Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 29 maggio 2020
Anni di Nanni
In foto: Nanni Balestrini: “Diario di lettura”, Biblioteca di Garlasco. «Ci vorrebbe proprio la salutare, elegante brutalità di Balestrini: a fronte della melassa retorica dai media deversata, in queste settimane, al truogolo di un’umanità rinchiusa nei propri affetti e difetti domestici, nonché nei propri domestici pregiudizi (pronta infatti a rifare la faccia feroce, non appena un minimo quei pregiudizi si provi a turbarli). Ma è invece giusto un anno, 19 maggio 2019, che Nanni non c’è più (e certe volte viene da pensare, come fa Aldo Nove, che meglio sia andata così, per lui). In questo mese di maggio avrebbero dovuto tenersi (a cura di Sergio Bianchi e Peppe Morra) due manifestazioni in ricordo di quello che è stato, oltre che un grande artista del suo tempo, in tutti i sensi un maestro: del suo, del nostro ma anche, scommettiamo, del tempo a venire. Vuol dire che sarà più avanti, quando ci saranno – speriamo – spazio e tempo per riflessioni più partecipate e articolate. Intanto abbiamo pensato di chiedere un piccolo contributo verbovisivo a un certo numero di suoi amici, complici, discepoli che lo hanno seguito nelle mille avventure della sua «fantastica vita». Così s’intitola una rubrica sulla pagina Facebook di DeriveApprodi, in cui Bianchi (il «Sergio» degli Invisibili) rende postumo pan per focaccia all’amico: trascrivendo i suoi racconti di vita, proprio come lui aveva fatto coi suoi. Diversi altri partecipanti, a loro volta, hanno inteso mutuare lo stile (l’asintattismo da “lassa”) o il modus operandi di Nanni (applicando il cut-up, suo marchio di fabbrica, ai suoi stessi testi). Come Balestrini, nel Tristanoil presentato a dOCUMENTA (13), mixava immagini e parole del «mondo dentro il capitale», sino a farle esplodere, così i suoi amici hanno pensato di mixare parole e immagini sue, e loro, per provare a scavare vie d’uscita possibili. Vale la pena ricordare che la poesia con cui scelse di esordire, sul «verri» nel 1957, s’intitolava Apologo dell’evaso; mentre uno dei tre fantastici poemetti di Caosmogonia, 2010, ha per titolo Empty Cage. Speriamo di brindare presto alla tua, Nanni: a piede libero». Con queste parole Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa su “Antinomie” hanno presentato una fantagrafia su Nanni Balestrini dimostrando che ha lasciato un pieno e non un vuoto: CLIC!
domenica, 24 maggio 2020
Acrostico da record (1)
Questo sito, come sanno coloro che lo conoscono, non si occupa di romanzi né di poesia. Per la narrativa si trova qualche eccezione per i racconti brevi, e meglio, brevissimi; per la poesia riservo qualche spazio talvolta a quella visiva o sonora oppure in formato elettronico. Oppure ancora a forme – sono quelle che preferisco su tutte – modellate su congegni linguistici particolari. È il caso di oggi. Dove i versi sono composti tutti in acrostico. Ai più distratti ricordo che l’acrostico è una forma di componimento poetico in cui le lettere iniziali dei singoli versi, lette di seguito in verticale (raramente in orizzontale), formano, una parola o un nome oppure una frase. Un esempio in orizzontale non rese lieto Napoleone quando vide il proprio nome così raffigurato: Non Amavit Populum Omnes Leges Evertit Omnes Nostra Eripit (= Non amò il popolo, sovvertì tutte le leggi, ci derubò d’ogni cosa). Dell’acrostico, il più antico documento si rinviene in un papiro greco-egizio del 190 a.C., ma la sua storia attraversa i secoli e giunge fino ai tempi nostri. N’è testimonianza uno strepitoso librino edito da Meridiano Zero (dal 2012 è un marchio di proprietà delle Edizioni Odoya, con sede a Bologna), finito di stampare nel mese di novembre 2007 dalla Legoprint SpA, Lavis (Tn), pagine che si pongono (di traverso) tra il poemetto “à la manière de” e il romanzo autobiografico facendosi beffe dell’uno e dell’altro. Titolo: L’acrostico più lungo del mondo. Il nome dell’autore: Vincenzo Mazzitelli (in foto). La scheda biografica in una bandella del volumetto informa che “Nato a Napoli, dopo il liceo classico si è imbarcato con la Marina Mercantile panamense e ha girato il mondo”. Che cosa ha combinato sulle pagine costui – alla faccia di tanti poeti e romanzieri – tanto da suscitare il mio interesse e non soltanto perché pratico quella tipologia di scrittura? Ha composto un acrostico, funambolico e maratoneta, che meriterebbe d’essere ricordato nella storia letteraria italiana di questi anni perché confinarlo soltanto nelle cronache della ludolinguistica (che pure è cosa assai alta) è forse riduttivo. Uno spazio lo meriterebbe anche nel Guinness dei Primati che è il libro dei record e non delle scimmie. Il suo libro, se letto in verticale per lettera iniziale d’ogni rigo, restituisce, e forse vomita (rispettosamente, s’intende), tutto il primo canto dell’Inferno non solo per iniziale d’ogni verso dantesco, ma addirittura lettera per lettera d’ogni parola che abita ogni verso. Se letto in orizzontale ogni linea concorre alla narrazione dell’autobiografia dell’autore. Segue esempio delle prime tre lettere della prima parola della Divina Commedia: Nel. Non avea più del Cristo morto etade E della mia città sì perigliosa Languidamente bazzicavo strade E così via. Mazzitelli non c’è più. Se n’è andato, a 56 anni, alla fine di giugno del 2015. Temo d’essere stato fra i pochi che s’accorsero di quella pubblicazione quando ne scrissi su questo sito,nel febbraio 2008, preceduto solo da Porto Franco. Notarono poi quel lavoro Luigi Nacci e Lello Voce su Absolute Poetry; mi scuso fin d’ora se c’è qualche altro nome, ma la ricerca sul computer questo mi ha dato. Ho incontrato Mazzitelli una volta soltanto, durante alcuni giorni che trascorsi a Napoli nel 2009, ho un felice ricordo di lui e di quel paio d’ore che trascorremmo in una vineria dove per prima cosa mi disse che era “toccofobo” perciò non mi abbracciava per ringraziarmi della pagina web che gli avevo dedicato e che qui sostanzialmente replico con qualche variazione. Il suo desiderio era di riscrivere almeno tutto l’Inferno dantesco in forma d’acrostico. Gli serviva, ovviamente, molto tempo per farlo ed era assai contrariato di non potere concederselo perché doveva trovare lavori per la sopravvivenza. . Quella raffinatissima operazione richiama alla memoria i dettati dell’Oulipo (scuola che ha visto tra i suoi protagonisti Queneau, Calvino, Perec) così ben riassunti proprio da Queneau il quale sostiene che “il tragico greco mentre scrive i suoi versi obbedendo a regole ferree che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa schiavo inconsapevole di regole che ignora”. Anche la neurolinguistica, oggi, gli dà pienamente ragione. Con “L’acrostico più lungo del mondo” assistiamo non solo a un gioco di parole – cosa in sé, se ben fatta, già sublime e ricca di epifanie – perché l’acrostico non è stato applicato a caso su quei versi di Dante. Lascio perciò la parola al primo editore di quel testo, Marco Vicentini, che così molti anni fa mi disse: L’Inferno dantesco è infatti anche la chiave di lettura di questo testo, che narra di un satiro, e dei suoi vizi capitali. L’innocuo personaggio, si ritrova ben presto condannato, dalla tradizione cattolica, a un inferno popolato da maliziose quanto malvage figure. Lo sfondo di questa storia lo offre Napoli; il campo di battaglia un giovane adolescente, gravato da vizi canonici (sesso, droga e rock ’n’ roll). E vizi a parte: strane scelte, discutibili personaggi, piccole e grandi nefandezze, intriganti e perverse situazioni erotiche. E traumi più o meno insuperabili quali l’arresto e la prigione, la malattia di mente, la tossicomania. Nella prima, e finora unica, edizione, i versi sono attaccati uno dopo l’altro. In quell’incontro che ebbi con Mazzitelli gli dissi che quel modo rendeva meno fluida la lettura e che, forse, sarebbe stato meglio staccare le righe affinché più chiaramente fosse evidenziata la composizione. Disse che la mia era una buona idea. Non so se così s’espresse per convinzione o per cortesia. Nel trascrivere esemplificativamente qui i primi versi di quel vertiginoso acrostico, a quella mia idea grafica mi sono attenuto. Come vedrete nella parte che ora segue. Buona lettura.
Acrostico da record (2)
Non avea più del Cristo morto etade E della mia città sì perigliosa Languidamente bazzicavo strade Malato di libido e ogn’altra cosa. Ero per la tribù già troppo anziano, Zingaro vecchio dall'ardita prosa, Zotico spesso e trucido e villano, Ormai poeta di poesia distorta, Drogata da un cattivo cortigiano, E cieca e oscura e criptica e contorta. La rima mi divenne mercenaria Come miseria bussò a la mia porta. Anche l'Amore che dispersi all'aria Mostrò di sé l'aspetto men gentile Movendosi per donna assai precaria. Inver più d'una mi ridusse a vile Narciso schiavo de lo desiderio Da che l'Amor sì mi divenne ostile. Intanto it Fato si faceva serio: Non mi accorgevo che la mia salute Ormai cedeva ai mali lo suo imperio. Stringendo le speranze mie sparute Tra Ii bisogni, l'ansia e l'incoscienza Rabbiosa di chi troppe n'ha perdute, All'arte mia rendevo irriverenza Vana di chi alla vetta già si crede Invece che nel punto di partenza. Tuttavia se l'inferno in cor mi siede, Alma, pel mio narrar, trovi clemenza. Mai s'e più tristi di quei che non vede Inver che quanti sono i suoi pasticci Risate e scherni son per altri, sede Ivi, dove gli affetti son posticci, Talamo cambiano come un cappello Recando al cuore suo troppi bisticci. Oh, di cotal compagni da bordello Ver'è che n'ebbi molti, ed i migliori Avean da dirmi in faccia e questo e quello. Io, sordo, ne traea pochi valori Poi che d'altre lusinghe sentia '1 suono E coronarmi di famosi allori Ribaldamente volli. Ecco chi sono: Un non più giovane poeta ameno Nudo d'ingegno a supplicar perdono! Ahi come duole il rimembrar l'osceno Spreco delle virtù mie più possenti E al posto loro coltivarmi in seno Li desideri meno convenienti. Vizi e follie che non erano adatti Al cuore ed alle tasche. Eppur contenti Ora scorgo quegli anni, e non sì ratti Si dileguaron, ma stettero alquanto Ché più lunghi saran tempi coatti! Un contrappasso in vita, penso, e quanto Restami da sperar, poiché la Morte Arrivi a me né demone né santo. Cantai, scalar, già storie contorte, Hanno per me lottato due maestre È ver, l'una m'apria tutte le porte, L'altra mi vedea giù dalle finestre. A quella 'l mio futur parea geniale, Di contro questa in me solo maldestre Intenzioni vedeva, e fu gran male Raccontar suoi sospetti a li mie' cari I quali, come credo sia normale, Tennero le difese ad armi pari Trainati da quell'altra, più ottimista, Alfine vittoriosi, ma gli amari Veleni d'una si dubbiosa vista I genitori miei bevvero pure. Ai miei sei anni vi s'apri una lista E di strane attenzioni e di paure Rotta, ogni tanto, da norme violente Affiancate qual naturali cure Su di un "bimbo vivace", ed altro niente. Ma, forse, questa loro riluttanza A me tolse un parere competente Rischiando pur che 'l buio d'una stanza Ricadesse sul mio futuro ingegno In forma di mania ed intemperanza, Tanto da render vano un tal mio impegno, Addirittura, forse, anche l'Amore Poi, sempre in acrostico, scanditi lettera per lettera d’ogni parola, gli altri versi del Primo Canto. Come s’addice ad ogni libro, o quasi, seguono i “Ringraziamenti”. Qui un po’ particolari.
Acrostico da record (3)
Rosy Corrado, della cui pazienza Io abuso, devo dir, troppo sovente Nei casi in cui non ci capisco niente, Genio da ampolla è lei per mia insipienza. Rara amica che generosamente A volte fa di Mecenate scienza Zucchero le difetta, ma coerenza, Intelligenza onesta e onnipresente Albergano nell’alma sue copiose. Ma devo in questo mio ”breve” sonetto Elogi ad altre due menti preziose Nel cui lavor lo mio perse difetto: Tanto l’augurio mio per grandi cose Inver a Sandra e Gigi con affetto. Non perdetevi questo libro di Vincenzo Mazzitelli che crea ricreando e scrive riscrivendo. Ve lo consiglia questo sito chiamato Nybramedia che, non a caso, da 20 anni ha per sottotitolo: Ricreazioni e Riscritture. Di compatto stile con quanto lo ha preceduto, segue ora il quarto di copertina.
Acrostico da record (4)
L’INFERNO DI DANTE IN ACROSTICO
Maledire volete, oppure odiare Amici, amanti, odiosi rompiglioni, Zotici, festeggiati, donne amare, Zoccole maledette o gran papponi? Invero per le rime si può dare Tanta risposta a chi tanto n’è degno E anche porre su di un nuovo altare Lo nome che ‘l tuo cor tiene da pegno Lira pagata un tanto in lire a verso Io suono, mercenario assai diverso
Rimar posso per te qualsiasi cosa, Inver di tutto so far ritratto, Ma versi e rime e non colori e tratto All’uopo l’userò, e ben si sposa Tutta quest’arte mia con le mie brame: Oggi il poeta ha tempi ben che duri, Rari per lui son oro, argento e rame E allor compra i miei versi e tanti auguri! Euro 9.00 Meridiano Zero
venerdì, 22 maggio 2020
Una lingua gentile (1)
La casa editrice Cronopio ha pubblicato un saggio di linguistica di particolare interesse: Una lingua gentile Storia e grafia del napoletano. Gli autori sono: Nicola De Blasi – Francesco Montuori. Entrambi sono professori di Storia della lingua italiana e Dialettologia italiana alla “Federico II”. Lavorano, tra l’altro, alla redazione del “Dizionario Etimologico e Storico del Napoletano” e hanno curato la raccolta di studi “Le parole del dialetto. Per una storia della lessicografia napoletana” (2017). Dalla presentazione editoriale. «Poeti, scrittori, pubblicitari, parolieri, attori, commediografi avvertono l’esigenza di scrivere in napoletano. Una vigorosa tradizione letteraria fa sentire ancora oggi il suo prestigio, mentre si moltiplicano le situazioni comunicative che spingono verso la vivacità e l’informalità della lingua parlata. A questo punto sorge però il problema della scrittura: con un chiarimento sulla nozione di dialetto e con una prima informazione sulla nascita della letteratura in napoletano, questo libro offre un prontuario ortografico, presentando un dispositivo di regole bene definite ma anche elastiche, utili come strumento di riferimento facilmente adattabile ad altri dialetti della Campania. Da questo punto di vista, alcune iniziative istituzionali avviate per la salvaguardia delle varietà locali possono sollecitare non tanto una improponibile imposizione dell’uso del dialetto “in nome della legge”, quanto una forma di conoscenza non angusta, che favorisca anche una più ampia riflessione storica e linguistica.» Segue ora un incontro con i due autori.
Una lingua gentile (2)
Ai due autori Nicola De Blasi e Francesco Montuori (in foto) ho rivolto alcune domande. Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di cui Cosmotaxi dispone a bordo.
Perché questo studio sul napoletano è intitolato “Una lingua gentile”? L’aggettivo è usato da un autore della fine del Cinquecento, Gioan Battista Del Tufo, per distinguere il napoletano gentile da quello rozzo e plebeo. Tutte le lingue possono andare in una direzione e nell’altra, in rapporto alle sfumature dell’uso e ai connotati dei parlanti. Questo libro propone una riflessione sulle origini della letteratura in dialetto e poi tratta di un modo di scrivere comprensibile. La gentilezza viene quindi evocata in due modi diversi: da un lato si allude alla lingua dotata di intenzioni e qualità letterarie, dall’altro alla lingua scritta con la dovuta attenzione, cioè una lingua che, in un certo senso, ha la gentilezza di rendersi comprensibile. Alla vecchia domanda se il napoletano sia lingua o dialetto scrivete nel vostro libro che si può rispondere che “dopo tutto è l’una e l’altra cosa”. Quali ragioni vi portano a quella conclusione? Dialetto è al contempo una parola tecnica e una parola comune. Nel suo significato comune “dialetto” è utilizzato per indicare la lingua locale, che per molti è stato (e in parte è ancora oggi) anche la lingua materna e quindi ad esso si è legati da rapporti emotivi molto forti: è la lingua familiare, la lingua dell’affettività, dell’identità comunitaria, e molti ne riconoscono l’importanza e la vitalità. Nel suo significato tecnico, invece, “dialetto” indica una lingua usata da una comunità di parlanti in una certa area, in genere per parlare e molto raramente per scrivere. In questa accezione, quindi, un dialetto convive con altri dialetti utilizzati in altri luoghi e con un’altra lingua che ha una diffusione più ampia nello spazio, ed è utilizzata anche nello scritto e dalle istituzioni. La terminologia tecnica perciò prevede che l’italiano sia una lingua e, per esempio, il napoletano e il milanese dei dialetti. Molti credono che la denominazione di “dialetto” sia in competizione con quella di “lingua” e non sia rispettosa dell’importanza storica e del prestigio attuale del dialetto. Dal momento che dànno a “lingua” un valore positivo e a “dialetto” un valore negativo, queste persone rivendicano per il loro dialetto l’appellativo di “lingua” come se fosse un segno di maggiore dignità. I termini “lingua” e “dialetto” però non indicano la reputazione di una lingua, ma sono solo etichette descrittive, utili per lasciare implicite le relative caratteristiche sugli usi sociali: una lingua si scrive, si insegna a scuola, ha una norma e un’ortografia condivise, la si utilizza nelle istituzioni ecc. Un dialetto può essere scritto, ma è privo di una rigida codifica grammaticale e, soprattutto, non viene utilizzato per tutte le altre funzioni che abbiano nominato, ma può essere usato nell’arte, nel teatro, nella comunicazione quotidiana, nell’intimità familiare ecc. Quando ci riferiamo al napoletano come a un dialetto e all’italiano come a una lingua, ci avvaliamo di una comoda terminologia che ci consente di lasciare implicite diverse nozioni che sarebbe oneroso formulare continuamente. È possibile oppure no stabilire un’epoca in cui nasce il napoletano? Il napoletano è una lingua romanza, cioè nata per evoluzione del latino parlato a Napoli. Come tutte le lingue romanze si è formato nei primi secoli del Medioevo; solo molto più tardi si è cominciato a scriverlo. Col tempo ha continuato la sua trasformazione: alcune caratteristiche sono rimaste inalterate e molte altre sono cambiate, sia nella grammatica sia nel lessico. Chi studia la storia del napoletano ha a sua disposizione una ricchissima documentazione, che comincia nei primi anni del Trecento e arriva fino ad oggi. Le tante invasioni straniere hanno lasciato tracce sensibili nel napoletano? Se sì, qualcuna in particolare? Tutte le lingue parlate sono aperte a influenze esterne. I dialetti non fanno eccezione e si rinnovano anche con prestiti da altre lingue, talvolta momentanei, talvolta tanto duraturi che non sono più percepiti come provenienti dall’esterno. Per esempio, un francesismo medievale è “guaglione”, da “guagnor” che era l’aiutante nel lavoro dei campi. Una parola meno nota è “coviglia”, un ispanismo secentesco, che indica un tipo particolare di semifreddo, un prodotto artigianale di pasticceria (o di gelateria) ormai raro, che rischia di essere dimenticato. Dedicate largo spazio al napoletano nell’arte (poesia, teatro, canzoni). Come giudicate il napoletano in anni recenti apparso nel rap e fra i neomelodici? Sul piano musicale il “rap” e i neomelodici vanno valutati dagli specialisti di musica e dal pubblico. Dal nostro punto di vista, l’adozione di una varietà linguistica in generi nuovi è un segnale di vitalità, tanto più interessante in quanto diversificato. Certe scelte linguistiche non si uniformano a soluzioni oggi considerate classiche. D’altronde in passato, in modi diversi, anche Renato Carosone, Peppino di Capri, Pino Daniele e altri hanno cercato modi espressivi diversi da quelli classici. Oggi nel rap e nei neomelodici si notano segnali di avvicinamento tra il napoletano e l’italiano, con slanci innovativi, ma anche con il recupero di forme dialettali del passato. Proprio la parola “rap”, per restare in ambito linguistico, come genere musicale dimostra tra l’altro la vitalità del cosiddetto genere neutro, in cui rientrano quei sostantivi non pluralizzabili, pronunciati con l’iniziale rafforzata dopo l’articolo; insomma ’o rrep come ’o ccafè e come ’o llatte. Il linguista, insomma, prima di giudicare, osserva certe caratteristiche; la valutazione estetica è poi un’altra cosa e rispondere a gusti personali. Perché è importante come scrivere il napoletano? L’obiettivo è quello di scrivere riuscendo a comunicare in modo pienamente efficace e non troppo scomodo. In effetti, ci troviamo davanti a due esigenze diverse. Ci sono persone che vogliono scrivere il napoletano per produrre testi complessi, vogliono tradurre dei classici dall’italiano o dal latino, oppure hanno deciso di comporre delle poesie o dei romanzi. Altri, invece, hanno esigenze di carattere pratico: compongono canzoni e vogliono fissare il testo per iscritto, desiderano scrivere un bigliettino d’auguri più vivace del solito, intendono programmare una campagna pubblicitaria con slogan in dialetto, devono riportare su un necrologio il soprannome del defunto. Tutte queste categorie di persone sono accomunate dal desiderio di utilizzare il dialetto per iscritto: per quanto il napoletano sia scritto da molti secoli, il modo di farlo è ogni volta, per ogni generazione, un’operazione nuova che viene svolta con due principali strumenti disponibili: l’alfabeto dell’italiano e la tradizione delle scritture precedenti. Entrambi però sono difficili da usare: da una parte, non tutti i suoni del napoletano sono rappresentabili con i segni dell’italiano e bisogna fissare nuove convenzioni; d’altra parte, sono pochi coloro che conoscono il modo tradizionale di scrivere il napoletano, sia quello seicentesco, molto diverso dal nostro, sia quello ottocentesco, un po’ più familiare. Quindi, in assoluto non è importante sapere come scrivere il napoletano. Ma molti desiderano farlo, pur trovandolo molto difficile e stancante. Avere dei punti di riferimento comuni e non troppo innovativi può rendere meno onerosa la scrittura del dialetto. Una domanda conclusiva che va anche oltre il napoletano. Enzo Golino pochi anni fa si chiedeva: “Il dialetto potrà essere utile per reagire all’appiattimento della lingua livellata dai mezzi di comunicazione di massa?” Voi come rispondereste? Intanto occorrerebbe definire la nozione di appiattimento, che può avere risvolti positivi o negativi. Una lingua piana, accessibile, lineare è una risorsa ampiamente positiva, necessaria nella comunicazione pubblica e nella burocrazia per favorire il dialogo tra le istituzioni e i cittadini. Da un altro punto di vista, invece, la piattezza stilistica, cioè una lingua monotona e priva di slanci o di luci particolari può risultare noiosa e poco espressiva, per esempio, in letteratura o nella comunicazione parlata, quando sono necessarie vivacità e particolari coloriture. In un caso o nell’altro però non ci riferiamo a pregi o a difetti come caratteri intrinseci della lingua: si tratta di aspetti che dipendono dalle capacità di chi parla e di chi scrive. Se gli italiani talvolta usano la lingua in modo piatto o inadeguato, non è dunque colpa dell’italiano, né una conseguenza della sua diffusione generalizzata. I dialetti in ogni caso hanno sempre dato un apporto all’italiano e, nella storia, sono stati spesso trattati dagli scrittori come dei serbatoi aggiuntivi utilizzati con particolari funzioni espressive, da Boccaccio fino agli autori di oggi. …………………………. Nicola De Blasi Francesco Montuori Una lingua gentile Pagine 224, Euro 15.00 Cronopio
L'artista ritrovata
A Villa Borromeo d'Adda – dopo un rinvio dovuto all’emergenza sanitaria – apre la mostra di Carla Maria Maggi (1913 - 2004) a cura di Simona Bartolena, promossa dal Comune di Arcore e dall’Associazione Heart. L’artista ritrovata è il titolo dell'esposizione dedicata alla figura di questa pittrice attiva negli anni Trenta del Novecento, un caso artistico che fa anche riflettere sulle difficoltà che incontrava una donna nelle arti visive specialmente all’epoca in cui la Maggi produsse le prime opere.
Carla Maria Maggi (1913 - 2004), in foto, era figlia della buona società milanese degli anni Trenta. Dopo il matrimonio fu costretta ad abbandonare la strada dell’arte. Come molte altre artiste del suo tempo, accettò, suo malgrado, di aderire ai canoni del pensiero benpensante del suo tempo e di seguire le regole sociali alle quali il marito, in particolare, le chiedeva di sottomettersi. Mise da parte il proprio talento e vestì i panni della moglie e madre perfetta. Ma prima di dimenticare il suo essere artista, la Maggi ebbe occasione di realizzare una serie straordinaria di opere che raccontano con grande talento e raffinata sensibilità l'universo che lei frequentava e rappresentava: da una parte il bel mondo dell’alta borghesia milanese, divisa tra la città e i luoghi di villeggiatura, dall’altra la bohème degli ambienti di Brera e della Scala, liberi e pieni di stimoli per chi, come lei, voleva vivere nell’arte. Solo negli ultimi anni le opere della Maggi vennero per caso riscoperte dal figlio Vittorio, nascoste sotto una spessa coltre di coperte nel solaio della casa di campagna. Da allora si sono interessati all’opera della Maggi storici e critici d’arte da Rossana Bossaglia ad Elena Pontiggia alla curatrice di questa mostra. In questo breve video Simona Bartolena traccia il perché vedere quest'esposizione. Per le visite è necessario prenotarsi on line (da oggi 22 maggio): www.villeaperte.info/ Sarà consentito l’accesso a un massimo di dieci persone per volta. Per ulteriori informazioni: info@associazioneheart.it Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web Ufficio stampa: Sara Zolla, Tel. 346 – 84 57 982, press@sarazolla.com Carla Maria Maggi L’artista ritrovata A cura di Simona Bartolena Villa Borromeo d’Adda Largo Vincenzo Vela 1, Arcore 30 maggio - 26 luglio 2020
giovedì, 21 maggio 2020
Fronde di Alloro
Il titolo di questa nota lo uso per segnalare talvolta tesi di laurea dedicate alle arti visive, al cinema, alla letteratura, alla musica, al teatro. Perché la corona d’alloro è legata alla laurea? Leggete QUI e lo saprete. Oggi è di scena Annalisa Mastronardi (in foto), nata ad Agnone (IS). Inserita nell’Albo Nazionale delle Eccellenze 2012-2013 per conseguimento del diploma di maturità linguistica con votazione complessiva di 100/100 e lode. La sua tesi di laurea magistrale è intitolata James Joyce: attrazione e repulsione per la Chiesa cattolica, discussa presso l’Università di Roma Tre nel 2018. Relatore Prof. Richard Ambrosini; Correlatore Prof. John Francis McCour. La tesi ha ottenuto il Premio di laurea UAAR 2019. Annalisa, inoltre, è assegnataria di una borsa di studio per un dottorato di ricerca presso la Dublin City University di Dublino. A lei ho rivolto alcune domande. Com’è accaduto che hai scelto Joyce per la tua tesi? Durante la magistrale ho avuto l’opportunità di frequentare un corso di letteratura inglese dedicato all’”Ulisse” di James Joyce. Il corso era tenuto da uno dei più grandi esperti dell’autore, John McCourt, che insieme a Richard Ambrosini, ha poi seguito la mia tesi. In particolare, mi sono interessata al controverso rapporto dello scrittore con la fede cattolica: un rapporto di attrazione e repulsione, per l’appunto, com’è evidente nelle sue opere - tra cui “Dedalo”. Sebbene siano trascorsi due anni dalla mia laurea, continuo a interessarmi a Joyce. Ora sono dottoranda presso la Dublin City University di Dublino. Nello specifico, mi occupo delle eredità Joyciane nella narrativa femminile irlandese, esaminando in che modo l’autore, oltre che un modello letterario, abbia rappresentato – e continui a rappresentare – un esempio di emancipazione sociale e religiosa per molte autrici. In che cosa consiste per Joyce l’attrazione verso la Chiesa Cattolica? È bene sottolineare che, quando Joyce fa riferimento al Cattolicesimo, egli allude alla Chiesa cattolica irlandese a cavallo tra XIX e XX secolo, e non di certo alla Chiesa odierna – istituzione più liberale in seguito al Concilio Vaticano II. Tra l’altro, la Chiesa cattolica ha oggi perso il suo ruolo di predominio nel paese, in gran parte dovuto allo scoppio degli scandali sessuali cominciato agli inizi degli anni ‘90. Negli ultimi tre decenni, l’Irlanda ha di fatti assistito a un compresso processo di secolarizzazione che ha condotto - tra le altre cose - alla legalizzazione del divorzio nel 1995, delle nozze omosessuali nel 2015 e dell’aborto nel 2018. Uno scenario senz’altro diverso da quello in cui nacque e crebbe Joyce. All’epoca Chiesa e Stato vivevano tra loro in stretto rapporto, relazione che si consolidò all’indomani della proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda nel 1922 – essendo la religione cattolica uno dei fattori identitari della nazione. Oltre a provenire da una famiglia della classe media cattolica, Joyce frequentò inoltre le scuole gesuite. Per tutta la vita egli manifestò profondo interesse verso la letteratura, il linguaggio e i riti della religione cattolica. Continui nelle sue opere i riferimenti religiosi, spesso ripresi in chiave ironica. Non a caso l’”Ulisse” si apre con una parodia della messa in latino. E che cosa gli fa provare repulsione per quella fede? La religione, insieme a lingua e nazionalità, fu per Joyce una delle reti che sin da giovane l’autore intese eludere - ostacolo allo sviluppo artistico e personale dell’individuo. Joyce abbandonò la fede quando ancora era uno studente, sebbene mai si proclamò ateo. In una lettera del 1904 alla futura moglie Nora, egli confessò di combattere apertamente la Chiesa attraverso scritti, affermazioni e azioni. In particolare, egli dichiarò guerra a quell’istituzione che all’epoca paralizzava le vite e le coscienze degli irlandesi - così come si evince in “Gente di Dublino”. Per quanto nel tempo si sia tentato di interpretare l’interesse di Joyce verso la religione come un ritorno alla fede, non vi è alcuna evidenza in merito. Al sacerdote che propose funerali religiosi alla moglie, ella rispose: “non potrei fargli questo.”
mercoledì, 20 maggio 2020
Il tram dell'Innovazione
Ancora oggi nel mondo scientifico troviamo pochissime donne ai vertici di enti, imprese, organizzazioni tecnologiche. Fu uno dei principali motivi che nel 1999 determinarono la creazione nell’Unesco di un organismo per aiutare la donna a entrare nel mondo della scienza. A quello strumento fu dato il nome Ipazia. Perché Ipazia? Perché Ipazia (370 - 415 d.C.), erede della Scuola Alessandrina, fu filosofa, matematica, astronoma, antesignana della scienza sperimentale; studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro. Ne ebbe gioie? Mica tanto. Aizzati dal vescovo Cirillo nel marzo del 415 un gruppo di uomini di fede cristiana, guidati dal lettore Pietro, la sorprese mentre ritornava a casa, la tirò giù dalla lettiga, la trascinò nella chiesa costruita sul Cesareion e la uccise brutalmente, scorticandola fino alle ossa (secondo alcune fonti utilizzando “ostrakois” - letteralmente "gusci di ostriche"), e trascinando i resti in un luogo detto Cinarion, dove, giusto per andare sul sicuro, bruciarono quei resti. Cirillo d’Alessandria? Fu fatto santo. Del resto, che vogliamo aspettarci da quella parte (e da tutte le religioni, specie quelle monoteiste) se un Dottore della Chiesa qual è San Tommaso d’Aquino così scrive “La donna è fisicamente e spiritualmente inferiore (…) Essa è addirittura un errore di natura, una sorta di maschio mutilato, sbagliato, mal riuscito”. Va ricordato che anche alla matematica Teano (circa il 500 a.C.) non era andata meglio, fu uccisa da uomini inferociti perché ne disconoscevano gli insegnamenti e, soprattutto, ritenevano disdicevole che una donna si occupasse di scienza. Naturalmente quei tempi sono fortunatamente lontani perché attraverso i secoli le donne, ma anche uomini illuminati, hanno combattuto battaglie per raggiungere l’obiettivo (ancora non raggiunto) che oggi chiamiamo parità di genere.
In Italia, fra le organizzazioni che concorrono a conseguire quel risultato, va segnalata quella che nacque nel 2009 da un’idea di Gianna Martinengo condivisa da un network di aziende e persone che mettono a disposizione le proprie competenze per realizzarne le finalità. Valorizzare il talento femminile nella tecnologia, nell’innovazione e nella ricerca scientifica, promuovere progetti e azioni finalizzate alla lotta agli stereotipi e alla discriminazione di genere, contribuire all'orientamento dei giovani ai mestieri del futuro e verso modelli imprenditoriali sostenibili. Questi erano e sono gli obiettivi dell’Associazione Donne e Tecnologie. Ora per il terzo anno consecutivo l’Associazione è presente alla Milano Digital Weeck dando vita a Il tram dell’Innovazione in versione Digital. Basta un CLIC per conoscere il programma e i protagonisti.
martedì, 19 maggio 2020
La scimmia batte il tempo
La casa editrice Carocci ha pubblicato un libro che oltre alle considerazioni specifiche sul suo contenuto, si presta quale esempio di come si possa spiegare in modo semplice una materia complessa. Titolo: La scimmia batte il tempo Alle origini della musicalità negli animali e nell'uomo. Un tema che incrocia più campi: dalla neurofisiologia all’antropologia, dalla musica alla psicologia, dal cognitivismo alla zoologia. Detto così c’è da spaventarsi, e, invece, no. Perché il volume, ricco com’è di esempi, pur rigorosamente scientifici, trascina il lettore in un mondo che ha dell’incredibile. Per dirne solo alcuni: scimpanzè che posseggono una forma rudimentale di percezione ritmica; la leonessa marina Ronan particolarmente sensibile all’ascolto, le possibili origini evolutive della musicalità con i macachi della Universidad Nacional Autonoma de México, e anche dei diamantini dell'Università di Leida, uccelli questi dalle complesse composizioni canore. Né mancano citazioni di altri studiosi, ad esempio Watanabe con piccioni che distinguono Vincent van Gogh da Marc Chagall.in «Animal Cognition». Una corsa affascinante attraverso il mondo animale che, inoltre, concorre pure a smentire lo specismo anche se non è questo l’obiettivo primario dell’autore Henkjan Honing docente di Cognizione Musicale all’Università di Amsterdam. Per saperne di più su di lui: CLIC! Come sarebbe un mondo senza musica? C’è chi l’ha immaginato. Gene Roddenberry l’inventore della celeberrima serie tv Star Trek. Essendo questo sito scenicamente ambientato nello Spazio, posso guidarvi. Ne abbiamo una gustosa esemplificazione nell’episodio di Star Trek Voyager, stagione VI episodio 6 ("Virtuoso”). Lì, il Dottore, per le sue doti artistiche, diventa l'idolo di una specie che mai avendo conosciuto la musica ne restano sbalorditi e incantati decidendo di non più farne a meno. Sarà dura riportare l’inorgoglito Dottore a bordo dell’Enterprise. Per noi Terrestri, Honing ricorda che nei nascituri il primo apprendimento è quello sonoro. L’udito è il primo dei cinque sensi che si sviluppa nel feto; l’orecchio è quasi totalmente formato a partire dal quarto mese e mezzo di gestazione e il feto inizia a sentire la voce della sua mamma, che riconoscerà alla nascita. Mi piace qui ricordare quanto aggiungeva il grande Ezio Bosso, purtroppo recentemente scomparso: “… la musica è un elemento formativo indispensabile e, quindi, da insegnare fin dalla scuola materna: e può essere significativo fattore di inclusione sociale. Renderei obbligatorio in tutte le scuole lo studio di 'Pierino e il lupo' di Prokof’ev, un testo determinante per la crescita di un bambino” Quanto ci accade in fase prenatale succede anche per certi animali non umani? L’autore non vola di fantasia la zoomusicologia è scienza troppo giovane per andare sul sicuro. Basti pensare che la sua stessa denominazione risale agli anni ’80 del secolo scorso, e cito, preso da un raptus di spirito patriottico, il nome dello studioso italiano Dario Martinelli tra i protagonisti di quella materia. Honing – rispondendo alla domanda di un intervistatore che chiedeva come erano spiegabili certi fenomeni sul profilo biologico, risponde: “Sospetto che s’eseguano compiti sulla base di un particolare dettaglio, ricompensato per via dell’attenzione ad esso prestata. Sia chiaro, ciò, in sé, è un’abilità eccezionale, straordinaria. Tuttavia, essa non offre intelligenza della «percezione, se non il godimento» di musica, come formulò Darwin”. Dalla presentazione editoriale. «Quando si parla di “musicalità”, probabilmente per la maggior parte delle persone il pensiero corre subito alla popstar o al compositore preferito, oppure a bambini prodigio come Lang Lang o i fratelli Jussen. Ma la musicalità è molto di più: è un’abilità che quasi tutti gli esseri umani possiedono, una serie di caratteristiche che ci permettono di apprezzare e/o produrre musica. Ma è veramente una nostra peculiarità esclusiva? Oppure lo è perché sembriamo essere la sola specie con un repertorio musicale così ampio? La nostra predisposizione alla musica è unica come la nostra capacità linguistica? E s’incontra soltanto negli esseri umani oppure è una caratteristica che ha alle spalle una lunga storia evolutiva che condividiamo con altri animali? In ‘La scimmia batte il tempo’, Henkjan Honing affronta tutti questi interrogativi, raccontando il suo itinerario alla scoperta delle capacità musicali di altri animali: dagli esperimenti sulla percezione ritmica dei macachi ai test di ascolto con gli uccelli diamantini; da quelli sull’orecchio assoluto a quelli sulle reazioni degli animali marini al suono. Ne è risultato un libro che è anche un diario di viaggio in una nuova area di studio, con tutti gli imprevisti, i colpi di scena, i dubbi e le sviste del caso. Un viaggio alla ricerca di che cosa ci rende “creature musicali”». Henkjan Honing La scimmia batte il tempo Traduzione di Maurizio Ginocchi Pagine 164, Euro 14.00 Carocci
lunedì, 18 maggio 2020
Il Macro si rinnova
Aria nuova al Macro a cominciare da un rinnovato sito web. Qualche nota destinata ai più distratti. L’Azienda Speciale Palaexpo è un ente pubblico della città di Roma. Si propone oggi come uno dei più importanti organizzatori di Arte e Cultura in Italia e gestisce il Palazzo delle Esposizioni, il Macro e il Mattatoio. Si tratta, dunque, di un sistema integrato di spazi ed eventi per la cultura, in grado di raggiungere un vasto pubblico attraverso una pluralità di esposizioni, performances, incontri, proiezioni cinematografiche, mostre di videoart, Un “Polo delle Culture Contemporanee” che rappresenta un luogo di produzione in grado di far dialogare le realtà più interessanti attive nell’ambito cittadino e nazionale, nonché di confrontarsi e di scambiare esperienze con musei, centri di ricerca, università, a livello sia nazionale sia internazionale.
Presidente è l’artista Cesare Pietroiusti. Direttore Generale: Fabio Merosi. A questo link si può leggere "Octopus Bullettin N.1", la prima newsletter del Museo per l'Immaginazione Preventiva Al Palazzo delle Esposizioni, in attesa della riapertura delle sale al pubblico, sono offerte, in modalità digitale, varie occasioni. Quali? Per conoscerle basta un CLIC!
Ieri, 17 maggio
“La ricorrenza del 17 maggio è stata scelta, in ambito internazionale, per promuovere il contrasto alle discriminazioni, la lotta ai pregiudizi e la promozione della conoscenza riguardo a tutti quei fenomeni che, per mezzo dell'omofobia, della transfobia e della bifobia, perpetrano continue violazioni della dignità umana". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato ieri la Giornata mondiale contro l'omofobia. E condanna le discriminazioni basate sull'orientamento sessuale, che "costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana".
La filosofa Nicla Vassallo (qui in una foto di Gianni Ansaldi), sempre ieri, ha lanciato in Rete un suo intervento che Cosmotaxi volentieri accoglie. In prigione, per lo più devastati da un inesauribile smart working (smart?), che ha raddoppiato quotidianamente le nostre ore lavorative, qualche giorno orsono, a Papa Benedetto XVI debbono aver suggerito che si stava perigliosamente avvicinando la giornata del 17 maggio, contro l’omofobia. Quale occasione migliore per rientrare, alla grande sulla scena, mentre alcuni suoi fedeli cattolici (ovvero, non tutti i cattolici, anzi) stavano inghiottendo il Coronavirus, quale una delle consuete punizioni divine per i loro peccare? Lui, l’Emerito (tal titolo per un Papa da dove sgorga?) è uscito in Germania con un volume di ben mille pagine (1000 pagine!), disponibile in traduzione italiana il prossimo autunno. Già, vuol sul serio cavalcare la scena a ogni costo. Lungi da me, spendere parole e parole sull’omofobia del Papa tedesco, parole al vento in cui gli amori omossessuali si traducono in un credo anticristiano, e, pertanto il matrimonio (pure civile?) tra persone same-sex verrebbe a costituire una vera e propria minaccia per una Chiesa schiacciata da una pseudo “dittatura mondiale di ideologie, apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo”. Il Papa tedesco non esita neanche a sostenere che "Cento anni fa tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale. Oggi, invece si è scomunicati dalla società se vi si oppone”. I conti storici non mi non tornano, eppure sta di fatto che, nel frattempo, gli eventi abbiano attestato quanto lo squilibrio della fede abbia condotto a un disagio dell’esistenza, di crisi cattolica. And so? Non l’unico tra i tedeschi ad aver al cospetto dei propri occhi la punizione, per nulla la pena, il Papa tedesco coltiva l’omofobia nell’ambito di una religione professata dal 20% della popolazione mondiale. Troppe vittime ieri e oggi causate dall'odio nei confronti della comunità LGBT. Ancora troppi pochi anni son passati da quando almeno a livello scientifico l'omosessualità ha smesso di esser considerata una malattia mentale: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali solo nel 1973 ha ricusato l’omosessualità dall’elenco delle proprie patologie psichiatriche, mentre l’OMS lo fece nel 1990. Il sito della Treccani definisce l'omofobia come “la paura dell’omosessualità, sia come timore ossessivo di essere o di scoprirsi omosessuale, sia come atteggiamento di condanna dell’omosessualità". Secondo la «Risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa» (2006), “l’omofobia si manifesta nella sfera pubblica e privata sotto forme diverse, quali discorsi intrisi di odio e istigazioni alla discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e omicidio, discriminazioni in violazione del principio di uguaglianza, limitazioni arbitrarie e irragionevoli dei diritti, spesso giustificate con motivi di ordine pubblico, libertà religiosa e diritto all’obiezione di coscienza». Sono stati anche ampiamente studiati gli aspetti psicologici profondi che stanno alla base di tale timore anche nelle persone omosessuali; si parla quindi di o. interiorizzata per indicare l’accettazione conscia o inconscia da parte di gay e lesbiche di tutti i pregiudizi, le etichette negative e gli atteggiamenti discriminatori, di cui essi stessi sono vittime. Secondo vari studiosi, l’omofobia interiorizzata dipende in gran parte dall’effetto modellante dei pregiudizi sociali omofobi su un adolescente che sta scoprendo la propria omosessualità. Un gay o una lesbica che fin dall’infanzia percepisce intorno a sé pregiudizi e atteggiamenti negativi – espressi in forma implicita o esplicita – nei confronti dell’omosessualità può quindi essere indotto a interiorizzare (e cioè ‘credere fermamente a’) parte di tale complesso di pregiudizi sociali, finendo non solo per costruirsi un’immagine di sé negativa proprio in quanto omosessuale, ma sviluppando anche atteggiamenti di rifiuto e persino omofobi verso gli altri omosessuali. Tale processo di distorsione del naturale processo di formazione della personalità è tanto più influente in quanto gay e lesbiche crescono generalmente senza modelli positivi di riferimento e nella maggior parte dei casi senza poter trovare nella famiglia d’origine un adeguato supporto. Benedetto XVI, che si scaglia senza remore contro i diritti delle persone omosessuali (tra cui anche quello del riconoscimento sociale dell'affettività) è un qualcosa di inaccettabile gravità che travalica la libertà di parola e deve esser condannato così come condanniamo qualsiasi forma di estremismo religioso e terrorismo. La tempistica rende queste pagine ancora più colpevoli perché si insinuano subdolamente in un momento di estrema povertà, disperazione, paura e sofferenza mentale per l'epidemia che ci ha colpito; condizioni estreme che già in passato la "sua" Germania ha dimostrato essere terreno fertile per totalitarismi atroci e omicidi. Come non ricordare quindi che la Germania di Hitler - e poi il "nostro" fascismo - portarono all'omocausto, per cui dovemmo aspettare quasi 60 anni (fino al 2002 non cinquant'anni fa!) per una scusa formale da parte della Germania per tutti quegli omosessuali perseguitati, deportati e atrocemente trucidati dal nazifascismo? Come non ricordare come i falsi «Protocolli degli Anziani di Sion» abbiano poi portato a milioni di vittime di ebrei? Cosa aspettiamo a condannare l'omofobia anche quella clericale? Non possiamo continuare ad aver paura dell'enorme peso del cattolicesimo in Italia e finire per contraddire ancora una volta non solo il principio di laicità ma lo stesso spirito democratico e contro ogni discriminazione della nostra Costituzione? Bisogna quindi avere il coraggio di indignarsi e di accusare apertamente chi all'interno della Chiesa si professa o dimostra sostanzialmente omofobo, incitando all'intolleranza, alla discriminazione e in ultima istanza all'odio. Le parole di Papa Benedetto XVI rischiano di essere altrimenti «I Protocolli degli Anziani di Sion» della comunità LGBT! Si tratta di un apparato ideologico che si contrappone all'amore inclusivo predicato da Papa Francesco, con il quale è chiaro un conflitto a tutto campo. Stiamo vivendo una lotta all'interno della Chiesa, che è specchio di una lotta che serpeggia nella nostra società: luce contro ombra, amore contro odio. Papa Francesco, poco prima del lockdown mondiale, ha dichiarato che “le persone omosessuali debbano essere rispettate e accompagnati pastoralmente”; “Dio ti ama così come sei, e anche io”. Ciò spalanca una porta chiusa nei confronti delle persone omosessuali di fede cattolica.
In memoria di Delia Vaccarello Colta e attivista (Palermo, 7 ottobre 1960 – Palermo, 27 settembre 2019)
venerdì, 15 maggio 2020
Trasformazioni
Nati nello stesso giorno (13 giugno) dello stesso anno (1935), sembra previsto e voluto dal destino che s’incontrassero; avvenne, infatti, a Parigi nel 1958. Lui fuggito dal governo comunista del suo paese, lei proveniente da Tunisi Quella coppia formata da Christo – nome d'arte di Christo Javachev nato in Bulgaria, a Gabrovo – e da Jeanne-Claude – Denat de Guillebon, nata in Marocco, a Casablanca, laureata in latino e filosofia – trascorreranno 41 anni insieme fino al 2009, quando per un aneurisma cerebrale, Jeanne-Claude muore. Sempre insieme. Ma non nei viaggi aerei, lì separati perché avevano stabilito che se uno fosse precipitato l’altra o l’altro avrebbe portato a termine il progetto artistico comune. Progetto che nasce nel 1961 con un’opera nel porto di Colonia cui segue l'anno seguente a Parigi la loro prima opera monumentale: “Rideau de Fer”, un muro di barili d'olio a bloccare rue Visconti, nei pressi della Senna, in segno di protesta sulla creazione sovietica del muro di Berlino. Emigreranno negli Stati Uniti nel 1964. Qui va detto che i due sono classificati nella corrente artistica chiamata Land Art, ma la cosa non vede tutti d’accordo sembrando una definizione un po’ troppo sbrigativa poiché Christo, aderente al gruppo del Nouveau Réalisme (fondato da Pierre Restany nel 1960), pratica con la sua operazione d'impacchettamento di famosi monumenti o tratti di città con teli e corde, un intervento di Land Art tanto particolare da essere improprio. Li conobbi nel 1974 quando impacchettarono Porta Pinciana, una delle porte nelle Mura Aureliane di Roma. Frequentammo delle osterie e in ogni ora e luogo esprimevano una forza contagiosa (più riservata in lui, più espansiva in lei) che mi pare ben rappresentata nelle immagini di questo documentario. Senza Jeanne-Claude, scomparsa anni prima, Christo ha realizzato in Italia un’altra opera The Floating Piers con visitatori che passeggiavano sulle acque del Lago d’Iseo, opera in cui è stato determinante il ruolo di Germano Celant. Il più recente progetto di Christo intitolato "L'Arc de Triomphe, Wrapped" (ideato insieme con Jeanne-Claude) prevedeva che Christo avvolgesse l’Arco di Trionfo con 25mila metri di tessuto riciclabile color blu e argento e 7mila metri di corde rosse. Previsto per quest’anno è stato posticipato a causa dell'emergenza sanitaria Cofid, si farà nell'autunno 2021. Una buonissima notizia, invece, viene dal mondo editoriale italiano grazie all'editore Morellini che ha pubblicato Trasformazioni L’arte nascosta di Christo e Jeanne-Claude. Ne è autrice Zornitza Kratchmarova (1977), bulgara di nascita e italiana d’adozione. Si è specializzata alla GraduateSchool of Journalism della Columbia University di New York e ha lavorato per Rcs e Mondadori, occupandosi di attualità, economia e finanza. Nel 2007 ha vinto il Citigroup Journalistic Excellence Award. Nel 2015 ha co-fondato la startup BabyGuest con cui ha vinto tra l’altro il Premio Nazionale per l’Innovazione nei servizi 2018 e l’Ambrogino per le Imprese 2019. È a capo della divisione Corporate Communication di Connexia. L’avventura artistica di Christo e Jeanne-Claude ha parecchio da vedere con l’Italia, sia per i successi ottenuti proprio qui e sia per la spiccata diffidenza che il nostro mercato artistico ebbe nei loro confronti quando si presentarono agli inizi di carriera da noi. Lo spiega molto bene Ettore Camuffo in Prefazione: “Pensare un breve testo di apertura a un lavoro di ricerca e documentazione su Christo e sulla coppia Christo – Jeanne-Claude consiglia di dare cenno anche alle loro presenze italiane, citando alcuni elementi biografici che le hanno accompagnate. Tanto più che proprio in Italia ci troviamo al cospetto dell’ultima opera di Christo: “The Floating Piers”. Quasi fosse la chiusura di un cerchio. L’Italia infatti è stato uno dei primi paesi in cui i lavori di Christo hanno avuto occasioni importanti di svilupparsi iniziando a consolidare, agli inizi degli anni Sessanta, quel “mercato” che sarebbe stato fondamentale per la sua crescita artistica. La mole di materiali – cartacei e non – sulle loro opere, ormai consegnate alla storia dell’arte, ne dà piena conferma. Fino al 1963, in Italia, le opere firmate Christo facevano ancora sorridere, con ironica sufficienza, la maggior parte degli addetti ai lavori che, non cogliendone le potenzialità, le relegavano a transitorio fenomeno d’effimera avanguardia artistica. Critici affermati imputavano a Christo d’impacchettare i suoi oggetti perché incapace di disegnare, ignorando che proprio le sue doti di disegnatore sarebbero state alla base del futuro successo”. Dalla presentazione editoriale. «Nessuna galleria, nessun agente e nessuno sponsor. Per dare vita alle loro opere hanno rischiato più volte di finire sul lastrico, hanno messo d’accordo due nemici storici come Jacques Chirac e François Mitterrand e persino munto mucche in California. Christo e Jeanne-Claude, per oltre mezzo secolo coppia inossidabile nel lavoro e nella vita, hanno rivoluzionato il mondo dell’arte grazie alle loro installazioni monstre: opere che «impacchettando» monumenti e luoghi, riescono a svelarne il vero significato. Dopo la scomparsa di Jeanne-Claude nel 2009, Christo ha scelto proprio l’Italia per segnare il proprio ritorno sulla scena artistica mondiale e l’ha fatto con il maxi progetto The Floating Piers, il sistema di ponteggi mobili sul lago d’Iseo, realizzato nell’estate 2016 e visitato da oltre un milione e mezzo di persone in arrivo da tutto il mondo. “Trasformazioni – L’arte nascosta di Christo e Jeanne-Claude” scritto dalla giornalista Zornitza Kratchmarova racconta per la prima volta la vita e i percorsi artistici del duo e lo fa attraverso le parole di chi li ha affiancati nella realizzazione dei loro progetti visionari lungo quattro continenti. Il libro contiene dieci interviste ad altrettanti testimoni d’eccezione delle loro installazioni, nate sfidando antagonismi e difficoltà: John Kaldor, Jane Gregorius & Dan Telleen, Joe Pozzi, Tim O’Connor, Laure Poulet, Wolfgang Volz, Frank Seltenheim, Jérôme Szeemann, Adam Kaufman e Umberta Gnutti Beretta. Completano l’opera la prefazione del curatore veneziano Ettore Camuffo e le note bibliografiche dei due artisti.» Zornitza Kratchmarova Trasformazioni Prefazione di Ettore Camuffo 112 Pagine, Euro 13.90 Morellini
giovedì, 14 maggio 2020
Darwin 1 e 2
Chi generosamente legge queste pagine, sa che tra le figure della Storia da me più amate c’è Darwin. Perché ha permesso a noi umani di fare passi decisivi nell’acquisizione della Conoscenza. Ed ecco perché la Chiesa cattolica e altre religioni specie quelle monoteiste lo detestano tanto. “Perché Darwin” – come sostiene Daniel Kevles – “ha osato ficcare il naso nella narrazione giudaico-cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale delle religioni”. Oggi qui apprenderete due nuove cose su quello scienziato. Una riguarda il suo abbigliamento, un’altra un suo passatempo musicale. Lo sapevate quale copricapo era il preferito di Darwin? No? Cosmotaxi sta qui per servirvi. Lo vedete nella foto. L’ha fatta il Cappellaio Matto di Carroll? No. Quello affermava “Si dice che per sopravvivere qui, bisogna essere matti come un cappellaio. E per fortuna... io lo sono". No, non l’ha fatto il Cappellaio Matto. Ma uno che, però, la pensa come lui. Si tratta di un designer fatto di cellulosa, celluloide e dell’immateriale sostanza del web. Nelle vene gli scorre inchiostro multicolor. In pratica, un neocyborg. il suo nome è Attilio Sommella. E ha larga parte (… nel senso delle colpe) in questo sito di cui sono il tenutario. Lo sapevate che a Darwin piaceva cantare? No? Cosmotaxi sta qui per servirvi. Ecco, ascoltate qui Da dove proviene questo filmato? Presto detto: col favore delle tenebre l’ho sottratto dal sito di Massimo Polidoro, segretario nazionale del Cicap, giornalista e scrittore, noto nella Rete quale l’Esploratore dell’Insolito perché è un cacciatore di replicanti che diffondono bufale. Per capirci, quelli che dicono: i vaccini provocano l’autismo, le scie degli aerei sono veleno per alterare volutamente il clima, gli attacchi dell’11 settembre una messinscena degli americani, sulla luna non ci siamo mai stati, la terra è piatta. Tutte cose che lui smonta nel recente libro Il mondo sottosopra. Quanto al suo sito, ci si entra, solo furtivamente, h 24, forzando una finestra a scelta, usando un CLIC!
FMAV
L’acronimo sta per Fondazione Modena Arti Visive. Molte le iniziative che musei e gallerie d’arte hanno messo in moto attraverso webcam e collegamenti dinamici internettiani sia per la visione d’opere esposte sia per collegamenti con critici e artisti che parlano su plurali temi e occasioni. Se non sbaglio, però, cosa possibile, la Fmav ha attivato qualcosa d’originale coinvolgendo il pubblico anche creativamente. Scoprite il modo di farlo arrivando all’ultimo cartello dei due esempi qui di seguito. Uno è proposto cliccando sul nome di Annabel Elgar e un altro con un clic sulle ideazioni di Melissa Moore. Sono due mie tiranniche scelte, ma ce ne sono altre.
Sono attive anche le visite a due mostre che ho segnalato tempo fa dedicate al grande fotografo Franco Fontana e all’ingegnosa coreana Geumhyung Jeong. Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web: Ufficio Stampa: Irene Guzman | | i.guzman@fmav.org | | T. +39 349 1250956
martedì, 12 maggio 2020
I nemici degli italiani (1)
La casa editrice Laterza ha pubblicato un saggio che in poco più di 100 pagine riesce in un’impresa di non poco momento: ricordare le invasioni da noi subite, i caratteri degli invasori, il comportamento degli invasi, le conseguenti trasformazioni avvenute nelle varie società territoriali. Ne risulta un’analisi anfibia, perché storica e sociologica, che dimostra come del popolo che siamo va rinvenuta più un amalgama che un’identità.
Titolo del libro: I nemici degli italiani di Amedeo Feniello con la partecipazione di Alessandro Vanoli. Avvalendosi di una scrittura veloce e chiara, lontana da ogni sussiegosità accademica, il volume si presta alla lettura anche di chi non è un abituale frequentatore di testi storici e, a mio avviso, può essere assai utile pure in lezioni di storia nelle scuole superiori per capire chi siamo. Dalla presentazione editoriale. «Galli, Cartaginesi, Unni, Normanni, Turchi, Spagnoli, Francesi, Tedeschi, Americani. Nella storia della nostra Penisola al centro di tutto c’è sempre stato lui: il nemico. E la sua storia racconta meglio di qualunque altra cosa chi siamo stati e come siamo diventati. Per secoli dalla terra e dal mare i nemici sono arrivati in Italia: Cartaginesi, Vandali, Unni, Arabi, Normanni, Turchi, Spagnoli, Austriaci…un elenco che sembra infinito. Ogni epoca ha avuto il suo, di nemico. Pronto a invadere il nostro Paese, a conquistarlo, a saccheggiarlo, a tiranneggiarlo per poi insediarcisi e sfruttare le sue ricchezze e le sue bellezze. E in effetti quando arriva il barbaro, il nemico di turno, un mondo finisce e un altro inizia, senza soluzione di continuità. Poi, bisogna aspettare: che i barbari diventino meno barbari, si amalgamino con gli altri e comincino, anche loro, a temere nuovi stranieri. Insomma, ci sono nemici che vanno e altri che vengono, in un susseguirsi secolare dove, ogni volta, il tempo passa e la storia si sedimenta, la paura diventa oblio e ciascuno degli antichi nemici si ritrova a temere nuovi invasori, nuove minacce alle proprie tradizioni e alla propria identità». Segue ora un incontro con Amedeo Feniello.
I nemici degli italiani (2)
A Amedeo Feniello (in foto) ho rivolto alcune domande. Insegna Storia medievale all’Università dell’Aquila. Per Laterza ha collaborato alla "Storia mondiale dell’Italia" (a cura di A. Giardina, 2017) ed è autore, tra l’altro, di "Sotto il segno del leone. Storia dell'Italia musulmana" (2011), "Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca" (2013) e "Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri" (con F. Canale Cama e L. Mascilli Migliorini, 2019). Come nasce questo libro? Questo libro nasce per caso. Da un’idea dello storico e scrittore Alessandro Vanoli e mia. Pensavamo al canovaccio di una lezione spettacolo, da mettere in piedi per la serie Lezioni di storia organizzate dalla Casa editrice Laterza. Un’idea semplice, che consentisse nel breve spazio di un’ora, un’ora e un quarto di raccontare per sommi capi la storia d’Italia. Niente di più semplice che andare alla ricerca di una permanenza. E ci siamo cascati dentro: la sequenza di invasioni e di invasori che avevano percorso la Penisola nel corso della sua millenaria vicenda. Invasioni che hanno profondamente modellato il DNA degli Italiani, creando un amalgama duraturo e caratterizzante che resta uno dei tratti più indicativi e peculiari del nostro essere. Uso i termini Dna e essere a proposito e non la parola identità, perché spuria e ideologica brandita a lungo da chi tendeva a negare proprio questo apporto – non nego il più delle volte imposto dalla sopraffazione violenta e pervicace degli invasori – e che tendeva a sopprimere proprio questo elemento delle invasioni che sono un tratto distintivo, lo ripeto, della nostra storia. Basta ri-leggere il primo numero di una rivista allegra e accattivante che ebbe come redattore capo colui che fu a lungo, negli ultimi decenni del Novecento, il segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante; rivista che ebbe un titolo che era tutto un programma, la Difesa della Razza, che poneva l’accento sull’identità distinguibile e assoluta degli Italiani. Così assoluta da formare, come si sosteneva, una razza coesa e particolare perché intoccata e unitaria dalle ultime invasioni barbariche, quelle dei Longobardi, fino al XX secolo. Un’affermazione che fa a pugni con la realtà e con la storia d’Italia, ricca appunto di invasioni Nel comporre questo saggio qual è la cosa decisa di fare assolutamente per prima e quale quella assolutamente per prima da evitare? Innanzitutto, il libro doveva scorrere e essere intellegibile. Ha infatti il carattere di un pamphlet e non di un saggio da Accademia. Per questo, con Vanoli, abbiamo pensato ad una forma stringata e piana, secondo un principio che poco è meglio di molto. Ma abbiamo cercato, nello stesso tempo, di non violentare la nostra natura di storici. Per questo motivo, ogni pezzo, o quasi, è aperto da un documento, da una traccia testimoniale che potesse aiutare il lettore a comprendere non solo quale fosse il percorso che abbiamo intrapreso ma anche di proiettare la dimensione umana, dello sforzo, della sofferenza, della paura, dello shock provocato dale invasioni, che spesso nei libri di storia si perde. Sentire dalla viva voce di un testimone cosa vivesse e provasse permette di compiere un esercizio pressoché impossibile ma decisivo per ogni storico: un esercizio fondamentale di empatia. Da tante invasioni subite qual è la principale forza che ci è pervenuta e quale la principale debolezza? Se devo pensare alla forza, penso all’ultima storia che raccontiamo nel libro: l’invasione del terroni meridionali dell’Italia settentrionale, tra anni Cinquanta e Settanta. I terroni, I Napoli, I Maumau, spinti a vivere in spazi marginali e degradati, le cosiddette Coree. I giornali del tempo rimandano immagini e dichiarazioni scioccanti: I Meridionali sono sporchi, puzzano ecc. Tutta quella serie di sciocchezze che sentiamo ancora oggi nei confronti degli immigrati che arrivano da oltremare. Ma senza questa massa di meridionali che calarono nel nord cosa sarebbe stato il boom industriale italiano? Senza l’apporto lavorativo di questa massa di sradicati sarebbe stato possible? Assolutamente no. L’amalgama ha aiutato l’Italia nel suo sviluppo, con tutte le contraddizioni del caso, dando ad esempio vita ad una figura antropologica tutta nuova dello sradicato, che non appartiene né alla sua terra di origine né a quella nuova dove si è stabilito, una storia raccontata magistralmente da Visconti in “Rocco e I suoi Fratelli”. O in maniera grottesca da Lina Wertmuller in “Mimì metallurgico”. D’altro canto, le debolezze sono una miriade, legate alla violenza perpetrate nel corso delle invasioni stesse: gli stupri, le uccisioni indiscriminate, le deportazioni forzate, le ruberie sistematiche, come ad esempio quelle perpetrate dalle truppe napoleoniche, sono il tratto immediato delle invasioni che naturalmente non abbiamo mai tralasciato. Dal libro si rileva una definizione sempre da noi usata per indicare chi c’invade: “barbari”. Perché proprio quell’aggettivo? Il barbaro è l’altro. Colui che parla una lingua indistinguibile, che balbetta e persegue uno stile di vita che non corrisponde a tratti civili condivisi. In poche parole, pericoloso e alieno. È un criterio di distinzione comune non solo alla civiltà europea ma anche, per esempio, a quella cinese. Gli Hua sono i cittadini del tutto sotto il Cielo, il grande impero cinese; i Yi sono i barbari, ostili e lontani. Tra di loro l’abisso, con una frontiera suprema, dicevano, tra Cielo e Terra: da una parte i Cinesi dall’altra, emarginati al di là dei confine, in terre ignote e terribili, lontane dalla civiltà, gli stranieri, incomprensibili nel loro linguaggio e nel loro stile di vita. In maniera analoga fanno i Greci appartenenti all’Impero romano, che si sentirono sempre un tantino meglio di tutti gli altri. Una distinzione accolta dai Romani, per i quali l’impero era considerato come un unico ambito comprensivo di tutti I cittadini sottoposti all’Impero che godevano degli stessi diritti e delle stesse regole (pensi alla Costituzione di Caracalla del 212), difeso da una cinta di separazione col resto del Mondo sconosciuto e lontano dei barbari, il ‘Limes’. Noi e i barbari: è un modello semplice, contrappositivo che permette di creare uno schema interpretativo della realtà per niente complesso e che viene ribadito incessantemente fino ad oggi. Barbari sono i Francesi che vengono nel sud Italia al seguito di Carlo VIII. Barbari sono gli Austriaci nel corso delle guerre di Indipendenza o durante la prima Guerra mondiale. Oppure consideri come sono stati reputati gli americani negli anni del secondo conflitto mondiale: espressione di un meticciato etnico e culturale, propagatori di una cultura negroide, come il jazz. In conclusion, dei barbari. Che poi negli anni Cinquanta diventano coloro che devono proteggere noi da un’altra supposta invasione barbarica, quella dei cosacchi comunisti pronti ad abbeverare I loro cavalli nelle fontane di Roma, come prima di loro i barbari lanzichenecchi nel 1527 o le truppe di Alarico nel 410. Barbari che inseguono sempre nuovi altri barbari. Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi". “La Rivoluzione liberale”, 1924. Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato". “Le avventure del cuore”, 1945 Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare". “La tortura delle mosche”, 1992. E per Amedeo Feniello la Storia che cos’è? Quale di queste definizioni mi prende di più? Nessuna di esse ma tutte esse insieme. Aggiungendo due capisaldi, alla base della mia esperienza personale. L’idea di Bloch che la storia è la storia dell’uomo nel suo fluire. E quella di Croce, che la storia è sempre storia contemporanea. ……………………………………… Amedeo Feniello I nemici degli italiani Con la partecipazione di A. Vanoli Pagine 128, Euro 12.00 Laterza
lunedì, 11 maggio 2020
Pianeta acustico
Questa nota dice di un libro uscito qualche tempo fa per le edizioni Dedalo. Ci sono, però, alcune ragioni che lo rendono attuale e le scoprirete fra poche righe. Titolo: Pianeta acustico Viaggio fra le meraviglie sonore del mondo. L’autore è Trevor Cox. Professore di Ingegneria Acustica all’Università di Salford, in Gran Bretagna, dove conduce ricerche nel campo dell’acustica architettonica, dell’elaborazione dei segnali audio e della percezione dei suoni. È considerato uno degli astri nascenti della divulgazione scientifica britannica: finalista a Famelab, è conduttore di numerosi documentari e programmi radiofonici per la BBC. Sempre per Dedalo, dello stesso autore è recente l’uscita di A ciascuno la sua voce – Come parliamo e ascoltiamo dai Neanderthal all’intelligenza artificiale. Perché ho definito attuale quel libro? Perché parecchi artisti, ispirandosi alle città rese silenti dall’epidemia, hanno creato installazioni su terrazze, tetti e balconi, altri esponendo progetti on line con la speranza di poterle presto realizzare. Si tratta non soltanto di esigenze per riempire vuoti, ma anche occasione per sperimentare potenzialità del suono agito in luoghi particolari. I nomi sono tanti, roba da elenco telefonico, e vi rinuncio Idem per tanti saggisti che hanno speso riflessioni sulla carta stampata o sul web su questo periodo sospeso fra silenzio e suono e le possibili ripercussioni che avrà su di noi questo fenomeno inedito specialmente nelle città più grandi. A tutto questo s’è aggiunta una triste notizia, la scomparsa del critico Germano Celant. Ricordo ai più distratti che fu ideatore di una maiuscola mostra sulla sonorità attraverso il tempo con 180 opere: “Art or Sound” che esplorò le relazioni tra arte e suono nonché le modalità in cui queste si sono evolute dal XVI secolo a oggi. Ancora una cosa, scusandomi per l’autocitazione. Il libro si apre con Cox il quale fa delle scoperte sulle incredibili riflessioni del suono calandosi nei tombini di un parco di Londra. Una delle mie performances per la prima Estate Romana di Renato Nicolini fu “Amore, carogna, esci dalla fogna: 3 giorni di affabulazione sotterranea attraverso 12 tombini della città di Roma". Insomma, ce n’è abbastanza. A chi fosse sfuggito “Pianeta acustico” quando fu pubblicato (specie se agisce in campo musicale, radio-televisivo, teatrale o nelle arti visive coniugate con forme acustiche), ne consiglio vivacemente l’affascinante e istruttiva lettura. Si scoprono, infatti, un mucchio di cose incredibili ma tutte documentate scientificamente: rocce risonanti, pesci che abbaiano, sabbie che cantano, i luoghi più silenziosi al mondo, ipotesi su quali saranno i suoni del futuro. Scrive Andrea Frova in Prefazione: “È raro che un testo sulla fisica del suono e sul rapporto tra scienza e musica contenga notizie curiose o originali per il vasto pubblico. Occorre leggere il sottotitolo del libro (‘Viaggio fra le meraviglie sonore del mondo’) di Cox per capire che invece l’autore ci propone una dilettevole visitazione dei luoghi e delle circostanze dove si producono suoni insoliti, sconosciuti ai più, dei quali offre una nitida spiegazione scientifica accessibile anche ai profani”. Dalla presentazione editoriale. «Dopo anni passati a eliminare i suoni indesiderati nei luoghi pubblici, dagli eccessi di riverbero nelle sale da concerto al rimbombo delle voci nelle aule scolastiche, Trevor Cox, uno dei massimi esperti inglesi di ingegneria acustica, si rende conto che, invece di provare a cancellare i suoni rari e i rumori bizzarri, dovremmo preservarli e conoscerli come veri e propri tesori acustici. Pianeta acustico è un viaggio nei misteri delle meraviglie sonore del mondo. In Francia, scopre un’eco che racconta barzellette, in California una strada musicale: percorrendola, si ascolta l’ouverture del Guglielmo Tell. E nelle cattedrali di tutto il mondo capisce come l’acustica abbia potuto cambiare la storia della musica sacra e della stessa Chiesa. Muovendosi con agilità tra fisica e musica, archeologia e neuroscienze, biologia e design, Cox spiega come nascono i suoni, come vengono modificati dall’ambiente e come reagisce il nostro corpo a particolari rumori, da quelli più bizzarri ed esotici ai suoni altrettanto unici e sorprendenti prodotti dall’ambiente in cui viviamo. In una realtà dominata dal «visivo», questo libro ci invita a riscoprire il mondo nascosto dei suoni, a non essere solo ascoltatori passivi ma ad aprire le nostre orecchie – e la nostra mente – alla maestosa cacofonia che ci circonda.» Trevor Cox Pianeta acustico Prefazione di Andrea Frova Traduzione di Andrea Migliori Pagine 320, Euro 17.00 Dedalo
venerdì, 8 maggio 2020
Il mondo di Woody (1)
La casa editrice il Mulino ha pubblicato un singolare libro su Woody Allen. Perché singolare? Lo dirò fra poche righe. Per prima cosa il titolo:Il mondo di Woody. Ne è autore Roberto Escobar. Ha insegnato Filosofia politica nell’Università di Milano e collabora con «Il Sole 24 ore». Con il Mulino ha già pubblicato: «Il silenzio dei persecutori ovvero il coraggio di Shahrazàd»; (2001), «La libertà negli occhi» (2006), «Metamorfosi della paura» (2015); «La paura del laico» (2010); «Eroi della politica. Storie di re, capi e fondatori» (2012); «La fedeltà di Don Giovanni» (2014); «Totò. Avventura di una marionetta» (2017); «Il buono del mondo» (2018). La singolarità di questo studio? È un saggio che si legge come un viaggio. Escobar ha caricato i lettori del suo libro e i personaggi di Allan Stewart Königsberg, a farla corta Woody Allen, su di un bastimento di cellulosa facendolo navigare sul Mar d’Inchiostro. Durante il tragitto (o lieta gita, fate voi) – da Capo Premessa a Porto Indice – lui Comandante dell’imbarcazione, ha tenuto un discorso invitando ciascun personaggio a fare un passo avanti e connotandolo come tante tappe del percorso cinematografico di quel regista che ogni lunedì suona il clarinetto con la sua New Orleans Jazz Band al Café Carlyle di Manhattan. Se si vuole conoscere il chi è di celluloide su Allen, il libro è questo. E per dimostrare che la mia lettura è ben lucida, non influenzata dal Barbera di cui sono appassionato consumatore, ne aggiungo un’altra: in questo volume troverete all’indice dei Nomi non quelli di austeri saggisti, ma i personaggi dei film. Né mancano, però, quelli che hanno scritto libri su Alle, è loro riservata una spartana Bibliografia. Ancora una cosa: solo due persone al mondo hanno visto tutta la sterminata filmografia di quel regista (49 film!), uno è Roberto Escobar l’altro è Woody Allen. A concludere: libri così? Avercene. Quelli che generosamente leggono queste mie pagine sanno che spesso dedico nelle recensioni qualche rigo pure alle copertine. Anche oggi. Perché la bella copertina di “Il mondo di Woody” si avvale di un lavoro di Pablo Lobato, un grande illustratore argentino. Per vedere altri suoi lavori CLIC! Dalla presentazione editoriale Nato a Brooklyn il primo dicembre del 1935, non troppo lontano da Coney Island e dalle montagne russe del luna park, Allan Stewart Königsberg a 17 anni cambia all’anagrafe il nome in Heywood Allen, che presto diventa Woody Allen. A tutto il 2019 ha scritto e girato, e spesso interpretato, quarantotto film per il grande schermo, da Che fai, rubi? a Un giorno di pioggia a New York, e uno per la televisione. Un nuovo film, Rifkin’s Festival, è in postproduzione. Pare che ogni lunedì suoni il clarinetto con la sua New Orleans Jazz Band al Café Carlyle di Manhattan. Molto amato, soprattutto in Europa, e molto odiato, soprattutto negli Usa, è stato ed è un grande comico, e al pari di ogni grande comico è stato ed è un grande tragico. Come direbbe lui, non senza ironia, Allan Stewart Königsberg alias Woody Allen è un autore e un uomo con a huge worldview, con un’ampia visione del mondo. Scritte non sul suo cinema, ma nei suoi film e con i suoi personaggi, queste pagine cercano di raccontarla». Per leggere un’anteprima del testo: RICLIC! Segue ora un incontro con l'autore.
Il mondo di Woody (2)
A Roberto Escobar (in foto) ho rivolto alcune domande.
Qual è la principale motivazione che ti ha portato a scrivere questo saggio? Una risposta potrebbe essere: perché invitare Allen a cena sarebbe stato più complesso. A parte gli scherzi, scrivere è stato per me una specie di surrogato del piacere d’averlo come ospite, se non proprio come amico. Ma c’è poi un’altra risposta, più generale. Per questo come per gli altri miei libri non saprei dire con esattezza quando e perché ho deciso di scrivere. A un certo punto, un libro ti si presenta già “deciso”, e tu devi solo prendere penna, carta e calamaio, o più prosaicamente metterti alla tastiera del pc. Chi poi abbia davvero deciso è una questione complessa. Si tratta di emozioni e idee che si sono sommate a emozioni e idee, e che hanno preso forma come qualcosa che esiste di per sé, per quanto ancora solo dentro di te. A quel punto inizia la scrittura, arte del levare come la scultura: prendi quel “qualcosa” e lo liberi dal sovrappiù, dall’inutile. Il principio è: tutto quello che è inutile è anche dannoso. Dopo una vita passata vedendo, anno dopo anno, un nuovo film di Allen, il libro era già lì, dentro di me. Il che non toglie che l’arte, o almeno il mestiere del levare mi abbia poi preso un altro paio d’anni. La cosa assolutamente da fare per prima e la prima cosa assolutamente da evitare nello scrivere su Woody Allen? La cosa assolutamente da fare prima di scrivere per me è stata rivedere in rigoroso ordine cronologico, e prendendo appunti, i suoi 47 film, più un quarantottesimo televisivo. Poi, quando ormai il libro era finito, ho visto “Un giorno di pioggia a New York”, appena distribuito in Europa e in Italia (ma non negli Usa). La cosa che invece ho evitato con puntiglio è stato scrivere un libro sul cinema e sui film di Allen, e soprattutto non su Allen. Avrei annoiato i miei ipotetici tre lettori (paragonati ai venticinque di Manzoni, già sarebbero uno sproposito). E comunque mi sarei annoiato io. Così ho scelto di scrivere un libro nei suoi film e con i suoi personaggi, quasi immaginando di realizzare un film mio, tutto su carta… Il cinema di Woody Allen a quali filosofi ti fa pensare? Se tu glielo domandassi, Allen risponderebbe, mentendo, di non aver letto neppure un filosofo, e di non avere proprio niente dell’intellettuale, a parte i grossi occhiali neri e le giacche di tweed. Visto che lo domandi a me, risponderò che nei suoi film sono presenti un buon numero di filosofi. Per esempio, c’è Friedrich Nietzsche, come accenno nel mio libro… Qui potrei farla io, la parte dell’intellettuale, ma non porto gli occhiali e non mi piacciono le giacche di Tweed. Così, preferisco passare agli altri della lista: alla Rose di “Café Society” (vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, e prima o poi ci piglierai), alla Cookie di “Harry a pezzi” (Sofocle avrà pur detto che sarebbe stato meglio non essere mai nati, ma è troppo tardi per dargli retta), alla zia Vanessa di “Magic in the Moonlight” (il mondo può essere o non essere privo di scopo, ma non è del tutto privo di una certa magia)… Potrei continuare, e sarebbero tutte donne. E la cosa mi pare ottima. Allen ha più volte dichiarato che nella sua filmografia predilige “La rosa purpurea del Cairo”. Questo, forse, può aiutare a far capire parecchio del suo cinema. Sei la persona più adatta a spiegare quella sua preferenza… Il cinema è un’altra vita, più coerente e più intelligente di quella che ci tocca vivere lontani dallo schermo. A renderla più coerente e più intelligente sono il regista e lo sceneggiatore, attenti al senso del racconto e decisi a prendersi cura dei loro personaggi. Quanto alla vita vera – ammesso e non concesso, come direbbe Totò, che quella di un film sia falsa –, c’è il sospetto fondato che a scriverla non ci sia uno sceneggiatore e a girarla non ci sia un regista, a parte il caso, i più irresponsabile degli dèi, e il più amorale dei narratori. E se poi a scriverne la sceneggiatura e a farne la regia ci fosse davvero un dio, allora tutti insieme dovremmo fargli causa per danni. Così la pensa il Bob di “Tutti dicono I love you”. È una buona prospettiva, questa, per entrare nei film di Allen, godendosi la compagnia dei suoi personaggi. Impossibile non chiederti com’è vissuto l’ebraismo da Woody Allen… Il suo mondo espressivo affonda nell’ambiente e nell’immaginario degli ebrei di Brooklyn. Da lì Allen trae i suoi personaggi tragici o comici, e spesso tragicamente comici. Oltre agli uomini e alle donne di film come “Crimini e misfatti” o come “Radio Days”, valga per tutti il rabbino a cui accenna Leonard in “Zelig”. A dodici anni, racconta, non riuscivo a trovare il senso della vita e chiesi a un rabbino di spiegarmelo. Lui me lo spiegò, ma in ebraico, e poi mi chiese seicento dollari per darmi lezioni di ebraico. Che cos’è questo, alla fine, se non il senso della vita? C’è però, nei suoi film, anche una critica netta delle appartenenze – in “Ombre e nebbia” soprattutto – e un rifiuto egualmente netto della mitologia delle “radici”, a partire da quelle ebraiche. Non sono che menzogne usate per scegliersi dei nemici, e per ucciderli, spiega Harry alla sorella Doris, la sionista fanatica di “Harry a pezzi”. E a me pare che Allen sia saggiamente ebreo anche in questo rifiuto, suggerito dalla memoria viva della Shoah, una terribile faccenda “di radici”. Perché sono in tanti gli americani a odiarlo? Al fondo c’è probabilmente una lontananza di molti americani dalla sua sensibilità e dalla sua cultura. E intendo il grande pubblico, non certo tutti gli americani. A questo s’è poi aggiunto un graduale aumento della “tragicità” esplicita dei suoi film, che li hanno resi apertamente d’autore, in senso europeo. E non si tratta di un vantaggio, nella patria del pur grande cinema di Hollywood. Non a caso, Allen si è sempre tenuto lontano dalla costa occidentale e da Los Angeles, ben ancorato nella sua New York, e anzi nella sua Manhattan. Il tracollo è poi venuto con le accuse di Mia Farrow – infamanti e infondate, come è stato dimostrato già nel ’93 –, rilanciate a freddo pochi anni fa e diventate una miserevole e criminale gogna mediatica. Perché sono in tanti gli europei ad amarlo? Questo amore credo nasca proprio dalla sua autorialità, per usare un termine da cinefilo snob che non mi piace. E chissà, forse gli europei sentono più vicine l’aria e le idee di New York di quanto non le senta la maggioranza degli americani. Va purtroppo aggiunto che i guasti della gogna mediatica si fanno sentire anche in Italia, per fortuna temperati da un amore antico che resiste. ………………………….. Roberto Escobar Il mondo di Woody Pagine 160, Euro 14.00 e-book Euro 9,99 Formato: Kindle, ePub il Mulino
Al rogo! Al rogo!
Quelli che generosamente leggono queste pagine forse ricordano che sabato e domenica Cosmotaxi non fa le sue corse in Rete. Non voglio trascurare, però, una ricorrenza che quest’anno il calendario proprio di domenica fa capitare il 10 maggio. Perché in quella data, molti anni fa, accadde un avvenimento che ha una forza simbolica che ancora impone riflessioni non solo su quel tempo lontano, ma anche sul presente. Ovviamente quella data non poteva sfuggire al sito Dicono di Oggi nato dall'ideazione coltissima e birichina di Antonella Sbrilli in un librino, elogiato da Umberto Eco, che Giunti pubblicò nel 1994 col titolo “Il gioco dei giorni narrati”, e, infatti, se andate su quel sito come vi consiglio (e mi ringrazierete) ne trovate ampia prosecuzione.
10 maggio 1933: nella piazza del Teatro dell'Opera di Berlino i nazisti in un grande rogo diedero alle fiamme i libri che contrastavano la loro ideologia. Contemporaneamente anche in altre città si ebbero altre pire. Il ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels alla radio pronunciò un violento discorso, dicendo: “Studenti, uomini e donne tedesche, l’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare direttamente gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un’impresa forte, grande e simbolica, un’impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito”. Non era la prima volta nella storia di noi umani che dei libri venivano inceneriti. QUI un parziale riassunto nei secoli di quell’infamia. Riassunto non esaustivo perché, per dirne una mica da poco, ho notato che non è ricordata la “Rivoluzione culturale” maoista durante la quale furono dati alle fiamme milioni di libri “borghesi e imperialisti”. I comunisti russi, anni prima bruciacchiarono sì dei volumi ma scelsero diversa tecnica, andarono all'origine colpendo fisicamente alcuni autori e terrorizzando quanti non si allineavano alle direttive kominterniste fino ad arrivare anni dopo alle cosiddette purghe staliniste dove trovarono la morte tanti fra narratori, poeti, pittori, musicisti. E ancora: in Polonia, pochi anni fa, preti cattolici hanno dato alle fiamme libri considerati malefici. E, per restare ai nostri giorni, in Italia, ricordate quanto è successo a Roma alla Pecora Elettrica? Insomma, i libri li bruciano tutti quelli che credono in un pensiero unico e quando in un paese si afferma un governo totalitario, di qualunque colore sia dipinto, i volumi ad esso contrario corrono gravi rischi e, subito dopo o subito prima, i loro autori. Sul 10 maggio 1933 esiste una buona documentazione in Rete, ho scelto il filmato che segue perché mi è sembrata una trasmissione ben condotta, troverete giovani studiosi, un affermato saggista, foto e filmati d’epoca. CLIC!
mercoledì, 6 maggio 2020
Nemici miei (1)
Lo stoico Lucio Anneo Seneca tra i motti che ha lasciato è famoso quello che così suona: “L'ira: un acido che può provocare più danni al recipiente che lo contiene che a qualsiasi cosa su cui venga versato.” Poiché qualche marachella l’aveva commessa, fu esiliato in Corsica per adulterio, non sappiamo se allora tenne fede a quel suo aforisma. Né si sa se mantenne la calma quando un suo ex allievo, l’irascibile Nerone, lo costrinse al suicidio. Perché quella massima è indubbiamente saggia, ma è difficile seguirla. Oggi basta leggere certe scritte sui muri, sentire certe frasi di sconosciuti al bar, fissare all’edicola il titolo bellicoso di quel tal giornale, per sentirci assediati da una collera sociale che sempre più vertiginosamente ci avvolge. E poiché di solito non si ha in tasca il libro Elogio della fuga del biologo Henri Laborit che suggerisce l’immaginazione come difesa, finiamo col provare altra rabbia che, espressa o repressa, crea una circolazione di ulteriori malesseri. Perché questo sproloquio sulla rabbia? Perché sto per presentare un libro che illumina assai bene i meccanismi che specie oggi governano perniciosamente le relazioni sociali. Quest’importante saggio l’ha pubblicato la casa editrice Einaudi. È intitolato Nemici miei La pervasiva rabbia quotidiana. L’autrice è Nicoletta Gosio. Psichiatra e psicoterapeuta. Suoi precedenti libri: Nulla di personale nel 2012 e nel 2015 (con Simona Argentieri) Stress e altri equivoci. C’è stata un’età dell’oro in cui i rapporti fra gli umani erano idilliaci? No, l’autrice è troppo saggia (ed esperta di relazioni fra individui visto il lavoro scientifico che svolge) per affermarlo, anzi avverte nel Prologo: Love is in the air - l'amore è nell'aria - è il felice titolo di un grande successo discografico di qualche decennio fa. Magari non era proprio così neppure allora, vivere in armonia, andare d'amore e d'accordo non è mai stata una prerogativa dell'umanità; ma di certo oggi suonerebbe più appropriato «rage is in the air ». La rabbia, l'aggressività è nell'aria: la respiriamo, la avvertiamo, la condanniamo, ne soffriamo tutti. E tutti in fondo pensiamo che i responsabili, quelli che sbagliano, i cattivi, in continuo aumento, siano gli altri. Ricompare così fra noi la figura del “capro espiatorio” quale martire necessario per sottrarci alle responsabilità che abbiamo, alle debolezze che occultiamo, alle paure inconfessate. Dalla presentazione editoriale «Nelle nostre relazioni quotidiane respiriamo un clima sempre più offuscato da intolleranza, facile offesa e una fin troppo vivace propensione all’accusa. Il crescendo di espressioni di ira e insofferenza va di pari passo con il rifiuto di fare i conti con le proprie fragilità, utilizzando gli altri come proiezione di parti scomode di sé. A partire dalle inimicizie interiori costruiamo così un mondo popolato da tanti presunti nemici esterni a cui addossare la colpa di scontento e malumori. La difficoltà a mettersi in discussione ben si evidenzia nell’attività psicoterapeutica, ma è anzitutto nella vita di tutti i giorni che i sentimenti negativi proiettati alimentano spirali di rabbia e divisioni. Riconoscere in se stessi ciò che troppo facilmente viene attribuito agli altri, assumersene la responsabilità, è l’unica strada per conoscersi, rispettarsi e ricercare forme pacifiche di convivenza, sottraendosi al rischio che la rabbia sia strumentalizzata dai giochi di potere e della politica». Segue ora un incontro con Nicoletta Gosio.
Nemici miei (2)
A Nicoletta Gosio (in foto) ho rivolto alcune domande.
Come nasce questo libro, da quale esigenza di comunicazione? Lo definirei un invito, un’esortazione a interrogarsi sull’atmosfera di aggressività, insofferenza e malessere in cui viviamo, e di cui troviamo continue dimostrazioni nei nostri sempre più difficili e astiosi rapporti interpersonali. A partire però da sé stessi. Il libro nasce dall’osservazione degli stretti legami che intercorrono fra molta rabbia in circolazione e un’altrettanto diffusa tendenza a scaricare sempre sugli altri la colpa di ciò che non va, rifuggendo il riconoscimento di proprie parti sgradite che, disinvoltamente attribuite agli altri, li trasformano in nemici. Di fatto, meno facciamo i conti con noi stessi più si allarga il contenzioso col mondo, si alimentano spirali di risentimento, accuse e rivendicazioni. Si tratta di strategie di difesa, in buona parte inconsapevoli, talvolta scientemente calcolate, comunque dannose e perdenti. Nella nostra società sono ben evidenti in molti ambiti, incluso lo scenario politico/istituzionale. Persino la democrazia, che nel suo sano fondamento si regge su una condivisione di responsabilità, può essere deformata e indebolita dalla gara all’accusa e alla ricerca continua di colpe ed errori altrui. Ancor prima questa è una china rischiosa e fallimentare a livello individuale, nel nostro piccolo quotidiano a cui rivolgo la mia attenzione. Oltre a intossicare le relazioni ordinarie, mina in ciascuno la possibilità di guardare dove si inciampa e che cosa si può cambiare di quei ‘nemici interni’ – paure, fragilità, sentimenti negativi– dai quali, almeno in parte, derivano, rabbia e malcontento. Andare sempre a caccia di colpevoli, o alla ricerca di conferme e consolazione – come sta accadendo non di rado anche nelle psicoterapie – fa male alle relazioni, ma così ci si fa anche del male da soli. Nell’accingersi a scrivere “Nemici miei” qual è la cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare? Spaziando dalla maleducazione ai rapporti amorosi, quelli con lo straniero, con i curanti, gli insegnanti e così via, ho voluto trasmettere il messaggio chiaro che il tema riguarda tutti. Non si tratta di stabilire se siamo buoni o cattivi, poiché, come insegna la psicoanalista Simona Argentieri, la più pericolosa è sempre l’aggressività che scaturisce da motivazioni inconsce, da cui nessuno è del tutto esente. Ho perciò voluto assolutamente evitare, toccando concetti come odio, amore, responsabilità, di prenderne in considerazione le implicazioni morali, che esulano dalla chiave d’accesso in termini strettamente psicologici alle nostre tormentate e incandescenti convivenze. Per fare un esempio, prendiamo una voce che oggi ricorre di continuo e compare anche nelle mie pagine: solidarietà. Possiamo intenderla su base caritatevole e compassionevole, o come lungimirante valutazione di reciproche convenienze. Ma a livello psichico la solidarietà implica anzitutto il riconoscimento e l’accettazione dell’altro nella sua diversità, anche quando questa diversità è scomoda e convoca a una riflessione su di sé. Fare dell’altro il ricettacolo di tutti i mali, la mia malacopia con cui prendermela, mi esonera dal tendere la mano. Fare il capro espiatorio per il Malaussène di Pennac è addirittura il suo lavoro. Una volta Rabdomant gli spiega che quel ruolo è soprattutto un “principio esplicativo”. Lei è d’accordo con Rabdomant? Se sì oppure no, perché? Certamente sì. Ricordiamo anche che Malaussène, non a caso, lavora nel ‘Tempio del benessere’. Certo, cercare una spiegazione agli eventi è un bisogno umano. Ma quanto più si affievoliscono umiltà, possibilità di ammettere errori, imprevisti, limiti e impotenza, e si fanno strada illusioni e pretese di garanzie assolute di soddisfacimento dei propri desideri, a partire da quelli inconsci, tanto più è urgente trovare una causa. Trovare qualcun altro che risponda, e paghi, è un alibi portentoso per la propria innocenza e giustifica la rabbia. Perché, rispetto ad altre figure, è più facile scegliere lo straniero come proprio nemico? L’angoscia per l’estraneo, di fronte a tutto ciò che è sconosciuto, è universale. Fa parte dello sviluppo psichico e ce la portiamo dentro tutta la vita. Sulla dialettica io/tu, noi/loro, si costruisce il senso della propria identità, si delimitano appartenenze ed esclusioni. La diversità ben si presta ad accogliere le proiezioni delle nostre parti rifiutate e a legittimare perciò il rifiuto ostile dell’altro. In ogni caso la figura del ‘nemico’ è intercambiabile, proprio perché l’estraneità stessa è sempre ridefinibile, e purtroppo manipolabile. Ogni tempo e ogni luogo costruisce il suo ‘nemico perfetto’. Nel mondo contemporaneo la questione migranti mostra la tentazione sempre in agguato di tenere a bada, armandoci di pregiudizi, sia le paure che evocano sia la minaccia alla nostra pretesa di superiorità. Eppure proprio ora vediamo come sia facile trovare differenti nemici in casa, da altri paesi europei al vicino di pianerottolo potenziale ‘untore’. Pensiamo ad esempio ai proclami di orgoglio nazionale, a come possa essere ambiguo e scivoloso il confine tra un lodevole e mai abbastanza solido spirito di unità e un’insidiosa, temibile adulterazione in carburante per alimentare divisioni e attacchi sprezzanti ad altri popoli. Come cambiano i modi di percepire il nemico nell’era telematica, delle “psicotecnologie”, come la definisce Derrick De Kerchkove? Dietro la veste ipertecnologica, in verità troviamo le stesse dinamiche, come purtroppo rivela l’estensione dell’odio in rete. In aggiunta, la rete offre l’illusione imperante di una grande platea a molte esternazioni autoreferenti, in cerca di pubblico piuttosto che di confronto. Penso che per il web si possa parlare di un teatro delle illusioni. E, a maggior ragione se il perimetro di me e quello del mondo coincidono, la disillusione e banali divergenze di opinioni sono vissute come attacchi, che ne generano ulteriori, e finiscono in scontri accesi. Anche la questione della mole enorme di informazioni, nonché di fake, col corollario dell’ormai affermato fenomeno del ‘tutti competenti su tutto’, accresce litigiosità e inimicizie. Per capire che il nemico è dentro di noi è necessario conoscersi. Ha scritto Umberto Galimberti: “La psichiatria organicista riduce tutti i fenomeni psichici ai principi che presiedono la biochimica del cervello; la psicoanalisi riduce le manifestazioni della psiche alla dinamica che presiede la sessualità infantile; le neuroscienze riducono gli scenari psichici alle dinamiche dei sistemi neuronali; la genetica riduce i disturbi psichici alla componente ereditaria e solo in seconda battuta ai fattori ambientali”. Dottoressa Gosio: quale direzione lei indica per conoscerci meglio? Una di quelle esposte, un’altra ancora? Quello di Galimberti è un modo brillante di schematizzare per mettere in risalto differenze e possibili contrapposizioni. In realtà l’origine di qualsivoglia sofferenza psichica è sempre multifattoriale. È necessario uno sguardo ampio e integrato che tenga conto di tutti i fattori e i livelli che contribuiscono a determinarla. Dobbiamo riuscire a far convergere e collaborare i vari punti di vista. Evitando, in particolare, di colludere con le aspettative, ancora una volta illusorie e tipiche del nostro tempo, di vie rapide alla risoluzione del malessere, che non richiedano un lavoro di riflessione su stessi. In ogni caso, al di là delle situazioni che necessitano di un aiuto specialistico, ciascuno può fare esercizio di autocritica e impegnarsi nello sforzo di guardare gli altri per come sono realmente, di riconoscere luci e ombre, bene e male in tutti noi. Senza cadere in pregiudizi, in promesse illusorie, nella trappola della sterile rabbia. Per ridurre i conflitti esterni, e per essere meno soli e infelici. …………………………. Nicoletta Gosio Nemici miei Pagine 128, Euro 12.00 Einaudi
martedì, 5 maggio 2020
Contro Hitler
Una delle questioni studiate in saggi dagli storici contemporanei e tema di tanti articoli giornalistici nonché di molte trasmissioni radiofoniche e televisive riguardano l’esiguità dell’opposizione ad Hitler in Germania. Ben lontana per quantità e capacità operativa di quanto fu capace l’opposizione clandestina italiana a Mussolini e, poi, la Resistenza armata sia da noi sia in Francia. La Resistenza tedesca va di solito principalmente riconosciuta a due nuclei: alla Rosa Bianca composto da studenti cattolici dell’università di Monaco e al Circolo di Kreisau formato da esponenti della nobiltà prussiana, fondato a Berlino nel 1943 dal conte Helmuth James Graf von Moltke che a Kreisau aveva una residenza. Mentre il primo gruppo perseguiva una lotta pacifica, il secondo ebbe un ruolo più determinato, di natura militare fino all’attentato al Fürher del 20 luglio 1944. I capi della Rosa Bianca, processati il 22 febbraio 1943, dopo un’udienza farsa durata cinque ore furono ghigliottinati quel giorno stesso; tennero un comportamento tanto coraggioso da stupire gli stessi carnefici che ne hanno rilasciato testimonianza. Quanto agli appartenenti al Circolo di Kresau, fallito l’attentato, alcuni di loro furono fucilati a Berlino nel cortile del Bendlerblock, sede del Comando Supremo dell'Esercito, come Claus Schenk von Stauffenberg che del piano oltre a esserne l’organizzatore ne fu anche l’esecutore, altri componenti vennero impiccati nel carcere di Plötzensee. Pochi scamparono alla morte, l’ultimo sopravvissuto è stato il barone Ewald-Heinrich von Kleist, morto novantenne nella sua casa di Monaco l'8 marzo 2013.
Tre anni prima di lui morì Georg Holmsten autore di un libro ora pubblicato dalla casa editrice Mimesis intitolato Contro Hitler L’attentato al Führer raccontato da uno dei protagonisti (titolo originale “20 Juli 1944 – Personen und Aktionen”). Il volume s’avvale di una bella copertina dell’artista Noris Yim. Georg Holmsten (Riga 1913 - Berlino 2010) è stato uno scrittore e storico tedesco. Cresciuto in Lettonia, si trasferì a Berlino nel 1922. Nel 1935 fu costretto a interrompere gli studi a causa delle sue posizioni politiche e diventò giornalista. Arruolato successivamente nella Wehrmacht, dal 1943 prestò servizio come ufficiale di comunicazione dei servizi segreti militari. Dopo la guerra divenne autore e giornalista indipendente e pubblicò una trentina di libri. L’autore racconta come si trovò inaspettatamente (forse per un’incredibile falla nella rete poliziesca nazista) in un ufficio militare importante dove fu contattato – in modo alquanto spericolato – proprio da Stauffenberg. Atteggiamento imprudente, mostrato anche da altri al punto, come appare in lettura, da fare ritenere miracoloso che i congiurati non siano stati arrestati prima ancora dell’effettuazione dell’attentato. Atto finale che, però, soltanto per un caso non andò a segno. La fine dei fatti è nota, ma Holmsten riesce a tenere desta l’attenzione di chi legge che è quasi portato a dimenticare che già conosce l’epilogo. Come si salvò l’autore? Egli l’attribuisce in parte al coraggioso silenzio tenuto negli interrogatori da alcuni suoi commilitoni coinvolti nei fatti e in parte alla fortuna che nelle carte sequestrate dai nazisti, accanto al suo nome, e reparto d’appartenenza, non vi era traccia dell’incarico che avrebbe svolto una volta morto Hitler. Sì, fortuna. Proprio così va chiamata vista l’avventatezza di tanti partecipanti al piano che in molti casi avevano scritto accanto ai cognomi, e grado, anche l’assegnazione di ruolo e compiti in seguito alla riuscita dell’attentato. Il libro si conclude con una scheda biografica dei maggiori partecipanti a quella che aveva il nome in codice di Operazione Valchiria. Dalla presentazione editoriale «20 luglio 1944. L'attentato al Führer raccontato da uno dei protagonisti: Una cronaca raccontata dall'interno del complotto per attentare alla vita del Führer, missione che avrebbe potuto interrompere la seconda guerra mondiale già il 20 luglio del 1944. Autore e protagonista della vicenda è Georg Holmsten, giovane redattore e pacifista avverso al nazismo. Costretto suo malgrado ad arruolarsi nella Wehrmacht, Holmsten si ritrovò a servire come ufficiale borghese presso i servizi segreti diretti da Wilhelm Canaris. È in questo contesto che conobbe Claus Schenk von Stauffenberg, eroe di guerra che ricoprì un ruolo chiave nell'esecuzione dell'attentato e nella progettazione del colpo di stato che avrebbe dovuto seguirlo, la cosiddetta Operazione Valchiria. Holmsten ci regala una narrazione del fallimento dell'attentato e dei tremendi fatti che seguirono: l'angosciante notte della fucilazione dei congiurati e il modo in cui sopravvisse alla repressione». Georg Holmsten Contro Hitler A cura di Isabella Horn Pagine 94, Euro 10.00 Mimesis
lunedì, 4 maggio 2020
Contaminati
La casa editrice Hoepli ha pubblicato un importante saggio intitolato: Contaminati Connessioni tra discipline, saperi e culture. Importante perché indica i rapporti attuali, e saranno sempre più presenti nel futuro, tra mondi che a molti sono apparsi un tempo lontani e, invece, hanno rivelato la loro forza creativa proprio contaminandosi. L’autore del libro è Giulio Xhaet. Direttore del progetto Web Media Academy, consulente new media in Cesop Communication - Job Meeting e in University.it. è docente presso la Business School del Sole 24 Ore e speaker per scuole di alta formazione e manifestazioni in tutta la penisola. Inoltre, è co-ideatore del progetto Learning by playing Social Surfer e Head of digital per La Settimana della Comunicazione, a partire dall'edizione 2012. Per Hoepli ha scritto i saggi: “Le nuove professioni del web” (2012), “Le nuove professioni digitali” (2015); “Digital Skills” (2018). La sua scheda biografica così termina: “Musicista e compositore a tempo ritrovato”.
Musicista. Indicazione utile per capire come l’autore sia riuscito a rilevare legami inediti tra forme di creazione e comunicazione. Non è un caso, quindi, che poi nelle pagine del volume si trovino cospicuamente citati famosi brani musicali. Secondo Daniel Barenboim “La musica ha una caratteristica unica, quella di creare le condizioni per aprire la mente, come e forse più di altre discipline”. Le contaminazioni in area musicale, seppure d’epoca contemporanee, sono tante. Come quella tra musica e arti visive a partire dalla fine del XIX secolo fino ad oggi dove s’assiste alle interazioni con la tecnoscena sensoriale, passando attraverso epoche che hanno visto fondersi fonti d’ispirazione e tecniche di altri mondi espressivi: dai suoni naturali della musica concreta a quelli sintetici della musica elettronica fino a interagire (avvalendosi di complessi contributi tecnologici) con nuovi, singolari spunti, si pensi ad esempio "a BID match" di Fabio Cifariello Ciardi, oppure all’uso della Realtà Aumentata come accade in “Tempestate” di Nicola Sani. Oggi, nelle università, in convegni e corsi aziendali, si parla spesso di contaminazioni. È parola che, usata nella sua configurazione di contagio benefico, discende dalle avanguardie artistiche che miscelando più strumenti provenienti da diversi aree estetiche puntavano, e puntano, ad avere risultati complessi e complessivi destinati a nuove forme di percezione. Maria Grazia Mattei scrive in Prefazione: “Un esempio importante di contaminazione è l’ibridazione tra il business aziendale e il mondo dell’arte. Non sto parlando del vecchio modello in cui l’impresa sponsorizza il festival culturale o la mostra d’arte. Andiamo oltre: si può e ci si deve esporre con più coraggio, lavorando con team di artisti e mobilitatori culturali, portatori di quegli “enzimi” creativi alieni alla mentalità tradizionale che si respira nei processi aziendali, per mettere a punto prodotti fuori dagli schemi. Fino a qualche anno fa era quasi un tabù pronunciare nelle aziende termini come “cultura” e “arte”. Ma se vuoi innovare prima e meglio degli altri, sono concetti che devi reintrodurre con forza e determinazione. Le interconnessioni dei saperi, delle competenze e delle professioni sono state spinte dalle nuove tecnologie. Chi cerca di capire il nuovo mondo e portare avanti progetti con un significato profondo deve sviluppare capacità di contaminazione, proprio come illustra il testo che avete tra le mani, abbracciando un futuro che in questi anni appare così incerto ma, proprio per questo, così aperto all’immaginazione”. Questo libro di Xhaet non si limita a connotare in maniera solo teorica la tesi della bontà delle contaminazioni perché è ricco d’esempi di cose proficuamente già realizzate. Apprendiamo come la Finlandia abbia un sistema scolastico d’avanguardia avendo abolito il concetto di “materia”; come aziende, facendone i nomi, siano riuscite a migliorare la produzione coinvolgendo scrittori e perfino danzatori, e altre esemplificazioni non mancano Così come le indicazioni che invitano a combattere timidezze dinanzi a regole che sembrano inviolabili ma non lo sono; abituarsi a non considerare sinonimi i termini “complicato” e “complesso” ma a ben dividerli; Il tutto è accompagnato da una serie di tabelle grafiche ben fatte che integrano la lettura. Insomma, un libro che dovrebbe essere presente nella biblioteca non solo dei manager, ma di tutti coloro interessati a capire come si va trasformando il mondo della produzione avvalendosi delle risorse dell’intercodice. Mi soccorre qui il ricordo di quanto suggerisce Salim Ismail della Singularity University: “Non aspettate il cambiamento, ma realizzatelo”. I sei capitoli del libro si concludono con l’autore che afferma: “Più vi contaminerete, meno dovrete partire da zero. Più vi contaminerete, meno sarete sostituibili da un algoritmo di nuova generazione. Più vi contaminerete, più propagherete le opportunità della vostra vita e delle persone connesse a voi. Ed è per questo che la mia citazione preferita recita: “Dopo gli studi?! Cosa vuol dire, chi li ha terminati? Io sono e rimarrò sempre un avido studente di vita”. Dalla presentazione editoriale «Muoversi tra discipline, saperi e culture diverse: una capacità che sta acquisendo sempre più importanza rispetto al passato. Sono nate università e scuole di formazione dove la contaminazione viene praticata e che si stanno rivelando le più adatte per affrontare le sfide dei nostri tempi. I contaminati sono la risposta a una vita professionale più lunga, intensa e incerta. Sono la risposta umana all’intelligenza artificiale che spopola nelle aziende. Le loro qualità sono sempre più richieste, perché riescono a spingersi in luoghi inaccessibili agli algoritmi. Questo libro è dedicato a chi ama le diversità e non vuole smettere di imparare, a chi si mette a caccia di connessioni inaspettate, a chi desidera collegare le proprie passioni al lavoro, a chi sfrutta il digitale come un nuovo terreno di gioco ibrido tra tecnica e umanistica, a chi vuole sviluppare il proprio “quoziente di contaminazione”.» Giulio Xhaet Contaminati Pagine 192, Euro 14.15 Formato Kindle 9.99 Hoepli
Liberiamo gli Archivi
Con queste tre parole Anna Maria Monteverdi (in foto) ha lanciato dal suo ottimo sito web un’iniziativa che ha raccolto in breve significative adesioni. Ricordo ai più distratti che è esperta di Digital Performance, ricercatrice di Storia del Teatro all’Università statale di Milano, docente aggregato di Storia della Scenografia. Ha insegnato Drammaturgia dei media, Digital video, Teatro multimediale in Accademie di Belle Arti e Dams. Ha pubblicato: (coautore Andrea Balzola) Le arti multimediali digitali (Garzanti 2004); Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli 2011); Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Edizioni Giacché 2014); Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi Editore 2018). La sua più recente pubblicazione è di quest’anno, per il catalogo dell’editore Dino Audino, è intitolata “Leggere uno spettacolo multimediale” e trovate QUI sue sapienti risposte alle domande che Cosmotaxi le ha proposto sul volume.
L’Archivio, che segnalavo in apertura, permette, ad esempio, di conoscere un lontano incontro bolognese con Judith Malina e Hanon Reznikov, assistere alla ripresa avvenuta quest’anno dello storico spettacolo “La rivolta degli oggetti” della Gaia Scienza, alle regìe di Bob Wilson, Ricci – Forte, Milo Rau, Damiano Michieletto, e altri ancora. Vedere performances di Giacomo Verde di cui è recente l’uscita del libro “Giacomo Verde. Videointervista” a cura di Silvana Vassallo, primo titolo della nuova collana “i mirtilli” diretta da Sandra Lischi per l’editrice Ets. Insomma, è un angolo del web destinato prevalentemente agli interessati della nuova scena multimediale, e riunendo più contributi riempie così uno spazio della Rete unico in Italia per un pubblico che mi pare parecchio trascurato altrove.
venerdì, 1 maggio 2020
Working Class Heroes di Giandomenico Curi
Nei giorni festivi Cosmotaxi non fa corse sul web, ma oggi l’eccezione è data da un’occasione particolare. La notizia che segue la devo alla divina Simona Carlucci che qui ringrazio. La famosa Working Class Hero (la potete ascoltare qui) ha dato il titolo a un documentario di Giandomenico Curi realizzato molto bene. Basta un CLIC per vederlo. Inoltre, si può ascoltare una dichiarazione del regista con un altro CLIC!
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