti inferiori, le cattive inclinazioni, il lato oscuro dell’anima”, deve essere il capro espiatorio e l’oggetto di sfogo degli impulsi aggressivi della società bianca, anche perché in questo modo può imporre un’immagine fortemente positiva del bianco. Tutto ciò obbliga il nero a fare una scelta: o si adegua all’immagine imposta dal bianco; o si ribella e rivendica un’identità nera altra; oppure rifiuta il confronto basato sul binomio bianco/nero. La terza ipotesi è la più sana, ma, come sempre, la più difficile. Quando ti sei accinto a questo lavoro quale cosa hai deciso di fare assolutamente per prima e quale di evitare assolutamente per prima? Il libro nasce da un corso che ho tenuto nel 2018 su questi temi. Per il modo che ho di intendere io le lezioni, evito sempre di presentare le mie riflessioni come verità assolute, ma invito sempre al confronto. Per tornare alla domanda: quello che ho deciso assolutamente di evitare è stato di dare per scontate le definizioni, in genere molto retoriche, di cosa siano il razzismo e l’antirazzismo. Quello che ho deciso di fare per primo, quindi, è stato di sforzarmi a comprendere realmente cosa ha in testa la gente su questi temi. Io sono convinto che negli ultimi sei decenni, il razzismo è riuscito a sopravvivere grazie a metamorfosi che in alcuni casi sono avvenute anche attraverso una strumentalizzazione delle posizioni antirazziste, come nel caso del razzismo differenzialista. Al contrario, l’antirazzismo è rimasto piuttosto fermo, spesso incapace a comprendere le metamorfosi del razzismo. Nel libro, ad esempio, cerco di spiegare come oggi molte teorie razziste si basino sulla teoria complottista della “grande sostituzione”, di cui molti hanno compreso la gravità e la diffusione soltanto dopo la strage compiuta in Nuova Zelanda. Un discorso analogo vale per il suprematismo bianco, ma anche per l’afrofobia, che in Italia è un termine quasi sconosciuto, nonostante venga utilizzato in documenti dell’Onu e dell’Unione Europea e nei dibattiti europei. Molti sostengono che l’Italia non è un paese razzista. Ma è proprio così? Per rispondere bisognerebbe avere chiaro cosa è il razzismo. Se intendiamo per razzismo un’ideologia, una dottrina, è indubbio che in Italia vi siano gruppi, per il momento minoritari ma anche piuttosto violenti, che rivendicano apertamente di essere razzisti. Poi c’è un razzismo molto pratico. Quando una persona colpisce un nero e dichiara di averlo colpito soltanto perché è un nero, come accade sempre più spesso in Italia, è razzismo? Io penso proprio di sì. Da diversi anni, l’Europa e le scienze sociali hanno imposto un cambiamento radicale nell’esaminare i fenomeni razzisti. Prima si definiva un gesto razzista prevalentemente se a metterlo in atto era una persona che aveva un’ideologia razzista. Oggi invece si tende ad analizzare il fatto di per sé, anche a prescindere dall’ideologia politica di chi compie quel gesto. È una valutazione assai più difficile, ma ritengo indispensabile. Spesso queste analisi sono facilitate da una riflessione sulla memoria del proprio passato. Ma l’Italia è un paese che non ha mai voluto affrontare realmente il tema del razzismo, nonostante sia stato uno dei paesi europei che ha adottato una legislazione razziale. In un certo senso questo ragionamento ha ricadute assai pesanti anche sull’antirazzismo, che non dovrebbe essere limitato a combattere chi propone un’ideologia razzista, ma andare alle radici del fenomeno. Perché in Italia in nessun campionato è mai stata sospesa una partita in seguito a manifestazioni razziste da parte del pubblico? Quello che manca in Italia è una vera cultura antirazzista. Si tende a sottovalutare il problema del razzismo, ritenendo che riguardi solo le vittime, solo chi lo subisce, mentre in realtà, come la storia ci ha insegnato, riguarda tutti. L’errore più comune che si commette quando si affronta il tema del razzismo nel calcio è quello di sottovalutarlo, di ritenerlo quasi naturale, una goliardata, come si dice oggi. In ciò c’è anche la responsabilità dei sociologi che hanno interpretato lo stadio come una sorta di sfogatoio, con l’illusione che chi si comportava da razzista allo stadio, lo era solo in quei 90 minuti, e poi per il resto della settimana non lo era. Purtroppo, i fatti di cronaca, ci hanno insegnato e ci insegnano che invece molto spesso chi ha comportamenti razzisti allo stadio li ha anche fuori dallo stadio. Io penso che, laddove si verifichi una situazione particolarmente grave, sia giusto sospendere una partita. Ritengo però che per combattere il razzismo negli stadi, e non solo, sia importante, accanto a misure repressive, adottare misure culturali. Ed è questo il punto debole dell’Italia. Da anni chiedo che nelle scuole calcio venga insegnato ai ragazzi e alle ragazze non solo il dribbling ma anche cosa voglia dire “discriminazione razziale”, vietata dai codice sportivo calcistico. Ma una proposta simile, che in altri paesi è applicata senza problema, da noi viene interpretata come una proposta di una parte politica! ………………………….. Mauro Valeri Afrofobia Pagine 220, Euro 13.00 Editore Fefé
venerdì, 10 maggio 2019
Nella casa dell'interprete
Come sanno quei generosi che leggono queste mie pagine web, Nybramedia si occupa di narrativa in rari casi. Le eccezioni riguardano prevalentemente le occasioni in cui il testo sia lo spunto per illustrare argomenti laterali a quel libro. È il caso di oggi. L'editrice Calabuig manda in libreria Nella casa dell’interprete di Ngugi Wa Thiong’o. L’autore (1938) è la principale figura letteraria dell’Africa orientale, considerato fra i massimi esponenti della letteratura africana. Dopo aver studiato a Kampala (Uganda) e a Leeds in Inghilterra, pubblica il suo primo romanzo Weep Not, Child (Se ne andranno le nuvole devastatrici, Jaca Book), ma è con A Grain of Wheat (Un chicco di grano) che guadagna fama internazionale. Dopo avere insegnato per un decennio all’Università di Nairobi, nel ’77 pubblica Petals of Blood (Petali di sangue, Jaca Book), romanzo in cui condensa una dura critica alla società keniota postcoloniale. Più volte candidato al Nobel per la letteratura e vincitore di numerosi premi internazionali, vive e insegna negli Stati Uniti. QUI un’intervista. Il libro si avvale della traduzione di Maria Teresa Carbone. Ha lavorato alle pagine culturali del “Manifesto” e in precedenza a diverse testate italiane e straniere. Ha pubblicato per Dedalo I luoghi della memoria, 1986; per Mondadori 99 leggende urbane, 1990; per Emons 111 storie di cani. Fra le traduzioni, “Lo schermo velato di Vito Russo” (Costa & Nolan, 1983, Baldini Castoldi 1999), “Breyten Breytenbach, Le confessioni di un terrorista albino” (Costa & Nolan 1987, Alet 2010), “La follia di Almayer” di Joseph Conrad (Garzanti), “Alphonse” di Akli Tadjer (Giunti). Con Nanni Balestrini ha curato il programma tv “Millepiani” (Cult) e il sito “Zoooom. Letture e visioni in rete”. È figura centrale della redazione di Alfabeta2. A lei, in foto, ho rivolto alcune domande. Qual è oggi, in Italia, la situazione della traduzione delle letterature africane? Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non sono pochi gli autori africani tradotti in Italia, dai classici – come Wole Soyinka o Chinua Achebe o in ambito francofono Cheikh Hamidou Kane – ai contemporanei, da Chimamanda Adichie a Chris Abani, a Alain Mabanckou. Alle case editrici che da sempre hanno dedicato attenzione alle opere provenienti dall'Africa (prime fra tutte Jaca Book e le Edizioni Lavoro), se ne sono affiancate negli ultimi anni anche altre, un esempio fra tutte 66thand2nd, il cui catalogo africano è ormai molto ricco. E vorrei notare incidentalmente che non si tratta (solo) di forme nuove di esotismo: l'editoria italiana si è sempre dimostrata piuttosto curiosa verso l'Africa (e in generale verso l'estero). Da questo punto di vista il caso di “Things Fall Apart” di Chinua Achebe, uno dei grandi romanzi del XX secolo, è paradigmatico: pubblicato in Gran Bretagna nel 1958, è uscito per la prima volta in Italia nel 1962, per Mondadori, con il titolo “Le locuste bianche” (la traduzione era di Giuliana De Carlo), poi come “Il crollo”, con una nuova versione di Silvana Antomoli Cameroni, per Jaca Book, E/O e di nuovo Mondadori tra gli anni Novanta e i Duemila, e infine, terza traduzione, stavolta di Alberto Pezzotta, titolo “Le cose crollano”, nel 2016 per La Nave di Teseo. Insomma, almeno in questo caso, non si può dire che gli editori siano stati distratti. Sui lettori, sempre in questo caso, purtroppo non giurerei. Perché Ngugi Wa Thiong’o è giudicato quale uno dei massimi scrittori di lingue dell’Africa? Beh, Ngugi – e non solo perché il suo nome ricorre spesso fra i “nobellizzabili” – è un grande autore tout court ed è riduttivo pensare a lui solo per la sua scelta di scrivere almeno una parte dei suoi testi nella sua lingua di origine, il gikuyu. Si tratta di una scelta politica importante, perché ribadisce all'esterno, ma direi anche di più all'interno dell'Africa, la necessità di “decolonizzare la mente”, per citare una sua celebre raccolta di saggi. Ma romanzi come “A Grain of Wheat” (“Un chicco di grano”) o i suoi recenti memoir (“Dreams in a time of war” e “In the House of the Interpreter”, rispettivamente “Sogni in tempo di guerra” e “Nella casa dell'interprete”) testimoniano la consapevolezza e l'agio con cui usa la lingua inglese. A tuo avviso, i modelli di scrittura (anglofoni, francofoni, lusitofoni) che hanno influenzato parte degli scrittori africani hanno più aiutato o più soffocato l’espressività letteraria nei vari paesi, spesso di sola cultura orale, dove hanno agito? Proprio all'interno di “Nella casa dell'interprete” Ngugi risponde a questa tua domanda, ricordando da un lato l'importanza che ha avuto il “canone britannico”, e in particolare Shakespeare, sulla sua formazione, dall'altro mettendo sempre in relazione queste letture con la sua cultura di provenienza. Gli scrittori africani, quelli perlomeno che vale la pena leggere, hanno fatto tesoro del patrimonio di oralità che era alle loro spalle, ma non hanno chiuso gli occhi di fronte alla lezione dei grandi autori, quale che fosse la loro provenienza. E questo, mi pare, vale o dovrebbe valere per qualsiasi autore o aspirante tale. ………………………………………………………………………… Dalla presentazione editoriale di “Nella casa dell’interprete". «Com'è potuto un intero villaggio, con la sua gente, la sua storia, tutto, scomparire così?» Se lo chiede il giovane Ngugi wa Thiong'o, di ritorno nell'aprile 1955 dal college britannico vicino Nairobi che frequenta, quando scopre che il suo paese natale è sparito, e la sua casa di famiglia rasa al suolo. Lo scrittore rievoca con commozione le esperienze che lo trasformarono in un autore, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, e, in quanto dissidente politico, in un esempio morale per tutti. “Nella casa dell'interprete” è il feroce racconto della storia di un uomo e di una nazione». Ngugi Wa Thiong'o Nella casa dell’interprete Traduzione di Maria Teresa Carbone 240 pagine, 20.00 Euro Calabuig
Ricordo di un rogo
Spero che oggi alcuni redattori della carta stampata delle radio, delle tv, del web, ricordino che il 10 maggio 1933 (Hitler era al potere dal 30 gennaio di quell’anno) ci fu a Berlino la più grande offensiva contro i libri giudicati dai nazisti nemici della loro ideologia. Non è il solo incendio di libri nella storia, dalla distruzione delle biblioteche di Tebe del 1358 a.C. all’incendio delle biblioteche irachene del 2003, sinistri lampi hanno illuminato piazze urlanti. Anche nella letteratura di ieri e di oggi troviamo eco di stragi di carta stampata. Si pensi a Cervantes, che nel Don Chisciotte mostra la selezione dei libri della cavalleria e di seguito il rogo degli stessi; oppure a Ray Bradbury, che in Fahrenheit 451 descrive una società in cui i vigili del fuoco hanno la missione di scovare e bruciare i libri. Quel rogo del maggio 1933 e quella cultura data alle fiamme è la stessa che oggi viene attaccata da fondamentalismi religiosi e politici. Arrivando fino alla gag di esorcisti (talvolta farlocchi come giorni fa a Vergato) che scacciano un presunto diavolo da una statua. In Germania roghi vennero organizzati, in più città, il più grande ci fu a Berlino proprio il 10 maggio dove furono dati al fuoco circa 25.000 volumi. Alcuni nomi di autori dei quali furono arse le loro opere: Albert Einstein, Sigmund Freud, Hannah Arendt, Thomas Mann, Bertolt Brecht, Max Weber, Karl Marx, Joseph Roth, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Ludwig Wittgenstein, Herbert Marcuse, Edith Stein, Max Weber, Erich Fromm, Walter Gropius, Fritz Lang, Franz Murnau, Wassili Kandinsky, Paul Klee, Piet Mondrian…l’elenco, però, non finisce qui. “A colpire” – scrive Mirco Dondi – “è la partecipazione della popolazione a queste manifestazioni, organizzate con precisi rituali come nella piazza del Teatro dell’Opera di Berlino, il rogo notturno più noto, trasmesso anche dalla radio, che diventa la spinta per altri falò nelle principali città tedesche, come nelle minori, sin oltre la metà del mese di giugno. Sono manifestazioni che mobilitano i militanti nazisti alle quali dà corpo il diffuso quotidiano del partito “Volkischer Beobachter”. Spesso in prima linea nei roghi – come a Berlino – ci sono gli studenti davanti all’entusiasta ministro della propaganda Paul Josef Goebbels. È una violenza che crea consenso e consenso attraverso il terrore”. Ecco la testimonianza dello scrittore Erich Kaestner che quella sera vide bruciare copie del suo “Emil” mentre nella piazza berlinese risuonavano parole d’odio pronunciate da Goebbels. «Vidi volare i nostri libri fra le fiamme ardenti, e ascoltai quelle tirate viscide del piccolo mentitore scaltro. Sulla città incombeva un tempo da sepoltura. La testa di un busto di Magnus Hirschfeld fatta a pezzi posta su un'alta stanga oscillava da un lato all'altro. E in Italia? Tutto bene? Mica tanto. Il fascismo attuò una severa censura e se alcuni titoli sfuggirono all’ostracismo si deve all’ignoranza dei censori decisamente meno colti e, quindi, meno occhiuti dei loro colleghi nazisti. Inoltre, va ricordato che la polizia fascista collaborò con i tedeschi in più rastrellamenti di biblioteche e pinacoteche. Lucien Polastron, autore di “Libri al rogo”, a una domanda di Fabio Gambaro rispose: «C'è un episodio noto. A Roma, due giorni prima della famosa retata del 16 ottobre 1943, i nazisti entrarono nella sinagoga del ghetto e portarono via due vagoni pieni di volumi rari. Il poeta Heinrich Heine - in una pièce dedicata ad Almanzor, colui che nel 980 a Cordoba fece bruciare la biblioteca dei califfi - ha scritto che, quando gli uomini cominciano a bruciare i libri, prima o poi finiscono per bruciare gli uomini. Mai profezia fu così tristemente vera».
giovedì, 9 maggio 2019
Mozziconi
La casa editrice Quodlibet ha ristampato un piccolo, prezioso testo di Luigi Malerba intitolato Mozziconi. Malerba (pseudonimo di Luigi Bonardi; nato a Pietramogolana, frazione di Berceto in provincia di Parma l’11 novembre 1927 – morto a Roma l’8 maggio 2008),) è uno dei migliori e più apprezzati autori italiani del secondo Novecento. Ha scritto libri memorabili che hanno lasciato il segno in chi li ha letti, influenzando la parte migliore della letteratura italiana contemporanea. Tra i tanti: Il serpente (1966), Salto mortale (1968), Il protagonista (1973), Le rose imperiali (1974), Dopo il pescecane (1979), Il pianeta azzurro (1986), Testa d’argento (1988), Fantasmi romani (2006). Ha lavorato per il cinema e per diversi giornali. Nelle edizioni Quodlibet: Le galline pensierose (2014), Consigli inutili (2014), Il pataffio (2015), Storiette e Storiette tascabili (2016), Strategie del comico (2018), Mozziconi (2019).
Conobbi Malerba molti anni fa, quando generosamente tentò di pubblicare il mio libro “Il resto è silenzio” nella nascente (e di lì a poco morente) Cooperativa Scrittori. Chiusa l’avventura della Cooperativa, il libro trovò un altro editore e io avevo trovato un personaggio straordinario: Luigi Malerba, Gigi per gli amici. Qualche tempo dopo, negli anni ’70, se non ricordo male, fui regista dell’adattamento radiofonico delle sue “Galline pensierose” per Radiorai. Gli incontri con lui nella sua casa romana in Via Tormillina, furono sempre contrassegnati da una quieta ma bollente allegria per le storie che raccontava, per sottolineare quanto era stato fedele al ruolo di scrittore avendo sposato una donna che faceva di cognome Lapenna. Ovvero Anna, donna di grande intelligenza e stile. Ora è ristampato “Mozziconi” con una bandella firmata E.C. che credo stiano per Ermanno Cavazzoni. Mozziconi è un barbone che ha per cognome Mozziconi, ma che non ha un nome. Si chiama Mozziconi. Mozziconi e basta. La cosa molto l’imbarazza e lo rende senza amici con cui ridere o litigare. Abita in una casetta abusiva appena fuori Roma vicino all’Acquedotto Felice, luogo che poi tanto felice non è, tanto che Mozziconi butta la casa pezzo per pezzo fuori della finestra e alla fine butta anche la finestra fuori della finestra e se ne va a vivere sotto i ponti lungo il Tevere. Parla con pochissimi, talvolta viene deriso e lui insulta brevemente pappagalli e pesci parlanti, legge fogli di giornali che i romani “sporcacchioni” gettano dalle spallette dei ponti insieme con barattoli, cicche, stracci, chiodi, piatti sbeccati, lavandini vecchi e altra roba che Mozziconi studiosamente converte in oggetti utili alla sua vita randagia. Guarda la città dal basso e la città lo guarda dall’alto in basso mentre scrive massime che imbottiglia e le tuffa nel Tevere. Quando si ammala Mozziconi fa la sottrazione alla temperatura e così guarisce e inventa proverbi. Mozziconi sa di vivere in una città di ministri “ruboni e peculoni” e scrive una parola, la costruisce lettera per lettera con rami di ciliegio marino in un modo da far invidia ad un artista invitato alla Biennale. La parola sarà ammonimento e vendetta, perfino i turisti vengono a Roma per vedere quelle cinque lettere. Qual è la parola? Comprate il libro e lo saprete. Dalla presentazione editoriale. «Mozziconi è uno straccione che vive sotto i ponti del Tevere, una specie di filosofo anarchista, che pensa e mette i pensieri in bottiglia e li affida alle acque del Tevere; un poveraccio, d’animo aristocratico, che non fa lega con gli altri barboni, ignoranti e di scarso pensiero, che neppure leggono i giornali vecchi trovati in mezzo al pattume, come fa lui. Mozziconi è in fondo una specie di filosofo cinico, come l’antico Diogene, che viveva in una botte ad Atene facendo a meno di tutto, a cui perfino Alessandro Magno portava rispetto; al giorno d’oggi la filosofia cinica non è più di moda, solo Malerba le ridà dignità, mettendo in bocca a Mozziconi discorsi che somigliano a profonde verità o a stupidaggini, difficile dire cosa prevale, sempre però con la leggera comicità e divertimento, come è nel suo stile migliore. La prima e unica edizione è stata Einaudi 1975. E.C.» Luigi Malerba Mozziconi Pagine 114, Euro 13.00 Quodlibet
martedì, 7 maggio 2019
L'ombelico del mondo (1)
Della nuova casa editrice Asterione Cosmotaxi ne ha salutato QUI mesi fa l’apertura che è stata felicemente seguita da lucenti pubblicazioni. Ho letto, ad esempio, Di male in peggio di Vittorio Orsenigo, scrittore che ha la duplice virtù d’essere potente e leggero a un tempo; scoperto da Elio Vittorini, ha ricevuto elogi da Salvatore Quasimodo a Giuseppe Pontiggia, da Maurizio Cucchi a Daniela Marcheschi. Ora, firmato da Roberto Barbolini – per visitare il suo sito web: CLIC! – è nelle librerie, e a casa mia, L’ombelico del mondo Viaggio sentimentale intorno alla Città della Potta, un omaggio ferocemente amoroso alla città di Modena. Ha scritto Italo Calvino: "D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Modena può dare molte risposte a più domande come ci dicono le pagine di Barbolini che guida il lettore in un godibilissimo viaggio attraverso personaggi, tic e tabù. Sandrone, la maschera tradizionale della città, sembra spiare zompettando in una festosa pantomima, i tanti che s’affacciano sul modenese ombelico, convocati da Barbolini per farne teatro del mondo. Il libro mi ha anche fatto ricordare i molti che ho conosciuto a Modena o a Modena riconducibili per varie ragioni. L’artista Giuliano Della Casa: abbiamo sempre parlato pochissimo di arte e molto di vini e pietanze; Gian Pio Torricelli cui ho dedicato un Nadir su Nybramedia; la scrittrice Cristiana Minelli autrice di splendidi racconti, Adriano Spatola con il quale ho condiviso avventure a radiorai; il poeta Corrado Costa, amico e prefatore di un mio libro; l’impareggiabile artista del gusto Masssimo Bottura che regna alla “Francescana” dove brillano 3 stelle Michelin; Franco Guerzoni conosciuto alla sua personale “In forma di libro”; i fratelli Cecilia e Matteo di quel luogo di delizie che è l’Hosteria Giusti, chi sta a Modena o vi passa e la trascura commette un reato; l’indimenticabile Massimo Riva frontman della Steve Rogers Band e chitarrista di Vasco, mai gli perdonerò d’essersene andato vent’anni fa. A Roberto Barbolini - qui in una foto scattata da Guido Conti - ho rivolto alcune domande. “L’ombelico del mondo”. Perché quel titolo in un libro su Modena? Sarà un retaggio dell’antico ducato estense, di cui Modena fu capitale dal 1598 all’Unità d’Italia, ma perfino il modenese più cosmopolita considera la propria città come l’ombelico del mondo, e ne vanta indefessamente i primati. Lo faccio anche io, con gli estranei, salvo rovesciare la frittata e denigrare Modena davanti a quei miei concittadini che, con gli occhi foderati di prosciutto Dop, si ostinano a non vederne anche gli inevitabili difetti. D’accordo, sono un bastian contrario. Ma solo per non lasciarmi contagiare dall'euforia così tipica del luogo, che ha come paradossale contraltare quel particolare impasto di spleen, accidia di provincia e acidità di stomaco per overdose di cibo e sentimenti, che va sotto il nome di magone. Quando ti sei accinto a questo lavoro qual è stata la cosa che hai deciso di fare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare? “L’ombelico del mondo” mi si è posto innanzitutto come una sfida contro un certo stereotipo della provincia. Perché - mi sono chiesto - un libro su Modena viene percepito quasi istintivamente come un fatto locale, peggio ancora localistico, quando invece se scrivi di Trieste, poniamo, il lettore pensa subito al fascino della ‘Finis Austriae’ e si sente un cittadino cosmopolita della perduta Mitteleuropa? La provincia e la moda, osservava il grande Cesare Garboli, sono in fondo la stessa cosa. In questo senso, città come Roma, Milano o Napoli possono manifestare aspetti non meno provinciali di Modena. È il provincialismo di chi crede di essersi scrollato di dosso il “mondo piccolo” solo perché si aggiorna secondo l’ultimo grido delle mode culturali. Scegliendo di parlare della provincia ho perciò scelto - o mi sono illuso - di evitare assolutamente il provincialismo. Modena in 6 parole, tante quante sono le lettere che compongono il suo nome… Mortifera: secondo etimologia: “Mutna” in etrusco significava tumulo o tomba. Ospitale: lo è davvero, ogni tanto anche gli stereotipi sono fonte di verità. Demoniaca: gratta la superficie e trovi una città infernale. Io e il mio amico Claudio Vergnani, che scrive di vampiri, ne siamo convintissimi. Esorcistica: dal patrono San Geminiano a padre Gabriele Amorth, principe degli esorcisti contemporanei, Modena è anche patria di accreditati scacciadiavoli. Naif (per i puristi: naïve): sì, lo è. Ma forse è proprio questa la sua maschera più aristocratica. Apocalittica: Il terremoto del 2012 è stato solo un’avvisaglia. Prima o poi all’ombra della Ghirlandina si scatenerà l’Apocalisse. Ma noi non ci saremo. La principale virtù e il peggiore difetto di Modena. Se già compaiono nelle 6 parole di prima, ripetiamole. Repetita iuvant. Se non stanno lì, meglio ancora: ne sapremo di più e perché. La principale virtù dei modenesi è l’ironia: una sottigliezza di spirito che si fa ironia sorniona e demolitrice, capace di arrivare all’autolesionismo come difesa preventiva nei confronti degli inevitabili sarcasmi altrui. «Direi che c’è un senso artistico dell’ironia qua, quasi una specie di finezza che fa parte delle cose stesse» annotava Ugo Guandalini, il futuro editore Guanda. Ma poi, chissà com’è, emigrò a Parma. Anch’io modenese della diaspora come Guanda, il maggior difetto che mi capita di riscontrare nella mia città d’origine è una certa vacua euforia da Guinness dei primati, come se davvero lo slancio verticale della Ghirlandina, la torre del Duomo patrimonio Unesco, e il garrire del cavallino rampante (che rampa sempre meno) sui rossi bolidi della Ferrari bastassero a fare di Modena l’ombelico del mondo. In una recente presentazione del tuo libro, discutendo con lo scrittore Guido Conti so che vi siete proposti alquante domande su Modena. Io non c’ero, e voglio conoscere la risposta che hai dato a una di quelle domande. La “modenesità” è una categoria topografica, psicografica oppure dello spirito? Quelle tre categorie si intersecano continuamente in un puzzle controverso. Modena è città dalle molte anime, godereccia e operosa, amante del sesso e del cibo, ma anche ricca di risvolti misteriosi che possono farci scoprire una realtà tutta diversa, una città dall’altra parte dello specchio come l’Alice di Lewis Carroll. E io, con questo libro, mi candido al ruolo del Cappellaio Matto. ……………..……………………………… Segue ora una presentazione editoriale
L'ombelico del mondo (2)
Dalla presentazione editoriale «Forse, a sua insaputa, questo libro è anche un testo teatrale, dove un coro greco di vivi, morti, vampiri e gufi impagliati dice la sua. Con tutte quelle soubrettes che ancora entrano ed escono dall’Hotel Canalgrande sembra di andare a braccetto col passato, sotto un portico dove si possono incontrare Antonio Delfini, Ciro Menotti e il Marchese De Sade, e, seduto in quel caffè, sornione e bizzarro, Mario Molinari. Forse, a modo suo, è anche un rimedio, uno di quegli impiastri che i farmacisti facevano mettere ai malati per curare malanni veri e immaginari, come la pazzia geminiana, una patologia effettivamente impossibile da classificare, ma decisamente irresistibile, e per gli abitanti di questa parte di mondo, ineludibile. Stay Foolish, diceva Steve Jobs. Avesse conosciuto da vicino la pazza folla della Ghirlandina, non avrebbe perso tempo a raccomandarsi. È il teatro di autoscontri storici, è l’asse viario di una topografia psicogeografica, è teoria e pratica dello gnocco e del tortello fritto, di rendez-vous “con le gambe sotto il tavolo”, è profumo di palude e di luoghi lacustri. É nebbia, se vogliamo, e insieme magone, perché “Modena com’era è anche Modena come continua ad essere” scrive Barbolini, ed è invisibile, anche se c’è. È un caleidoscopio dotto e a un tempo un po’ lisergico, questo libro, che scruta scrittori, disserta di scritture, e che, con la precisione di un monaco, disegna miniature. Un modo per scoprire che un fiume divide l’orizzonte modenese in Medioevo e Illuminismo, e che la città non è distesa ma raccolta intorno a una via Emilia che, appena fuori le mura, somiglia a “un vecchio pitone in agonia”. Che altro c’è? La celeberrima erre di Francesco Guccini, l’humus inconfondibile delle storie di Giuseppe Pederiali, vivificato da spade, sortilegi, fionde e palle di neve, i misteriosi, nonché gaudenti, acquerelli di Giuliano Della Casa, l’interesse per il corpo che si fa letteratura, ricordando, anche accademicamente, Gian Paolo Biasin. C’è il Delta Del Po, Palazzo Ducale, e FUOCOfuochino, la casa editrice più piccola del mondo, ci sono preziose lezioni su come una storia diventi un intreccio, e, siccome siamo tra la via Emilia e il West, non mancano neppure i cow boy. Pesci veri e immaginari, Swingin London e Swingin Modena, capelloni e aristocratici, anime e sagome, Bonvi, Edmondo Berselli e una pioggia di batraci. Non manca il sesso, con un cameo dedicato alla Gina della Spider Rossa e il racconto di come nacque l’antologia della poesia erotica italiana, scritta da Barbolini a quattro mani con Guido Almansi per Longanesi. C’è l’umanizzazione degli animali, a partire dal cane di Giorgio Giusti, che per l’appunto, si chiamava Uomo, e la mutazione fantastica dei personaggi, nel loro essere drago, vampiro o foionco secondo paragrafo. C’è la realtà con tutto il suo contraltare, se è vero, come è vero, che “il miglior pesce è un porco”. È un carnevale, questo libro, così pavironico, mascherato e festoso. Ed è un funerale questo libro, così nostalgico, struggente e mesto. Dirli tutti, uno per uno, attori e comparse di questa commedia, è impossibile. Ma all’appello, anche se non sembra, qui rispondono anche gli assenti. Barbolini lo dice col barbiere degli dei, altra voce di questo coro, “nel nostro mestiere è tutta una questione di sfumature”».
lunedì, 6 maggio 2019
Nel favoloso mondo della musica
Da quando le attività musicali nella scuola italiana compaiono per la prima volta in una circolare del 1885 come “esercizi di canto” è passato oltre un secolo. Eppure questi 130 anni trascorsi da quella lodevole intuizione non hanno ancora evitato all’insegnamento musicale un ruolo ancillare nel sistema scolastico. Duplice errore. Perché oltre al giovamento culturale che deriva dal sapere di musica, esistono benefici che investono anche le altre aree d’insegnamento poiché la musica influisce positivamente sulla flessibilità cognitiva e la memoria. Riferisce lo psichiatra e psicanalista Andrea Vaglica che “Fornari, uno dei grandi nomi della psicoanalisi italiana, diceva che l'esperienza musicale ci consente una regressione alle prime fasi della nostra vita. Il bambino, alla nascita, si trova infatti inserito in un "bagno di suoni" e mostra chiaramente di reagire così tanto in maniera attiva a questi stimoli da sintonizzare, ad esempio, nei primi mesi, il proprio battito cardiaco con quello della madre. Esperienze melodiche e ritmiche diventano così piene di significati, tanto da partecipare alla formazione della simbolizzazione”. La casa editrice Dedalo cosciente dell’importanza della musica nell’età scolare ha pubblicato nella collana Piccola Biblioteca di Scienza, diretta da Elena Ioli, Nel favoloso mondo della musica di Gian-Luca Baldi. L’autore è professore di Composizione presso il Conservatorio Agostino Steffani di Castelfranco Veneto. Ha scritto musica per orchestra, per il cinema, per la danza e fiabe musicali, oltre a saggi, racconti e romanzi. Da molti anni si dedica all’opera di Gianni Rodari, cercando di portare il suo pensiero nei conservatori. QUI il suo sito web. Il volume si svolge attraverso la narrazione di una visita a un Conservatorio da parte di una classe di ragazzi accolti e guidati da un certo professor Luca. Questo gruppo apprenderà parecchie cose sulla musica che hanno corrispondenze con altre materie: la matematica, la fisica, l’astronomia, l’anatomia, la fisiologia. Tutto comincia da che cos’è il suono e come lo percepiamo. Per poi conoscere da vicino le cinque famiglie degli strumenti musicali, com’è fatta un’orchestra, gli stili musicali, lo strumento che ognuno di noi possiede: la voce. Si arriva alla conclusione profilando certe caratteristiche di gruppi rock quali i Beach Boys o i Radiohead. Il volume ha un’utile appendice che chiarisce i termini usati nel racconto, una bibliografia per i più piccoli e una per i più grandi, e, infine, l’indicazione di link ad alcuni brani citati nel libro andando sul sito del libro. Gian-Luca Baldi Nel favoloso mondo della musica Illustrazioni di Luna Montatore Pagine 80, Euro 10.00 Edizioni Dedalo
venerdì, 3 maggio 2019
Osteria Nuvolari
Chi generosamente legge queste mie pagine web, sa che fra una recensione letteraria, una critica a spettacoli e mostre d’arte visiva, mi concedo anche riflessioni sull’arte enogastronomica sempre accompagnate da indicazioni di locali che consiglio perché mi sono andati particolarmente a genio o, viceversa, sconsiglio. A Roma l’alta gastronomia, purtroppo, ha pochi luoghi. Si pensi che, ha solo 23 locali stellati e, pur essendo una capitale europea, uno solo con 3 stelle e uno solo con 2. Gli altri 21 non vanno oltre la sola stella. Circa i prezzi lì praticati, bisognerebbe aprire un lungo dibattito condito di approvazioni e disapprovazioni, già accennato qui qualche volta, per pigrizia, e non solo per pigrizia, oggi me lo risparmio. Prometto, o minaccio, fate voi, di scriverne in una prossima occasione È possibile, tuttavia, gustare buona cucina in pochi – sottolineo pochi – locali romani evitando (ma questo vale per ogni città) i luoghi più famosi come mete turistiche. Roma non fa eccezione, però oggi segnalo una tavola che pur essendo in un posto molto frequentato dal turismo, perché a poca distanza dal Vaticano, fa eccezione a quella regola che in questo caso, vista la notissima residenza celeste, è regola particolarmente benedetta. Il posto si chiama Osteria Nuvolari, sta in Rione Borgo Sul sito web si presenta come “tipica cucina romana” e, a mio avviso, si toglie qualcosa. Perché pur presentando un menu tradizionale ben condotto, offre una scelta di pietanze dal tocco innovativo e, talvolta, addirittura inventivo. All’Osteria Nuvolari c’è anche la gioia di quanti apprezzano l’abbondanza delle porzioni, a dir la verità la mia gioia è più contenuta perché mi piace mangiare più portate, e, quindi, meno impegnative per quantità. I ‘primi’, infatti, sono imponenti per misura - e qualità -, abitudine che deriva probabilmente dall’antica Roma dove il pranzo cominciava dal laganum, voluminoso impasto d’acqua e farina cucinato in modo che vede divisi gli storici sulla tecnica di cottura. Da Nuvolari si può gustare la pajata (termine che indica l’intestino tenue del vitellino da latte), splendida matriciana, carbonara sia con gli spaghetti sia con i più tradizionali rigatoni, e mai con gli gnocchi di patate come, perniciosamente, sta andando di moda suscitando il mio orrore. I ‘secondi’ tutti da elogio, vedono la ghiotta proposizione del “quinto quarto”. Tale dizione si deve al fatto che i due pregiati quarti anteriori e posteriori, un tempo erano riservati ai benestanti mentre rognoni, milza, cuore, fegato, animelle, cervello, lingua e coda, erano destinati ai meno abbienti. Ma questo “quinto quarto” è gustosissimo e da Nuvolari merita elogi. Si è accolti (conviene prenotare) da una cordiale Eleonora con la quale è piacevolissimo conversare perché oltre, se richiesta, a guidarvi nelle scelte avendo un grande intuito nel capire i gusti degli avventori, è di grande competenza e, come si suol dire, “non se la tira per niente”, pronta a cogliere eventuali suggestioni che nascano dal parlarsi. Solo applausi? No, consiglio di infoltire la lista dei vini che, pur presentando buoni bicchieri, non è, per numero di etichette, all’altezza della cucina. Che altro dire? Se a Roma abitate o siete di passaggio per affari, sesso, turismo, andateci e mi ringrazierete. Osteria Nuvolari Via degli Ombrellari 10 - Roma Tel: (39) 06 - 688 030 18 Mail: osteria.nuvolari@gmail.com Da lunedì a sabato pranzo e cena Chiuso la domenica
giovedì, 2 maggio 2019
International Tattoo Expo Roma
Sul tatuaggio, le sue plurali origini e storie, i suoi significati dal sacro al profano, sono stati versati, manco a dirlo, fiumi d’inchiostro. Un importante scienziato qual è stato Cesare Lombroso (1835 – 1909) ha approfondito in epoca moderna osservazioni sul fenomeno, ma accanto a una pregevole classificazione delle varie tipologie delle immagini creò una correlazione fra il tatuaggio e la degenerazione morale da lui rilevata presso delinquenti studiati nelle carceri e nei manicomi. Le sue teorie (oggi rifiutate dal mondo scientifico) hanno però influenzato a lungo il giudizio sui tatuati tanto da rendere per molti anni meno diffusa quella pratica. In Italia altra studiosa del tatuaggio è stata Caterina Pigorini Beri (1845 – 1924). Ma è con la controcultura degli anni ’70 del secolo scorso che il tatuaggio, accompagnandosi spesso al piercing, torna prepotentemente alla ribalta dei costumi assumendo aspetti di opposizione sociale anche in area artistica come accade nella Body Art. La diffusione è andata sempre crescendo fino a diventare una moda, un arredo del corpo che, lontano dal diversificare, spesso finisce con l’omologare o, addirittura, a diventare un prodotto artistico non già d’opposizione sociale ma che prospetta ipotesi di mercato nelle arti visive. Volete un esempio? La modella Kate Moss reca sul fondo schiena tatuati due uccelli dovuti alla gran firma di Lucian Freud (… sì, parente, nipote di Sigmund Freud). Riporto quanto ha detto Kate tanto incantevole quanto giudiziosa: “Indosso proprio lì un Freud originale. Mi chiedo quanto pagherebbe per questo un collezionista? Qualche milione? Se tutto mi andasse male potrei sempre fare un espianto di pelle e venderlo”. Prima di passare ad un avvenimento da domani a Roma dedicato al Tattoo, voglio ricordare che proprio a Roma ben 34 anni fa, nel 1985, con Nicolini assessore alla cultura si tenne una memorabile mostra, intitolata “L’asino e la zebra: origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo” a cura di Simona Carlucci che così scrisse nel catalogo (fra i nomi italiani annoverava Aldo Carotenuto, Achille Bonito Oliva, Paolo Fabbri, oltre a sociologi e antropologi stranieri: «Si può “leggere” il tatuaggio in molti modi: gesto di simulazione estrema che rimanda a una norma ormai perduta, parte essenziale di un rituale erotico esibizionista o sado-masochista, momento in cui l’inconscio parla attraverso la calda superficie della pelle, o ancora epilogo e consunzione di una body art che si fa in tal modo artigianato di massa». Estratto dal comunicato stampa “Quello del tattoo è un enorme movimento onnicomprensivo e le mille filosofie che animano e agitano questo universo si incontreranno in occasione del XX International Tattoo Expo Roma, il quinto più importante e grande al mondo, dal 3 al 5 maggio alla Nuova Fiera di Roma: più di 400 tatuatori da ogni parte del globo, tra old e new school, nuovi fenomeni e tendenze, brand, vip, espositori e tutta la cultura che gravita intorno alla decorazione pittorica corporale, un live stage dall’agenda serratissima con ospiti del calibro di Samuel dei Subsonica in uno speciale dj set ad hoc e una DRAGO Lounge pensata l’occasione. Gli artisti della rotativa trasformeranno l'hangar della Nuova Fiera di Roma in un hub, un pianeta interamente ink-related, un labirinto di macchinette, aghi e pelle che si tingerà sotto il tocco degli esponenti dei migliori studi di fama mondiale per festeggiare il ventesimo anniversario di un evento che si fa al tempo stesso rituale, artistico, trendy e mondano con ospiti i più grandi tatuatori della scena (…) Un percorso in ciò che rappresenta il tatuaggio oggi, che in tre giorni no-stop riunirà un fenomeno dall'ampio respiro che, non a caso, oggi coinvolge anche i brand. Un parterre d'eccezione per festeggiare i 20 anni della storica tattoo expo d'Italia, alla quale, nel 2019 si unisce la direzione artistica di Ritual The Club. Il 1999 e il 2000 furono, infatti anni storici per le sottoculture a Roma: nacquero l'International Tattoo Expo e il Ritual. Vent'anni in cui l'International Tattoo Expo Roma e il Ritual hanno apportato una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere gli stili di vita alternativi in Italia (…) durante i tre giorni della convention DRAGO allestirà una Lounge dedicata, uno spazio multifunzionale in cui si succederanno mostre, conferenze, celebrazioni, workshop e uno spazio esclusivo che racchiuderà le menti più energiche e propulsive di una scena inarrestabile e dedita all’arte, all’inchiostro e alla strada. Il progetto, ideato dall’editor ePaulo von Vacano e curato da Carlotta Vagnoli, prenderà trecento metri quadrati dell’Hangar numero uno della Nuova Fiera di Roma per raccontare i volti pitturati, le mani sporche, i denti scintillanti, la musica alta e il rumore delle motociclette. La prima edizione di quella che sarebbe diventata l’International Tattoo Expo Roma – spiega il direttore artistico Paolo Core – si tenne nel 2000 ed era poco più che una festa tra appassionati del tatuaggio. Il successo riscontrato da questa edizione a dir poco “casereccia” ha, però, acceso la fiamma della voglia di crescere e migliorare sebbene nessuno pensasse ancora di poterci paragonare ad altre manifestazioni sia nazionali che europee. Ricordiamo con tenerezza i primi 50 tatuatori che presenziarono alla seconda edizione, specialmente adesso che ne proponiamo 400 da tutti i continenti. L’International Tattoo Expo ha nel suo DNA la voglia di cambiare e di tracciare strade nuove nel mondo del tatuaggio ed è stato quindi naturale spostarci, quest’anno, nel padiglione n° 1 della Nuova Fiera di Roma anche per trovare fisicamente spazi adatti ad un evento che in questa edizione propone veramente tanto”. Cliccare QUI per tutte le altre informazioni. Ufficio Stampa H F 4 Marta Volterra, marta.volterra@hf4.it; 340 - 96 900 12
International Tattoo Expo Roma Nuova Fiera di Roma, Via Portuense, 1645 Ore 14.00 - 22.00 (sabato fino a mezzanotte) Dal 03 al 05 maggio 2019
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