Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
giovedì, 31 ottobre 2019
Erotismo Eversione Merce (1)
È nelle librerie, pubblicato dalla casa editrice Mimesis, Erotismo Eversione Merce a cura di Vittorio Boarini nella nuova edizione a cura di Fabio Francione. Contiene scritti di: Pietro Bonfiglioli, Giuseppe Branca, Cinegramma, Costantino Cocco, Callisto Cosulich, Félix Guattari, Vittorino Joannes, Ado Kyrou, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Pier Paolo Pasolini, Fernanda Pivano, Gianni Scalia, Gianni Toti, Ambrogio Valsecchi, Elémire Zolla. E con nuovi scritti di: Alessandra Cristiani, Simone Derai, Oliviero Ponte Di Pino, Roberto Revello, Rocco Ronchi, Monica Stambrini, Federico Tiezzi - Fabrizio Sinisi. Il libro trae origine da un famoso convegno intitolato «Erotismo Eversione Merce» svolto a Bologna dal 15 al 17 dicembre 1973. Una prima edizione dei testi fu curata da Vittorio Boarini che in questa recente occasione editoriale lo troviamo intervistato da Fabio Francione che firma anche una nota a conclusione del volume. Dal quarto di copertina Nessun potere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il consumo di tutto il superfluo considerato necessario a una coppia moderna. Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani – borghesi, e soprattutto proletari e sottoproletari – se tali distinzioni sono ancora possibili – l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli ‘incapaci’ o dei ‘diversi’: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformistica di essere sessualmente liberi trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici.” Segue ora un incontro con Fabio Francione.
Erotismo Eversione Merce (2)
A Fabio Francione (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quali motivazioni all’origine di una nuova edizione di “Erotismo Sovversione Merce” ? L’unica motivazione possibile, in un mercato editoriale che sforna decine e decine di titoli a settimana e che tende più alla sostituzione delle novità con novità piuttosto che alla valorizzazione dei libri, è stata almeno per me quella di recuperare un libro che non è solo la raccolta degli atti di un convegno, ma l’unica testimonianza di un evento irripetibile rimasto solo nella memoria di alcuni. Tuttavia aggiungo che l’edizione originale, pubblicata da Cappelli, con una buona dose di fortuna può essere trovata sulle piattaforme nonché nei pochi remainders o nei mercatini. Ciò però vale e parlo sempre per me anche per altre riedizioni o meglio nel lavoro a nuove edizioni di libri, più o meno di culto o che sono stati apripista di tendenze e studi. Questo lavoro editoriale è da me configurato come un modo nuovo di far critica. Negli anni di quel famoso convegno bolognese, un’onda di grande rinnovamento attraversava tutte le arti. Perché proprio il cinema fu al centro di quelle riflessioni? L’organizzazione del convegno è partita dalla Cineteca di Bologna, da Vittorio Boarini che allora la guidava, ed era la terza tappa di un percorso iniziato qualche anno prima e che coinvolge critici non solo italiani, ma anche critici europei. Poi, il cinema, allora, forniva non poche suggestioni e chiavi di lettura ed era anche l’unico media che travasava il pubblico nel privato e viceversa. Anche in chiave politico-filosofica. Questo impone oggi la lettura del panel degli intervenuti: da Pasolini a Guattari, dalla Pivano a Lattuada e poi Zolla, Scalia, Toti e ancora critici, teologi, giuristi… Quale modificazione sociopolitica ha portato la televisione nei temi di quel lontano convegno? Di certo l’onda censoria della tv di quel tempo, non vi era ancora stata la riforma del 1976 e si criticava non poco l’ombelico della Carrà, era spietata, anche nella sua tolleranza, per certi versi. Per chi era bambino già grandicello allora come me può ricordare l’effetto che faceva il Tuca Tuca o Rumore di Raffaella. Ma, all’orizzonte si prefiguravano già le tv commerciali che consumarono in pochi anni l’intero serbatoio di cinema di genere decretandone di fatto la fine. Tuttavia il portfolio del libro raccoglie le immagini dei film che avrebbero dovuto comporre il programma della retrospettiva che per mancanza di denaro non si fece e non accompagnò il convegno. Lì, la selezione è altamente autoriale, sperimentale, internazionale, cortocircuitava il meglio del cinema di allora, classificato per i temi sollevati dai relatori dell’incontro. Tutto era studiato nei minimi particolari. Ogni singolo aspetto. E Internet quale ruolo ha svolto nella mercificazione dell’eros? Esclusivamente economico. È un’industria. Con tutti i difetti e le virtù di un comparto economico in continua ascesa. La fruizione digitale poi ha spazzato via lo “sporco” delle sale cinematografiche che negli anni settanta si convertivano al “porno”. E non al “cinema erotico” che è altra cosa, pur essendo le due cose strettamente collegate, nelle loro derive più maniacali o nelle loro dolcezze più imprevedibili Tuttavia quest’industria non è esente da un certo intento educativo, però falso e distorto. Ma alzi la mano chi non ha mai sfogliato ieri una rivista o oggi si è collegato ai vari “tube” del genere? Il lavoro su questo libro quale contributo ritieni abbia dato al tuo apparato storico-critico? L’ho detto prima. Un atto critico per come è stato costruito, mantenendo il libro originario, però costruendo intorno una cornice contemporanea, chiamando a raccolta una pattuglia di filosofi, critici, artisti di teatro, danza e cinema, che aveva, anzi ha lo scopo di tendere ancora più avanti quelle istanze in apparenza datate solo temporalmente. ………………………………….. Erotismo Eversione Merce Pagine 292, Euro 22 Con corredo iconografico in b/n Mimesis
mercoledì, 30 ottobre 2019
Il mondo sottosopra
Chi è Massimo Polidoro e perché parlano così bene di lui? Nato a Voghera nel 1969, è un giornalista, scrittore e divulgatore scientifico italiano, segretario nazionale del Cicap ("Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze"). E in città si sussurra su di un'affettuosa sua amicizia con una “casalinga di Voghera” mentre è in cattivi rapporti con il "pastore abruzzese" e il "bracciante lucano" gli altri due del noto terzetto letterario inventato da Arbasino anche lui nato a Voghera, come pure lì nacque Carolina Invernizio. Se Dylan Dog è l’investigatore dell’incubo, Polidoro lo è dell’insolito e francamente il suo còmpito non è meno difficile del detective londinese perché siamo accerchiati da tante bufale sui giornali, alla radio, alla tv, da strani convegni e libri bugiardi… Giuda balllerino! E Polidoro che fa? Li smaschera inesorabilmente uno ad uno facendosi odiare dalle folte schiere di venditori di frottole ammantate mo’ di scientificità e mo’ di paranormalità… dite che non esiste quella parola? E io vi dico di sì perché l’ho inventata io. Adesso, credo proprio che Polidoro deve stare bene attento a salvare la pelle perché ha pubblicato un libro che per fare fuori il libro e il suo autore in parecchi ingaggeranno killers infallibili (o quasi). Il libro si chiama Il mondo sottosopra, titolo volutamente omonimo al romanzo fantascientifico di Jules Verne. Prima di andare in libreria per acquistare “Il mondo sottosopra”, troverete un assaggio dei temi di quelle pagine seguendo la serie YouTube "Il complotto quotidiano"; basta un CLIC.
Dalla presentazione editoriale di Il Mondo sottosopra «I vaccini? Provocano l'autismo. Le scie degli aerei? Veleno per alterare il clima. Gli attacchi dell'11 settembre? Una messinscena degli americani. La Luna? Non ci siamo mai andati. La Terra? È piatta. Ciò che fino a ieri era considerato da tutti vero e accertato all'improvviso viene messo in discussione, mentre in molti ambiti della vita i fatti perdono sempre più valore a favore di credenze irrazionali, pregiudizi e cospirazioni. Dalla Donazione di Costantino, il più grande falso dell'antichità, ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, dai complotti demo-pluto-giudaico-massonici fino alle recenti teorie negazioniste sui cambiamenti climatici, il mondo è da sempre pervaso da innumerevoli ricostruzioni "alternative" e deliranti farneticazioni. Fake news, bufale, propaganda estrema e complottismo sono i protagonisti incontrastati di una gigantesca confusione di massa in cui la verità è diventata un mero punto di vista. Ma perché, ancora oggi, milioni di persone credono a così tante fandonie? Quanto hanno contribuito il web e i social network alla smodata diffusione di bugie a livello planetario? In che modo la politica sfrutta a proprio vantaggio questa ostentata ignoranza? E la scienza, che fine ha fatto? Massimo Polidoro ci conduce in un lungo viaggio nel mondo del verosimile, dell'improbabile e dello smaccatamente falso, svelando i meccanismi neurologici, psicologici e sociali dietro cui si celano pericolose e preoccupanti ossessioni. "Il mondo sottosopra" è un testo per capire gli inganni della società in cui viviamo e un vero e proprio kit di sopravvivenza all'irrazionalità dilagante». Massimo Polidoro Il mondo sottosopra Pagine 528, Euro 19.50 Piemme
lunedì, 28 ottobre 2019
La mala vita (1)
La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro molto interessante: La mala vita Donne pubbliche nel Medioevo L’autrice è una grande medievista: Maria Serena Mazzi. Ha insegnato Storia medievale nelle Università di Firenze e Ferrara. Con il Mulino ha pubblicato In viaggio nel Medioevo (2015) e Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (2017). Chi erano le donne pubbliche nel Medioevo? Come venivano trattate? A quali obblighi dovevano obbedire? Com’erano punite le loro trasgressioni alle leggi? Com’erano considerate dalla Chiesa? E quando avevano smesso di prostituirsi per pentimento o vecchiaia quali prospettive di recupero sociale le attendevano? Questo suo nuovo lavoro si legge con grande interesse non solo per la mole d’informazioni storiche che contiene, non soltanto sia per il commento ricco d’osservazioni sociologiche, ma anche per la composizione di scrittura che si avvale di una scorrevolezza lontana da ogni muffa accademica. Dalla presentazione editoriale. «Anche nel Medioevo troviamo donne disposte a vendere il proprio corpo «pro pretio, lucro et questu»: condannata e ritenuta una vergogna, la prostituzione era però considerata ineliminabile e persino necessaria. Giustificabile, perché salvava da mali peggiori come la corruzione delle vergini e delle spose e «l’abominevole vizio della sodomia». Ma qual era la posizione della Chiesa e dei pubblici poteri nel regolare questo fenomeno divenuto assai rilevante? Nel Trecento, infatti, si assiste ovunque in Europa al proliferare dei postriboli, a volte quasi piccole fortezze del piacere, a volte strade o quartieri riservati, e la vita delle donne pubbliche – forestiere o straniere, spesso sopraffatte dai debiti – dentro e fuori fu sottoposta a rigide norme. «Idio sempre schifa i maggiori mali, e d’ogne male ch’egli sostiene sempre trae un maggior bene… Or non vedi che ssi sostengono le meretrici nelle cittadi? Questo è un grande male, e se si sottraesse, sì ssi sottrarrebbe un grande bene, però che ssi farebbero più adulterii, più soddomie, che sarebbe molto peggio» Giordano da Pisa» Segue ora un incontro con Maria Serena Mazzi.
La mala vita (2)
A Maria Serena Mazzi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quale la principale motivazione all’origine di questo libro? La ripresa di un tema importante in un momento in cui mistificazione e crudezza del fenomeno prostituzione hanno raggiunto un livello altissimo. Il meretricio pubblico e privato è stato anche recentemente segnalato con accenti positivi che fanno allusione ai benefici effetti dell’attività sessuale, mentre molte giovani donne pare la considerino una pratica comoda, magari temporanea, per procurarsi soldi e un tenore di vita più agiato. Contemporaneamente assistiamo ogni giorno alla crescita dei fenomeni di sfruttamento e di riduzione in schiavitù. Un numero grande di donne viene commercializzato, comprato e venduto, privato della libertà, ricattato, brutalizzato, andando a costituire una delle più cospicue fonti di reddito della criminalità organizzata internazionale. L’atteggiamento che si è perpetuato nei secoli è di sostanziale accettazione del fenomeno, nella convinzione che esso sia ineliminabile, al massimo si possa disciplinare, arginando gli effetti più vistosi di degrado sociale. Se non si studiano le radici del fenomeno, la sua evoluzione, le ragioni economiche, sociali e culturali, non ci si chiederà mai perché e come affrontarlo. Al di fuori di ogni inaccettabile moralismo, sarebbe troppo sperare in un paritario esercizio della libertà sessuale che non preveda il corpo femminile messo al servizio dei “bisogni” dei maschi, comprato e usato a piacimento? Nello scrivere “La mala vita” quale cosa ha deciso era da fare assolutamente per prima e quale, invece, per prima assolutamente da evitare? Per prima l’urgenza di mettere in discussione il luogo comune, diffusissimo e ovunque riproposto: la “prostituzione è il mestiere più antico del mondo”. Io ritengo che vendere il proprio corpo non sia un lavoro come un altro e neppure un servizio messo a disposizione della collettività, bensì una forma di schiavitù che si perpetua da generazioni ed equipara le donne a una merce ambita, fonte di guadagno per gente senza scrupoli e reti criminali. Per l’età medievale mi riferisco, alle donne “pubbliche” che si prostituivano per le strade, ai mercati, nelle taverne e nei bordelli e non alle cortigiane raffinate e colte, mantenute in luoghi confortevoli da personaggi facoltosi con cui a volte si vuole far coincidere immagine e realtà di una prostituta, tanto per addomesticarne il ruolo e renderlo accettabile edulcorando comunque una forma di alienazione. Mi sembrava necessario, in base a queste considerazioni, evitare di cadere nella retorica della “buona prostituzione”, vale a dire quella dichiarata necessaria, utile, positiva. Da evitare a tutti i costi la tentazione di attualizzare con il tempo presente. Benché infatti vi siano forti analogie, il contesto storico è vincolante. Non fosse altro per la dimensione raggiunta attualmente e gli aspetti legati ai traffici di donne e al potere economico conquistato dall’industria del sesso mercificato. È vero invece che se non conosciamo il passato, le caratteristiche del fenomeno nei secoli, i tentativi di controllarlo, i fallimenti dei progetti politici che lo riguardarono, le condizioni di vita delle prostitute e i riflessi dell’esercizio e della fruizione della prostituzione sulla relazione uomo-donna e sulla vita sociale, non potremo mai fronteggiare il problema. Prima di addentrarci sul tema specifico del libro, qual era la condizione della donna nel Medioevo? È difficile parlarne in termini generali perché esistono differenze notevolissime fra i secoli dell’alto e quelli del basso Medioevo e anche all’interno di ciascuna di queste due ripartizioni cronologiche. Inoltre, ogni civiltà e ogni paese hanno sviluppato il proprio peculiare atteggiamento in consonanza con le legislazioni vigenti, le credenze religiose, l’organizzazione economica e il sistema di regole sociali. Per tenerci almeno a un filo comune, individuerei due elementi: la condizione giuridica di inferiorità e la soggezione al potere maschile. La donna medievale non aveva piena capacità giuridica (ma del resto nelle società contemporanee quando hanno acquisito il diritto di voto le donne?), perciò per comparire di fronte alla legge, testimoniare, accusare, comprare, vendere, far redigere un atto qualunque, aveva sempre bisogno di un tutore maschio che la rappresentasse. Inoltre, non decideva della propria vita. Se dovesse sposarsi e con chi, entrare in convento e quale, rimanere zitella in casa, studiare, lavorare, viaggiare, spostarsi, su tutto questo non aveva potere decisionale. Prima il padre o i fratelli in sua assenza, poi il marito poi i figli, decidevano della sua sorte, a meno di una ribellione poco consigliabile. Essa godeva di una libertà mutilata che ne limitava le scelte e la induceva a comportamenti obbligati. Lei nota che appestati, lebbrosi, ebrei e prostitute dovevano indossare sugli abiti particolari segni di riconoscimento. Aldilà delle precauzioni sanitarie e delle distinzioni sociali, si può parlare di razzismo dell’epoca? E verso quelli così segnati erano giustificati o incoraggiati atti di violenza? Nel caso di appestati e lebbrosi la prima ragione per l’adozione dei segni di riconoscimento era di ordine igienico-sanitario. Si riteneva che fossero malattie molto contagiose e si volevano evitare contatti per non alimentarne la diffusione. Nel caso della peste questo atteggiamento di difesa era giustificato. Non tanto nel caso della lebbra per la cui trasmissione occorrono contatti stretti e prolungati nel tempo. Tutto ciò non riguardava ebrei e prostitute, eppure anche costoro furono “segnati” , affinché potessero essere individuati a distanza ed evitati. Sugli ebrei gravava il pregiudizio religioso. Mal tollerati nelle città, benché fossero considerati utili come prestatori e usurai, essendo l’usura in teoria proibita ai prestatori di religione cattolica, erano costretti a vivere in comunità appartate nel timore continuo di persecuzioni. Nel caso delle prostitute la condanna era di tipo morale e per quanto avessero contatti carnali con una buona parte della popolazione maschile, erano ritenute persone in grado di contaminare. In quest’ultimo caso la vicinanza ai lebbrosi è profonda e ha a che fare con il concetto di corruzione. Come le carni del lebbroso sono corrose dalla malattia, così corpo e anima della meretrice sono “putrefatte” dal peccato e dal vizio. Nei confronti di tutti questi gruppi gli atti di violenza furono frequenti. Le prostitute erano considerate donne di scarso valore e su di loro si poteva infierire senza gravi conseguenze. Inoltre, in occasioni di carestie o epidemie, spesso venivano cacciate dalle città in cui vivevano. Nelle stesse situazioni agli ebrei e ai lebbrosi era riservata una sorte ben peggiore con vere e proprie azioni di sterminio. Additati come avvelenatori delle acque e dei granai o propagatori di epidemie, diventavano facili capri espiatori di collettività impaurite e manipolate. Durante la grave carestia del 1321 in Francia, per esempio, i lebbrosi furono arsi vivi in un massacro senza precedenti, mentre nel corso della tragica epidemia di peste di metà Trecento furono distrutte intere comunità di religione ebraica in Francia e Germania. Razzismo? Un termine che non userei nel senso di un’ideologia. Parlerei di diffidenza verso una alterità ritenuta inassimilabile, rifiuto del diverso, timore superstizioso e odio nei confronti dell’estraneo in quanto oscuramente pericoloso. Esisteva allora le figura del protettore? Verso di lui c’erano sanzioni oppure no? Sì, esisteva e non mi risulta che la loro attività venisse sanzionata, a meno che non commettesse un reato diverso dallo sfruttamento, come aggressione, violenza, furto, omicidio. Il protettore era talvolta colui che per primo aveva indotto una donna a prostituirsi, seducendola, illudendola, promettendole il matrimonio oppure stuprandola, ingannandola, obbligandola con la forza ad allontanarsi da casa. Non è raro che i protettori acquistino da un collega una donna già sul mercato offrendosi di pagare i debiti da lei contratti e accumulatisi insoluti oppure comprino in denaro contante una fanciulla o una donna da avviare al meretricio. Persone sole e indifese ma a volte anche figlie o mogli vendute dai congiunti. La relazione che si stabilisce tra ruffiano e prostituta non è solo di sfruttamento e protezione ma un legame che può somigliare a una relazione di coppia. Per la meretrice era però molto difficile, qualora lo desiderasse, separarsi dal proprio uomo, senza incorrere in conseguenze gravi: violenze, percosse, ferite, fino all’uccisione. Non di rado perciò si vedeva costretta a risarcire con il pagamento di una somma di denaro o in abiti o gioielli il protettore “abbandonato”, in pratica a ricomprare se stessa pur avendolo fino a quel momento mantenuto lavorando per lui. Come illustrato nelle sue pagine, era molto severa la posizione della Chiesa in materia sessuale. E rispetto al meretricio come si comportava? Dal punto di vista concettuale e della dottrina elaborata dai suoi Padri, mantenne una posizione ambivalente che ha molto nuociuto al contrasto del fenomeno. Di più, sostenendo la teoria del “male minore” enunciata da sant’Agostino, ne ha in certa misura reso lecita l’esistenza. Infatti, pur condannando il meretricio come fonte di peccato e dannazione dell’anima, di fatto ne autorizzava l’esercizio in base al principio che fosse da preferire a mali peggiori: adulterio, sodomia, stupro di vergini e monache. Con il termine “ministerium” riferito all’attività meretricale la Chiesa arrivò a consacrare una sorta di servizio erogato alla comunità maschile per evitare che questa si abbandonasse a “scellerati” comportamenti, postulando che gli impulsi sessuali degli uomini non fossero controllabili e dovessero di necessità essere soddisfatti. A queste concezioni si ispirarono anche disposizioni di legge nell’Occidente medievale, nel tentativo di legalizzare il fenomeno a fini di ordine pubblico. Le prostitute, creature della corruzione, avrebbero dovuto salvare le loro consorelle oneste dal peccato. In pratica veniva creato apposta uno spazio peccaminoso perché la virtù, secondo i valori vigenti, continuasse ad esistere. Senza pensare che il modello di comportamento, spesso di sopraffazione, strumentalizzazione e dominio, sperimentato senza limiti sulla donna pubblica, potesse essere esteso per acquisita e consentita abitudine alla moglie e più in generale alla donna. Nonostante la posizione della Chiesa fosse di tolleranza nei confronti del meretricio, essa predispose anche strumenti di salvazione per le donne “perdute”: monasteri, case di soccorso dove le prostitute erano accolte dopo un rigoroso percorso di espiazione. ………………………… Maria Serena Mazzi La mala vita Pagine 184, Euro14.00 il Mulino
venerdì, 25 ottobre 2019
Streghe (1)
La strega è raffigurata di solito come una vecchia dal volto rugoso, occhi cisposi, naso adunco, mento aguzzo e via inorridendo, ma non è sempre così. Prendete ad esempio quella granfica dipinta nuda più di un secolo fa da Luis Ricardo Faliero. Uno schianto. E quella meno lontana pittata da John William Waterhouse? Una sventola da sogno. E Angela Moredeath con quei suoi pixel che lèvati nel videogioco Satana Final Cut? Anch’io negli anni Settanta (quando andava lo slogan “Tremate, Tremate…”) ne conobbi una. Bella proprio, vestiva alla moda stregonesca del tempo: calze cerchiate di vari colori, gonna larga, cappellaccio e zoccoli olandesi. Mi piantò per un altro (… era una strega, no?) e ci rimasi malissimo. Chissà dov’è ora. Se è ancora viva. Mi fa ricordare quel verso di Baudelaire: “Adorabile strega, ami tu i dannati?”. Basta coi ricordi. Mi faccio un paio di bicchieri di Strega e vado avanti. Voglio parlarvi di Ilaria Simeone… come?... mi chiedete se è una strega?... giuro che non lo so… so però che le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle (copyright François-Marie Arouet, in arte Voltaire). Dell’autrice so quanto fa sapere la casa editrice. È nata a Napoli e vive a Milano. Giornalista professionista, ha compiuto studi di filosofia, ha scritto guide di viaggio e, con altri autori, ha pubblicato “Guida all’Italia misteriosa” (De Agostini, 2005). Il libro che qui presento lo ha pubblicato l'editore Neri Pozza, ha per titolo: Streghe Le eroine dello scandalo. Più di un giallo, più di noir, racconta cose, purtroppo, realmente accadute, narrate con un ritmo sostenuto, mai inventando romanzerie ma attenendosi a documenti storici in una successione di scene da brivido. Che fate? Ancora lì? Via, in libreria!
Dalla presentazione editoriale. «1616, ducato di Milano e Mantova: Caterina De Medici viene accusata di aver maleficiato il nobile senatore Luigi Melzi. Comincia così, in una sorta di processo privato tutto interno al palazzo milanese, una vicenda che finisce con l’impiccagione e il rogo della strega rea confessa. 1587, Triora, Podesteria della Repubblica di Genova: si apre uno dei più appassionanti processi italiani alle streghe. Trentacinque imputate, tre magistrature e un’inedita ferocia persecutoria. Il procedimento dura tre anni e distrugge un’intera comunità. 1716 Brentonico, Quattro Vicariati: Maria Bertoletti, detta la Toldina, viene accusata di stregoneria, processata nel foro penale laico e condannata al rogo. Oggi, trecento anni dopo, il Comune trentino ha chiesto la riapertura del procedimento. Tre storie ignobili di femminicidi ante litteram che coagulano, nella banalità del male, sesso e morte, giustizia e ingiustizie, poteri e contropoteri, Chiesa e Stati. Tre storie diverse ma unite da un’unica, atavica paura: la donna come «scandalo». Ilaria Simeone indossa i panni di una cronista giudiziaria dell’epoca, consulta gli atti, li racconta udienza dopo udienza, in un crescendo avvincente come un thriller, per mostrare come la macchina della giustizia che condannava al rogo le «eroine dello scandalo» si trasformi, infine, in un gigantesco scorpione che, come nelle leggende di demoni e streghe, contorcendosi infligge la morte a sé stesso». Segue ora un incontro con Ilaria Simeone.
Streghe (2)
A Ilaria Simeone (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quale la principale motivazione che è all’origine di questo libro? Un ricordo adolescenziale: in corteo, noi donne gridavamo «Tremate tremate, le streghe son tornate!». Allora mi chiesi chi fossero queste streghe. Lessi qualche libro e mi trovai di fronte donne torturate e uccise perché accusate di delitti che, visti con gli occhi di oggi, sembrano fantastici e impossibili. Mi ripromisi che avrei cercato le loro storie, che avrei provato a raccontarle. Ci ho messo un po’, ma credo di aver mantenuto la promessa. Nello scrivere “Streghe” quale cosa hai deciso era da fare assolutamente per prima e quale, invece, per prima assolutamente da evitare? Scrivo articoli e la prima regola del mio mestiere è rispettare i fatti, andare alle fonti. Perciò, innanzitutto, ho cercato i documenti dei processi; leggendoli ho trovato un’inaspettata bellezza: le imputate, sebbene torturate, umiliate, offese, costrette a rispondere a domande insensate, hanno voci forti, moleste, scandalose. A volte persino ironiche. Voci che appaiono ancora più eroiche quando sono collocate nel loro contesto storico. Voci che chiedevano di essere udite. Spero di essere riuscita a offrire loro ascolto. Ho cercato di evitare, con ogni attenzione, di usare l’immaginazione. Non volevo che le donne protagoniste del libro diventassero personaggi di un romanzo, anche se ho cercato di raccontare le loro storie con uno stile narrativo. Non ho inventato niente: le fisionomie dei protagonisti, le loro vicende personali, i legami, persino i pensieri sono desunti dai documenti. Nel 1484, papa Innocenzo VII emana la bolla "Summi desiderantes" che porterà al rogo tante donne. Come spieghi che dopo le tenebre medievali, proprio all’alba della luminosa età rinascimentale, sia istituzionalizzata la caccia alle streghe? Premessa indispensabile: non sono una storica. Rispondere a questa domanda, per me, è un azzardo. Nel libro, quando serve, mi affido a citazioni tratte da storici veri che si sono occupati del tema ed evito di costruire teorie. Arrischio alcune suggestioni: nel secolo della rivoluzione scientifica la ragione ha un ruolo predominante e tutto ciò che sfugge al suo controllo – istinto, passioni, impulsi (elementi legati al mondo femminile e al magico) – è da condannare. Nel Seicento comincia ad affermarsi la medicina nel senso moderno del termine, ovvero disciplina che usa un metodo sperimentale. È un sapere maschile che deve soppiantare il vecchio modo di affrontare la malattia, quello che appartiene alle curatrici, alle donne. Fra le tante che i tuoi studi ti permettevano di citare perché hai scelto proprio quelle tre donne presenti nel volume? Tra tutte le storie che ho incontrato (e ce ne sono tantissime che mi sono ancora ignote) erano le più funzionali allo scopo del libro. Le ho messe insieme perché, come scrivo nella postilla, sono un’unica storia, quella di un sospetto che nasce dalla pubblica voce, cresce con il panico sociale e prende la via giudiziaria: è l’autorità di tribunali, giudici e inquisitori ad alimentare i roghi del secolo della rivoluzione scientifica. Volevo raccontare la parabola di questa giustizia. Il primo processo di cui mi occupo avviene a Milano nel 1616: Caterina de Medici è accusata di aver maleficiato il nobile senatore Luigi Melzi e messa al rogo. Qui la macchina della giustizia sembra un fatto privato: la prima parte del processo si svolge in casa e accusatore è Ludovico Melzi, figlio di Luigi. Il processo vero e proprio verrà celebrato in seguito dal capitano di giustizia e dal Senato ma sarà una semplice formalità per confermare quanto già stabilito privatamente. Il secondo ha luogo a Triora, ai tempi della Repubblica di Genova, e mette alla sbarra 35 imputate. In questo caso la macchina funziona a tutto ritmo coinvolgendo tre diverse magistrature - il potere vescovile, quello civile e l’Inquisizione Romana - che lavorano per tre anni e distruggono un’intera comunità. L’ultima storia è ambientata a Brentonico (Trento): qui le accuse sono poco credibili, la difesa fragile, la condanna scontata: la macchina della giustizia scricchiola e piano piano s’inceppa. …………………………. Ilaria Simeone Streghe Pagine 190, Euro13.50 Neri Pozza
giovedì, 24 ottobre 2019
Questa non me la bevo
Fake news, ecco una dizione che leggiamo e sentiamo spesso. Secondo la Treccani “designa un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il Web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da un’apparente plausibilità (…) il neologismo ha conosciuto amplissima diffusione a partire dal 2016, ed è entrato prepotentemente nel lessico giornalistico grazie all’impiego fattone l’anno successivo dal neoeletto D. Trump per sostanziare le sue campagne contro i mezzi di informazione” Immaginate di leggere che Renzi sia un grande statista, è chiaro che è una fake news eppure, da giurarci, in molti abbocheranno. Insomma, la fake news è una bugia che si presenta come verità. Pare che Churchill dicesse che “una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni.” Perché queste righe? Perché esistono anche verità tanto incredibili da sembrare fake news. E su questo c’è chi ha svolto un eccellente lavoro letterario. Tranquilli, non si tratta di un romanzo o di un racconto (questo sito, a torto o a ragione non si occupa di narrativa dei nostri giorni). Si tratta, invece di una riflessione su estreme condotte umane. Troviamo tutto questo in un volume che da oggi è nelle librerie per le edizioni Ultra: Questa non me la bevo L’almanacco delle news talmente vere che sembrano fake. L’autrice è Cristiana Minelli. Ecco le sue note biografiche: “Nata a Modena nel 1965, ha lavorato a «Comix» e cenato con Dracula, alias Christopher Lee, nel ristorante del miglior cuoco del mondo (il mio amico Massimo Bottura della Francescana di Modena n.d.r.). Ha pubblicato diversi libri, fra i quali “Il colombo è andato alla toilette e altri racconti” (Greco & Greco, 2013), “Ascolta le cicale. I diari delle panchine di Central Park” (Greco & Greco, 2016) e “Come angeli che han messo le ali”, favola per la Galleria Nazionale dell’Umbria, illustrata da Bimba Landmann, (Aguaplano, 2019). Convinta che il condominio sia un palazzo narrativo, dirige la rivista ‘Manzini Magazine’. Cura la rubrica di costume ‘Tiri Liberi’ per la Nuova Gazzetta di Modena”. Parole dell’autrice: Viviamo all’ombra di foreste di luoghi comuni, protetti da una routine soffocante, allacciati a cinture di sicurezza fatte di piccole cose che costringono il nostro quotidiano in confini molto angusti…[…] Come stelle comete libere di agitare la coda a cavallo del Tropico del Cancro o del meridiano di Greenwich sappiamo bene invece che ciò che accade nel mondo non è solo altrove”. Il volume si avvale della prefazione di Vittorio Orsenigo . Dalla presentazione editoriale. «Il pianeta terra ogni giorno si racconta anche attraverso notizie bislacche che tuttavia lo rappresentano. Dall’anziana signora che regola il traffico armata di un phon all’aperitivo con birdwatching, dal suicidio del robot Steve al pappagallo che suona la batteria, dal raduno di romantici rospisti all’arresto di Zorro, è ormai un pullulare di storie apparentemente impossibili. Nell’era della post-verità mancava un’antologia che fotografasse la realtà nel momento in cui supera la fantasia, un almanacco delle notizie talmente vere che sembrano fake. Come diceva Federico García Lorca, ben prima del celeberrimo mantra di Steve Jobs, «tutti ci portiamo dentro un grano di follia, senza il quale è imprudente vivere». Dunque, siate prudenti. Stay foolish». Cristiana Minelli Questa non me la bevo Prefazione di Vittorio Orsenigo Pagine 252, Euro 14.00 Edizioni Ultra
Bridget T.
Lo scrittore V.S.Gaudio che in Rete guida la rivista Uh Magazine pubblica testi pieni di plurali rimandi alle arti visive, alla letteratura, al cinema ponendosi in un luogo espressivo che sta fra la narrazione e il saggio con una predilezione per l’eplorazione del corpo femminile quale mappa tattile di un labirinto. Il suo più recente testo è intitolato, Bridget T..
A lui ho rivolto due domande. Chi è Bridget T? E chi è il soggetto scrivente? Bridget T. è lei il soggetto del primo piano fotografato, tra gli oltre 120 mila corpi presenti alla Henley Regatta del 7 luglio 1984. Era una studentessa a Cambridge seduta in tribuna quel giorno. La sua faccia è “il luogo del desiderio, e della vertigine, dell’eclissi dell’apparizione e della sparizione: il luogo di chi ci sfugge, attraverso cui il poeta sfugge a se stesso. L’Henley Regatta è dunque il luogo di Bridget T. che sfugge al poeta, attraverso cui il poeta sfugge a se stesso”. Il cosiddétto “soggetto scrivente” è il poeta, V.S. Gaudio. Bridget T. è dunque il titolo di questo primo libro d’arte, fatto in edizione limitata e numerata per la collezione piṅgapāArt, che fa capo al blog piṅgapā curato dallo stesso autore. Prossimamente saranno pubblicati, nella stessa “collana”, Il terzo senso fotografico e La fotografia erotica; e anche Body Page, tutto sulla pin-up cult degli anni cinquanta Betty Page. A che cosa è dovuta la tua scelta di una forma ermetica nello scrivere? La scrittura cosiddetta “ermetica” afferisce, primo, per quanto può essere connesso alla fotografia, a Jean Baudrillard e a Roland Barthes per i titoli: Della seduzione; La Trasparenza del male; L’ovvio e l’ottuso; Sade I e II; extremo, per quanto attiene all’antropologia dell’immaginario e alla psicanalisi, l’autore fa sempre capo, nelle sue divagazioni, a Gilbert Durand e a Jacques Lacan (in questo caso: Il seminario.Libro XI). Qui, c’è una sorpresa: nell’ultimo paragrafo, la “palpebra-palpamen”, come punctum di Bridget T., viene correlata con lo stesso punctum di Faunia Farley, il personaggio di Philip Roth de The Human Stain, interpretato da Nicole Kidman. …………………………………………… V.S. Gaudio Bridget T. Collezione piṅgapāArt UH-BOOK. Fotografia 2019 Edizione numerata e firmata dall’autore 15x15; pag.80 Sip
mercoledì, 23 ottobre 2019
Il sindaco del rione Sanità
Esistono film belli, film brutti e film che prima d’essere belli o brutti sono inutili. A quest’ultima categoria appartengono film che oltre a inutili sono pure brutti come, ad esempio, Il sindaco del rione Sanità tratto dall’omonima commedia di Eduardo che debuttò al Quirino nello stesso anno in cui fu scritta: nel 1960. La recente versione cinematografica è portata ai giorni nostri e risente dei difetti già presenti nella commedia qui aggravati dalla regìa di Mario Martone. Martone è una grande figura dello spettacolo italiano e non sono certo io a scoprirlo. A lui si deve un radicale rinnovamento del linguaggio teatrale con “Tango glaciale” del 1982 che è stato ripresentato 36 anni dopo, in questo 2019, ed è ancora uno spettacolo che fa impallidire tanto teatro dei nostri giorni. Come non ricordare, poi, il suo bellissimo debutto cinematografico nel 1992 con “Morte di un matematico napoletano”, seguito tre anni dopo dal maiuscolo “L’amore molesto”, seguito, purtroppo, da pellicole da dimenticare ad eccezione del “Giovane favoloso” del 2014: Anche in teatro in questi anni, Martone ha marcato passi indietro allontanandosi dalla sua felicissima stagione d’inizio carriera. Con “Il sindaco del rione Sanità” ha composto due ore d’implacabile teatro filmato, due ore nelle quali c’è da ammirare soltanto la straordinaria bravura del protagonista Francesco Di Leva (il primo a sinistra nella foto) – senza disconoscere la parte di Martone in questa riuscita – che, proprio diretto dallo stesso regista ne è stato già interprete giustamente applaudito in teatro. Eduardo nelle sue commedie costruiva finti dialoghi con un interlocutore o interlocutrice, finti dialoghi che infatti erano frequentemente scanditi da suoi lunghi monologhi in maniera da sfoggiare in scena la grande bravura d’attore che possedeva E se, nonostante quella bravura, già sul palcoscenico quei monologhi erano strabordanti con non pochi momenti di prolissità, sullo schermo sono francamente insopportabili. Altro difetto già insito nella commedia era il proporre un malavitoso buono, giusto e ammirevole che già negli anni '60 era poco credibile, figuriamoci oggi, come lo è nel film, dove il cinismo, la ferocia, la prepotenza sanguinaria della malavita rende il personaggio di Antonio Barracano assolutamente fuori d’ogni realtà. Insomma, un disastro. Meno male che c’è Francesco Di Leva, mentre tutto il resto del cast (si salva solo Massimiliano Gallo) precipita fra intonazioni e movenze teatrali letali al cinema. Si esce sbadigliando alla ricerca di un bar per un alcolico pesante che ci conforti. Il sindaco del rione Sanità Con Francesco Di Leva Regìa di Mario Martone Durata: 115 minuti Anno di produzione: 2019
martedì, 22 ottobre 2019
Bici davvero
Tra i mezzi di trasporto, la bicicletta ha molte rappresentazioni in plurali aree artistiche. Bici e ciclisti li troviamo nelle arti visive e nella letteratura, nel cinema e nella musica. A partire dalla “Ruota di bicicletta” di Duchamp, opera all’origine di tanta parte delle avanguardie del ‘900 alle ruote che sfrecciano futuriste da Balla a Sironi da Boccioni a Depero. E nel secondo dopoguerra le indimenticabili bici viste nelle “Compressioni” dello scultore francese César, e poi nelle fluorescenze di Rauschenberg, e ancora immaginate da Pistoletto, Schifano, Rotella. In letteratura mi viene alla mente Alfred Jarry che amava correre in bici, immaginò, in uno dei suoi racconti ispirati alle due ruote, perfino Gesù in sella mentre s’arrampica lungo la tortuosa salita del Golgota. Amava correre sulla sua cara Clément Luxe 96 da lui presa e mai pagata; il caso volle che quando nessuno più pagò per la tomba dello scrittore, al posto di Jarry venne sepolto un corridore di ciclismo. Né possono essere trascurati i suoi 5 ciclisti dopati che corrono in quintupletta nel "Supermaschio". Senza avventurarmi in letterature extraeuropee, in Italia sono in tanti gli scrittori a rendere protagonista la bicicletta nelle loro pagine: Oriani, Guerrini, Brera, Buzzati, Campanile, Gatto, Ortese, Pratolini, Pavolini, Testori, e certamente avrò omesso altri nomi. Quanto al cinema da "Nozze in bicicletta" comica francese inizio secolo, a "Bellezze in bicicletta", "Jour de Fete", “Ladri di biciclette”, “Breaking away”, “Appuntamento a Belleville”, “La bicicletta verde”, “Senza freni”, “Quicksilver” e chissà quanti altri. Per la musica voglio citare solo cose meno conosciute. Ricordo Elio e le Storie Tese in “Sono Felice”, dove Felice sta per Gimondi, Frankie hi-nrg in “Pedala”, Assalti Frontali con “Il quartiere è cambiato”, i New Trolls in “Signori, io sono Irish”, i Tȇtes de Bois con “Alfonsina e la bici”. Segnalo anche lo sperimentatore americano Johnny Random. Opera nell’area della musica concreta. Una dei suoi più recenti lavori, “Bespoken”, è nato lavorando sui suoni prodotti dai componenti di una bicicletta. Diceva Albert Einstein che la bicicletta è la più perfetta metafora della vita: per mantenere l’equilibrio devi muoverti. Alla bicicletta è dedicata una mostra in corso al Museo della Figurina di Modena: Bici davvero! Velocipedi, figurine e altre storie, due secoli di storia della bicicletta ripercorsi attraverso 350 pezzi tra album, figurine e altro repertorio. Estratto dal comunicato stampa «La mostra, curata da Francesca Fontana e Marco Pastonesi, con il patrocinio della Federazione Ciclistica Italiana, è un atto d’amore verso questo rivoluzionario mezzo di trasporto, simbolo di libertà. “La libertà del pedalare” – scrive Marco Pastonesi – “correre, viaggiare, sconfinare, perfino sorpassarsi e superarsi, perché in sella non si è mai soli, c’è sempre qualcuno con cui confrontarsi e accompagnarsi, ed è se stessi. E poi anche la libertà di sognare, fantasticare, inventare”. Il percorso espositivo si apre con la sezione più squisitamente storica che analizza l’evoluzione della bicicletta e celebra i suoi pionieri: a partire dal barone tedesco Karl Drais von Sauerbronn che nel 1817 inventò la Draisina, una “macchina da corsa” spinta dalla sola forza delle gambe, passando per Pierre ed Ernest Michaux che negli anni sessanta dell’Ottocento applicarono i pedali alla ruota anteriore, fino alle rivoluzionarie e leggerissime biciclette in carbonio dei nostri giorni. La mostra prosegue con una serie di copertine di riviste, cartoline e bolli chiudilettera, di norma tratti da cartelloni pubblicitari e dedicati a particolari marche di bicicletta. La sezione "Attenzione, ciclisti in giro", propone figurine di fine Ottocento-inizio Novecento che ironizzano sulle difficoltà dei primi ciclisti e sul contrasto tra vecchi e nuovi mezzi. Una parte dell'esposizione si concentra sui concorsi a premio associati alle figurine, che conobbero un vero e proprio boom nell’Italia degli anni trenta: tra i vari regali da scegliere o premi da vincere, la bicicletta non manca quasi mai. La mostra si conclude con le sezioni dedicate alle corse e ai ciclisti, attraverso figurine di campioni, all'epoca considerati veri e propri eroi, e imprese che nel dopoguerra restituirono agli italiani l'entusiasmo e la voglia di sognare. Tra le curiosità, una sezione che celebra Fausto Coppi, a cent’anni dalla nascita. All’interno del percorso espositivo, s’incontrano anche alcuni esemplari di bici, come quella del ciclista Romeo Venturelli, concessa in prestito dal Comune di Pavullo nel Frignano, quella da barbiere proveniente dal museo Ciclocollection di Riva del Garda e una penny-farthing di fine '800 dalla collezione di Giannetto Cimurri». Ufficio stampa Fondazione Modena arti Visive Irene Guzman | T. +39 349 1250956 | i.guzman@fmav.org Bici davvero! Museo della Figurina Corso Canalgrande 103 Modena Tel. +39 059 – 20 33 090 info@museodellafigurina.it Fino al 13 aprile 2020
L'amentale
A Hans-Georg Gadamer fu chiesta la differenza tra filosofia ed arte e lui rispose che la filosofia è una forma d’arte e l’arte una manifestazione, anche se non sempre cosciente, della filosofia. Romano Gasparotti interrogandosi sul tema del suo Figurazioni del possibile su questo sito affermò che “… specie dal primo ‘900 in poi, la ricerca filosofica più avvertita sembra avere un necessario bisogno di confrontarsi e dialogare con l’arte. Come se al centro delle pratiche dell’una e dell’altra vi fosse la stessa misteriosa, ma assillante ‘Cosa’ “. Ora la casa editrice Cronopio pubblica un nuovo lavoro di Romano Gasparotti con un titolo che non incoraggia le vendite L’amentale; il sottotitolo restringe competentemente il campo degli acquirentii: Arte, danza e ultrafilosofia. Lamentele su L’amentale? Un po’ sì. Con tutto il rispetto che ampiamente meritano l’autore e l’editore, credo che la titolazione non andrebbe trascurata pur senza arrivare alla smagliante affermazione di Leo Longanesi che, a proposito degli articoli, diceva “L’importante è il titolo e la firma. Il resto è superfluo”. QUI una nota biobibliografica su Romano Gasparotti . Dalla presentazione editoriale «La filosofia ha indicato la via e le condizioni di possibilità per la danza del pensare. Ma la filosofia è anche stata ciò che ha generato e perpetuato quello che un artista del ‘900 come Magritte ha chiamato “male filosofico”, condannando l’uomo moderno e post moderno ad una condizione di impotenza e di perenne frustrazione e il mondo a scenario della pura contingenza. Così la filosofia occidentale, nelle sue versioni mainstream, non è riuscita ad essere eticamente all’altezza del suo essere dono delle Muse, sino a cedere progressivamente il passo alle pratiche artistiche quali esperimenti o dimostrazioni di saggezza e di pensiero poietico all’opera oggi ben più esemplari e potenti della filosofia stessa. Perciò il pensare logico-concettuale attende ancora di essere pienamente attuato, secondo il modello della musica e della danza. Questo libro cerca di contribuire nell’opera di riscoprire e disostruire le vie ecologicamente praticabili del filosofare al fine di sintonizzarsi con l’inudibile tono musicale del pragma del pensare – inteso come cosmica potenza intelligentemente erotica – senza cadere nella metafisica superstizione delle parole, dei significati e dei concetti e, al tempo stesso, senza volerli superare, bensì semplicemente restituendoli alla loro 'toccante' effettualità». Romano Gasparotti L’amentale Pagine 141, Euro 13.00 Cronopio
lunedì, 21 ottobre 2019
Falsari illustri
Qual è il mestiere più antico del mondo? Tutti sappiamo rispondere a questa domanda ma in tanti – compreso chi sta scrivendo questa nota – ad un’ulteriore domanda su quali altre figure professionali vantino antichissime tradizioni, dopo aver balbutito… il guerriero… il mercante… il ladro… si fermerebbero interdetti. Eppure, la risposta c’è: il falsario. Ad esempio, il greco Pasìtele che truffava ricchi collezionisti Romani; e, molto tempo prima in un papiro egizio si trovano consigli astuti su come realizzare pietre preziose usando del vetro. Queste cose le illustra, con scrittura colta e spesso divertente, Harry Bellet.in un libro pubblicato dalla casa editrice Skira intitolato Falsari illustri. Bellet, nato nel 1960, ha studiato storia dell’arte prima di lavorare al Centre Pompidou a Parigi e alla Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence. Dal 1998 si è occupato di argomenti culturali per “Le Monde”. Oltre a cataloghi di mostre, ha pubblicato varie opere, fra le quali tre gialli e due romanzi storici incentrati su Hans Holbein, Les Aventures extravagantes de Jean Jambecreuse, artiste et bourgeois de Bâle e Les Aventures extravagantes de Jean Jambecreuse, au temps de la Révolte des Rustauds (Actes Sud, 2012 e 2018).
In “Falsari illustri”, facciamo la conoscenza dell’abilissimo Han van Meegeren, razzista, irascibile, alcolizzato e morfinomane che riuscì a truffare addirittura Hermann Göring rifilandogli un falso Vermeer. Di Fernand Legros nato in Egitto – da padre francese e madre greca – sono descritte le sue mirabolanti imprese, le sue tante carcerazioni, le sue amicizie omosessuali, e le vertiginose latitanze inseguito da polizie di mezzo mondo. Ammise di aver incassato da un solo affare con re Feisal dell’Arabia Saudita 20 milioni di dollari per dei Modigliani e dei Picasso. “Me li hanno rimandati indietro: il primo era ebreo e il secondo comunista. Allora li ho sostituiti con un lotto di ‘Gabrielle’ bene in carne di Renoir. Il re rimase soddisfatto”. Finì malissimo, invece, l’inglese Eric Hebborn trovato nel 1996 con la testa fracassata da un martello in un vicolo di Trastevere. Mai fu catturato l’assassino (o gli assassini). La sua specialità erano i disegni. Li vendeva come prove d’artista in maniera che fosse evidente che non erano un’opera compiuta. Inoltre, evitava i grandi maestri e preferiva i minori ma non per questo diventò meno ricco. Il generale Roberto Conforti (cui si devono il recupero di centinaia e centinaia di opere trafugate), all’epoca responsabile in Italia del nucleo Tutela del Patrimonnio Culturale riferì che Hebborn gli aveva detto: “Gli altri dipingono la natura, io dipingo l’arte”. Tante altre figure in quelle pagine per una lettura di buona divulgazione culturale e di eccellente qualità di scrittura. Solo applausi? No. Un piccolo rammarico ce l’ho. Avrei gradito fosse stato dato più spazio a F for fake (1973) di Orson Welles, l’opera cinematografica che più si è occupata di falso e falsari nelle arti visive. Da lì estraggo una battuta: “Un amico una volta mostrò un Picasso a Picasso. ‘No è un falso’ rispose il pittore. Lo stesso amico si procurò un altro presunto Picasso e Picasso disse che anche questo era un falso. Se ne procurò un altro ancora ma anche questo era falso, disse Picasso. ‘Ma Pablo’, replicò l'amico ‘ti ho visto con i miei occhi mentre lo dipingevi.’ ‘Posso dipingere un Picasso falso al pari di chiunque altro’, rispose Picasso”. Dalla presentazione editoriale di Falsari illustri «Quando Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum di New York, dichiarò nel 1997 che il 40% delle opere nel suo museo erano false, pensammo a un’esagerazione tipicamente americana. Di fatto, ci si domanda invece se la cifra non sia inferiore alla verità… così comincia il viaggio di Harry Bellet nel mondo dei falsi d’arte, viaggio che talvolta sconcerta, spesso diverte e sempre appassiona. Si attraversano casi affascinanti, dalle truffe che nell’antichità il greco Pasitele escogitava ai danni di collezionisti Romani, a Michelangelo, che in gioventù non disdegnò pratiche altrettanto discutibili, fino ai casi più recenti, eclatanti e a volte tragici di personaggi come Han van Meegeren, “Vermeer redivivo” che beffò Hermann Göring, o l’inglese Eric Hebborn, geniale autore di disegni capaci di ingannare i maggiori esperti dei maestri rinascimentali. Da queste vicende, sostiene l’autore, emergono due verità: il falsario “geniale” non esiste (a eccezione di quelli che non si sono fatti prendere) e… sì, i falsi si trovano ovunque, e sono assai difficili da scoprire». Harry Bellet Falsari illustri Traduzione di Eileen Romano Pagine 118, Euro 19.00 Skira
Hawking e il mistero dei buchi neri
Stephen Hawking nato a Oxford l’8 gennaio 1942 (una data che teneva molto a precisare segnava 300 anni esatti dalla morte di Galilei, spentosi l'8 gennaio 1642), morì a Cambridge il 14 marzo 2018. È fra i più grandi e noti fisici teorici al mondo, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull'origine dell'universo… ho dimenticato niente?... mi pare di no… ma se anche fosse, via, direi che può bastare. In vita ebbe un’infinità di riconoscimenti, gli furono dedicate serie radiofoniche e televisive, fu intervistato dalle maggiori testate del pianeta, ottenne premi, da Barack Obama perfino la "Medaglia presidenziale della Libertà", la più alta onorificenza degli Stati Uniti d'America. Un uomo fortunato quindi?… non proprio. A 21 anni gli venne diagnosticata una malattia degenerativa dei motoneuroni: la condanna a una progressiva, inarrestabile paralisi totale. Uomo di forte tempra affrontò quella grave malattia neurologica; proseguì gli studi pervenendo a grandi risultati, sposò Jane Wilde, sua prima moglie dalla quale avrà tre figli: Robert (1967), Lucy (1970) e Tim (1979). Tutto questo e il racconto del resto della sua vita lo troverete in un libro della casa editrice Editoriale Scienza che nella collana 'Lampi di genio' proprio ad Hawking ha dedicato una recente pubblicazione studiata per ragazzi dagli 8 anni in su: Hawking e il mistero dei buchi neri. L’autore è Luca Novelli che del libro ha anche il ruolo dell’illustratore. Dalla presentazione editoriale «Luca Novelli si cimenta con un grande del nostro tempo, Stephen Hawking, e ne tratteggia, con parole e disegni, la vita e i lampi di genio che l’hanno costellata. Il libro ha il patrocinio della Stephen Hawking Foundation. Astrofisico di fama mondiale, Hawking è stato paragonato a Galileo, Newton ed Einstein, ovvero a tre dei più grandi geni della storia. Ha indagato i buchi neri e ha cercato di rispondere alle più difficili domande che l’umanità si è posta: com’è nato l’universo? Quanto è grande? Da quanto esiste? Cosa c’era prima? Come finirà? In questo libro scoprirai la sua vita e, com’è nello stile della collana Lampi di genio, a raccontarla sarà lui stesso, grazie all’estro inconfondibile di Luca Novelli. Seguilo da quando era bambino e si divertiva a smontare giocattoli e orologi, fino al dottorato nella prestigiosa università di Cambridge, dalle vacanze a bordo di un carro comprato dal padre agli zingari, ai viaggi in tutto il mondo, tra conferenze e importanti riconoscimenti. Se la sua storia, all’inizio, può essere quella di un ragazzo come tanti altri, poi diventa una coraggiosa battaglia contro una male che vuole annientarlo, ma che non gli farà mai perdere la voglia di vivere, di conoscere e capire». Il volume si avvale di un Dizionarietto che spiega i termini incontrati lungo le pagine. Cliccando QUI è possibile leggere alcune pagine iniziali del libro. Luca Novelli Hawking e il mistero dei buchi neri Pagine: 128, Euro 9.90 Editoriale Scienza
venerdì, 18 ottobre 2019
L'occhiale indiscreto
Leggere Ennio Flaiano (Pescara 1910 – Roma 1972), è una festa dell’intelligenza che si rinnova in tutte le sue pagine da quelle dell’unico romanzo (“Tempo di uccidere”, vincitore nel 1947 della prima edizione del Premio Strega) a quelle di sceneggiatore cinematografico, di autore teatrale, di giornalista. Sapido e atroce nel definire i vizi italiani, seppe mantenere inalterata e costante la sua felicità espressiva pur colpito nel privato da un grandissimo dolore: la figlia Luisa (chiamata Lelè) colpita poco dopo la nascita da un'encefalopatia che risultò permanente. Proprio un’infelice frase di Fellini (“Perché non la rinchiudono?”) segnò la fine dell’amicizia con il regista, amicizia fin troppo celebrata dai giornalisti perché se fu stretta sul piano professionale, in realtà ebbe momenti tempestosi fra due personaggi che poco avevano in comune e mai si amarono come, spesso frettolosamente, si racconta. Flaiano con il suo umorismo malinconico («Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi») si staglia nella letteratura italiana quale scrittore unico per le sue peculiarità. Ora la casa editrice Adelphi ripropone alla lettura L’occhiale indiscreto che raccoglie articoli scritti fra il 1941 e il 1972. Il volume è a cura di Anna Longoni. Insegnante e saggista, affianca percorsi di ricerca nell’ambito della cultura medievale a studi sul Novecento letterario. Tra i suoi lavori l’edizione critica del Liber Scale Machometi (Bur 2012), un volume monografico dedicato a Giorgio Manganelli (Carocci 2016), lo studio e la pubblicazione degli scritti di Ennio Flaiano, a partire dai due volumi delle opere, curati con Maria Corti (Bompiani 1988-1990), seguiti dall’epistolario Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972), Bompiani 1995, e dalla curatela dei singoli testi ora editi da Adelphi; per quest’ultimo editore, nel 2010, ha allestito il volume delle Opere scelte. Ad Anna Longoni ho rivolto alcune domande. A te che sei la più grande studiosa di Flaiano, chiedo: nel lavorare su questa pubblicazione hai ricevuto nuove epifanie da questi testi? Nel rileggere l’insieme della produzione giornalistica mi si è rivelata un’interessante continuità tra i pezzi degli anni Quaranta e quelli usciti nei primi anni Settanta sull’“Espresso”: nei piccoli dettagli o negli accadimenti occasionali, il giovane cronista che si era ritrovato a raccontare il fascismo e i primi mesi della ricostruzione, era stato capace non solo di cogliere fedeli istantanee di quella realtà, ma anche, e soprattutto, di identificare elementi destinati a riaffiorare, mutate di poco le forme, nella società italiana del boom economico. Da qui la scelta di costruire un volume in forma di dittico (struttura amata da Flaiano), in cui la distanza temporale delle due sezioni si annulla nel riaffiorare di immagini e riflessioni che si rispecchiano a distanza. Qual è la virtù scrittoria che permette a Flaiano di osservare la realtà al tempo stesso con “indignatio” e “pietas”? Uno stile pungente e affilato, che però non raggiunge mai toni aggressivi. Nel parlare degli italiani e dei loro eterni difetti Flaiano ricorre spesso al “noi” di chi all’indignazione affianca lo sguardo pietoso, ispirandosi sia alla satira oraziana sia a quella di Giovenale. Flaiano mantiene sempre un duplice atteggiamento rispetto ai tempi e ai luoghi che vuole raccontare: da una parte ci si immerge, lasciandosi sporcare e ferire, dall’altra si mantiene un passo di lato. Osserva con sguardo disincantato e dunque severo, ma nello stesso tempo si lascia toccare da quello che vede, riuscendo a creare col lettore quella forma di complicità che sola permette alla satira di raggiungere pienamente il proprio obiettivo. Qual è l'importanza di Flaiano nello scenario letterario italiano? Quale la sua originalità? Quale la sua attualità? Diceva Cesare Garboli che ci sono scrittori che si sanno ben amministrare, e dunque riescono a dirci tutto nel corso della loro esistenza, e scrittori eccentrici, che si rivelano con il trascorrere del tempo. Non c’è dubbio che Flaiano vada inserito in questa seconda categoria, innanzitutto per la grande quantità di inediti ritrovati dopo la sua morte: l’insieme dei suoi testi ci ha restituito il ritratto di uno scrittore che (cosa piuttosto rara nella scena letteraria italiana) ha attraversato generi diversi – dal romanzo al racconto, dall’appunto all’atto unico, dall’aforisma all’epigramma, dall’articolo alla sceneggiatura – e, ogni volta, trovando una chiave del tutto originale. Ma la sua dimensione postuma emerge anche dal fatto che nelle sue pagine ci imbattiamo continuamente in descrizioni, osservazioni, riflessioni che paiono lasciate lì per rispondere a domande di oggi. Un’ulteriore conferma della sua statura di classico, foss’anche, per dirla con Arbasino, quella di un piccolo maestro postumo. ………………………….. Ennio Flaiano L’occhiale indiscreto A cura di Anna Longoni Pagine 279, Euro15.00 Adelphi
Abbiamo fatto cose da pazzi (1)
Nello scenario del rinnovamento espressivo delle arti contemporanee, maiuscola è la presenza di Lamberto Pignotti (in foto una sua opera), uno dei fondatori della poesia verbovisiva in Italia (prima patria di quel genere espressivo ripreso poi in tutto il mondo), autore di un un’infinità di performances multisensoriali, di alcuni radiodrammi sperimentali, nonché d’una notevole quantità di pubblicazioni teoriche imperniate sulla "cultura del neo-ideogramma" (copyright Pignotti) intendendo con quest’espressione proprio la nuova civiltà dell'immagine, della tecnologia e dei mass-media. Di lui si sono accorti in questi più vicini anni non solo grandi Gallerie italiane ma anche importanti musei e istituzioni internazionali quali, ad esempio, la Beinecke Library della Yale University (New Haven, Connecticut), il Centre Pompidou di Parigi, giusto per citare due recenti occasioni. L’anno scorso durante un nostro incontro gli chiesi come si sentisse lui, pestifero discolo antiaccademico, esposto in tanti importanti musei. Risposta. Quando negli anni ‘60 nei manifesti e nei convegni del Gruppo 70 scrivev… no, non è una confusione di date, è che il Gruppo ’70 lo fondammo nel 1963… scrivevo che era l’ora per l’arte di passare dal museo al luna park non pensavo di essere stato anche troppo presto preso sul serio. Ora che tutta l’arte è entrata schiamazzando in massa nel luna park, mi son detto che non è male ritornare al museo, magari dalla porta di servizio, da quella di emergenza… di soppiatto… da intruso. Ora è in corso nel Salone monumentale della Biblioteca Marucelliana a Firenze una mostra a lui dedicata con il titolo Abbiamo fatto cose da pazzi Lamberto Pignotti e la Marucelliana a cura di Giovanna Lambroni e Lucilla Saccà. L’esposizione è stata realizzata con il contributo della Fondazione Ambron Castiglioni e Angelo Pontecorboli Editore. Quarto di copertina del catalogo. La mostra propone una selezione dei documenti più significativi del Fondo Pignotti, a illustrarne la varietà dei materiali ma anche la stretta connessione con le collezioni marucelliane e, in generale, con l’editoria fiorentina della seconda metà del secolo scorso. I manoscritti e i dattiloscritti riferibili all’attività critica di Pignotti sulla Poesia Tecnologica e sulla Poesia Visiva sono accostati ai fascicoli delle riviste in cui videro le stampe, mentre i libri d’artista, realizzati tra il 1975 e il 1977, sono accompagnati dal loro corredo promozionale o da testimonianze documentarie della loro elaborazione. Molti sono i materiali “minori”, spesso unica testimonianza di mostre, eventi e performance del Gruppo 70. È poi proposto un excursus cronologico che ripercorre l’attività letteraria di Pignotti tra anni Cinquanta e Sessanta, fino alle soglie del Sessantotto, quando l’artista abbandona Firenze e si trasferisce a Roma, e una selezione di opere dalle serie dei Francobolli e dagli interventi sulle fotografie dei quotidiani, sperimentazioni successive ma che recano ancora forte il legame con queste prime esperienze fiorentine. Segue ora uno zoom sul catalogo.
Abbiamo fatto cose da pazzi (2)
Parole in catalogo di Giovanna Lambroni.
“Il Fondo Lamberto Pignotti raccoglie carte e pubblicazioni in gran parte riferibili agli esordi della lunga carriera dell’artista: dattilo- scritti, manoscritti, estratti da giornali e fascicoli di riviste, manifesti, locandine, pieghevoli e dépliant di varia natura, libri e alcune opere, che nel corso del 2018 dal suo archivio personale sono confluiti nelle collezioni della Biblioteca Marucelliana, grazie anche alla volontà di legare questi documenti a un’istituzione a cui lo stesso Pignotti era particolarmente affezionato. Del resto, la Marucelliana, da sempre strettamente integrata con il mondo culturale cittadino, possiede numerosi fondi di personalità dell’arte e della cultura fiorentina tra Ottocento e Novecento, in un percorso di intrecci e rimandi che, con le più recenti acquisizioni delle carte di Giorgio Luti, Renzo Ricchi e Franco Manescalchi, giunge sino a tempi molto recenti. Il Fondo Pignotti si inserisce dunque in un più ampio lavoro di ricognizione e valorizzazione del posseduto della Biblioteca riferibile alla produzione editoriale della seconda metà del secolo scorso” Un estratto dall’intervento di Lucilla Saccà. “Ho conosciuto Lamberto Pignotti agli inizi degli anni Settanta al D.A.M.S. di Bologna, quando ero una neo-laureata alle prese con la prima borsa di studio, e tra noi si è stabilito un rapporto di affettuosa amicizia, che è durato nel corso del tempo. Mi ha colpito la sua cultura straordinaria e curiosa e mi ha affascinato quel suo modo di prendere le cose e i contrattempi della “vita accademica” e non solo con sorridente leggerezza; sempre disponibile e affabile, era spesso in viaggio con una piccolissima valigia, intento ad organizzare ora un seminario, ora una mostra, ora una tappa a Parigi. Quando, in relazione ai fondi conservati nella Biblioteca Marucelliana, è nata l’idea di organizzare una monografica sul suo lavoro ho accettato con entusiasmo. Sapevo che quella biblioteca era da lui molto amata e frequentata assiduamente nei suoi anni giovanili, perché vicina alla sua abitazione di Firenze ed inoltre l’occasione della mostra è motivata dalla recente acquisizione di un fondo proveniente dall’ archivio dello stesso artista. Questo significa costruire una base per studi futuri, creare un punto di riferimento per le ricerche su Pignotti, sui suoi rapporti nazionali e internazionali con poeti, artisti e scrittori e sulla genesi e gli sviluppi della Poesia Visiva. Anche Pignotti è stato molto felice e mi ha raccontato che proprio sui tavoli “di quella bellissima sala” aveva scoperto e studiato l'Histoire de l’art contemporain di Zervos che considera un fondamento della sua formazione”. Dallo scritto di Lamberto Pignotti (in foto). “Correva l’anno 1943, e come correva..., cadeva il fascismo, si annunciava l’armistizio, fischiavano a Firenze le sirene degli allarmi aurei, arrivavano alle Cascine i panzer tedeschi, le argentee fortezze volanti iniziavano a sorvolare e poi a bombardare Campo di Marte e San Jacopino, sfilavano a Santa Maria Novella i nuovi battaglioni di Mussolini e la X° Mas di Valerio Borghese, a Villa Triste sulla via Bolognese il famigerato Carità torturava i primi partigiani, di fianco allo stadio comunale si fucilavano i renitenti alla leva della Repubblica Sociale. Correva l’anno 1943 e io salivo e scendevo i gradini della bella scala che conduceva alla Biblioteca Marucelliana. Avevo 17 anni e siccome allora l’ingresso a una biblioteca pubblica era permesso a chi aveva superato il diciottesimo anno di età, mi ero fatto fare dal mio professore di italiano, Luigi Fallacara - poeta ermetico legato alla rivista «Frontespizio» ma attivo già ai tempi di «Lacerba» un permesso speciale che mi consentisse un accesso anticipato, valido sia per la Biblioteca Nazionale sia per la Marucelliana, che distanziando pochi passi da casa mia, in via San Zanobi, consideravo la biblioteca personale e frequentavo attratto da una particolare seduzione. La Marucelliana, alla stregua della “madeleine” di Proust, mi riporta alla mente l’odore di quella sua grande sala rivestita di annosi scaffali e di antichi volumi, un odore avvolgente che andava ad interagire con le parole e le immagini che mi stavano sotto gli occhi”. Lamberto Pignotti “Abbiamo fatto cose da pazzi” a cura di Giovanna Lambroni e Lucilla Saccà Biblioteca Marucelliana Via Camillo Cavour 43, Firenze Info: 055 - 272 22 00 Fino al 13 novembre 2019
martedì, 15 ottobre 2019
La rivolta degli oggetti (1)
Il 24 marzo 1976 fu un giorno che segnò una grande tappa nella storia del teatro italiano sperimentale indirizzando la ricerca espressiva scenica su nuovi cursori. In quella data debuttò, infatti, al famoso Beat 72 lo spettacolo – con una scheda di presentazione firmata da Simone Carella – “La rivolta degli oggetti” del gruppo La Gaia Scienza formato da Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi. Successivamente, dopo grandi spettacoli – ricordo: “Gli insetti preferiscono le ortiche”, “Cuori strappati” – quel gruppo, purtroppo, si divise. Barberio Corsetti prese una via, un’altra il duo Solari – Vanzi. Oggi, al Teatro “India” di Roma è possibile vedere un riallestimento operato dai tre attori registi che idearono la famosa messa in scena di quell’indimenticabile “La rivolta degli oggetti”. In foto un’immagine dello spettacolo del 1976. Estratto dal comunicato stampa. «A quarantatré anni di distanza, i tre artisti della Gaia Scienza, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi, si riuniscono per riallestire “La rivolta degli oggetti”. La loro prima opera del 1976 passa il testimone a tre giovani performer – Dario Caccuri, Carolina Ellero, Antonino Cicero Santalena – dando vita a un incontro fra epoche, corpi ed esperienze differenti. Lo spettacolo è frutto della collaborazione fra Teatro di Roma e Fondazione Romaeuropa, Una produzione Fattore K. 2019 in coproduzione con Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Romaeuropa Festival e Emilia Romagna Teatro Fondazione. Nato nel clima di estrema libertà artistica della controcultura romana degli anni Settanta, l’evento – un’ora esatta di poesia, distillata tra rivoluzione sociale ed estetica, tra avanguardie storiche e arte contemporanea – si presenta al pubblico di oggi mosso dalla volontà di restituire agli spettatori proprio quello spazio utopico di creatività e circolazione del pensiero che ne aveva favorito la creazione. Specchi, sedie sospese, funi, un cappotto, un violino scordato: sono gli oggetti che si oppongono ai corpi dei performer, acrobati in esplorazione dell’universo poetico di Majakovskij – il titolo stesso è quello di un suo poema del 1913 – che si rotolano, si lanciano, si dondolano come smarriti, amplificando i versi dell’autore russo nella risonanza di una miriade di frammenti. Lo spettacolo del 1976 trovava la sua essenza in un lavoro sul corpo basato sulla gestualità, sulla parola, sullo slancio e sull’energia in una sintesi tra teatrodanza e arte visiva che fu la chiave dell’impatto emotivo sul pubblico e sulla critica, la quale non mancò di rimarcare la leggerezza con cui tutti gli elementi venivano amalgamati assieme per essere poi condivisi con lo spettatore. Il metodo alla base del lavoro partiva infatti da una sostanziale rottura con la tradizionale divisione dei ruoli: tutto nasceva dal cortocircuito di diverse individualità artistiche che in quel momento, incontrandosi, generavano qualcos’altro, e davano vita ad un universo complesso e in costante trasformazione. Nel 2019 questo cortocircuito è rinnovato dalla presenza dei tre giovani performer, alle cui sensibilità è affidata la creazione – ogni sera differente – su base della “partitura” dello spettacolo originario, per associazioni e dissociazioni, sguardi e movimenti. I tre performer, in dialogo con lo spazio e con il proprio tempo, incarnano così attraverso i loro corpi lo straniamento e le tensioni di un presente diviso fra la mercificazione imperante e la libertà sterminata di internet e dei media. Il risultato è uno spettacolo che, come in un gioco di scatole cinesi, concentra l’esperienza artistica di tre epoche storiche lontane fra loro – l’avanguardia rivoluzionaria russa, le cantine romane, il mondo come lo vediamo oggi – per aprire di nuovo il teatro allo stupore e alle possibilità dell’incontro, tanto fisico quanto metaforico. Il ritorno de La rivolta degli oggetti de La Gaia Scienza non può non portarsi dietro parole e immagini degli anni in cui è nata, i segni di un momento storico – gli anni ’70 – che ha disegnato l’orizzonte culturale e vitale del nostro paese. Le tre settimane di programmazione al Teatro India saranno accompagnate da un calendario di eventi, mostre, incontri, e attraversate da molti che in quegli anni hanno iniziato a produrre pensiero radicalmente critico, in ambito culturale, politico e artistico. Immagini inedite, una collezione di documenti mai assemblati per una esposizione pubblica, materiali editoriali eccezionali, installazioni, letture e interventi di personalità decisive allora, come ancora, nell’attuale panorama artistico e intellettuale italiano: tutto per squarciare una visione sul passato, ma anche e soprattutto per prendere da quel passato strumenti che possono aiutarci a rivoltare un immaginario presente». Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino; tel. 06. 684 000 308 --- 345.4465117 e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net Segue ora un incontro con Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi.
La rivolta degli oggetti (2)
A Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi ho rivolto alcune domande. Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi. Che cosa vi ha convinto a ripresentare quel vostro successo di tanti anni fa? Diverse considerazioni sono alla base della decisione di riproporre un lavoro della Gaia Scienza. Ciascuno di noi nel corso degli anni ha recepito una richiesta molto forte di ‘ricostruzione di memoria’ da parte di giovani attori, che della Gaia Scienza sapevano ben poco. Da qui la volontà di una trasmissione diretta del nostro modo di lavorare e di concepire il teatro. Non secondariamente, dopo più di trent’anni dalla nostra separazione, c’è stato il desiderio di rimetterci in gioco, per una verifica sulla tenuta di un linguaggio che avevamo costruito insieme e che - con tutte le differenze ed elaborazioni che abbiamo introdotto nei nostri percorsi dopo la nostra scissione - pensiamo ancora ancora vivo ed efficace. Lo spettacolo è l’esatta riproposizione di quella lontana prima edizione oppure oggi c’è qualcosa di diverso? Se no, perché? Se sì, che cosa? Dopo esserci rivisti ed aver ragionato su quale opera riallestire, abbiamo deciso per “La rivolta degli oggetti”, testo giovanile di Vladimir Majakovskij (del 1913), primo nostro spettacolo, presentato nel marzo 1976 al Beat 72. Non avrebbe potuto essere in alcun modo una ricostruzione, tantomeno ‘filologica’, in quanto lo spettacolo originario era basato essenzialmente sull’improvvisazione: ogni sera variava sensibilmente, al di là di alcune semplicissime scansioni formali, di tempi, spazio e luci. Ma il testo di Majakovskij, per la sua capacità di grande apertura metaforica, di immaginario, di orizzonti politici ed esistenziali è ancora fortissimo, e rimette in gioco un’idea di mondo, di futuro, di trasformazione - con energia, poesia ed ironia. Quando abbiamo fatto La rivolta allora eravamo ventenni e il mondo e la città erano ben diversi. Misurare lo scarto, la differenza tra l’allora e l’oggi, entrano così nel lavoro che facciamo con i tre giovani, che noi chiamiamo a ragionare sul loro vissuto e sulla possibilità o meno di una visione utopica. Come avete selezionato i nuovi interpreti? Quale criterio vi ha guidati? Gli interpreti sono stati scelti durante due laboratori intensivi che abbiamo tenuto a Roma, uno al Macro a dicembre e un altro alla Pelanda, nel marzo scorso. Non è stata una selezione semplice, buona parte dei partecipanti aveva una grande attenzione, partecipazione, fisicità ed intelligenza, a conferma che non è affatto vero che i giovani siano tutti rimbecilliti, anzi! In ogni caso anche in questo ci siamo trovati concordi sulla scelta. Dario, Carolina e Toni sono stati scelti esclusivamente per le loro capacità, non certo in base a somiglianze fisiche con noialtri (di allora). Non cercavamo dei replicanti o degli avatar, ma persone con le quali costruire un evento nuovo, disponibili ad aprire il loro immaginario, personale e generazionale. Quale differenza trovate fra la scena teatrale di ricerca del 1976 e quella di oggi? Gli anni ‘70 avevano protagonisti a livello internazionale grandissimi artisti, innovatori o rifondatori del linguaggio teatrale. Roma godeva di un’apertura culturale inedita, in particolare si andavano tessendo reti di collaborazioni tra artisti in eventi, performances, spettacoli. Noi abbiamo iniziato il nostro percorso al Beat 72, che in quegli anni, grazie a Simone Carella che ne era l’anima e la mente, rappresentò un felice punto di incontro tra teatro, poesia, musica, arti visive. L’economia era fragile a dir poco, ma esisteva una grande felicità creativa. Inoltre, tutto il sistema teatrale, per quanto sgangherato, era molto meno burocratizzato di quanto non lo sia oggi. Questo ha permesso a noi, ma anche a tanti altri nostri compagni di strada, di concepire e realizzare spettacoli o eventi che oggi è pressoché impossibile anche soltanto sognare, dall’uso dei materiali a quello degli spazi e ai tempi di prova. Nel raccontare ai ragazzi come ci muovevamo noi allora, abbiamo più volte registrato il loro stupore, la loro curiosità – come se si trattasse di due epoche distanti anni luce… “La rivolta degli oggetti” avrà – come in molti sperano – un seguito con altri spettacoli? È rinata la Gaia Scienza? Dopo circa 10 anni di lavoro insieme, ‘La gaia scienza’ si scisse nella compagnia di Giorgio Barberio Corsetti e nella Solari-Vanzi. Ognuno proseguì nella propria ricerca. Alcuni ci hanno chiesto se questo riallestimento è un preludio per una rinascita della Gaia Scienza. Crediamo che quell’esperienza sia stata molto importante per ciascuno di noi e per la scena italiana e non solo, ma che appartenga a un nostro passato. Farla rivivere, in termini nuovi, con questa riedizione della Rivolta degli oggetti è stata una bella verifica. Non ci pare poco. …………………………………………….. La rivolta degli oggetti da Vladimir Majakovskij testi e regia Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi con Dario Caccuri, Carolina Ellero, Antonino Cicero Santalena interventi scenografici Gianni Dessì tecnico luci Tiziano Di Russo assistente di produzione Ottavia Nigris Cosattini Teatro India, Roma Lungotevere Gassman Info: 06 - 877 52 210 Dal 17 – 10 fino al 3 – 11 – ‘19
Wired XS
Nasce il nuovo brand Wired XS dedicato ai ragazzi dagli 8 ai 12 anni. Il primo prodotto del nuovo marchio segna l’inizio di una collaborazione fra Wired Italia e .Salani Editore.
Prima di presentare questa nuova iniziativa editoriale, ricordo ai più distratti che cos’è Wired, dove e quando nasce. È una rivista mensile statunitense con sede a San Francisco in California nata nel marzo 1993 fondata dal giornalista statunitense Louis Rossetto e dall’informatico Nicholas Negroponte. Nota come "La Bibbia di Internet", la linea editoriale di Wired è stata originariamente ispirata dalle idee del teorico dei media canadese ,Marshall McLuhan. La rivista tratta tematiche di carattere tecnologico, informa sulle più recenti ricerche nell’area scientifica della comunicazione e di come queste influenzino, o possono influenzare, la cultura, l'economia, la politica e la vita quotidiana di noi tutti abitanti del “villaggio globale” per usare un’espressione coniata da McLuhan. A partire da marzo del 2009 esce la versione italiana di Wired, con la copertina del primo numero dedicata al Premio Nobel Rita Levi-Montalcini. Veniamo ora al Wired XS. Il testo che segue è un estratto da un comunicato per i media. . «Il primo prodotto a marchio Wired XS è una serie di libri da leggere insieme con tutta la famiglia, dedicati a chi ama la storia della scienza e dell’innovazione. Narra vicende vere e descrive le invenzioni di persone straordinarie, che con le loro idee geniali hanno cambiato il mondo. “Con Wired XS si amplia l’offerta di Wired Italia” – spiega Federico Ferrazza direttore di Wired Italia – “Con Wired XS, infatti, ci rivolgiamo a un pubblico che fino a ieri difficilmente intercettavamo. Così, oggi, abbiamo un’offerta più completa in termini generazionali e che nei prossimi mesi vedrà l’uscita di nuovi prodotti per bambini e ragazzi”. Sottolinea il direttore editoriale Mariagrazia Mazzitelli: “Qualità, creatività, innovazione, osservatorio privilegiato sul mondo giovanile e attenzione particolare all’originalità dello stile e alla freschezza del linguaggio sono i punti di forza di Salani e del suo catalogo che ospita importanti autori di livello internazionale. Sempre attenti alle novità, siamo lieti di inaugurare una collaborazione con Wired Italia”. I primi due libri Salani della serie disponibili in libreria (160 pagine, 12 euro l’uno). sono: I mega eroi della tecnologia e i mega eroi della scienza. Nel primo si scopre chi ha inventato la televisione e il computer, le auto e i videogiochi: oggetti comuni, di cui non possiamo più fare a meno. Storie di ragazzi con un superpotere straordinario: il coraggio di credere nelle proprie idee e la voglia di lottare per realizzare i propri sogni, anche quelli più audaci. Geni del passato come Guglielmo Marconi, che in una soffitta polverosa sperimenta la prima radio, e Thomas Edison, che inventa la lampadina e illumina le case e le strade di tutto il mondo. Geni del presente come Steve Jobs, fondatore della Apple e creatore di un famosissimo smartphone, e Larry Page, senza il quale non esisterebbe Google, il motore di ricerca più potente. Nel secondo libro si parla invece delle storie e avventure sorprendenti che si celano dietro le grandi invenzioni degli eroi della scienza. I protagonisti di questo libro sono scienziati come Marie Curie, scopritrice della radioattività e unica donna ad aver vinto due premi Nobel, e Jane Goodall, etologa, che in Kenya è diventa amica degli scimpanzé per studiarne il comportamento. Sono inventori come Galileo Galilei, che progetta e realizza il primo telescopio con cui osservare la volta celeste, e Archimede di Siracusa, che più di duemila anni fa mette a punto la leva, un sistema ingegnoso per spostare oggetti molto pesanti. Tutti i testi sono stati illustrati da uno dei più talentuosi graphic designer italiani Andrea Cavallini». Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web, l’Ufficio Stampa è guidato da Simona Scandellari; Tel. 02/34597632 – 335/7513146; simona.scandellari@salani.it
lunedì, 14 ottobre 2019
Amori molesti (1)
La casa editrice Laterza ha pubblicato un importante saggio ora nelle librerie: Amori molesti Natura e cultura nella violenza di coppia. Ne è autrice Silvia Bonino. Professore onorario di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Torino, ha lì insegnato per molti anni. Scrive sulla rivista “Psicologia Contemporanea”. Autrice di numerosi libri scientifici e divulgativi, pubblicati in Italia e all’estero presso i maggiori editori, ha diretto il Dizionario di psicologia dello sviluppo per Einaudi. Tra i suoi testi più recenti: “La leggenda del re di pietra” (Araba Fenice 2011); “Il mio giardino semplice” (De Vecchi 2012); “Quando i bambini sono piccoli” (Fabbri 2012). Per Laterza nel 2012: Altruisti per natura. Dalla presentazione editoriale
«È la parte più arcaica del nostro cervello a favorire nell’uomo una sessualità aggressiva e nella donna una tendenza alla sottomissione e alla paura. Ma è sempre la biologia, insieme alla cultura, che permette la costruzione dei legami d’amore. Per lungo tempo è esistita nelle specie animali solo una sessualità anonima e priva di legami. Solo con i mammiferi sono comparsi gli affetti, solo con gli esseri umani si è realizzata compiutamente la saldatura tra sentimenti positivi e sessualità. Sopravvivono ancora dentro di noi caratteristiche legate al cervello arcaico, che interpretano il rapporto uomo-donna secondo lo schema dominio-sottomissione. Su base biologica si fonda però anche la nostra capacità di favorire relazioni sociali positive: l’essere umano vive fin dalla nascita intense relazioni di attaccamento e di affetto, e crescendo sperimenta con i propri simili l’empatia, l’aiuto, la cooperazione. Silvia Bonino ci aiuta a scoprire le influenze culturali che stimolano le dimensioni più primitive e meno umane della nostra identità biologica: bisogna partire da questa consapevolezza per costruire un futuro di relazioni affettive e sessuali paritarie, le uniche capaci di soddisfare le esigenze più evolute di uomini e donne». Segue ora un incontro con Silvia Bonino.
Amori molesti (2)
A Silvia Bonino (in foto) ho rivolto alcune domande
Quale la principale motivazione all’origine di questo suo saggio? È un insieme di motivazioni tra loro collegate. Anzi tutto sono stata mossa da un’esigenza di buona divulgazione scientifica su un tema che continua a essere trattato secondo pregiudizi, ideologie, senso comune. Dopo una vita di studio sulla socialità negativa (aggressione) e positiva (empatia, cooperazione, altruismo), volevo far uscire l’ampio numero di conoscenze di cui disponiamo su questi temi dai diversi ambiti specialistici: sono temi essenziali nella vita di ognuno di noi. Inoltre volevo mettere insieme queste conoscenze e mostrare che esse compongono un quadro coerente sulla sessualità e sull’amore umano. Volevo quindi mostrare che è possibile un approccio solido e scientifico a questi temi, non ideologico, ma ancorato ai fatti e alle conoscenze di cui disponiamo, per far comprendere che anche le scienze umane hanno qualcosa da dire su argomenti sui quali spesso si ritiene che possano parlare solo le religioni, la filosofia, le tradizioni. Nello scrivere “Amori molesti” quale cosa ha deciso era da fare assolutamente per prima e quale, invece, per prima assolutamente da evitare? Più che di una cosa da fare per prima, parlerei di un qualcosa che volevo improntasse tutti i capitoli del libro. Sapevo bene di inoltrarmi in un terreno “minato”, nel quale le contrapposizioni ideologiche sono forti. Per questo volevo che tutte le mie affermazioni fossero fondate su una solida base scientifica e non apparissero velleitarie o un richiamo illusorio ai buoni sentimenti: il dominio maschile sulle donne non è umano e nell’appello etico alla parità noi possiamo contare su precise predisposizioni biologiche. Volevo allo stesso tempo fosse chiaro il superamento della contrapposizione tra natura e cultura, tra corpo e spirito, così frequente su questi temi, per far comprendere che anche la cultura nasce dall’uomo, dalla mente e dal cervello umani, e che bisogna capire come natura e cultura interagiscono. La responsabilità individuale e collettiva in questo senso è grande, in una società, come quella occidentale, che è solo teoricamente paritaria, ma che nei fatti stuzzica le parti più antiche di noi e tollera la violenza sulle donne. Il sistema nervoso centrale che indossiamo è ancora oggi soggetto alle leggi che hanno prodotto nel maschio l’aggressiva predazione sessuale, territoriale, sociale? Sì, è ancora il medesimo, perché parti filogeneticamente più antiche convivono con altre più recenti, più evolute e specificamente umane, che rendono possibili i sentimenti e la socialità positiva. Le parti più primitive, pur continuando a essere presenti e attive, sono zavorre preumane non più adattive per noi: la loro espressione provoca solo sofferenza. Quindi non possono essere invocate per giustificare il comportamento aggressivo di dominio maschile, come se questa fosse la nostra inevitabile natura. Al contrario, la nostra natura è quella di esseri massimamente sociali, cooperativi e altruisti, capaci di relazioni empatiche, di affetti e di relazioni umane profonde e paritarie. Solo queste sono in grado di darci benessere e serenità, sia individuale che sociale. Nelle parti più evolute del nostro cervello esistono le predisposizioni biologiche alla socialità positiva, che non è solo un prodotto culturale. Le tendenze primitive vanno tenute sotto controllo e la cultura ha il compito di favorire lo sviluppo delle tendenze sociali positive più recenti e per noi specifiche, non stimolando il cervello primitivo e non giustificandone e legittimandone l’espressione. Alcuni sostengono che la pornografia favorisca la liberazione sessuale. Lei nel suo libro esprime parere contrario. Perché? Il dibattito sulla pornografia è spesso ideologico e ignora la ricerca scientifica e il confronto con la realtà. Una grande mole di studi psicologici ha mostrato negli ultimi decenni gli effetti negativi della pornografia, in particolare sul comportamento sessuale dominante e violento di alcune categorie di uomini: quelli con un atteggiamento ostile contro le donne (che aumentano l’ostilità) e quelli dediti al sesso impersonale (sempre più incapaci di relazioni personali). La sessualità umana è evoluta nella filogenesi come mezzo per rinforzare una relazione sentimentale paritaria e durevole con una persona precisa, scelta per le sue caratteristiche individuali uniche: l’amore sessuale è questo. In ogni caso il sesso umano è sempre relazione tra due persone complete, con i loro complessi vissuti. Non c’è liberazione là dove c’è solo contatto impersonale tra due apparati genitali: c’è oggettivazione, che rende più facile il dominio e la violenza. Va poi sottolineato il cambiamento radicale, sia in termini di quantità (accesso illimitato) e di qualità (maggiore violenza, oggettivazione e dominio sulla donna), che è avvenuto negli ultimissimi anni, con la proposta e fruizione attraverso internet. Guardare un filmato non è la stessa cosa che sfogliare una rivista, come gli studi neurofisiologici hanno dimostrato. Alla luce delle sue riflessioni sull’evoluzione della sessualità e degli affetti nella specie umana, come orientare l’educazione sessuale presso i più giovani? L’educazione sessuale deve essere necessariamente un’educazione sentimentale, perché la capacità di coniugare sesso e affetti è specifica della specie umana. I sentimenti non si possono imporre ma solo coltivare su un piano di parità, e bisogna imparare a farlo nel concreto della vita quotidiana fin da piccoli. Oggi c’è un grande abbandono educativo, sia da parte della famiglia che della scuola, con la dis-educazione sessuale che passa prevalentemente attraverso internet e la pornografia, soprattutto dei maschi. L’adolescenza è un momento cruciale, grazie alla maturazione sessuale e allo sviluppo cognitivo che rende possibile l’autoriflessione su di sé e sul proprio comportamento. …………………………. Silvia Bonino Amori molesti Pagine 146, Euro10.00 Laterza
Master Pacs
Da quando l’Azienda Speciale Palaexpo di Roma ha per presidente l’artista Cesare Pietroiusti (di cui ricordo che è in corso a Bologna la mostra Un certo numero di cose) quell’Ente ha acquisito un nuovo slancio con plurali iniziative di grande e originale rilievo. Ne è testimonianza, ad esempio, un bando indetto da poco. Di seguito trasmetto il comunicato pervenutomi.
«Alla fine di gennaio 2020 partirà il primo Master “Arti Performative e Spazi Comunitari” organizzato dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre. L’Azienda Speciale Palaexpo mette a disposizione 20 borse di studio per coloro che vorranno frequentare il master. Le domande dovranno essere presentate entro il 10 novembre 2019 e la graduatoria sarà resa pubblica entro il 20 novembre 2019. Le preiscrizioni al Master sono previste entro il 15 dicembre 2019. Per le iscrizioni senza borsa la data ultima è il 20 gennaio 2020. Il master avrà inizio alla fine di gennaio e si concluderà alla fine di ottobre 2020. Scopo del Master annuale di II livello “Arti Performative e Spazi Comunitari”, primo in Italia nel suo genere, è quello di proporre un percorso di formazione che, attraverso l’esplorazione dei linguaggi performativi di teatro, musica, danza e arti visive, possa guidare i partecipanti verso forme inedite di sperimentazione artistica e di ricerca interdisciplinare, nonché verso l’attivazione in senso comunitario dello spazio architettonico e urbano, con particolare attenzione agli spazi dell’ex-Mattatoio di Testaccio. Il Master è rivolto sia ad artisti e sperimentatori nelle diverse discipline delle arti performative, che ad architetti, paesaggisti e urbanisti; sia a curatori e teorici dell’arte contemporanea che a filosofi, antropologi e ricercatori nell’ambito degli studi urbani. Uno degli obiettivi del Master è di introdurre le arti performative nel bagaglio culturale degli architetti: la performance come strumento utile all’architettura al pari dei tradizionali strumenti disciplinari. Impiegare il corpo e il movimento nella progettazione architettonica e urbana come mezzo capace di attivare la trasformazione e la produzione di spazi comunitari. Il Master si svilupperà attraverso una prassi laboratoriale che coinvolgerà artisti ed operatori nazionali e internazionali; seminari teorici e momenti di sperimentazione contribuiranno ad approfondire il percorso didattico in un’ottica di scambio e di costruzione di una visione creativa e critica. È prevista anche la collaborazione con due Master del Dipartimento Filcospe di Roma3 – “Studi del Territorio / Environmental Humanities” e “Studi e Politiche di Genere”. Il Master si svolgerà negli spazi dell’Ex-Mattatoio di Testaccio, sede del Dipartimento di Architettura di Roma 3 e di importanti spazi performativi ed espositivi (Pelanda, Galleria delle Vasche, Padiglione 9b), che dipendono dall’Azienda Speciale Palaexpo. L’ex-Mattatoio è un brano di città trasformato da porto romano a luogo di feste e carnevali medievali e, nel 900, in zona industriale all’interno di un quartiere popolare e operaio. Oggi questi spazi sono diventati crocevia di culture e luogo ideale per la sperimentazione artistica in senso comunitario. Il Master intende, da una parte promuovere l’osservazione delle potenzialità di questi luoghi, per inventare inediti modelli di uso condiviso dello spazio urbano; dall’altra, stimolare visioni creative individuali e collettive e sostenere una ricerca interdisciplinare di eccellenza nel campo delle arti performative. L’ambizioso obiettivo del Master PACS – “Arti performative e spazi comunitari” è riuscire a creare un ambito in cui la formazione e la sperimentazione laboratoriale possano generare delle vere e proprie forme-di-vita in comune basate sulla circolazione delle idee e delle pratiche, sulla condivisione delle risorse, sulla valorizzazione dei sensi e dei saperi». Il Master è diretto da: Francesco Careri – Dip. Architettura Università Roma Tre e da Cesare Pietroiusti – Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo. Fra i docenti che hanno già confermato la loro partecipazione ci sono: Agrupacion Senor Serrano; Anna Maria Ajmone; ATI Suffix; Simone Bertuzzi, Daniel Blanga Gubbay, Silvia Bottiroli, Chiara Camoni; Julie Faubert; Chiara Guidi; Stefan Kaegi - Rimini Protokoll; Muta Imago; Annalisa Metta; Alain Michard; Luigi Presicce; Daniele Roccato; Alessandro Sciarroni; Stalker; German Valenzuela; e Benjamin Verdonck. Per il programma dettagliato www.mattatoioroma.it www.masterartiperformative.it (presto online) Bando per le borse di studio https://www.mattatoioroma.it/pagine/iscrizioni-borse-di-studio Segreteria didattica e iscrizioni Università Roma Tre, Via Madonna dei Monti, 40 - 00184 Roma tel: +39 06 57332949 | email: eugenia.scrocca@uniroma3.it Per informazioni relative al programma e alla didattica email: spaziperformativi@gmail.com
Memoria e oblio
Nel presentare un’importante mostra fotografica di cui riferirò fra poco, voglio far precedere la presentazione stessa da alcune riflessioni di firme illustri. Anche i grandi possono dire delle cospicue castronerie. Ne volete un esempio? E’ di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita... sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”. Pure il grandissimo Kafka, a proposito d’immagini riprodotte, ne disse una che, forse, oggi più non direbbe: “Se il cinema è una finestra sul mondo, ha le persiane di ferro”. Con Walter Benjamin, la musica cambia: “Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l'analfabeta del futuro”. Ecco il pensiero di due fotografi diversissimi fra loro. Helmut Newton: “Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia. Henri Cartier-Bresson: “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.
Veniamo adesso alla mostra cui accennavo in apertura. Si tratta di Memoria e oblio Generare, conservare, condividere la fotografia oggi promossa da Rete Fotografia. È installata in sedi varie: Cairo Montenotte (SV), Cinisello Balsamo(MI), Dalmine (BG), Ferrara, Napoli, Rozzano (MI), Treviglio (BG), Treviso, Sesto San Giovanni (MI), Udine. Rete Fotografia è un’Associazione non profit nata nel 2011 a Milano su iniziativa di un gruppo di enti pubblici e privati, con la finalità di creare un sistema aperto di collegamenti e relazioni per promuovere e valorizzare la cultura fotografica. Ora presenta la nuova edizione di ‘Archivi Aperti’ la cui peculiarità è rendere accessibili al pubblico le collezioni fotografiche di archivi, musei, fondazioni e studi fotografi di professionisti. Estratto dal comunicato stampa. «La manifestazione ogni anno indaga un tema particolare legato al mondo dell’immagine. Per la quinta edizione l’argomento scelto è “Memoria e Oblio. Generare, conservare, condividere la fotografia oggi”. In un’epoca in cui l’immagine è in continua trasformazione e sta assumendo un ruolo sempre più dominante sulla formazione della conoscenza – specialmente nei giovani -, gli Archivi e gli studiosi deputati alla loro conservazione hanno e avranno sempre più un ruolo fondamentale, perché il discrimine tra cosa conservare e cosa cancellare è molto sottile e basta veramente poco per dimenticare. - Come scegliere il materiale da conservare a cui affidare la nostra memoria, o da destinare all’oblio? - Come agisce oggi il primato dell’immagine sulla formazione della conoscenza, e come agirà in futuro? - Fino a che punto il fare memoria, e il fare storia, sarà condizionato dal continuo aumento delle immagini, dalle loro tipologie e trasformazioni tecnologiche, dalla loro circolazione? Queste sono alcune delle domande che Rete Fotografia ha deciso di porre ad alcuni studiosi e ad un artista - Andrea Pinotti, Sergio Giusti, Giovanni Fiorentino, Guido Guerzoni e Linda Fregni Nagler - in occasione della tavola rotonda che si terrà alla sala conferenze del Castello Sforzesco venerdì 18 ottobre 2019 (ore 17). Dal 19 fino al 27 ottobre saranno gli stessi conservatori e curatori degli archivi, che hanno aderito all’iniziativa, a rispondere durante i molti appuntamenti in programma. Alla quinta edizione di “Archivi Aperti” partecipano 42 archivi e studi fotografici. Nonostante fulcro dell’iniziativa sia e rimanga la città di Milano, con la ricchezza e la varietà dei suoi archivi, per la prima volta la manifestazione si apre al territorio nazionale, includendo studi ed archivi di altre città. Saranno offerte visite guidate e workshop durante i quali si potranno visionare fotografie originali e imparare i metodi di conservazione. Si terranno incontri con gli autori delle fotografie, mostre e conferenze. Quasi 100 appuntamenti in 10 giorni con alcune proposte particolari, come la gita di una giornata al Museo Ferrania a Cairo Montenotte, proposta da Fondazione 3M, o il photo bike tour organizzato da Fondazione Pirelli nel quartiere Bicocca di Milano». Tutti gli incontri saranno gratuiti (previa prenotazione) e rivolti a un pubblico non soltanto specialistico, con proposte anche per le scuole. Per consultare il calendario di tutti gli appuntamenti, le schede degli archivi partecipanti con le relative proposte e i contatti, il programma del convegno: CLIC! Ufficio Stampa: Alessandra Pozzi ǀ Tel. 338 – 59 65 789 ǀ skype: Alessandra.pozzi1 ǀ press@alessandrapozzi.com ; @alessandrapozzistudio @AlessPozzi Memoria e oblio Sedi varie Informazioni: info@retefotografia.it 18 – 27 ottobre ‘19
venerdì, 11 ottobre 2019
Il computer è donna (1)
Ha detto Rita Levi Montalcini: ““La donna è stata bloccata per secoli. Quando ha accesso alla cultura è come un'affamata. E il cibo è molto più utile a chi è affamato rispetto a chi è già sazio”. Una testimonianza autorevole di quanto sosteneva quella scienziata viene da un eccellente libro pubblicato dalla casa editrice Dedalo: Il computer è donna Eroine geniali e visionarie che hanno fatto la storia dell'informatica. Ne è autrice Carla Petrocelli. Insegna Storia della rivoluzione digitale presso l’Università di Bari. Studiosa del pensiero scientifico moderno, si è specializzata nell’evoluzione del calcolo automatico focalizzando l’attenzione sul rapporto tra uomo e tecnologia e sulle sue ripercussioni antropologiche. Numerosi i suoi contributi scientifici dedicati alla storia dei linguaggi di programmazione e ai protagonisti dell’informatica. Carla Petrocelli ha scritto, in maniera scorrevolissima, un libro straordinario e necessario perché fa conoscere dell’evoluzione della tecnologia informatica donne di grande importanza che non sono note al pubblico perché mai entrate nei libri di storia o che hanno visto dedicate loro poche, frettolose righe. Dalla prefazione di Mario Tozzi: “I ritratti delle donne disegnati così bene in questo libro non si focalizzano sugli aspetti biografici (spesso troviamo nei libri di storia queste donne descritte solo come mogli, madri, sorelle o figlie di uomini noti), ma evidenziano quale sia stata la costanza, la pazienza e la passione che hanno permesso loro di perseguire un’idea, un obiettivo, una scoperta, un’intuizione”. Dalla presentazione editoriale. «Attraverso le vicende appassionanti di eroine geniali e visionarie, questo volume racconta la storia anomala dell’informatica, disciplina costellata da grandi sofferenze ed emarginazioni, soprattutto per quel che riguarda la collocazione femminile. Donne sconosciute al grande pubblico – e purtroppo, in molti casi, anche agli specialisti del settore – sono state le menti geniali che hanno posto le basi delle moderne tecnologie, senza però ricevere alcun riconoscimento, attribuito, il più delle volte, agli uomini con cui collaboravano. Carla Petrocelli porta finalmente alla luce i loro contributi determinanti e innovativi, facendo emergere, ad esempio, le grandi somiglianze fra il poeta George Byron e sua figlia Ada, prima programmatrice al mondo, ancor più stupefacenti se si pensa che in realtà i due non si sono mai conosciuti. Vedremo come la bellissima attrice Hedy Lamarr fosse anche, nell’ombra, una scienziata brillante, capace di brevettare un’idea oggi fondamentale per le Murray Hopper, con il suo spirito di inventiva e la sua meticolosità, ha perfezionato l’arte della scrittura del software, e conosceremo le straordinarie ENIAC Girls, donne coraggiose, forti, che hanno lottato contro il pregiudizio che le voleva solo mogli e madri. Queste donne non compaiono nei libri di storia, ma hanno indubbiamente cambiato la nostra quotidianità». Segue ora un incontro con Carla Petrocelli.
Il computer è donna (2)
A Carla Petrocelli – in foto – ho rivolto alcune domande.
Quale la principale motivazione all’origine di questo suo libro? Agli albori dell’informatica, furono le donne a immaginare come i computer potessero dare le giuste risposte ai problemi che si ponevano. All’epoca, gli uomini, che lavoravano nel nascente settore dell’informatica, consideravano la scrittura dei programmi un’attività secondaria e assai poco stimolante. La vera gloria risiedeva nel fabbricare le macchine, la programmazione sembrava un lavoro umile, quasi adatto esclusivamente a delle segretarie. Il mio forte desiderio è stato quello di dare un valore, e spesso un’identità, ai volti di queste donne sconosciute, oscurati e appannati nei libri di storia, ma sempre curiosi e stimolati dal bisogno di trovare risposte. Lo stupore e l’incredulità che mi hanno accompagnato nello scoprire le loro storie non mi hanno lasciato scampo: bisognava farle uscire dall’ombra e mostrare le loro idee, la tenacia, l’intuito e le motivazioni con cui hanno lavorato, spesso pagando conti salatissimi a scapito delle loro famiglie, dei loro affetti, della carriera e della loro stessa salute . Nello scrivere “Il computer è donna” quale la cosa che ha deciso era assolutamente da fare per prima e quale la prima assolutamente da evitare? Al giorno d’oggi molte cose sono cambiate ma, se le poltrone più elevate sono ancora occupate da uomini, se a parità di ruolo le donne ricevono stipendi più bassi dei colleghi uomini, se tanti stereotipi sono duri a morire, vuol dire che c’è ancora molto lavoro da fare. Come dicevo prima, le “mie donne” non hanno goduto della fama che meritavano. Ho pensato perciò, sin da subito, che le loro esperienze dovevano essere un modello a cui ispirarsi e in cui rispecchiarsi, rappresentare un insegnamento per le nuove generazioni. Ho fatto perciò attenzione che nel mio libro non vi fossero racconti di inventori solitari che, d’incanto, hanno dato vita e forma alla loro idea in un garage o in una polverosa soffitta, ma solo storie di determinazione, di coloro che hanno lavorato ogni giorno con impegno, dedizione e successo, pur non conquistando la luce dei riflettori. Perché nei due secoli osservati – l’Ottocento e il Novecento – troviamo più attenzione (sia pure con colpevoli distrazioni) verso le letterate e non sul versante da lei esaminato che pure ha radici storiche antiche e ha acquistato un ruolo protagonista dei nostri giorni? Pur avendo radici storiche antiche, l’informatica si è sviluppata come disciplina autonoma solo a partire dalla metà del secolo scorso e, sebbene sia indipendente dai computer che ne rappresentano solo uno strumento, viene sempre considerata come strettamente legata all’evoluzione delle macchine. Data la sua giovanissima età, si tende a dimenticare che la sua storia è stata un fenomeno talmente complesso che ha coinvolto numerose discipline: matematica, filosofia, linguistica, fisica, economia, ingegneria, astronomia, geografia. Esiste, pertanto, già una difficoltà oggettiva rappresentata dalla ricostruzione degli eventi e dal recupero delle fonti; questa difficoltà aumenta se si vanno a cercare i contributi dei singoli. Naturalmente questo fenomeno è mitigato per le altre discipline che hanno una tradizione più antica e, di conseguenza, hanno avuto una tradizione storica più tracciabile. Oggi in Italia, varie ricerche concordano sul fatto che per le donne è altamente improbabile il raggiungimento di ruoli apicali specie in campo scientifico. Da dove partire per porre riparo a quella situazione? È il cosiddetto fenomeno del “soffitto di cristallo”, la barriera invisibile che si frappone come un ostacolo insormontabile al conseguimento della parità dei diritti e alla concreta possibilità di fare carriera nel lavoro. Quando mi viene chiesto di dare qualche consiglio alle giovani donne che si affacciano al mondo del lavoro o che devono costruire un percorso di studi, utilizzo le parole di una grande informatica, Grace Murray Hopper, che alla fine della sua straordinaria carriera, ha dedicato la sua vita a parlare con i giovani nelle scuole e nelle università. Grace descriveva la programmazione dei computer usando sempre questa metafora: “È proprio come organizzare una cena. Devi pianificare in anticipo e decidere tutto in modo che sia pronto quando ne hai bisogno.” Questa frase evidenzia in modo straordinario la capacità delle donne di tenere sotto controllo molti aspetti della vita, anche se apparentemente slegati, quella di occuparsi della famiglia pur avendo un lavoro impegnativo, di fare commissioni, di andare in palestra e, malgrado tutto, riuscire a far sedere intere famiglie intorno a un tavolo per la cena. Ecco, questo è il mio suggerimento, portare nello studio e nel lavoro tutte le capacità acquisite nella vita personale e domestica. E per chi ha figli, considerare la maternità come una specie di Master in organizzazione aziendale! ……………………... Carla Petrocelli Il computer è donna Prefazione di Mario Tozzi Pagine 136, Euro 16.00 Dedalo
Franz Liszt Festival
Ad Albano, a cura dell’Associazione Amici della Musica "Cesare De Sanctis" sta per iniziare una nuova edizione del Franz Liszt Festival con la direzione artistica del clarinettista e musicologo Maurizio D'Alessandro. Per i più distratti che si ponessero la domanda: perché Liszt ad Albano? La risposta è presto detta. Il compositore ungherese Franz Liszt (Raiding, 22 ottobre 1811 – Bayreuth, 31 luglio 1886) viaggiò in tutta l'Europa tenendo concerti un po' dovunque. Nel 1865 divenne accolito della Chiesa cattolica; fu anche terziario francescano, ed è stato canonico nella Cattedrale di Albano. La sua condotta amorosa non fu troppo vicina agli austeri dettati religiosi perché sfarfalleggiò alquanto. Sposò Marie d'Agoult che si separerà da lui non perdonandogli le troppe scappatelle. Altri suoi cenni biografici: era il suocero di Richard Wagner, avendo quest'ultimo sposato sua figlia Cosima; fu legato a Fryderyk Chopin e a Robert Schumann da amicizia e stima. Appartenne alla generazione romantica e a lui sono dedicate pagine di un libro di Charles Rosen, edito anni fa da Adelphi, intitolato proprio “La generazione romantica” a cura di Guido Zaccagnini voce storica di Radio Tre. Grande libro sul movimento romantico in musica; quando apparve, Robert Craft scrisse: “Si può dire con certezza che La generazione romantica di Charles Rosen sia il più importante libro di musica non solo del 1995, ma di molti anni a venire”. Liszt, grande virtuoso del pianoforte, rivoluzionò la tecnica pianistica e il rapporto tra pubblico ed esecutore. La sua opera musicale comprende 123 composizioni per pianoforte, 77 lieder, 25 composizioni per orchestra, 65 brani corali sacri e 28 profani, svariati arrangiamenti, musiche per organo e altre composizioni. Il cinema è ricorso spesso alle sue musiche, fra i titoli più noti: Eva contro Eva di Joseph Mankiewicz; Hannibal Lecter di Peter Webber; Eyes Wide Shut, di Stanley Kubrick; Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis. Estratto dal comunicato stampa. «Vivere le bellezze d’Italia e dei Castelli Romani, riscoprirne scorci meno massificati, viaggiando sulle note del grande Romanticismo europeo che nel nostro paese trovò linfa vitale, in compagnia delle grandi leve della classica nazionale e internazionale: è questo l’obiettivo del Liszt Festival, che dal 12 ottobre 2019 al 5 gennaio 2020 torna nelle ottocentesche sale affrescate di Palazzo Savelli d'Albano Laziale per la 33° edizione. Un incontro virtuoso tra il nostro paese e la Mitteleuropa per omaggiare ancora una volta, a distanza di 140 anni dalla sua canonizzazione, il più grande pianista romantico che il continente abbia avuto, Franz Liszt. Significativa la sua opera creativa e umana negli anni romani dell’800 che lo hanno portato ad essere insignito del titolo di Canonico Onorario della Cattedrale di Albano nel 1879. Il Festival si apre con la cerimonia d’inaugurazione della targa marmorea a Palazzo Lercari dedicata a Liszt. Non solo musica: sul tema Clara Wieck e Robert Schumann: amore e arte fra caso e necessità si terrà un incontro il 18 ottobre presso la palazzina Vespignani del Museo Civico curato dal Maestro e Direttore Artistico Maurizio D’Alessandro, mentre il 30 novembre verrà presentato in prima nazionale il libro Franz Liszt negli anni romani e nell’Albano dell’800, Florestano Edizioni. Il Festival si giova del contributo da parte del Comune di Albano Laziale. Per consultare il programma: CLIC!» Ufficio Stampa HF4 – Marta Volterra marta.volterra@hf4.it 340.96.900.12 Festival Liszt Albano (Roma) Sala Nobile di Palazzo Savelli Piazza Costituente 1 Info e prevendita 06 - 9364605. Biglietto unico d’ingresso 10 euro. 12 ottobre 2019 – 5 gennaio 2020
mercoledì, 9 ottobre 2019
I geni del male (1)
Il titolo di questa nota non tragga in inganno, qui non troverete i tanti nomi terribili che hanno insanguinato la grande storia e la cronaca nera, ma in qualche moda, come vedrete, della malvagità si parla. I geni, cui si riferisce l’argomento di oggi, sono quelli così indicati in biologia. Che cosa sono? Facciamo luce con la Treccani: Il gene è l'unità elementare dell'informazione genetica e corrisponde al segmento di DNA, più raramente di RNA, in grado di produrre una proteina formata da una catena di amminoacidi. In quanto tale, il gene si replica, si trasferisce alla generazione successiva, si esprime, muta, si adatta all'ambiente ed evolve. L'insieme di tutti i geni di un organismo forma il genoma, che è tipico per ogni specie. Sono stati studiati i genomi di molte specie viventi e da qualche anno si conosce la struttura del genoma umano. La casa editrice Longanesi ha pubblicato un libro che risponde a una domanda antichissima: cattivi si nasce o si diventa? Titolo: I geni del male che si avvale di una grande firma scientifica qual è quella di Valter Tucci. Direttore del laboratorio di Genetica ed epigenetica del comportamento dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Laureato in psicologia, dopo una specializzazione in medicina ha vinto una borsa di studio del CNR per gli Stati Uniti, è stato chiamato dal Dipartimento di Anatomia e neurobiologia della Boston University e ha successivamente lavorato presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT). Nel 2003 è tornato in Europa e dopo un lungo periodo a Oxford si è trasferito a Genova. Dalla presentazione editoriale «Perché il nostro livello di attenzione aumenta ogni volta che sfogliamo le pagine della cronaca o veniamo a conoscenza di un delitto? Perché ai ragazzi piacciono così tanto i videogiochi violenti? Da cosa nasce l’impulso a uccidere nei serial killer? Perché, insomma, l’essere umano è così attratto dal male? A queste e a molte altre domande risponde Valter Tucci, psicologo, genetista e direttore del laboratorio di genetica ed epigenetica del comportamento dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, in quello che si profila come un vero e proprio viaggio alla ricerca dei geni del male. Partendo dalla domanda più importante di tutte – cosa ci rende umani, visto che condividiamo con altre specie un numero elevatissimo di geni e molti comportamenti istintivi? – Tucci delinea l’origine primitiva del male e il suo ruolo nell’evoluzione della nostra specie, chiarendo il funzionamento dei geni e dei meccanismi epigenetici e come entrambi controllino le nostre ansie, il nostro livello di aggressività e la nostra intelligenza. Scopriremo così che i confini tra fare del bene e fare del male sono molto meno solidi di quel che si pensa: i nostri comportamenti dipendono infatti da processi biologici che derivano sia dal nostro patrimonio genetico sia dagli eventi esterni, al punto che un trauma subìto dopo la nascita può influenzare lo sviluppo del cervello fino a scatenare comportamenti antisociali da adulti. Nei Geni del male Valter Tucci illustra con rigore e chiarezza le ultimissime scoperte scientifiche sui comportamenti malvagi che mettono in pericolo la nostra vita e l’intera umanità. E ci accompagna in un affascinante viaggio tra scienza e storia per scoprire perché «non esiste un cervello che sia immune dal male». Segue ora un incontro con Valter Tucci.
I geni del male (2)
A Valter Tucci, in foto, ho rivolto alcune domande. Nello scrivere questo suo saggio quale la cosa che ha deciso era assolutamente da fare per prima e quale per prima assolutamente da evitare? La prima cosa da chiarire è stata che parlavamo di una mente con base biologica, sia che i geni fossero i responsabili o meno. Ho evitato invece di dare una definizione universale di male perché non era il mio compito e perché non si possono mettere insieme tutti i vari aspetti di questo concetto. La prima frase del suo libro: “Il male, senza dubbio, attrae più del bene”. Perché? Siamo attirati dalla fonte di pericolo, perché da questo dipende la nostra sopravvivenza e questo è un fenomeno che valeva molto tempo fa quando i nostri antenati dovevano difendersi dai pericoli di un ambiente poco ospitale e vale ancora oggi. Oggi i pericoli sono diversi, si sono evoluti e sono diventati più sofisticati; rimane comunque l’esigenza di conoscere il pericolo. Quindi ne siamo attirati perché così possiamo conoscere meglio il male. Un tempo il ragionamento sul male era affidato a teologi, in pratica alla metafisica. Adesso (aldilà d’improvvidi, ma pur esistenti ritorni) il dibattito si è spostato in area scientifica. È possibile stabilire un profilo del male oggi acquisito da noi umani? Oggi è possibile studiare alcuni comportamenti pericolosi e dannosi degli esseri umani con gli strumenti della scienza. È possibile anche studiare come la nostra mente costruisce l’idea di un male metafisico. In altre parole questo è un tema che è entrato in laboratorio e nei prossimi anni diventerà sempre più interessante perché ci permetterà di capire maggiormente come funziona la mente umana. Il volume si conclude con l’esposizione di tesi espresse da pensatori ottimisti e altri pessimisti sul futuro. È possibile prevedere l’aspetto che nel futuro avrà il male? Dipende da quali aspetti prendiamo in considerazione. Il male come entità metafisica non è destinato a rimanere a lungo nella nostra specie. Sempre più gente sta comprendendo il valore di rimanere ancorati alla realtà scientifica e penso che nelle culture che verranno in futuro sarà sempre più forte il desiderio di capire, e meno di quello di credere. I comportamenti malvagi da parte delle persone continueranno ad evolversi in forme diverse. Pertanto, bisogna continuare a parlarne sia dal punto di vista sociale che scientifico e sviluppare sistemi per saperlo riconoscere. ………………………….. Valter Tucci I geni del male Pagine 272, Euro 16.90 Longanesi
martedì, 8 ottobre 2019
Oltre la Via Lattea
La casa editrice Dedalo ha pubblicato un libro dal titolo che ci proietta assai lontano: Oltre la Via Lattea. Ne sono autori John e Mary Gribbin. John Gribbin si è laureato in Fisica presso l’Università del Sussex e ha conseguito il dottorato in astrofisica presso l’Institute of Astronomy di Cambridge prima di intraprendere la carriera di giornalista scientifico scrivendo per riviste come «Nature» e «New Scientist». Nel 2000 è stato eletto membro della Royal Society of Literature. Mary Gribbin è scrittrice di libri scientifici per ragazzi. Vive nel Sussex con il marito John Gribbin, con il quale ha pubblicato diverse opere di divulgazione scientifica. Dalla presentazione editoriale. «Cosa si nasconde dietro un cielo stellato? Hubble, Wilson, Hale, Humason sono solo alcuni degli scienziati che hanno dedicato la vita a misurare l’Universo, calcolando le distanze che separano stelle, pianeti e galassie». Il libro è pubblicato nella collana Senza tempo diretta da Elena Ioli. Fisica teorica, ha studiato i buchi neri all’Università di Bologna e all’École Normale Supérieure di Parigi. Ha conseguito un Master in Comunicazione della scienza alla SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste. Da oltre 10 anni è autrice di manuali di fisica e materiali digitali per la scuola con l’editore Zanichelli di Bologna, lavora come docente di fisica nella scuola secondaria superiore e collabora come science editor con la casa editrice Dedalo di Bari. È autrice di “Le parole di Einstein”, un saggio scientifico sul ruolo della metafora nella comunicazione della scienza, e di un libro per ragazzi sui buchi neri, “Nero come un buco nero” (entrambi pubblicati da Dedalo Edizioni). Fa parte dell’editorial board della rivista di divulgazione scientifica Sapere. È membro del Comitato Scientifico del Museo dell’Ecologia della città di Cesena, dove risiede. Nel febbraio del 2018 è stata selezionata per partecipare al progetto australiano Homeward Bound, che ha portato 77 scienziate provenienti da tutto il mondo in una spedizione di 4 settimane in Antartide, coniugando scienza, comunicazione, leadership e tutela dell’ambiente. A lei ho rivolto alcune domande “Senza tempo”: perché è stata chiamata così questa collana? E quale il tipo di comunicazione che si propone? La casa editrice Dedalo ha fatto da apripista nel campo della divulgazione scientifica in Italia, proponendo sin dai primi anni ’90 titoli di scienza per il grande pubblico. La ormai storica collana “ScienzaFacile” è stata inaugurata, ormai più di 25 anni fa, da un prezioso libretto di domande e risposte sui fenomeni fisici nella vita di tutti i giorni. Proprio questo volume, dal titolo “Il diavoletto di Maxwell”, è il primo della nuova collana SenzaTempo, che, come suggerisce il nome, vuole riproporre al grande pubblico libri che non invecchiano, che mantengono inalterato il loro valore scientifico e l’interesse per lettori di ogni età. Sono libri che hanno fatto la storia delle Edizioni Dedalo e che hanno contribuito a combattere l’analfabetismo scientifico, animati dall’esigenza galileiana di parlare direttamente a tutti coloro che si avvicinano alla scienza non per professione ma per curiosità e per una sorta di moderna necessità culturale. ”Oltre la via Lattea" di John e Mary Gribbin. Quali i meriti di questo libro? È un secolo particolarmente fertile, questo nostro XXI secolo, per la fisica e per l’astronomia. Nel 2012 è stato scoperto il bosone di Higgs; nel 2016, i fisici della collaborazione internazionale LIGO-VIRGO hanno annunciato al mondo di aver rivelato il passaggio di un’onda gravitazionale, l’elusivo segnale previsto da Einstein nel 1916. Nell’aprile del 2019, tutti abbiamo ammirato la prima immagine dell’orizzonte degli eventi del buco nero al centro della galassia Messier 8, distante 55 milioni di anni-luce dalla Terra. Questa è solo l’ultima tappa di una storia ancora aperta. Per ricostruire gli albori dell’avventura scientifica e umana dei primi “esploratori” del nostro Universo, riproponiamo dunque ai tanti appassionati di astronomia questo piccolo e prezioso SenzaTempo, scritto da un maestro come John Gribbin, celebre astrofisico e divulgatore britannico, che ci racconta come siamo arrivati a scoprire che esistono centinaia di miliardi di galassie, e che ognuna di queste ospita corpi celesti come i buchi neri e le stelle di neutroni ed è teatro di fenomeni violenti come le esplosioni di supernova e i lampi gamma. Il libro si chiude con un interrogativo sulla possibilità dell’esistenza di vita su altri mondi. Credi sia possibile, in un lontano futuro, quell’incontro su cui tanto si spera o si teme? L’astrofisico Frank Drake propose, già nel lontano 1961, la sua celebre equazione, per provare a calcolare il numero di civiltà intelligenti e tecnologiche nella nostra galassia in grado di mettersi in contatto con noi. Ci sono miliardi di galassie nell’Universo, e ognuna di quelle galassie contiene miliardi di stelle. Per dirla con le parole di Carl Sagan, celebre astronomo e divulgatore statunitense, “sarebbe davvero un enorme spreco di spazio” se fossimo soli nell’Universo. Come possiamo escludere che da qualche parte nel cosmo, una stella simile al Sole e il suo sistema planetario abbia ospitato o ospiti la vita? Considerando però la dimensione dell’Universo, pari a miliardi di anni-luce, resto invece piuttosto scettica sulla possibilità che quella eventuale civiltà possa entrare in contatto con noi, e condividere proprio la nostra piccola finestra spazio-temporale… ……………………………………… John e Mary Gribbin Oltre la Via Lattea Traduzione di Elisabetta Maurutto Pagine 120, Euro 12.90 Dedalo
lunedì, 7 ottobre 2019
Un certo numero di cose
È in corso al MAMbo - Museo d'Arte Moderna di Bologna - la mostra Un certo numero di cose / A Certain Number of Things, un progetto di Cesare Pietroiusti (in foto); QUI una breve nota biografica. L'esposizione è a cura di a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì. Estratto dal comunicato stampa. «L’idea dell’esposizione - la prima antologica dell’artista italiano in un’istituzione museale - prende avvio da una riflessione sul concetto stesso di mostra retrospettiva e sulla effettiva possibilità di rappresentare un percorso di ricerca artistica in tale formato. Da questa indagine nasce l’idea-provocazione di Cesare Pietroiusti: autonarrarsi non solo attraverso le opere prodotte ma anche tramite oggetti, suggestioni, episodi, gesti, azioni, comportamenti, ricordi riferiti alla propria vita, a partire dall’anno di nascita, il 1955. Il percorso di visita nella Sala delle Ciminiere si articola attraverso l’esposizione di quelli che l’artista definisce “oggetti-anno” allestiti in ordine non rigorosamente cronologico. Si inizia dalla foto del piccolo Cesare in braccio alla balia proteso verso un grappolo d’uva (1955) per proseguire fino al 1976 con documenti, foto, dischi, cassette (con i relativi supporti d’epoca per la riproduzione) lettere, album di disegni, temi scolastici, storie, pagelle, tessere, libri, ricordi di viaggio, poesie che tracciano una linea lungo la crescita del bambino, adolescente e giovane Cesare. A partire dal 1977 gli oggetti si spostano prevalentemente dalla sfera personale all’attività artistica, con lavori di Pietroiusti realizzati nell’arco di quarant’anni: disegni, fotografie, video, riviste, documentazione di diverse performance, pubblicazioni, i siti web www.pensierinonfunzionali.net http://www.pensierinonfunzionali.net/ / www.nonfunctionalthoughts.net e documenti legati a mostre, lezioni e conferenze. Ogni oggetto-anno è accompagnato da un racconto che lo inquadra e lo contestualizza in rapporto ai precedenti e ai successivi. Gli oggetti che rappresentano gli anni dal 1955 al 2018 sono allestiti intorno all’ultimo oggetto-anno, relativo al 2019, che è collocato al centro della sala, in una struttura paragonabile a un “ring” completamente visibile e in alcune occasioni accessibile al pubblico: si tratta di un’opera in fieri, che si realizza grazie a un laboratorio condotto da Pietroiusti su due sedi, al MAMbo e al Grazer Kunstverein di Graz (Austria). Il workshop coinvolge studenti e giovani artisti, con l’obiettivo di riprodurre insieme all’artista in forma fisica, performativa e narrativa, secondo un meccanismo di mise en abyme della mostra stessa, gli oggetti esposti, in una forma di co-autorialità fin dalla fase ideativa. Gioca un ruolo importante lo scambio visivo tra gli originali allestiti intorno e le riproduzioni all’interno del “ring”. La ricerca artistica di Cesare Pietroiusti, fin dal 1977, si è sviluppata fuori dalle logiche di gallerie, musei e mercato, con estrema indipendenza. Interprete originale della pratica performativa e relazionale, si è mosso tra sperimentazione linguistica e riflessione concettuale, dimostrando un particolare interesse per situazioni e oggetti apparentemente poco significativi, paradossali, normalmente non considerati meritevoli di attenzione, indagine o rappresentazione, probabilmente in ragione della sua formazione di medico psichiatra. L’opera scaturente dal workshop avrà come istituzione di destinazione il Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli». Di Pietroiusti esistono libri, articoli, documentazioni audiovisive; io ho scelto questo video perché mi sembra che meglio ne rappresenti il pensiero. Spero di averci preso. MAMbo – Bologna Cesare Pietroiusti “Un certo numero di cose” Informazioni: Telefono 051- 64 966 11 E-mail info@mambo-bologna.org Fino al 6 gennaio 2020
Zombi, strane storie di santi
Tutte le religioni hanno qualche segno misterioso e terroristico che manifestano ai propri fedeli e anche a chi non crede in quella fede, ma quella cristiana le batte tutte per il corredo di leggende e iconografia che accompagnano la sua storia. Morti che fuoriescono dalla tomba per andarsene a spasso, seppellimenti troppo precipitosi che danno ragione alla tafofobia di Edgar Allan Poe, giovinette che mostrano piaghe e mutilazioni sfilando nel mondo come miss su di una passerella, altri che vanno a seppellirsi da soli e, immagino, con forte contrarietà delle imprese di pompe funebri, un tipo che decapitato cammina tenendo la sua testa su di un braccio come il cartoccio delle paste la domenica, Tutto questo universo di terrori lo trovate in un libro colto e delizioso pubblicato dalle Edizioni Graphe.it. intitolato Zombi, strane storie di santi. Ne è autore Arnaldo Casali. Nato a Terni nel 1975, si è laureato in Storia medievale all'Università “La Sapienza” di Roma con una tesi sull'umorismo in Francesco d'Assisi. Giornalista professionista, dirige la rivista «Adesso», lavora per l'Istituto di studi teologici e Storico sociali di Terni e collabora con il mensile BenEssere, il Festival del Medioevo di Gubbio e la Pontificia Accademia per la vita. È direttore artistico di Popoli e Religioni – Terni Film Festival e ha pubblicato, tra l'altro, su Medioevo, Antonianum e L'Osservatore Romano. Ha scritto il radioracconto “Il giorno di Natale”, l'opera teatrale “Il Giullare di Assisi” e pubblicato il libro di interviste “Tra cielo e terra. Cinema, artisti e religione” (Pendragon, 2011), il romanzo “Valentino. Il segreto del santo innamorato” (Dalia 2014) e i saggi biografici “Maria Eletta. Una monaca in cammino da Terni nel cuore dell'Europa” (OCD, 2018) e “Sulle tracce di Valentino. Storia, leggende e percorsi del santo di Terni” (Bct, 2019). Quest’autore, che, leggendo la sua biografia, proprio ateo non mi sembra, sfoglia una quantità incredibile di episodi avvenuti nel corso dei secoli con una scrittura scorrevolissima, pur erudita e raffinata, nella quale affiora più volte un elegante umorismo. Conosciamo creature che potrebbero comparire nel famoso videoclip – quasi un cortometraggio – “Thriller” di John Landis interpretato da Michael Jackson o essere scritturati da George Romero per apparire nel film “La notte dei morti viventi” evocante il tema dell'apocalisse zombi (opere entrambe, non a caso, citate nel libro). Se poi qualche birichino avanzasse l’ipotesi che il primo zombie è proprio Gesù Cristo, Casali tiene a chiarire con una dotta, non breve, dissertazione che Cristo “… non torna in vita, ma sconfigge la morte. E se quello degli zombie è un corpo sfigurato, il suo è trasfigurato”. Vabbè. Insomma, un libro che si fa leggere tutto d’un fiato riservando orrifiche meraviglie ad ogni pagina. Dalla presentazione editoriale. «Avevate mai considerato che la tradizione cristiana pullula di quelli che oggi, con un linguaggio cinematografico, chiameremmo «morti viventi»? Senza rischio di apparire blasfemi, possiamo dire che Gesù è il più celebre dei risorti dalla tomba e una lunga lista di santi e miracolati gli fa corona. Certo, sul piano religioso tutto ciò si lega al concetto della sconfitta della morte e del male, ma si incrocia anche con credenze popolari e bagagli culturali di provenienza differente. La questione è davvero complessa in termini storico-antropologici, filosofici e narrativi: proprio su quest’ultimo aspetto insiste l’autore di questo appassionante e insolito saggio, andando a scovare nelle Scritture riferimenti ad apparizioni, corpi redivivi e incorrotti, descrizioni disturbanti (che Casali definisce, a ragione, «agiografia splatter»). Con una scrittura vivace e moderna, pone a confronto questi aneddoti devozionali con elementi della cultura non strettamente religiosa e non ci nega ipotesi sulle situazioni di vita concreta che possano aver suscitato alcune leggende poi assorbite nei testi sacri». Arnaldo Casali Zombi Pagine 89, Euro 7.50 Gtraphe.it Edizioni
venerdì, 4 ottobre 2019
I demoni di Salvini
La casa editrice chiarelettere ha pubblicato un libro d’eccezionale attualità e importanza: I demoni di Salvini I postnazisti e la Lega. L’autore è Claudio Gatti. È stato corrispondente dagli Stati Uniti del settimanale “L’Europeo”, vicedirettore del settimanale economico “Il Mondo”, direttore del supplemento sull’Italia dell’ “International Herald Tribune” e inviato speciale de “Il Sole 24 Ore”. Con Roger Cohen ha pubblicato il libro In the “Eye of the Storm: the Life of General H. Norman Schwarzkopf” (1991). In Italia ha pubblicato “Rimanga tra noi. L’America, l’Italia, la ‘questione comunista’: i segreti di 50 anni di storia” (Leonardo 1991); “Il quinto scenario (Rizzoli 1994), inchiesta sulla strage di Ustica”; “Fuori orario. Da testimonianze e documenti riservati le prove del disastro Fs” (Chiarelettere 2009); “Il sottobosco. Berlusconiani, dalemiani, centristi uniti nel nome degli affari” (con Ferruccio Sansa, Chiarelettere 2012); “Enigate: i documenti esclusivi sulle tangenti internazionali che l’ente petrolifero è accusato di aver pagato” (Paper First 2018). Inoltre, ha condotto molte altre inchieste, lo considero, e non sono il solo, uno dei maggiori giornalisti investigativi europei. Ne è testimonianza di primo piano anche questo recente volume che indaga sulla clamorosa infiltrazione politica e culturale che il pensiero di derivazione postnazista abbia compiuto introducendosi nel movimento leghista. “Sono stati buttati nel vento tanti semi. Alcuni sono caduti sulle pietre e sono seccati lì. Altri hanno trovato terreno fertile e hanno germogliato.” Così dice Maurizio Murelli, neofascista condannato a 17 anni per aver fornito la bomba che uccise un agente di polizia a Milano nel 1973. Ha perfettamente ragione Murelli, sono germogliati eccome! Il volume si tiene ben lontano da ogni immaginazione e da ogni sentito dire, la tesi sostenuta è, infatti, sorretta da un’attenta presentazione di documenti originali, citazioni di date, nomi, luoghi che scorrono con un serrato ritmo di scrittura tanto da rendere difficile – come è capitato a me – staccarsi dalla lettura tanto si è immersi in un fiume di fatti e riscontri. In fondo a queste righe troverete l’Indice del libro (e la possibilità di leggerne le prime pagine) e già dalla specificazione dei capitoli ben si capisce di quale materia rovente sono fatte le pagine che seguiranno Dalla presentazione editoriale «Chiedersi se Matteo Salvini sia fascista non è solo un esercizio inutile, è un grave errore. Perché vuol dire cercare quello che non c’è. Il fascismo è finito con Mussolini. Quella che non si è mai spenta è la fiamma culturale e ideologica che lo ha alimentato. Grazie allo straordinario racconto di una gola profonda e ad altre testimonianze esclusive, l’autore rivela l’identità e la storia dei principali protagonisti di una macchinazione senza precedenti. A condurla è stato un manipolo di persone che, dopo aver metabolizzato fascismo e nazismo, con una strategia classificabile come postnazista ha saputo trarre vantaggio da debolezze e difetti della democrazia liberale per egemonizzare il dibattito culturale e prendere il controllo di quello politico. Quella qui raccontata è la più sorprendente operazione di infiltrazione politica della storia della Repubblica italiana. Un progetto di restaurazione del vecchio pensiero reazionario a vocazione autoritaria e plebiscitaria, dissimulato però come una formula nuova che supera i vecchi schemi politici attraverso un veicolo diverso da tutti gli altri: la Lega Nord. Matteo Salvini oggi, come Umberto Bossi ieri, non ha sposato il pensiero postnazista. Ha fatto di peggio: l’ha cinicamente usato per emergere e rimanere al centro dell’attenzione nazionale». Cliccare QUI per leggere l’Indice e le prime pagine. Claudio Gatti I demoni di Salvini Pagine 274, Euro 16.90 Chiarelettere
Il ritratto negato
Il regista polacco .Andrzej Wajda (Suwałki, 6 marzo 1926 – Varsavia, 9 ottobre 2016) poco prima di morire ha completato il suo film Il ritratto negato. È la biografia di Vladyslaw Strzemiriiski, pittore e teorico dell'arte che, nella Polonia del dopoguerra, viene perseguitato dal regime comunista perché non aderisce agli stereotipi del realismo socialista. Nella storia del cinema la figura di Wajda è riconosciuta da autorevoli firme. Si pensi a quando il 22 novembre 1999 Steven Spielberg invia una lettera all'Academy of Motion Picture Arts and Sciences nella quale chiede che sia assegnato a Waijda il premio Oscar alla carriera. Nella lettera scrive: «L'esempio di Andrzej Wajda ricorda a tutti noi, in quanto registi, che di volta in volta la storia potrebbe avere un profondo e inaspettato bisogno del nostro coraggio; che il nostro pubblico potrebbe voler essere elevato spiritualmente dalle nostre opere; che ci potrebbe essere richiesto di mettere a rischio la nostra carriera per difendere la vita civile del nostro popolo. Per ciò che rappresenta e quello che ha fatto per l'arte del cinema, richiedo rispettosamente di voler considerare Andrzej Wajda per l'assegnazione del premio Oscar alla carriera nel marzo 2000. Ottenuto il meritato premio, realizzerà un'opera famosa legata non solo a una tragedia della storia polacca, ma anche a quella sua personale: "Katyń", sull'eccidio compiuto dall'NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni, un commissariato governativo dell'Unione Sovietica) di 22.000 ufficiali e soldati dell'esercito polacco, tra i quali vi era anche il padre del regista.
“Il ritratto negato” si avvale di una splendida interpretazione di Bogusław Linda nei panni di Władysław Strzemiński, e di una bellissima fotografia di Paweł Edelman che rende con colori cupi e luci smorzate l’atmosfera claustrofobica degli anni in cui si svolge la storia. Colpisce come il racconto del perseguitato Strzemiński (espulso dall’Accademia degli artisti, licenziato dalla scuola in cui insegna, privato dei buoni pasto) somigli in modo impressionante a quanto accadde in Germania a quegli artisti colpevoli agli occhi del Regime di fare “arte degenerata”. Anche in Italia – per fortuna non con le conseguenze tragiche d’oltrecortina – si ebbe da parte del Pci un ostracismo verso gli astrattisti, basti pensare allo zdanovismo italiano nelle arti di cui si fa portavoce nell'ottobre del '48 Palmiro Togliatti che su Rinascita, stroncò una mostra bolognese definendola una raccolta di «cose mostruose», di «orrori e scemenze», di «scarabocchi». Si riferiva a nomi quali Giulio Turcato, Emilio Vedova, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Carla Attardi, Ugo Attardi… Fu un episodio non da poco perché scatenò una battaglia che venne combattuta tra intellettuali e artisti ossequienti ai dettati di Mosca e innovatori in più campi: dall’editoria giornalistica a quella libraria, dalle gallerie d’arte ai teatri, dall'area musicale alle produzioni cinematografiche; fu un fatale errore della dirigenza comunista italiana che determinò la prima frattura fra una parte d’intellettuali e artisti e il Pci.. Tornando al lavoro di Wajda, si può ben dire che è un film contro ogni totalitarismo qualunque sia il colore con cui si presenta agli occhi del mondo perché contiene la stessa violenza repressiva, la medesima ferocia che deriva dal pensiero unico. QUI il trailer del film. Il ritratto negato Anno: 2016 Durata: 98'00" Regia di Andrzej Wajda
giovedì, 3 ottobre 2019
Sette modi di dimenticare
Umberto Eco: “La memoria è strettamente legata all’oblio e ha un senso solo quando è selezione; soffre di tre malattie: eccesso di ricordi, eccesso di filtraggio e la confusione delle fonti”. Se sfogliamo un dizionario scientifico, la parola Memoria è così spiegata: “Funzione generale del cervello consistente nel far rinascere l’esperienza passata attraverso quattro fasi: memorizzazione, ritenzione, richiamo, riconoscimento”. Le cose poi si complicano perché esiste una memoria genetica e articolazioni in memorie di breve, media e lunga durata a loro volta distinte in memoria iconica, ecoica, sensoriale ed emozionale. La memoria, insomma, è lo scrigno che contiene tutto di noi, non a caso Cicerone affermava: “La memoria è tesoro e custode di tutte le cose” Perché oggi l’ho presa fissa con la memoria? Perché segnalo un libro, pubblicato dalla casa editrice il Mulino che riesce in modo scorrevole a incrociare più discipline: dalla fisiologia alla psicologia, dalla sociologia alla storia studiando quel motore individuale e collettivo qual è la memoria. Titolo: Sette modi di dimenticare. L’autrice è Aleida Assmann professore emerito di Letteratura inglese e Teoria generale della letteratura nell’Università di Costanza. Con il Mulino ha pubblicato «Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale» (nuova ed. 2015). Nel 2017 a lei e al marito Jan è stato attribuito il Premio Balzan per gli studi sulla memoria collettiva. Si chiede Assmann: ma siamo proprio sicuri che ricordare tantissimo sia un bene? Si ricordi il caso S. (il poco felice Solomon Seresevskij, di cui scrive lo psicologo Lurija e al quale Paolo Rosa ha dedicato nel 2000 un film: Il mnemonista). A chi è capace di ben ricordare, d’avere ottima memoria, sono stati da sempre – e anche oggi – riservati grandi elogi, dedicati un’infinità di studi e inventate mnemotecniche tese a contenere tutto lo scibile; si pensi al cinquecentesco, ingegnosissimo, vicino all’utopia, Teatro della Memoria (QUI un’immagine) di Giulio Camillo Delminio Questa tradizione propria della retorica classica fu già avversata da Montaigne che, scrive Assmann: “a una memoria colma fino all’orlo preferiva l’agilità di uno spirito libero” (e di ciò vi sono tracce nei suoi eredi da Pascal a Emerson, da Nietzsche a Cioran). Gli fa eco Kant: “perché sforzarsi a ricordare quando sappiamo solo ciò che la memoria di ciascuno riesce a conservare senza sforzo”? Più vicino a noi, Friedrich Georg Jünger (1898 – 1977, fratello di Ernst) “pioniere negli studi del dimenticare sostiene che esiste un dimenticare che conserva, è una memoria in stato di latenza”. Immaginate che volendolo citare Pirandello non vi venga alla mente il suo nome, è un imbarazzo ma al tempo stesso, consolatevi, non vi sfugge di quel drammaturgo quale sia il suo pensiero teatrale (se lo conoscete), di cui non ne avete perso la memoria. Oggi l’esercizio della memoria con le nuove tecnologie è più facile, nulla di scritto sfugge alla Rete, tanto che si è posto fra i giuristi la questione del “diritto all’oblio” circa non solo i dati personali, ma anche su cose da noi scritte un tempo che desideriamo cancellare o scritte da altri che hanno messo sul web notizie false o, peggio ancora, hanno immesso immagini che per effetto di montaggio vi fanno apparire in scene sconvenienti. Memoria e oblio attuali più che mai, e filosofi, ad esempio Nick Bostrom, si chiedono che cosa potrà accadere quando sarà possibile trasferire la nostra memoria in un ologramma. Pochi giorni fa, martedì 24 settembre, è stato pubblicato il testo di una sentenza della Corte di Giustizia europea che si è pronunciata su un contenzioso avente ad oggetto il “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento 2016/679. Il motore Google è stato assolto per aver rifiutato di deindicizzare alcuni dati, a seguito della richiesta di un imprenditore francese. La sentenza ha così negato al richiedente la tutela al diritto di rimozione dei dati presenti on line e negativi per la propria reputazione. Aiuto! Sette modi di dimenticare. Perché quel titolo? Spiega l’autrice: “La mnemotecnica ci insegna che siamo in grado di fissarci bene in mente sette oggetti o sette parole-chiave. Anche quando si tratta del dimenticare ci serviamo volentieri delle sue regole. Perciò anch’io mi sono attenuta a quel numero sacro per dare vita a un’ulteriore tassonomia del dimenticare”. Ho citato Eco in apertura, lo faccio anche in chiusura. In una Bustina di Minerva di tempo fa scrisse che molte guerre si combattono ancora ricordando offese lontanissime nel tempo e sarebbe stato tanto meglio che su quei ricordi fosse sceso l’oblio a cancellarli. A quando risale quella Bustina?... ehm… scusate… non lo ricordo. Dalla presentazione editoriale «La memoria, quella degli individui come quella delle società, è fatta non solo da quanto si ricorda ma anche e indissolubilmente da ciò che si dimentica. Ma perché e come si dimentica? Nelle sette forme elencate da Aleida Assmann l’oblio gioca un ruolo che può essere volta a volta positivo o negativo, ma sempre comunque fondamentale per organizzare il passato in memoria attiva e vivente di una collettività». Aleida Assmann Sette modi di dimenticare Traduzione di Tomaso Cavallo Pagine 108, Euro 11.00 Il Mulino
Il gattolico praticante
In questo sito scrivo spesso di gatti perché – insieme con l’asino – è l’animale che più amo. Vivo in una piccola casa e non posso permettermi d’ospitare un asino (anche se forse già la mia presenza basta a rappresentarlo), ma un gatto sì. L’attuale mio compagno felino si chiama Spock come il vulcaniano di Star Trek perché da cucciolo aveva orecchie ben grandi rispetto al volto, poi le cose crescendo sono cambiate ma il nome no, lo indossa ancora e spero per molto tempo. Non riesco a immaginare la mia vita senza un gatto. Diceva Liz Taylor “Si può vivere senza amanti ma non senza i gatti”. Lei, comunque, saggiamente, non si privò degli uni e neppure degli altri. Sono amico ovviamente di chi ama i gatti e di chi ne ha scritto e cantato. componendone un ricchissimo caleidoscopio di stili e ambienti, di epoche e generi, di emozioni e sentimenti, tali da soddisfare il gusto e la curiosità di qualunque lettore o spettatore appassionato di gatti. Vado a memoria: quel genio di Gioacchino Rossini e il suo Duetto buffo per gatti; i tanti cineasti, per limitarci ai cartoni animati, che ne hanno fatto protagonisti da Gatto Silvestro a Garfield, e gli scrittori da Émile Zola a Mark Twain, da Ambrose Bierce a Guy de Maupassant, da Pierre Loti a Sepúlveda. Fra questi da oggi inserisco il nome di Alberto Mattioli che, pubblicato da Garzanti, ha scritto un libro delizioso, colto e divertente con stile spumeggiante: Il gattolico praticante Esercizi di devozione felina. L’autore, nato a Modena nel 1969, è giornalista del quotidiano «La Stampa». Esperto d’opera, ha collaborato con molte riviste e teatri italiani e internazionali. Ha scritto tre libri, due libretti d’opera e qualche migliaio di articoli Per Garzanti in catalogo Meno grigi più Verdi. Prima dicevo di gatti protagonisti nelle arti, in “Il gattolico praticante” troverete un’ampia panoramica della presenza gattesca dalle arti visive alla letteratura alla musica. Nelle nostre case vivono sette milioni mezzo di gatti. Mattioli li ama tutti ed è difficile qui, in poche righe, riferire le tante virtù che rileva in quella “tigre da salotto” come la definisce il poeta Neruda. Mi limito a trascrivere i 10 “non” dell’autore per dire sì al gatto. • Non dice mai sciocchezze. • Non abbaia. • Non è intollerante (idioti a parte). • Non parla delle scie chimiche. • Non è mai ridicolo (ma può essere buffo). • Non viene mai male in fotografia. • Non si fa accarezzare da chi non conosce. • Non abbandona i suoi piccoli. • Non è razzista. • Non scrive libri. L’etologo Roberto Marchesini dice: “Mentre il cane prende sul serio il ruolo affiliativo specifico che il gruppo gli ha attribuito, il gatto persegue il suo continuo gioco di ruolo, trasformando ogni coniugazione relazionale in una sorta di metafora del possibile”. Dalla presentazione editoriale «Questo libro non parla dei gatti, ma di chi li ama. Non del cosiddetto “animale domestico” – che sia domestico davvero è poi tutto da dimostrare – ma del suo sedicente “proprietario”, unico capace di comprendere e ammirare la superiorità incontrastata di questo felino. Giornalista di fama, Alberto Mattioli in questa inconsueta veste confessa le ragioni di una devozione assoluta verso un animale che sa come e dove va il mondo, sa cosa ci aspetta per averlo già vissuto nelle sue innumerevoli vite e sa come devono essere impostate le sue relazioni con gli altri esseri viventi, in primo luogo quelle con l’uomo, con cui ha paradossalmente deciso di condividere la sua vita scendendo di qualche gradino la scala dell’evoluzione. E ci mostra la via di una possibile salvezza, perché il tempo dedicato al gatto è un’oasi di piacere e di bellezza sottratta ai ritmi insensati della vita quotidiana, un momento di libertà dalle assurde catene che noi stessi ci siamo forgiati, per giungere alla consapevolezza che non si può addomesticare un gatto, si può solo sperare che sia lui ad addomesticare noi». Prima di chiudere questa nota, v’invito all’ascolto di un grande componimento poetico di Pablo Neruda in onore di questo nostro amatissimo felino: .Ode al gatto. Alberto Mattioli Il gattolico praticante Pagine 135, Euro 15.00 Garzanti
mercoledì, 2 ottobre 2019
Le religioni sono vie di pace. Falso!
Un libro molto interessante è stato pubblicato da Laterza : Le religioni sono vie di pace. Falso!. Ne è autore Paolo Naso. Insegna Scienza politica alla Sapienza Università di Roma, dove coordina il Master in Religioni e mediazione culturale. Giornalista e politologo ha fatto ricerche e pubblicato volumi sul ruolo delle religioni in Medio Oriente, Irlanda del Nord e Stati Uniti. Tra i suoi libri: “Come una città sulla collina. La tradizione puritana e il movimento per i diritti civili negli Usa” (Claudiana 2008); “Cristianesimo: Pentecostali” (Emi 2013); “L’incognita post-secolare. Pluralismo religioso, fondamentalismi, laicità” (Guida 2015); “Il Dio dei migrant” (a cura di, con M. Ambrosini e C. Paravati, Il Mulino 2018). A me, ateo da sempre, il titolo del libro mi trova convinto non da oggi, ma l’esposizione del tema fatto dall’autore, che ateo non è, viene fuori in un modo tanto originale e ragionato da farmi consigliare con assoluta convinzione la lettura ai credenti e non credenti. Nello spazio di poco più di cento pagine, Naso, con scrittura scorrevolissima, traccia una lezione di storia che va dalle Crociate ai conflitti dei giorni nostri che, senza contraddire la spiritualità che lo muove anzi rafforzandola, non risparmia nessuna delle religioni. E, tanto per essere chiari, non è soltanto il popolo del Libro ad avere responsabilità anche gravi ma pure fedi che da noi sono ritenute a torto religioni di pace quali il buddismo o l’induismo che pure oggi in particolari contesti esprimono la violenza che a parole negano. Dalla presentazione editoriale. «È falso che le religioni siano portatrici di pace; è falso che si debba a loro quel fragile concetto di ‘tolleranza’ che, a partire dall’età moderna, ha permesso una certa coesistenza nella diversità delle appartenenze confessionali; è falso che al cuore delle religioni vi sia un’unica regola d’oro che le orienta verso la pacifica e costruttiva convivenza delle une con le altre; è falso, infine, che le religioni siano solo vittime di strumentalizzazioni di ordine politico o economico, queste sì ‘vere’ cause di ogni guerra». A Paolo Naso ho rivolto alcune domande. Qual è stata la principale motivazione all’origine di questo saggio? È stata una benevola provocazione culturale, suggerita dall’appiattimento delle analisi sui radicalismi di matrice religiosa rispetto ai quali le religioni si sono immediatamente affrettate a rivendicare la loro innocenza dogmatica per addossare tutte le responsabilità sui cattivi interpreti e sulla strumentalizzazione politica della religione. Questo risulta particolarmente evidente in ambito islamico ma atteggiamenti del tutto speculari ho colto in ambito cattolico, protestante, ebraico, induista e buddhista… La vera sorpresa della nostra età post-moderna sta nel fatto che assistiamo a un prepotente ritorno delle religioni nello spazio pubblico. Mai come ora nell’età contemporanea le religioni sono state un fattore decisivo delle dinamiche sociali e geopolitiche. Con la mia piccola provocazione, favorita dal taglio esplicitamente polemico della collana di Laterza, ho voluto denunciare l’inconsistenza e la pericolosità di questa autoassoluzione delle religioni che, per trasformarsi in “vie di pace”, devono convertirsi a una dogmatica e a una pastorale ancora tutta da scrivere, tanto nei documenti ufficiali quanto nei cuori delle persone di fede. Nello scrivere questo libro qual è la cosa che ha deciso era assolutamente da fare per prima e quale assolutamente per prima da evitare? Innanzitutto volevo dimostrare che la logica delle “guerre di religioni” esplose nel XVI e nel XVII secolo ha un’influenza politica ancora attuale. La Guerra dei Trent’anni che sconvolse l’Europa tra il 1618 e il 1648 non è un unicum superato ma ancora nei secoli successivi ha costituito un “modello” o, meglio, una “forma” dello scontro politico e militare. Ancora oggi il mondo registra decine di conflitti che certamente hanno un centro politico ma, guarda caso, per esprimersi e raccontarsi questo “centro” utilizza simboli e linguaggi religiosi. Ed è troppo semplicistico replicare che si tratta di “strumentalizzazioni”: perché, allora, le comunità di fede sono così esposte al rischio di strumentalizzazione? Hanno, evidentemente, una debolezza interna che non le può certo qualificare come vie di pace. Nel mio libro, insomma, ho voluto evitare una beatificazione irenica delle religioni, non perché non lo auspichi ma perché oggi è inutile e fuorviante. Come spiega l’avvenuta riproposizione oggi dei fondamentalismi? Sono figli della crisi della modernità e delle sue grandi ideologie di gestione dei processi sociali. Chiusi i grandi portoni delle ideologie novecentesche, alcune inquietudini sociali, politiche e culturali si sono incanalate verso le religioni, acquisendo così una legittimità e persino una protezione. È stato un passaggio drammatico che ha attraversato l’Occidente come l’Oriente e il sud globale. Non dimentichiamo che la parola “fondamentalista” nasce nel contesto protestante nordamericano per definire chi proponeva un’interpretazione letteralistica, rigida e acontestuale del testo biblico arrivando così a definire principi “fondamentali” rigidi e non negoziabili. Ma già negli anni ’20 il termine poteva estendersi a movimenti islamici ed ebraici che si incamminavano su percorsi analoghi dando vita a un’escalation violenta i cui effetti sono sotto i nostri occhi in Medio Oriente, nel Donbass, nello Sri Lanka, nei Balcani… La laicità fu definita, come scrive nelle sue pagine, da Sarkozy “positiva” e da papa Benedetto “sana”. Le propone una laicità “per addizione”. Può spiegarla in sintesi? Vi era un tempo nel quale la laicità non aveva bisogno di aggettivi ed il termine indicava con efficacia un regime di separazione tra lo Stato e le confessioni religiose. Le applicazioni di questo principio, però, sono state assai diverse e quindi è “laica” la Francia che vieta l’esposizione dei simboli religiosi e sono laici gli USA dove, invece, la retorica pubblica usa ed abusa del nome di Dio. Oggi, pertanto, sentiamo il bisogno di specificare “quale” laicità. Le aggettivazioni “sana” o “positiva” non mi convincono, anzi mi sembrano pericolose perché ipotizzano una laicità “insana” o “negativa” che a mio avviso non esiste. La laicità è sempre positiva in quanto è la sola precondizione del pluralismo e quindi della libertà di coscienza e di religione. Il suo contrario è il confessionalismo, questo sì storicamente lesivo del fondamentale principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Laicità “per addizione” è quella che non si limita a “separare” Stato e confessioni religiose ma che apre lo spazio pubblico alla presenza e al contributo delle varie componenti culturali e spirituali di una società. Lo stato non è più laico quanto più spazio sottrae alle comunità di fede ma, al contrario, quanto più ne favorisce l’ingresso e l’impegno nello spazio pubblico. A conclusione di quest’incontro, le chiedo: ma a cosa servono a noi umani le religioni? Attenzione ai termini. Le religioni sono dei “sistemi” organizzati, talora chiusi, altre volte aperti, nei quali collocarsi, impegnarsi, vivere la propria spiritualità. La fede è di più. È una bussola di vita che indica il nord polare del senso delle nostre azioni, dei nostri comportamenti e dei nostri progetti. Nel momento dello spaesamento e della perdita del sentiero ci aiutano a rimetterci in cammino. ……………………………………….. Paolo Naso Le religioni sono vie di pace. Falso! Pagine 120, Euro 12.00 Laterza
Graziano Graziani.
Le case editrici di solito hanno nomi legati al fondatore o alla località dove nascono oppure all’astronomia oppure ancora a personaggi della mitologia, poi ci sono quelle che hanno scelto un motto pescato in qualche lingua. Fra queste ultime, figura Quodlibet. Che cosa significa? Mano al vocabolario.
1. Disputa tenuta nelle scuole del Medioevo dai baccellieri, sotto la direzione del maestro, su un qualsiasi argomento (de quolibet), proposto da qualsiasi persona presente (a quolibet). 2. In musica, procedimento compositivo che unisce, in varie combinazioni, melodie e testi di diversa origine e ispirazione. Ecco, comunque la si metta Quodlibet rispetta puntualmente, e anche puntigliosamente, quella massima scelta pubblicando libri d’argomenti diversi, e più spesso diversissimi, ma che hanno un legame sotterraneo: la scelta colta e raffinata, e perché no birichina, di temi poco o per niente esplorati. Insomma, consiglio di esplorarne il catalogo. Oggi ricordo due di queste pubblicazioni: Atlante delle micronazioni (2017) e Catalogo delle religioni nuovissime (2018). Entrambe sono firmate dallo stesso autore: Graziano Graziani. Nato a Roma, ha realizzato documentari e programmi radiotelevisivi per la Rai. Collabora con «Lo Straniero», «Il Tascabile» e «Minima&Moralia». Scrive di teatro contemporaneo. Ha pubblicato il romanzo, si sa nessuno è perfetto, “Esperia” (Gaffi, 2008), la Spoon River romanesca dei “I sonetti der Corvaccio” (La camera verde, 2011) e, per Quodlibet, i due libri che prima ho segnalato e che vi consiglio di leggere: un respiro di sollievo in uno scenario letterario afflitto dall’aria mefitica dei tanti, tantissimi, troppi romanzi. Ecco un video nel quale Graziani spiega come è giunto alla determinazione di compilare un catalogo delle religioni nuovissime. QUI una scheda editoriale sul volume. Micronazioni. Ne esistono più di quanto una pur spigliata fantasia possa immaginare. Un esempio fra tanti: il Regno di Redonda. Superficie: 3 km². Abitanti: 0. Ma che cosa sono, come nascono, quante sono le micronazioni? Lo spiega Graziani in quest'intervista rilasciata a Radio 1. Graziano Graziani Catalogo delle religioni nuovissime Pagine 402, Euro 17.00 Atlante delle micronazioni Pagine 384, Euro 16.50 Quodlibet
Warhol e Marilyn
Tra le tante frasi che Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987) ha detto, una che più lo rappresenti credo sia: “Io non vado mai a pezzi perché non sono mai tutto intero”.
Ecco un efficace ritratto dell’artista di Miriam Leto. “Andy Warhol è il pioniere della pop art, artista eclettico, visionario, regista e pittore, uno dei personaggi chiave del secolo scorso, ed uno tra i più importanti fondatori e fautori del movimento artistico della pop art (…) The Factory è la sua base operativa, uno studio frequentato da una combriccola di artisti e intellettuali irriverenti ed estremamente creativi; la Factory in breve diventa “il” posto dove trovarsi a New York. Warhol continua ad ispirarsi per le sue opere a tutte le arti del visivo, in primis al cinema, ma anche ai fumetti, in special modo dopo aver conosciuto da vicino il lavoro di Roy Lichtenstein. Le contaminazioni da altri mondi sono sempre presenti nei lavori cult del pioniere della pop art. La scelta dei soggetti e degli oggetti si basa sugli emblemi di massa del suo tempo, i simboli del consumismo americano, immortalati nelle sue tele nell’attimo, regalando al pubblico delle future generazioni un vasto panorama della cultura di massa made in USA. L’intenzione dell’artista apparentemente non è però polemica, Warhol costruisce un registro-archivio per immagini di quella che è l’embrione della società dell’immagine globale e multimediale di oggi. Per tutti gli anni ottanta continuano le performance di Andy Warhol, gli happening, le produzioni di video, i ritratti delle star di Hollywood e tanti altri progetti che toccano tutte le discipline dell’arte. Dopo aver terminato Last Supper, un’opera ispirata all’Ultima cena di Leonardo, Andy Warhol lascia improvvisamente il suo ormai vastissimo seguito di pubblico, un giorno banale e inspiegabilmente, a causa di una banale operazione chirurgica alla cistifellea. Era il 1987”. A Brescia presso la Galleria ab/arte è in corso una bella mostra intitolata Andy Warhol & Marilyn Dal catalogo: "Andy Warhol, l’arte e la visione di un’icona qual è Marilyn Monroe, star di Hollywood e donna forse mai capita. “Warhol & Marilyn” per raccontare l’America degli anni Sessanta nel processo warholiano di democratizzazione dell’arte". Dice Andrea Barretta critico d’arte e fondatore della Galleria: La mostra è particolarmente suggestiva perché offre uno sguardo d’insieme e dettagli. Come per la prima opera di Warhol che riprende Marilyn da una foto in bianco e nero dal film ‘Niagara’ del 1953. Un tributo che avvicina ancora di più il pubblico all’arte pop e a un mito senza tempo. L’allestimento della mostra è di Riccardo Prevosti, le relazioni esterne sono curate da Umberto Chiusi, il coordinamento è di Gianni Eralio. Cliccare QUI per informazioni su mail, telefono, orari. Galleria ab/arTe “Andy Warhol & Marilyn” Vicolo San Nicola 6 Brescia Fino al 26 ottobre 2019
|