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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La guerra della memoria (1)

La casa editrice Laterza ha pubblicato un importante, lucidissimo, libro che tratta un tema cardine della nostra vita politica di oggi: l’oscuramento della Resistenza con conseguenze che se già mostrano oggi la loro pericolosità per la nostra democrazia, fanno intravedere danni ancora peggiori che possono ferire la nostra vita sociale futura.
Il titolo del volume che v’invito a leggere è La guerra della memoria La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi.
Ne è autore Filippo Focardi.
È professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’Università di Padova. Si è occupato di memoria del fascismo e della seconda guerra mondiale, di risarcimenti per le vittime del nazismo e della questione della punizione dei criminali di guerra italiani e tedeschi.
Ha pubblicato Criminali di guerra in libertà (Carocci 2008), Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia (a cura di, con G. Contini e M. Petricioli, Viella 2010) e L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989 (a cura di, con B. Groppo, Viella 2013).
Nel catalogo Laterza già figura un altro suo lavoro: Il cattivo tedesco e il bravo italiano.

Dalla presentazione editoriale.

«In Italia l’esperienza della seconda guerra mondiale, dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana contro la Repubblica sociale ha inciso sulle memorie individuali e collettive producendo numerose fratture. Al di sopra di un universo di memorie frammentate è esistita però anche una memoria pubblica della guerra di liberazione, impostasi come narrazione dominante. Contestata fin dall’immediato dopoguerra, questa memoria si è trovata negli ultimi anni al centro di un confronto sempre più acceso che ha toccato temi nevralgici: la resa dei conti con i fascisti dopo il 25 aprile, la riconciliazione fra ‘ragazzi di Salò’ e partigiani, la giornata della memoria in ricordo della Shoah, le foibe, Cefalonia.
La guerra della memoria analizza le caratteristiche del dibattito politico italiano sulla memoria della Resistenza.
Un libro che affronta, in maniera rigorosa e documentata, il tema ‘caldo’ della Resistenza, dalle prime celebrazioni della Liberazione al dibattito storico-politico italiano degli ultimi anni».

Segue ora un incontro con Filippo Focardi.


La guerra della memoria (2)


A Filippo Focardi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da dove trae origini il libro “La guerra della memoria”?

“La guerra della memoria” trae le sue origini dai miei studi giovanili, legati agli anni del dottorato a Torino, quando mi occupavo di ricostruire la memoria della seconda guerra mondiale in Italia, con particolare attenzione alla raffigurazione dell’alleanza di guerra con la Germania e all’immagine del tedesco. Sollecitato dall’intenso dibattito pubblico sulla Resistenza e l’antifascismo che si era sprigionato dopo l’affermazione del centro-destra guidato da Berlusconi alle elezioni del marzo 1994, decisi poi di concentrare la mia attenzione sull’elaborazione della memoria della Resistenza e sul suo uso politico negli anni della Repubblica, con uno sguardo di lungo periodo dall’immediato dopoguerra fino al presente. La scelta era stata inoltre quella di corredare la mia ricostruzione con un’ampia documentazione di testi di riferimento (articoli di giornali e riviste, interventi pubblici di politici e intellettuali, testi di legge) che consideravo utili per il lettore.

Su quali idee portanti nasce la prima narrazione della Resistenza da parte antifascista?

Nel volume sottolineo come, al di là di specifiche declinazioni della memoria della Resistenza legate ai diversi attori politici (comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, monarchici, ecc.), sia esistita una narrazione di fondo unitaria e condivisa basata su alcuni pilastri comuni: l’idea di un distacco fra popolo italiano e fascismo e soprattutto fra popolo italiano e guerra fascista, con riferimento alla guerra dell’Asse combattuta a fianco della Germania hitleriana dal giugno 1940 al settembre 1943, considerata una guerra “né voluta né sentita” dagli italiani; l’enfatizzazione al contrario della lotta compiuta dopo il settembre 1943 contro l’occupante tedesco e i suoi collaboratori fascisti, vista come la “vera guerra” del popolo italiano, quella in cui la nazione aveva ritrovato ed espresso il suo comune sentire contro l’atavico nemico (il tedesco) e contro il “traditore” fascista che l’aveva posta nelle mani di Berlino; l’idea di una perfetta continuità fra la lotta antifascista degli anni venti e trenta e la lotta contro il nazifascismo del 1943-45; l’idea di una partecipazione corale del popolo italiano alla Resistenza (“un popolo alla macchia”, come recitava un libro di Luigi Longo); l’idea della Resistenza come lotta di liberazione nazionale che riprendeva e attualizzava le lotte risorgimentali (Resistenza come “secondo Risorgimento”) attivando la mobilitazione delle masse; l’idea che l’Italia democratica e antifascista, tramite il suo impegno e il suo tributo di sangue, si fosse riscattata dal fascismo e dalla sconfitta militare tanto da meritarsi di assidere al fianco dei vincitori. Era una raffigurazione che poggiava su una consistente base di verità: gli sforzi messi in atto dai partigiani così come dai militari del Regno del Sud “cobelligeranti”, il tributo di sangue versato dalle migliaia di vittime civili delle stragi tedesche e fasciste. Allo stesso tempo venivano elusi alcuni nodi delicati.

Quali? Può fare degli esempi?

Eccoli. La dimensione del consenso popolare al fascismo (e in parte anche alla sua guerra); le rivalità e gli scontri fra le varie componenti della Resistenza; i rapporti non sempre idilliaci fra partigiani e popolazioni locali, il fatto che l’Italia era considerata dagli Alleati una nazione nemica sconfitta. La raffigurazione epica e corale della Resistenza corrispondeva per altro – come ha sottolineato Tony Judt - alla stessa immagine elaborata allora in tutti i paesi europei che avevano subito l’aggressione nazista. Tutti quanti posero in evidenza le “luci” della Resistenza e occultarono le “ombre” del collaborazionismo. In Italia a spingere verso l’enfatizzazione dei meriti della Resistenza non era solo l’esigenza dei singoli partiti antifascisti di rintracciarvi uno strumento di autolegittimazione (come è stato detto più volte, con riferimento soprattutto al PCI). Ma agiva contemporaneamente l’esigenza sentita da tutte le forze antifasciste, che dall’aprile 1944 animarono i governi di unità nazionale, di evitare il rischio di una pace punitiva che avrebbe potuto far scattare, come nella Germania di Weimar dei primi anni Venti, il revanscismo della destra di matrice fascista.
Gli anglo-americani nel 1943 avevano promesso (col cosiddetto documento di Quebec) che avrebbero migliorato le condizioni di resa dell’Italia tenendo conto del contributo che gli italiani avrebbero dato alla lotta contro la Germania. Tutti i partiti antifascisti chiesero dunque l’adempimento di questa promessa e per farlo accesero i riflettori, per così dire, sui meriti dell’Italia della Resistenza e della cobelligeranza. L’esigenza dei partiti di legittimare sé stessi si unì dunque a quella di perseguire l’interesse nazionale e il risultato fu una raffigurazione in chiave eroica e martirologica della Resistenza. Un po’ forzata, certo, ma non tendenziosa: i morti c’erano stati, eccome!, e anche gli eroismi.

Quest’immagine della Resistenza quando conosce la sua crisi?

L’immagine unitaria della Resistenza andò in crisi molto presto, già nel 1947-1948, quando cominciarono a soffiare i venti della Guerra fredda e l’anticomunismo tese a sostituire l’antifascismo come punto di riferimento ideologico per la parte politica che si era affermata in libere elezioni alla guida del paese, vale a dire la democrazia cristiana e gli altri partiti di matrice liberale e liberaldemocratica…

… ad esempio?

… ad esempio, già in occasione della festa della Liberazione il 25 aprile 1948 fu vietato dal governo di esporre simboli di partito (niente bandiere rosse in piazza!). In questo quadro furono sottolineate le fratture e le contrapposizioni fra le varie forze della Resistenza piuttosto che i valori comuni: la DC accusò i comunisti di essere stati portatori di una visione di parte della Resistenza macchiata dall’imprinting totalitario del comunismo sovietico e asservita agli interessi di Mosca rivendicando al contempo il proprio ruolo di legittimo interprete della Resistenza come lotta per la libertà e l’indipendenza del paese; a loro volta, le sinistre, comunisti socialisti e azionisti, accusarono la Dc e i partiti laici di aver “tradito” la Resistenza bloccandone la spinta la rinnovamento democratico del paese. Messa sotto accusa, anche dal punto di vista giudiziario, soprattutto negli anni della prima legislatura (1948-53) – gli anni della contrapposizione ideologica più forte, gli anni della guerra di Corea e del maccartismo – la memoria della Resistenza tuttavia non fu scalzata. Le ipotesi di una saldatura in chiave anticomunista fra la DC e le destre neofasciste e monarchiche non trovarono sbocchi. De Gasperi mantenne alto il discrimine contro il neofascismo e dalla metà degli anni Cinquanta emersero numerosi segnali, dall’interno dello stesso centrismo moderato, nel senso di un rilancio di una memoria unitaria della Resistenza e dell’antifascismo. Questi segnali si tradurranno dopo il 1960 (proteste a Genova e caduta del governo Tambroni) in un rilancio della memoria pubblica della Resistenza, che approderà nel pantheon nazionale con i governi di centro-sinistra

Per quali motivi l’avvento di Craxi, come lei ricorda, produsse “uno stimolo importante al revisionismo della memoria” ?

Perché Craxi e il nuovo gruppo dirigente del PSI, nella loro sfida lanciata al PCI per contestarne l’egemonia a sinistra in nome dell’antitotalitarismo, rilanciarono temi della polemica antiresistenziale di matrice anticomunista: le foibe, il triangolo della morte, l’uccisione di Giovanni Gentile, Porzus, la polemica sull’attentato di Via Rasella da cui scaturì la strage delle Fosse Ardeatine… Erano tutte questioni su cui avevano insistito a partire dall’immediato dopoguerra le forze anti-antifasciste, nelle loro diverse espressioni, che andavano dal conservatorismo liberale e cattolico al qualunquismo al neofascismo vero e proprio. Per la prima volta un partito della sinistra legittimava quelle critiche, che non avevano solo l’effetto di mettere nell’angolo il PCI ma di scuotere la memoria stessa della Resistenza. Tutto ciò avveniva in un periodo di grande attivismo della storiografia cosiddetta revisionista, la quale si stava muovendo lungo due direttrici fondamentali: la promozione di una visione edulcorata del fascismo come dittatura all’acqua di rose capace di attivare un consenso plebiscitario e, appunto, la critica alla Resistenza e all’antifascismo come fenomeni “viziati” dalla preponderante presenza del Partito comunista.

Quale effetto ha avuto sulla memoria della Resistenza l’opera di Renzo De Felice?

Renzo De Felice ha avuto sicuramente un ruolo di primo piano relativamente alla prima delle direttrici di riscrittura del passato nazionale di cui abbiamo detto sopra, quella cioè relativa al giudizio sul regime fascista. Più tardi, negli anni Ottanta e Novanta, si è anche pronunciato sulla Resistenza e l’antifascismo; si pensi alla doppia intervista resa a Giuliano Ferrara per il Corriere della Sera (dicembre 1987-gennaio 1988), al volumetto “Rosso e Nero” e all’ultimo volume postumo della biografia di Mussolini, quello dedicato alla guerra civile.

Proviamo a indicare i punti di vista espressi da De Felice

Volendo sintetizzare indicherei: l’idea dell’obsolescenza dell’antifascismo come matrice di una moderna liberaldemocrazia (in quanto avrebbe impedito la definitiva maturazione democratica del PCI); l’idea della Resistenza come guerra civile fra due “minoranze attive” – fascisti e antifascisti – mentre la stragrande maggioranza degli italiani non avrebbe fatto altro che tirare a campare per arrivare incolume alla fine della guerra; l’idea – già promossa da Ernesto Galli della Loggia – dell’8 settembre come “morte della Patria” e non come inizio del riscatto nazionale promosso dalla Resistenza. In definitiva, dunque, un forte ridimensionamento del significato della Resistenza nella storia italiana, e un autorevole avallo alle posizioni di chi sottolineava esclusivamente il suo carattere di guerra civile e i suoi gravi limiti. Tutto ciò legato all’idea della scomparsa dall’orizzonte italiano di qualsiasi pericolo legato al retaggio dell’esperienza fascista (tanto che De Felice già alla fine degli anni Ottanta si era pronunciato per l’abolizione delle norme costituzionali che impediscono la ricostituzione del partito fascista, come segnale di un nuovo inizio della democrazia italiana, a suo giudizio possibile solo in chiave post-antifascista).

Qual è stata l’importanza dello storico Claudio Pavone negli studi sulla Resistenza?

Il volume di Pavone, “Una Guerra civile”, uscito nel 1991 ha costituito veramente una svolta storiografica di grande rilievo. Ha rappresentato infatti contemporaneamente un allargamento della prospettiva così come un cambiamento del punto di vista con la sua attenzione non tanto alle forze organizzate ma alle ragioni della scelta dei singoli e ai loro comportamenti. Ha ampliato lo sguardo – dicevamo – a temi nuovi, come ad esempio quello della violenza, distinguendo fra quella agita e rivendicata identitariamente dai fascisti e quella “difensiva” degli antifascisti. Ad altri temi importanti come la giustizia partigiana…
Si deve a lui, inoltre, il superamento della contrapposizione fra la visione della Resistenza come guerra civile e quella della Resistenza come guerra di liberazione nazionale attraverso una lettura più articolata e raffinata che riconosce la compresenza di tre diverse accezioni della Resistenza: come guerra di liberazione nazionale, guerra civile e guerra di classe. Dalla destra il libro di Pavone è stato utilizzato per avallare la propria idea della Resistenza come guerra civile. Ma dietro la stessa parola – guerra civile – stanno due idee completamente diverse, direi opposte: per la destra la guerra civile significa guerra fratricida fra italiani cui si deve un inutile spargimento di sangue; per Pavone significa invece guerra necessaria per affermare una diversa civltà, lotta fra l’idea gerarchica e razzista di patria incarnata dal fascismo e l’idea di una patria libera e democratica inconciliabile con la prima.

Gli avvenimenti politici con Craxi prima, Berlusconi poi e successive fasi fino ad oggi, hanno offuscato il ricordo della Resistenza favorendo anche spazi alla propaganda neo fascista all’opera dal 1946 in poi.
A suo avviso, quali strumenti, adesso, andrebbero agiti per ricostruire un’immagine della Resistenza
?

La battaglia lanciata dalla destra negli anni Novanta e poi negli anni Duemila contro l’antifascismo e la memoria della Resistenza ha indebolito la loro posizione sul piano culturale ma non ha prodotto il loro scalzamento e la loro sostituzione. Il panorama attuale è molto articolato. Accanto alla memoria della Resistenza si è sempre più affermata quella “competitiva” della Shoah legata alle celebrazioni del 27 gennaio. E un posto di rilievo ha assunto anche la memoria delle foibe, utilizzata dalle destre in chiave conflittuale come alternativa a quella della Resistenza. Il Quirinale, con Ciampi e poi con Napolitano e Mattarella, ha fatto da argine contro gli attacchi più virulenti della destra, impedendo ad esempio che fosse introdotta una nuova festa nazionale al posto del 25 aprile (Forza Italia aveva insistito per il 18 aprile, in ricordo della sconfitta socialcomunsita alle elezioni del 18 aprile 1948). Il Quirinale ha difeso e rilanciato una memoria istituzionale della Resistenza, declinata in senso nazionalpatriottico. Più di recente, a partire dal 70 della Liberazione, ha avuto spazio nel discorso pubblico una maggiore attenzione alla dimensione popolare della Resistenza civile, con un rilievo particolare al ruolo giocato dalle donne. Questo allargamento della scena è importante, ma sarebbe opportuno recuperare alla coscienza pubblica anche la dimensione più tradizionale - e ora in gran parte dimenticata – legata tanto alla dimensione della lotta armata contro l’occupante tedesco quanto alla elaborazione delle basi politiche della nuova Italia democratica. Insomma, andrebbe recuperata una maggiore consapevolezza delle ragioni storiche dell’antifascismo. Per far questo serve partire dall’immagine del fascismo, ovvero fare I conti con esso, prenderlo sul serio, superare raffigurazioni diffuse che ne esaltano presunte realizzazioni (paludi bonifìcate e treni in orario). Solo recuperando una coscienza storica di quello che fu realmente il fascismo si può pensare di riattivare una memoria viva della Resistenza e dell’antifascismo, scevra da ogni esaltazione acritica ma consapevole del valore storicamente insostituibile di quelle esperienze.

………….………………..

Filippo Focardi
La guerra della memoria
Pagine 380, Euro14.00
Laterza


Piegare i santi

Anni fa, ero in Sicilia per un lavoro tv e, per caso, assistetti a una manifestazione di occupanti abusivi di case (spesso seconde case) nella Valle dei Templi che si sentivano minacciati di sgombero. Valle nella quale era proibito costruire dopo che nel '66 era venuto giù un intero quartiere d'Agrigento. Quei proprietari, dopo una Messa, usciti dalla chiesa, issato un cartello con l'effigie di Padre Pio, si mossero in corteo lanciando contro chi voleva cacciarli da quei luoghi illegalmente posseduti vari moniti liturgici: "Cornuti! …Comunisti! …Figli di bottana!... " e litanìe del tipo: "Stato fuorilegge!"…"Deve decidere la Sicilia non Roma!"…"La Valle è cosa nostra"!
E su questo va a dare loro torto.
L’organizzatore del servizio tv, uno di quei luoghi, m’indicò con lo sguardo un tale che era l’unico silenzioso fra quegli scalmanati urlanti, un ciccione baffuto dal volto aggrondato e, a bassa voce, mi disse: “È uno che qui conta, ordina gli inchini”.
Non capii… gli inchini?... capii benissimo però che al mio accompagnatore non gli andava di parlare oltre temendo che qualcuno ascoltasse le sue parole. Mi fece cenno che me ne avrebbe parlato dopo. Poi, come succede per il lavoro che urge sbrigare, non tornammo sull’argomento. Nel tempo, poi, ho letto cronache giornalistiche e un po’ ne ho appreso su che cosa volesse dirmi il mio compagno di lavoro di allora sugli “inchini”.
Adesso, però, dopo la lettura di un libro ne so molto di più.

La casa editrice Marietti 1820 ha, infatti, pubblicato Piegare i santi Inchini rituali e pratiche mafiose.
L’autore è Berardino Palumbo.
Professore ordinario di Antropologia sociale all'Università di Messina, è autore di saggi pubblicati sulle principali riviste scientifiche internazionali di antropologia.
Tra le sue pubblicazioni “L'Unesco e il campanile” (Meltemi 2003) e “Politiche dell'inquietudine” (Le lettere 2009).
Questo volume riesce a spiegare i significati della consuetudine di fare inchinare le statue dei santi allorquando le processioni passano (ma non è un caso: vengono fatte passare) davanti alle abitazioni di capi mafiosi. Ma non bastano i percorsi obbligati, va notato anche l’ordine in cui è omaggiato chi per primo e chi dopo, e valutato il tempo d'ogni inchino. Serve a rilevare una gerarchia che può anche cambiare col trascorrere del tempo.
Può mai, per fare un esempio, S. Alfio (patrono dei muti e perciò particolarmente caro ai siciliani) ricordare che Calogero «‘u cuteddu» non è più il capo di un certo quartiere e mo’ deve passare prima, e inchinarsi più a lungo, davanti Tore «’a cannarozza»? S. Alfio ha più di mille anni, poi lo sanno tutti che quel suo vizietto di sniffare incenso gli ha sfessato la memoria e neppure un miracolo gliela farà tornare. Ed ecco un uomo (come quel ciccione baffuto che vidi anni fa) che provvede. Lui sa le cose come stanno, organizza e dispone.

Palumbo (in Sicilia, ha visto le cose su cui da studioso ha indagato) ben fa capire al lettore l’intreccio tra il linguaggio religioso e quello criminale invitando ad evitare la troppo abusata e fuorviante visione di religiosità e simbologie arcaiche dell’uno e l’altro campo. Queste “gare devozionali” sono pienamente moderne, agite non da vecchi contadini mafiosi, ma da uomini che viaggiano su auto di lusso, maneggiano armi sofisticate, fanno uso di cocaina.
Di antico permane, sia in quelle manifestazioni religiose sia nelle riunioni segrete, una modalità linguistica sessista che l’autore esemplifica in un episodio da lui vissuto.
I razzi sparati (i “bummi”) da un gruppo di giovani verso il comitato del sottostante paese erano accompagnati dalla voce di un anziano che “salmodiando in un latino maccheronico indirizzava ciascuna bomba verso le parti intime del comitato nemico”.
Lo stesso termine “masculiata” la dice chiara.
Ecco le ultime righe del libro tratte da un’intercettazione tra Nino Gioè di Cosa Nostra coinvolto nella strage di Capaci con Gino La Barbera.

NINO – Di lì ci vanno un paio al tribunale… appena escono e partono ci avvisano

GINO – Quando partono di là? Di solito queste cose di pomeriggio le fanno?

NINO – Io penso che per le quattro, le cinque… a masculiata gli si può fare.

Dalla presentazione editoriale.
«Rendere omaggio ai boss della mafia o ai loro familiari facendo inchinare le statue dei santi durante le processioni è un aspetto della più ampia religiosità diffusa in molte aree del Mezzogiorno, ma anche in alcune realtà del nord Italia. Liquidato come gesto pagano e premoderno, esso in realtà richiede una lettura in grado di comprendere la complessa e più generale macchina rituale della festa. Le famiglie mafiose talvolta provano a controllare i tempi e i ritmi delle processioni religiose e, occupando una precisa posizione sotto le vare, decidere il movimento delle statue; possono gestire i tempi, i luoghi e le modalità dello sparo dei fuochi d'artificio e così rappresentare pubblicamente il proprio status sociale e i rapporti di forza tra uomini. Questi esperti manipolatori dello spazio pubblico guidano auto di grossa cilindrata, investono in complesse operazioni finanziarie; non sono dunque gli attori di una società arcaica, ma esponenti del cosiddetto casinò capitalismo».

Berardino Palumbo
Piegare i santi
Pagine 176, Euro 13.00
Marietti 1820


Perché ci siamo salvati


La persecuzione antisemita del XX secolo è spesso confinata nella Germania hitleriana
Si dimentica, o talvolta si tenta d’occultare, che pure altri paesi hanno praticato atti antiebraici, anche nella Russia sovietica.
Sorprende, specie in questi nostri giorni dove revisionismo e negazionismo si sono ripresentati in forze, che proprio da noi, in Italia, si smemora che siano state addirittura emanate le leggi razziali determinando la perdita dei diritti civili per 58mila nostri connazionali.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio 1938, firmato da
10 scienziati italiani (i nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari), sorretti da altre 329 firme. Anni fa li ricordò Franco Cuomo nel suo libro "I dieci" che così concludeva le pagine: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono. In prima persona. Perché lo furono”.
Oltre alle leggi razziali, il fascismo ebbe altre responsabilità dirette negli arresti e deportazioni degli ebrei pure dopo il 16 ottobre 1943, data della grande retata al ghetto di Roma. Nel resto d’Italia, a partire dal novembre-dicembre del 1943, ne avvennero d’arresti e internamenti.. Del resto, dichiarando gli ebrei nemici dell’Italia, il regime di Salò si era assunto in prima persona il compito della caccia agli ebrei che i nazisti, impegnati sul fronte militare, non erano in grado di condurre efficacemente.

Su quella tragedia è uscito un libro dalla concezione singolare pubblicato da Marsilio intitolato Perché ci siamo salvati.
Ne sono autori Claudio Bondì e Stefano Piperno.
Bondì è scrittore, sceneggiatore, regista cinematografico e televisivo. Laureato in lettere all’Università La Sapienza di Roma, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato aiutoregista di Roberto Rossellini.
Piperno, sposato, due figli, ha svolto studi classici. Consulente di marketing nell’industria tessile, ha sviluppatole sue attività imprenditoriali tra Milano e New York.
Perché ho definito “singolare” quel volume? Perché di solito siamo abituati a leggere prevalentemente cronache di chi quei terribili giorni li ha trascorsi in esilio, oppure in fuga o addirittura in un lager. Qui, invece, dialogano, via mail, due cugini, nati nello stesso anno (1944) e ricordano quanto hanno appreso dai familiari. Nelle loro parole lampeggia qualche allarme, ma soprattutto trionfano le atmosfere di giorni lieti come lo sono spesso i giorni infantili in pieno contrasto con quanto sappiamo avveniva in quegli stessi giorni.

Alessandro Piperno (Roma, 1972), figlio di Stefano, Premio Strega nel 2012 con “Inseparabili”, il suo romanzo d’esordio, autore di “Con le peggiori intenzioni”, s’incarica di una postfazione dove tra l’altro si legge: Se da un lato non c'è parola che io abbia scritto nell'ultimo trentennio che non sia implicata, anche solo di sbieco, con il mondo irrimediabilmente perduto evocato in questo epistolario; dall'altro, a valutarle in retrospettiva, non ce n'è una, delle mie parole, che sia stata capace di sfiorare il garbo, l'indulgenza, la tenerezza di cui hanno dato prova questi due attempati corrispondenti… nelle pieghe delle e-mail di Stefano e Claudio mi è sembrato di ravvisare una cauta interlocuzione nei confronti degli spettri dei loro genitori che fa il paio con i dubbi espressi fin troppo sfacciatamente dal protagonista del mio primo controverso romanzo.

Dalla presentazione editoriale.
«Perché lo facciamo? Per rispettare la necessità della Storia, che non ha bisogno soltanto di accadimenti straordinari ma vive della vita segreta delle persone, del riflesso che i grandi fatti hanno su quanti ne sono stati vittime ed eroi insieme». Forti di questa convinzione, Claudio e Stefano, cugini romani, rievocano ciò che hanno conosciuto solo attraverso il racconto di nonni e genitori: quanto avvenne in Italia dai primi decreti antiebraici del 1938 alla Liberazione. Per ritrovare le proprie origini, scelgono di avviare una fitta corrispondenza in cui rivivono quegli anni tra memoria collettiva e ricordi familiari, note personali e preziosi documenti, in particolare il diario tenuto in quei terribili mesi da Maurizio Bondì, padre di Claudio, le cui parole interrogano, decifrano, citano. Sorprendentemente, ciò che ne ricavano non è affatto il plumbeo resoconto di un precipitare nell’abisso né uno sconfortato chiosare su un tragico destino, ma l’esatto opposto: una vitalità che le pagine stentano a contenere, una quotidianità gioiosa fatta di oggetti, stoffe, arredi, ricettari, di relazioni, scorci e paesaggi che appartengono a un’Italia ormai scomparsa. Tra ricostruzione storica e riflessione sul significato della memoria, gli autori restituiscono intatti la tenacia e l’entusiasmo di quei ragazzi che trasformarono la debolezza in forza e non permisero che fossero l’angoscia o il risentimento a dettare l’agenda emotiva dei loro anni a venire. Un flusso di coscienza che non si interrompe, masi lega alle riflessioni che Alessandro Piperno, figlio di Stefano, ha voluto consegnare a un lungo testo conclusivo, nella consapevolezza che «non c’è nulla di più ebraico di un commento al commento: lo sfrenato dialogo intergenerazionale in cui la memoria si mescola all’eloquenza, l’eloquenza al sentimento, il sentimento alla storia».

Claudio Bondì
Stefano Piperno
Perché ci siamo salvati
Postfazione di Alessandro Piperno
Pagine 188, Euro 17.00
Marsilio



Maternità e monoteismi (1)


Le Edizioni Quasar di Severino Tognon, nella collana “Le religioni e la storia” diretta da Sergio Ribichini, hanno pubblicato Maternità e Monoteismi.
L’autrice è Giulia Pedrucci.
Circa la sua bio, sul sito dell’Università di Verona, così è scritto.
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«Ho studiato antiche religioni politeistiche sin dal mio primo Master of Science laurea in Lettere Classiche, con particolare attenzione alle fonti archeologiche e dal punto di vista antropologico. I risultati del mio primo M.Sc. tesi e del mio dottorato tesi di laurea sono stati pubblicati da L'Erma di Bretschneider e Scienze e Lettere (Accademia Nazionale dei Lincei).
Dopo una pausa di carriera (durante la quale ho insegnato alle scuole medie e superiori), sono tornato al mondo accademico come MSCA Cofund Fellow al Max-Weber-Kolleg (Università di Erfurt). In occasione del Congresso mondiale IAHR del 2015, ho iniziato una collaborazione duratura con uno studioso svizzero-canadese, Florence Pasche Guignard, per sviluppare i principi chiave epistemologici di un sottocampo di studi di genere all'intersezione tra Studi sulla maternità e Religiosi Studi (pubblicato in Numen - Brill). Su questo argomento, ho pubblicato una monografia, curato due volumi collettivi e ho organizzato un ciclo di tre seminari internazionali intitolati ‘Religionification of Motherhood’ and ‘Mothers Appropriation of Religion’. I risultati sono stati pubblicati come procedimenti e una loro selezione è in un numero speciale di Open Theology (De Gruyter).
Sono attualmente membro post-dottorato di Gerda Henkel con un progetto intitolato Votive Statuettes of Adult/s with Infant/s from Southern Italy and Sicily from the end of 7th to 3rd c. BCE: A Cross-Cultural and Meta-Disciplinary Perspective».

Dalla presentazione editoriale di “Maternità e Monoteismi”
«Lo scopo precipuo di questo nuovo volume miscellaneo è analizzare come il paradigma materno, cioè la “maternità come istituzione”, venga “confezionato” a uso e consumo dei credenti (maschi, compresi i membri del clero, e femmine, comprese coloro che non sono biologicamente madri) nelle religioni monoteistiche, nonostante i limiti intrinseci in classificazioni di questo tipo, e quali condizionamenti abbia sul “lavoro materno”, spesso rendendo il nuovo stato di madre un momento problematico e contraddittorio per la donna, divisa fra ciò che le viene detto essere giusto fare e ciò che lei si sentirebbe di fare nei confronti del suo bambino. Queste tematiche vengono analizzate nel volume a partire dal mondo antico in un costante intreccio con problematiche di stringente attualità».

Segue ora un incontro con Giulia Pedrucci.


Maternità e Monoteismi (2)

A Giulia Pedrucci (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Questo libro è il “sequel” di un precedente volume miscellaneo intitolato “Maternità e Politeismi / Motherhood(s) and Polytheisms”. Entrambi nascono dalla volontà di far conoscere in Europa i cosiddetti ‘Motherhood Studies’ e inaugurare un dialogo interdisciplinare estremamente promettente fra essi e i ‘Religious Studies’.

Che cosa le interessa particolarmente di questo tema?

Lo scopo principale e, a mio avviso, più stimolante e fecondo delle mie ricerche è indagare come le religioni (i libri sacri e le successive interpretazioni di essi da parte di autorità religiose, le narrazioni mitologiche etc.) influenzino sia la rappresentazione sociale della maternità, cioè della maternità come istituzione ‘motherhood as an istitution’, che in termini religiosi si traduce con l’elaborazione del modello della ‘buona madre’ da seguire per le credenti (tutte le religioni parlano di maternità in questo senso: quanti figli fare, con chi, come educarli, la sessualità ‘giusta’, la verginità come valore, la sterilità come punizione…), sia la vita reale delle madri in relazione a condizionamenti di tipo religioso (il ‘mothering, to mother’, verbo difficilmente traducibile in italiano, lingua meno ‘concreta’ dell’inglese). Questa distinzione richiama un’altra distinzione, è cioè quella fra ‘womAn as symbol’ (il paradigma della buona madre elaborato nei testi di quelle che la studiosa definisce ‘religioni dominate dagli uomini’) e ‘womEn as agents’ (le madri in carne e ossa e le attività religiose concrete che svolgono).

Quali criteri generali l’hanno guidata nello scegliere i saggisti che sono presenti nel volume e di cui prima abbiamo indicato nomi e temi?

Come sempre in questi casi, si è proceduto a fare una ‘call for chapters’. Fra le proposte pervenute, si è privilegiato chi trattava tematiche riguardanti la maternità e non più genericamente il ruolo della donna. Uno degli scogli più difficili da superare nell’affrontare questo tipo di studi, infatti, è il binomio essenzialista che fa coincidere ‘donna’ e ‘madre’: ci sono donne che non sono/non possono/non vogliono essere madri, e ci sono madri che non sono donne… Dopodiché, si è ovviamente cercato di creare un equilibrio fra le diverse tradizioni religiose per non confezionare un volume che fosse quasi esclusivamente ‘mariologico’.

Come si legge nell’Introduzione «esistono oggettive difficoltà nell’imprigionare i diversi sistemi religiosi dentro “monoteismo” e “politeismo”».
Quali sono queste difficoltà
?

Le distinzioni fra monoteismo e politeismo sono molteplici, ma la più evidente risiede sicuramente nel numero: uno e tanti. Se si considera il monoteismo come una tradizione religiosa all’interno della quale esiste un unico essere divino – o, meglio, sovra-umano – datato di ‘agency’ in relazione alle vicende umane, vediamo facilmente come, per offrire l’esempio più banale e immediato, il monoteismo per “noi” più familiare, cioè il cattolicesimo, attribuisce questa ‘agency’ anche alla Madonna e ad una pletora di santi.

Accanto alle numerose forme di religiosità, perché lei sostiene che esistono molteplici forme di maternità? In quali approcci o comportamenti possiamo scorgerle?

È importante sottolineare che l’idea di maternità che propongo ha a che fare più con la pratica culturale che con la funzione biologica, di conseguenza va oltre gli aspetti più strettamente fisiologici della maternità (gravidanza, parto e allattamento) e abbraccia sia il ‘mothering’ che la ‘motherhood’ di cui ho detto prima. In questo modo non soltanto una madre può ricoprire questo ruolo, ma anche una qualsiasi donna che non abbia fisicamente procreato, un uomo e perfino, se guardiamo alla mitologia, un animale (nelle raffigurazioni egizie e romane, apparentemente anche una pianta!).
La definizione di madre che io offro è la seguente: ogni bambino può avere nella propria vita una o più figure che collaborano (simultaneamente o no) per la sua conservazione, crescita e accettazione sociale, ma di solito ogni bambino ha nella sua vita una sola figura – una ‘madre’ – che si prende cura di lui su una base quotidiana – o quasi quotidiana – al fine di garantirgli conservazione, crescita e accettazione sociale. Altre figure possono aiutare la ‘madre’, ma quest’ultima/o svolge questo compito in modo preponderante rispetto agli altri. La madre coincide spesso, ma non sempre e non necessariamente, con la madre biologica.
Questo implica che ci siano diverse forme di maternità: biologica, sociale, spirituale, professionale (penso alle nutrici del mondo antico), maschile, animale (nel mito) etc.

Al di là delle tante, non trascurabili sfumature contenute nelle varie fedi, è possibile individuare un’essenziale linea di demarcazione fra la maternità vissuta nel monoteismo e quella nel politeismo?

Come evidenziato nell’Introduzione al Volume, le religioni monoteiste possiedono mezzi più incisivi e persuasivi per plasmare l’esistenza di una madre, il suo pensiero e il suo lavoro, rispetto a quelle politeiste. Un numero limitato di esempi normativi standardizzati, cui fa da corollario un universo materno dipinto con modalità estremamente monotone e monolitiche, può infatti implicare un gap fra ideale e realtà, cioè fra maternità come istituzione e pratica reale, maggiormente profondo e insormontabile, con conseguenze di significativa portata per l’equilibrio psico-fisico della madre. Le dee dei politeismi non sembrano tendenzialmente pensate per essere modelli da imitare, mentre le madri dei monoteismi – umane, non divine, per quanto eccezionali – possono più facilmente essere presentate come tali. La divinità dei monoteismi, evidentemente, non può avere niente a che fare con la genitorialità, se non in forma spirituale. Sia le religioni monoteiste che quelle politeiste, con la sola eccezione dei movimenti new-age, hanno, breviter, in comune l’elaborazione delle indicazioni normative riguardanti il pensiero e lavoro materno da parte maschile, ma, mentre il mito affonda le radici nella realtà e di questa sfaccettata e proteiforme realtà si pone come specchio, il testo sacro e le successive interpretazioni di esso tendono a offrire una realtà idealizzata che stabilisce una norma omogenea di comportamento (da cui, però, sia nel passato che nel presente, le donne hanno saputo in qualche misura prendere le distanze con forme di appropriazione individuale).

Una domanda conclusiva.
Tante donne, pur non avendo impedimenti fisici o sociali, hanno scelto di non avere figli.
Fra le tante dichiarazioni, scelgo una di Rita Levi Montalcini: “Per una donna avere figli non dev’essere un destino”.
Il suo pensiero
?

Il mio pensiero (assolutamente personale) è, da madre, un’infinita stima per chi deliberatamente sceglie di non esserlo. Un po’ provocatoriamente vorrei dire che trovo non fare figli una scelta molto più coraggiosa del farli. Quest’affermazione, ovviamente, nulla toglie alla mia personale stima per chi è madre e affronta ogni giorno enormi sacrifici, rinunce e discriminazioni (emerse in maniera così evidente e drammatica proprio durante gli ultimi mesi a causa dell’emergenza Covid-19).
………………………….
Giulia Pedrucci
Maternità e monoteismi
Pagine 302, Euro 25.00
Edizioni Quasar


Così parlò Pecorelli


La casa editrice Mimesis ha pubblicato un libro di grande interesse: Così parlò Pecorelli Gli articoli che fecero tremare la Prima Repubblica
Esce a cura di Aldo Giannuli. Uno che di segreti se ne intende.
È stato consulente per le Procure di Palermo, Bari, Milano (strage di Piazza Fontana), Pavia e Brescia (strage di Piazza della Loggia).
Nel novembre 1996 entrò in possesso di una gran quantità di documenti non catalogati dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, nascosti nell'“archivio della via Appia; tale ritrovamento permetterà alla Procura della Repubblica di Milano di sviluppare le indagini sull'eversione nera.
È ricercatore di Storia contemporanea alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni: “Il noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti” (2013), “Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)” (2016) e, pubblicati da Mimesis, “Storia di Ordine Nuovo” (con Elia Rosati, 2017), “Da Lenin a Stalin” (2017), “Le spie del duce” (2018), “Cyber war” (con Alessandro Curioni, 2019).
È membro della Società di Psicoanalisi Critica.
Più estese notizie QUI.
Ricchissimo di notizie il suo sito web.

Esistono personaggi che pur essendo nella vita politica di un Paese nomi sconosciuti a molti, sono, però, più temuti che amati, ben conosciuti a chi manovra le leve del potere.
La loro presenza assume importanza specie nei momenti più torbidi. Da quelle figure provengono messaggi, prevalentemente sulla stampa – né è necessario che sia stampa di grande tiratura, a volte basta un’agenzia – che passano inosservati alla maggior parte dei lettori ma sono chiarissimi a pochi che ben intendono i pericoli contenuti in certe parole.
In Italia uno di questi personaggi è stato Mino Pecorelli, giornalista nato a Sassano del Molise nel 1928. Laureato a Palermo in Giurisprudenza, collaboratore del Ministro dc Fiorentino Sullo, fondò, dopo passaggi quale redattore per testate periodiche, il 22 ottobre (ma tu guarda che data!)1968 l’agenzia di notizie OP – Osservatorio Politico che divenne settimanale dieci anni dopo nel marzo 1978. Pubblicazione che vendeva poco, ma letta avidamente nel Palazzo. Negli articoli si facevano nomi, ma talvolta, quei nomi erano volutamente travisati. Si scriveva “Bruni” ma chi era al corrente dei fatti narrati sapeva benissimo che il nome da leggersi era “Biondi”.
Come faceva Pecorelli ad essere così bene informato su cose molto riservate?
Di lui si diceva di tutto. Collaboratore del Sid. Collaboratore dell’Ufficio Affari Riservati guidato da Federico Umberto D’Amato (in spietata lotta con il Sid e viceversa). Armeggione con ambienti vaticani e direzioni di grandi aziende, legami con servizi esteri. Definito spesso ricattatore, questa voce era diffusa da ognuna di quelle parti da cui si diceva dipendesse.
E qui entrano in scena i meriti di Giannuli e del suo libro perché, avvalendosi di un esame su documenti e sulla sua capacità di saperli leggere tra le righe e pure fuori di esse, traccia finalmente un ritratto di Pecorelli e del suo pericoloso mestiere che lo portò ad occuparsi di grossi scandali e velenosi segreti: dall’affare Lockheed al contrabbando di petrolio, dal caso Moro alla massoneria in Vaticano, da Italcasse alla P2 fino alla già ricordata lotta fra apparati dello Stato. Mestiere pericoloso. Mestiere che terminerà il 20 marzo 1979 quando uscito, solo, dalla redazione di OP fu colpito da quattro colpi di pistola (uno in bocca) che lo uccisero.
Fu allora che Pecorelli conobbe le prime pagine e diventò nome conosciuto da tutti. Ben si capisce il perché. Il processo vide alla sbarra come mandante dell’omicidio Giulio Andreotti ed esecutori Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati.
Assolti poi. Dopo due processi.
L’analisi di Giannuli mantiene le promesse che fa al lettore quando scrive: Non abbiamo alcuna intenzione di scrivere un testo agiografico né l’ennesimo scritto liquidatorio, ma più semplicemente, tenteremo di capire un personaggio controverso, ma di rilievo nella storia repubblicana. Pecorelli ha avuto certamente i suoi lati negativi, discutibili e oscuri, e non lo nasconderemo, ma non può essere ridotto solo a questo, per cui cercheremo, con molta laicità, di descriverne il ruolo avuto nelle vicende della Prima Repubblica. Per uno storico l’ansia di capire prevale sul desiderio di giudicare.

Chi fu Pecorelli?
Pecorelli usava tutte le plurali fonti a sua disposizione anche lanciando informazioni che sapeva inattendibili ma che avrebbero procurato allarmi, insomma “per vedere l’effetto che fa”, effetto che non di rado finiva col far venire allo scoperto chi voleva restare nascosto.
Non risultano sue appartenenze a partiti anche se la sua vicinanza alla Destra, ma forse sarebbe meglio dire alle Destre spesso in lotta fra loro, è indiscutibilmente data dalle sue frequentazioni.
Fascista? Non proprio. Nella guerra li aveva combattuti meritandosi decorazioni. Apparentabile forse al pensiero antipartitocratico anche se è improbabile che abbia letto i testi che sostengono quel pensiero. Non era uomo di troppe letture.
Forse, ipotizza Giannuli, se avesse letto Stirner gli sarebbe piaciuto.
Il libro riproduce integralmente moltissimi articoli di OP e chissà che proprio tra quegli articoli selezionati (introvabili oggi se non alla Biblioteca Nazionale) non spuntino le righe che convinsero qualcuno che era ora di premere il grilletto di una pistola.

Così parlò Pecorelli
a cura di Aldo Giannuli
Pagine 328, Euro 20.00
Mimesis


A ciascuno la sua voce

Mary Had a Little Lamb… ecco una deliziosa filastrocca, ascoltate... dite che la registrazione non è un granché?... ma contentatevi!... l’incisione è del 6 dicembre 1877, la voce è di Thomas Edison (grande scienziato, ma come cantante un po’ così così). Quella che avete sentito è la prima registrazione della voce umana.
Prima di allora, ascoltare qualcuno era possibile solo in presenza di chi parlava.
Fu una rivoluzione.
Comincia ricordando quest’avvenimento il libro pubblicato dalla casa editrice Dedalo dedicato a quel suono che noi umani usiamo per parlare, ridere, cantare, piangere o urlare.
Titolo: A ciascuno la sua voce Come parliamo e ascoltiamo dai Neanderthal all'intelligenza artificiale.
L’autore è Trevor Cox già presente su questo sito con un altro suo titolo nel catalogo Dedalo: Pianeta acustico.
Professore di Ingegneria sonora all’Università di Salford, in Gran Bretagna, dove conduce ricerche nel campo dell’acustica architettonica, dell’elaborazione dei segnali audio e della percezione dei suoni. È considerato uno degli astri nascenti della divulgazione scientifica britannica: finalista a Famelab, è conduttore di numerosi documentari e programmi radiofonici per la BBC.

“A ciascuno la sua voce” è libro che consiglio non solo a tecnici del suono, ma a parecchi altri: attori, cantanti, registi, speakers, conferenzieri, e a quanti per professione si rivolgono al pubblico. Non è un manuale di dizione, di recitazione o di canto, ma nel tracciare storie e dinamiche di quello strumento, al tempo stesso fisico e immateriale, che risiede nella gola e nel cervello fa capire quanto possediamo e quanto ha a che fare con la comunicazione.
La voce umana, ha normalmente un’estensione di due ottave, ma esistono estensioni che arrivano anche oltre, specie nei cantanti. Ecco un esempio famoso che ci viene da Mina.

Un fenomeno che suscitò grande curiosità, a volte morbosa, fu la voce dei castrati. In ambito musicale, l'ultimo e più noto periodo in cui la castrazione fu praticata in Occidente si ebbe dalla fine del XVI secolo in poi. In Italia diversi fanciulli furono 'migliorati' (come si diceva eufemisticamente) prima dello sviluppo puberale al fine di mantenerne la voce (e l'estensione) simile a quell'età.
Secondo la scienza medica, comunque, un essere umano non può superare le quattro ottave.
La voce ha l’età del corpo cui appartiene, invecchia con noi. Cox, infatti, dedica un largo capitolo alle “tre età della voce” da quella del neonato, all’età adulta agli anni senili così come dedica spazio al carisma vocale che può avvalorare le parole o sminuirle.
La cosa non deve sorprendere, basti pensare (ed io ne so più di qualcosa avendo svolto decenni di lavoro radiofonico) alla distribuzione delle voci degli attori in una scena oppure a quanto altrettanto càpita al doppiaggio cinematografico.
Tutto chiaro quindi? Mica tanto. Perché il progresso tecnologico, attraverso i computer, permette di modificare la voce in mille modi sicché s’impongono nuove interpretazioni su che cosa sia la voce elettrificata. L’autore affronta nella parte finale del volume quest’argomento documentando su quanto va accadendo e profilando vertiginose ipotesi.
E la voce degli animali? Non c’è dubbio che al mondo della comunicazione appartiene ed esiste nella specie e fra le specie: dalla segnalazione di un pericolo all’accompagnamento di un assalto per spaventare la preda o incutere timore nel predatore. Ma qui si entra nel campo vocale dell’etologia (da Pavlov a Mainardi passando per Lorenz) sul quale da Cox non c’è da meravigliarsi se venisse fuori uno studio in futuro.
Ma prima di lasciarci, per legare vocalità e sviluppi tecnologici che permettono d’ottenere indagini impensabili appena ieri, ascoltate questa breve sequenza sonora ottenuta con speciali microfoni. Come dire? A ciascuno la sua voce.

Dalla presentazione editoriale.
«Il linguaggio è ciò che ci rende umani. Dai primi suoni pronunciati dai nostri progenitori ai dialoghi con le intelligenze artificiali di nuova generazione, Cox ci fa esplorare la storia della comunicazione e del linguaggio, per aiutarci a capire chi eravamo, chi siamo e soprattutto chi saremo. Cos'è che ci rende umani? Secondo Trevor Cox, è la capacità di parlare e ascoltare a distinguerci dagli altri animali. Il suo racconto di come il nostro modo di comunicare si è evoluto nel corso del tempo - e oggi si trasforma grazie all'intelligenza artificiale - è una storia epica che ci porta dai primi suoni emessi dai nostri antenati alle più recenti tecniche del sound design. Ma non solo. Come si abbattono gli "stereotipi vocali"? Si può curare la balbuzie? Esistono modi per mantenere giovane la voce anche in età avanzata? La macchina della verità funziona davvero? In cosa consiste il beatboxing? E come è cambiata la maniera di cantare con l'uso di Auto-Tune? Dialogando con neuroscienziati, vocal coach, ingegneri del suono e programmatori informatici, Cox analizza tutti gli aspetti che riguardano la nostra identità vocale, portandoci a scoprire quanto la voce sia essenziale per definire la nostra individualità. Quale impatto hanno allora tecnologie come Siri o Alexa, in grado di capirci e risponderci, sulla nostra unicità di esseri umani? Come ascolta e parla un'intelligenza artificiale, e che effetto avrà sul modo di comunicare del futuro?».

Trevor Cox
A ciascuno la sua voce
Traduzione di Andrea Migliori
Pagine 288, Euro 17.00
Dedalo


Le ossa di Berdicev


Non vergognatevi se ne sapete di più su Ascoli Piceno (Giorgio Manganelli giurava sull’inesistenza di quella località) che sulla città di Berdicev.
Tanto per cominciare: dove sta. Si trova in Ucraina ed è tra i più importanti centri di cultura ebraica tanto che espresse uno dei più famosi rabbini al mondo: Levy Yitzchak (1740-1810).
Non basta. A Berdicev è nato anche Józef Korzeniowski… ma sì che lo conoscete… dietro quel nome polacco si nasconde Joseph Conrad (1857 – 1924), naturalizzato britannico e riconosciuto quale uno dei grandi scrittori moderni in lingua inglese… cominciate ad arrossire?... e non è finita. Perché lì è nato anche Vasilij Grossman (1905 – 1964) autore di libri quali “Tutto scorre” (1970) e Vita e destino (1980) – considerato il suo capolavoro – scrittore che molti critici giudicano al livello di Amalrik, Pasternak, Sinjavskij, Solženicyn, Ginzburg, Šalamov.
Ancora su Berdicev: è il luogo della strage, nel settembre 1941, di decine di migliaia di ebrei massacrati dai nazisti, Tuttora sono visibili, appena fuori della città, i tumuli dove furono gettati i corpi delle vittime, sotto uno di quei tumuli giace la madre di Grossman.

La casa editrice Marietti 1820 ha ora riedito nella collana ‘Le Lampare’ un libro che rende giustizia al valore sia letterario sia umano dell’ebreo Grossman e, al tempo stesso, facendo luce sulla tragedia che si svolse a Berdicev, illumina la tempesta che squassò la vita dello scrittore.
Titolo del volume:Le ossa di Berdicev La vita e il destino di Vasilij Grossman.
Ne sono autori John e Carol Garrard.
John Garrard è professore di Letteratura russa all’Università dell’Arizona.
Con la moglie Carol ha raccolto una vasta documentazione su Grossman ora donata alla Houghton Library dell’Università di Harvard.

Vasilij Grossman mai entrerà nel Guinness dei Primati come uomo più fortunato al mondo.
Pare sia stato il soldato che nell’Armata Rossa abbia trascorso al fronte il più lungo tempo fra tutti i suoi commilitoni. C’era, però, la sua forte e giusta convinzione antifascista e questo confortò i giorni pericolosi e terribili che trascorse in famose battaglie da Stalingrado a Kursk.
La battaglia più dura, però, doveva ancora venire.
Avvenne quando, avanzando verso Berlino, dopo aver visto, tutto l’orrore della Shoah, scoprì le politiche antisemite del Partito Comunista sovietico, Stalin per primo era impegnato a occultare ogni prova della strage operata dai nazisti.
“I manoscritti di Grossman” – si legge nella Prefazione – “sulla storia e la letteratura furono sequestrati dalle autorità, solo alcune copie furono conservate da un piccolo gruppo di devoti che riuscirono a farli pubblicare solo molti anni dopo la sua morte”.
Le pagine dello scrittore in breve non furono occasione di dibattito fra letterati, ma affare del Kgb che irrompeva nella sua casa sequestrando di tutto, compresa la macchina per scrivere.
Gli apparve chiaro come il comunismo nella gestione poliziesca del potere – dalle purghe staliniane fino al terrore postbellico – non si differenziasse dal nemico nazista che aveva combattuto. Giunse al rifiuto dell’intero esperimento sovietico molti anni prima che i più acuti cervelli dissidenti giungessero a un simile convincimento.
Scrivono i Garrand: “Che cosa darebbero i biografi di Cervantes per avere i verbali dei suoi interrogatori ad opera dell’Inquisizione! Noi abbiamo avuto la fortuna di poter consultare il fascicolo di Grossman, che rivela come egli si sia comportato con integrità. Rimase vittima della polizia segreta, mai un suo complice. Non fu una spia, un informatore. Egli seppe mantenere la sua integrità mentre veniva minacciato e spiato dallo Stato sovietico, denunciato e tradito dalle persone di cui si fidava, tra cui alcune di quelle a lui più vicine”.

In “Tutto scorre” ha scritto: La storia dell'umanità è la storia della sua libertà. La crescita della potenza dell'uomo si esprime innanzi tutto nella crescita della libertà. La libertà non è necessità diventata coscienza, come pensava Engels. La libertà è diametralmente opposta alla necessità, la libertà è la necessità superata. Il progresso è essenzialmente progresso della libertà umana. Giacché la vita stessa è libertà, l'evoluzione della vita è evoluzione della libertà. Lo sviluppo russo ha mostrato una sua strana essenza: si trasforma in sviluppo della non-libertà.

Nella nota introduttiva, così Michele Rosboch: «Con la pubblicazione del volume di John e Carol Garrard la storiografia in lingua italiana si accresce di un contributo fondamentale. Si inserisce nel contesto di una diffusa ripresa di studi e di attenzioni per la vita e l’opera del grande scrittore russo, a ragione definito come uno dei più grandi e meno conosciuti romanzieri del secolo appena trascorso».

Dalla presentazione editoriale.
«Il libro ottenne il Premio Comisso 2009.
Frutto di una ricerca che si è avvalsa di materiali d’archivio venuti alla luce solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, “Le ossa di Berdičev” è la più completa ricostruzione della vita di uno dei maggiori scrittori del ‘900. Nella biografia di Vasilij Grossman (1905-1964) si riflettono alcune pagine decisive del XX secolo: dal terrore staliniano alla guerra mondiale, dall’occupazione nazista alla scoperta della Shoah. Il titolo fa riferimento alla cittadina di Berdičev, dove nel 1941 vengono fucilati in soli tre giorni trentamila israeliti (compresa la madre dello scrittore) nella prima operazione di eliminazione degli ebrei pianificata dai nazisti su vasta scala. Nel dopoguerra, Grossman scrive una grande epopea che comprende anche “Vita e destino”, il suo capolavoro, ma il manoscritto viene sequestrato dal KGB e lo scrittore muore senza vederne la pubblicazione».

John e Carol Garrard
Le ossa di Berdicev
Traduzione di
Roberto Franzni Tibaldeo
e Maria Cai
Supervisione e curatela
Giovanni Maddalena
e Pietro Tosco
Presentazione di Michele Rosboch
Pagine 586, Euro 29.00
Marietti 1820


La cultura del falso (1)

Falso.
Ecco che cosa dice su quell'aggettivo Il Dizionario: 1. Che non corrisponde alla realtà, alla verità; 2. Che è contraffatto o alterato con intenzione dolosa.
Ma allora è un reato?
Sfogliamo il nostro Codice penale: Il falso è un reato previsto e disciplinato dagli art. 476 e seguenti. Esso si distingue in "falso materiale" e "falso ideologico".
- La falsità è materiale quando è la provenienza dell'atto in sé a essere fasulla, alterata o contraffatta, indipendentemente dalla verità dei fatti in esso attestati.
- La falsità ideologica consiste invece nell'attestazione di fatti e situazioni non veritieri. L'atto è quindi autentico dal punto di vista formale, ma il suo contenuto è infedele alla realtà
.

Buono a sapersi.
Ma qui, più che un dubbio, una certezza mi assale: siamo assediati da falsi messaggi.
Fenomeno maiuscolo dei nostri giorni sono le false notizie (nell’uso linguistico corrente “fake news”) agite in tutto il mondo da privati ma anche da aziende, partiti politici e da governi per influenzare l’opinione pubblica volgendola a proprio, illegittimo, vantaggio sia esso sociale o economico oppure elettorale.
Oggi il “falso” è veicolato spessissimo in forma elettronica, ma esisteva anche in tempi antichi, sia pure in altre forme, con gli stessi intenti dolosi di oggi.
Difficile era scoprirlo ieri, ma lo è anche oggi
A proposito, in Italia, in Piemonte, a Verrone, distante 6 km. da Biella, esiste un piccolo prezioso museo: il “Falseum. Museo del Falso e dell’Inganno” con plurali esempi di falsi che hanno determinato momenti importanti nelle vicende di noi umani.

Le Edizioni Meltemi hanno pubblicato un importante libro collettaneo che studia il Falso con riflessioni che coinvolgono sociologia, semiologia, politica, storia.
Titolo: La cultura del falso Inganni, illusioni e fake news.
Il volume è a cura di Andrea Rabbito.
Professore associato di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”. È autore di una tetralogia sull’illusione e i rapporti tra il cinema e l’arte della modernità, di cui L’onda mediale (2015) costituisce l’ultimo capitolo. Ha curato la nuova edizione de Lo spirito del tempo (2017) di Edgar Morin e il volume La cultura visuale del Ventunesimo secolo (2018) per Meltemi.
È direttore, assieme con Steve Della Casa, della collana “Videns” per Mimesis.
Dirige il gruppo di ricerca “I linguaggi artistici e le poetiche del Seicento” presso la Facoltà di Studi Classici, Linguistici e della Formazione dell’Università degli Studi di Enna “Kore”.

I saggi contenuti nel libro, oltre a scritti del curatore, sono firmati, nll’ordine dell’Indice, da Roberto Tessari – Stefania Parigi – Marco De Marinis – Ruggero Eugeni – Antonino Pennisi / Gessica Fruciano – Giulio Lughi – Anna Bisogno – Adriano D’Aloia – Dario Tomasello – Katia Trifirò – Enrico Carocci - Filippa Ilardo – Alfonso Amendola – Giulia Raciti – Fabio La Mantia – Loredana Trovato – Mattia Cinquegrani – Pietro Colletta – Tommaso Di Giulio – Damiano Cantone – Anna Montebugnoli – Vincenzo Del Gaudio – Gianpiero Vincenzo – Gabriella Polizzi – Pietro Masciullo / Vincenzo Tauriello – Mario Tirino – Pierre Dalla Vigna.

Dalla presentazione editoriale.
«La gravità delle fake news, nelle loro diverse articolazioni, ha assunto delle dimensioni così rilevanti da farle divenire oggetto di discussione ricorrente nei vari ambienti scientifici, culturali e politici. A queste si aggiungono post-truth, bullshits, deepfake che compongono un quadro particolarmente complesso in cui emerge chiaro l’imporsi sempre più deciso della “cultura del falso” all’interno della nostra contemporaneità.
Uno degli intenti di questo volume è quello di offrire, attraverso la prospettiva interdisciplinare dei visual culture studies, strumenti accurati e mirati per contrastare i caratteri più nefasti di tale cultura. Ma non solo. Le indagini qui proposte intendono mettere in luce anche i caratteri positivi e la genealogia della “cultura del falso”, individuando importanti suggestioni provenienti dal mondo di cinema, teatro, videoarte e letteratura. I saggi dei trenta studiosi coinvolti e le opere dell’artista Benedetto Poma danno vita a un caleidoscopio di analisi, ricerche e riflessioni in cui le parole si intrecciano con le immagini per far immergere lo spettatore all’interno di una disamina ampia ed esaustiva di uno dei fenomeni culturali più rilevanti della nostra epoca»

Segue ora un incontro con Andrea Rabbito.


La cultura del falso (2)

Ad Andrea Rabbito (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è stata la principale motivazione che ti ha spinto a questo lavoro?

Abbiamo ritenuto, io e vari studiosi che hanno collaborato a questo libro, che fosse necessario realizzare un testo che si offrisse come punto di riferimento e supporto per comprendere e affrontare quelle questioni di profonda rilevanza e attualità che riguardano la cultura del falso.
Le cronache degli ultimi anni hanno infatti evidenziato, e continuano a farlo, con cadenza quasi quotidiana, come non solo siano presenti, ma siano anche profondamente invadenti, fake news, post truth, hoaxs, bullshits all’interno della realtà in cui viviamo. Trump a riguardo si dimostra un’espressione perfetta di tutto questo. Principalmente a causa sua e della sua comunicazione promossa nel 2016, nella campagna elettorale contro Hillary Clinton, il termine “post truth” assunse una centralità inedita nelle analisi del dibattito politico tanto da essere eletta “parola dell’anno” dall’Oxford English Dictionary; e da allora il Presidente degli Stati Uniti continua a proporci espressioni del falso. Si pensi alle comunicazioni date in questi ultimi mesi in merito al Covid-19: un caleidoscopio bizzarro di falsità, menzogne, assurdità, infondate interpretazioni, pericolose indicazioni.
Vista questa situazione abbiamo inteso analizzare attentamente il fenomeno del “falso”, ma compiendo una precisa scelta: abbiamo voluto indagarlo come concetto culturale offrendo di questo una visione quanto più ampia e approfondita per restituirne la sua complessità e eterogeneità, contemplando i suoi aspetti negativi, ma anche quelli positivi. Per questo motivo sono stati indagati fenomeni che riguardano l’attualità, ma anche quelli appartenenti a epoche differenti; ed è per questo che sono stati presi in considerazione esempi che riguardano sia la comunicazione nella vita pratica, sia quelli che riguardano le diverse manifestazioni all’interno del mondo dell’arte (cinema, teatro, televisione, video arte, letteratura, arte figurativa, ecc.).
Solo in questo modo, attraverso una visione quanto più possibile ampia che analizzi le varie sfaccettature della cultura del falso, si è ritenuto si potesse offrire un mezzo per comprendere più a fondo la complessità di tale fenomeno e potessero essere intese in maniera maggiormente esaustiva le sue diverse declinazioni, richiedendo la collaborazione di importanti professori universitari e brillanti giovani studiosi appartenenti a vari ambiti scientifici.
Insomma, in sintesi, ci siamo chiesti come offrire la risposta più esauriente alla domanda “di cosa parliamo quando parliamo di falso?”.
Per fare tutto questo sono stati richiesti molto impegno, tempo e gioco di squadra: il volume nasce infatti grazie al lavoro e ai contributi del gruppo di ricerca della Facoltà di Studi Classici, Linguistici e della Formazione dell’Università degli Studi di Enna “Kore”, della rivista “Scenari” di Mimesis, di trenta studiosi, di un convegno tenuto nel 2018 presso l’Ateneo di Enna e di un importante artista, Benedetto Poma, per arricchire il libro con trenta splendide opere a colori.

Perché – come sostieni nell’Introduzione – le varie forme che assume il Falso sono protagoniste proprio nel Novecento per poi intensificarsi in questi primi decenni del XXI secolo?

È chiaro che il falso risale dalla notte dei tempi, è consustanziale all’idea del gioco, dell’arte, della comunicazione, dei rapporti sociali (basti pensare ad Abele e Caino e alla falsità di quest’ultimo nei confronti del proprio fratello e di Dio); è individuabile nell’uomo ma anche nel regno animale nelle azioni come la tanotosi – il fingersi morto –, il mimetismo o il camuffamento. Però l’uomo, grazie alle tecnologie e ai linguaggi che man mano ha creato, ha potuto sviluppare con particolare attenzione le diverse espressioni della cultura del falso, le ha potenziate, alimentate, sia in termini positivi, quando l’inganno era funzionale al mondo artistico e a quello ludico-espressivo, sia in termini più critici quando riguardava la vita pratica. Ma sono stati i mass media, che si sono sviluppati particolarmente nel Novecento, ad aver rivoluzionato la cultura del falso, ad aver aperto nuovi mondi. Ecco perché il Novecento diviene un momento centrale nella storia della cultura del falso. E a sua volta il nuovo Millennio, con i new media, la digitalizzazione e il web, ha permesso un ulteriore salto in avanti, dando vita ad una vera e propria deflagrazione delle diverse declinazioni della cultura del falso, che si sono profuse nella nostra vita di tutti i giorni, creando una condizione completamente inedita e diventando protagoniste continue nella nostra esistenza.

Qual è la differenza tra fake news e post-verità?

La cronaca degli ultimi giorni ci offre un esempio perfetto per distinguere le due differenti espressioni. Pensiamo alla signora che sul palco dei gilet arancioni denuncia che Bill Gates ci vuole iniettare del mercurio in vena per ucciderci a suo comando alzando il livello della temperatura corporea. Non penso che la signora voglia mentire, penso che creda realmente a ciò che ha espresso in pubblico. Questo fa sì che quell’assurdità espressa rientri nell’insieme delle post verità e non sia considerabile una fake news. Con quest’ultime tu menti sapendo di mentire, con la post-verità invece il più delle volte tu menti ma senza sapere di mentire. La linea di demarcazione è molte volte labile, ma c’è. Con le fake news si fanno circolare artatamente delle fandonie, invece con le post-verità si vogliono offrire delle verità diverse, ritenendo non corrette quelle che circolano ufficialmente, e si dà così libera diffusione a personali considerazioni più istintive, più di pancia, prive di valide basi scientifiche, spacciandole per (e ritenendole) valide argomentazioni.

Se è vero, ed è verissimo, che, a differenza di tempi andati, le nuove tecnologie permettono di distribuire e amplificare velocemente la diffusione di fake news, perché altrettanto velocemente non si verifica l’attendibilità di una notizia o di un documento? Il Falso scoraggia la ricerca per sbugiardarlo? Se sì, in quale modo?

Sono dell’idea che le immagini tecniche e il tipo di rapporto che stabiliamo con esse orientino lo spettatore ad affidarsi, in maniera del tutto nuova, a ciò che queste propongono. E nello stesso tempo influenzano il nostro atteggiamento nei confronti degli altri linguaggi; ci predispongono a considerare attendibile ciò che “dichiarano”, a credere alla “verità” di ciò che offrono. Lavorano sull’emotività e sulla credibilità del dato rappresentato. Questo spinge ad un cambio di paradigma. Ed è per questo che tendenzialmente non si avverte l’esigenza di verificare l’attendibilità del dato che si vuole (e si spinge a) considerare attendibile.

Soprattutto in campo artistico alcuni, per fare un solo esempio italiano, lo storico contemporaneista Marco Albertaro da me intervistato, sostengono che proprio essere Fake rende oggi molta arte capace di narrare la contemporaneità? È un’affermazione che ti vede d’accordo? Se sì oppure no, perché?

L’arte è espressione del falso. Ortega y Gasset definisce le espressioni artistiche come delle “farse” e “farsato” è lo spettatore, il lettore, l’ascoltatore, mentre “farsante” è l’artista. Nell’antichità la teoria apatetica di Gorgia racchiudeva perfettamente l’idea che bisognava accettare l’inganno per godere di un’opera. E il Barocco ha posto sulle basi del falso, dell’inganno, dell’eccesso di illusione, l’impostazione di molte delle sue principali opere. Dunque il falso assume e non può che assumere sempre una centralità nell’opera artistica e tramite questo falso l’opera riflette il mondo e lo indaga e permette a noi di conoscerlo meglio.

Qual è il primo passo da muovere per difendersi dal Falso oggi?

La conoscenza è sempre la migliore arma di difesa e di protezione. Contro le forme negative del falso non si può che incentivare una diffusa “literacy”, promuovendo un sapere già a partire dai primi momenti scolastici del discente. Se non si parte da una adeguata e ben valorizzata forma di educazione sui media e sul loro rapporto con la cultura del falso ci troveremo sempre dinanzi a fenomeni di assorbimento e diffusione della menzogna. Questo volume si pone l’obiettivo di promuovere un cambio di tendenza e la diffusione attenta di una conoscenza su ciò che realizzano i vari media in rapporto con quella dimensione complessa, a volte pericolosa, quasi sempre affascinante, che è la cultura del falso.

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A cura di
Andrea Rabbito
La cultura del falso
con riproduzioni di opere
pittoriche di Benedetto Poma
Pagine 572, Euro 20.00
Meltemi


Piero Gobetti


Spero che sui media italiani sia ricordato che oggi 19 giugno ricorre la nascita di Piero Gobetti ma non ci conto troppo.
Nacque a Torino nel 1901, morì a 25 anni nell’ospedale di Neuilly-sur-Seine il 15 febbraio 1926 con la salute fiaccata da due bastonature ricevute da squadristi fascisti.
Eccone un ritratto fatto da Carlo Levi: “Era un giovane alto e sottile; disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta da modesto studioso; i lunghi capelli arruffati, dai riflessi rossi, gli ombreggiavano la fronte e gli occhi vivissimi, così penetranti che era difficile sostenerne lo sguardo a chi non fosse ben sicuro di sé”.

Antifascista su posizioni liberali (solo Gramsci e pochi altri lo amavano fra i comunisti), scrisse di Mussolini: “Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Poteva essere il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari".
Il suo pensiero maturato in quei lontani anni ancora oggi ben fotografa il carattere degli italiani: “Il fascismo è il governo che si merita un'Italia di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell'economia come delle coscienze”.

Il messaggio di Gobetti può essere riassunto come bene ha scritto Pietro Polito:

1. l’Italia non ha avuto né la Riforma né la rivoluzione; la storia d’Italia è stata sinora una storia di servi e il fascismo ne è l’estrema conseguenza;

2. il rinnovamento del Paese non può avvenire attraverso un mutamento di nomi e di sigle, ma solo attraverso una rivoluzione;

3. una rivoluzione autentica non può non essere liberale;

4. una rivoluzione si può dire liberale quando parte dal basso;

5. la partecipazione dal basso del Principe impedisce (può impedire) il tralignamento della rivoluzione in un mero cambiar di padrone da parte degli schiavi;

6. gli attori della rivoluzione liberale sono il movimento popolare, ai tempi di Gobetti il movimento operaio, e una élite di intellettuali liberali formatisi nel vivo della lotta politica;

7. il principale segno che la rivoluzione liberale è riuscita è la formazione di una nuova classe dirigente espressione dei nuovi movimenti popolari in ascesa;

8. gli scopi della rivoluzione liberale sono fondamentalmente tre: a) la formazione di un’economia della fabbrica che renda più mite, tagliandogli le unghie, la logica mercantile del capitalismo; b) la creazione di uno stato delle autonomie; c) la maturazione negli Italiani di una coscienza dello Stato e della responsabilità.


Il barbiere zoppo


Questo sito non si occupa di narrativa e di poesia come sanno quei generosi che leggono queste pagine.
Oggi c’è una delle rare eccezioni. Perché avviene? Per due ragioni.
La prima: perché non sono un talebano che crede in una sola verità rivelata (... ma da chi?)
La seconda perché dirò di un libro che, pur cartaceo, e pur presentandosi in forma di romanzo, evidenzia alcune caratteristiche che appartengono alla narrazione elettronica, quella da me preferita.
In queste mie scelte c’è chi mi ha largamente preceduto, come si può vedere qui e non zompate le tre righe di Isaac Asimov, così ci capiamo meglio.

Il libro si chiama Il barbiere zoppo 1969, una ragazza e la scoperta della Resistenza.
L’autore è Gino Marchitelli, già ospite di questo sito per il suo volume Campi fascisti. Il racconto appartiene alle corde della sua biografia impegnata nelle lotte sociali e tesa a ricordare, anche in alcuni suoi successi di letteratura noir, come fu soppressa la libertà nel nostro Paese e quali sacrifici costò riconquistarla.
“Il barbiere zoppo” si muove sul confine magnetico che sta tra la fiction e la realtà perché agisce com’è affermato nell’introduzione “una storia di fantasia all’interno della quale trovano posto innumerevoli altre storie reali e molte verità“.
Qualora non ci fosse una trama che destina la protagonista Lidia, ragazza pugliese a un viaggio nelle Marche e così conoscere fatti e personaggi che cambieranno la sua vita, ci troveremmo di fronte a un documentario letterario su cose tragicamente avvenute. Come l’eccidio di Braccano del 24 marzo 1944 (episodio poco noto – avvenuto lo stesso giorno dell’eccidio alle Fosse Ardeatine – che conosciamo in tutto il suo orrore grazie a questo libro); persone trucidate ricordate con i loro nomi; il massacro del parroco Don Enrico Pocognoni; il gruppo partigiano di Roti distintosi in vari combattimenti.

Estratto dalla presentazione editoriale.
«Marche, 1969. Una ragazza intraprende un misterioso viaggio alla ricerca delle sue radici, durante il quale scopre, attraverso gli affetti ritrovati, i valori della Libertà, della Resistenza, della lotta contro il nazifascismo ed entra in contatto con i movimenti pacifisti, politici e sociali del 1968-69. Tratto dall’incrociarsi di più storie vere, questo libro racconta due generazioni in lotta: quella dei giovani partigiani del 1943-45 e quella dei movimenti giovanili sessantottini. Una storia italiana lunga un trentennio scritta con tratto magistrale».
.
Hanno detto di queste pagine.
“Questo libro è lo scatto fotografico di un Paese che non ha memoria e che non riesce a costruire un futuro”. (Daniele Biacchessi)

“Con Marchitelli il passato ridiventa vivo e quotidiano; non solo doverosa memoria, ma bussola per il presente e per il futuro”. (Nicoletta Dosio)

“Se vorrete conoscere la Resistenza e una scrittura che non la tradisce narrandola, e se la volete proporre ad altri, questo è il libro che vi serve”. (Lidia Menapace)

Se avete malignato che la mia passione per il Barbera mi ha fatto dimenticare che all’inizio di questa nota avevo accennato a un parallelo con un libro elettronico, sarete smentiti nel prossimo rigo.
In “Il barbiere zoppo” Marchitelli scandisce il racconto con fotografie d’epoca attinenti sia al paesaggio sia a personaggi realmente esistiti e, inoltre, con link a brani musicali che puntualissimi risvegliano ricordi degli anni attraversati dalla narrazione.
Chapeau!
Queste sono cose che non solo mi piacciono, e molto, ma rappresentano quanto mi auguro di vedere nell’editoria italiana, direttamente in elettronico. Con anche effetti sonori, brani filmati, musiche, links, in formato portatile (cuffie obbligatorie boys! per non disturbare i vicini).
Al momento, la forma romanzo meno lontana dai miei gusti, non è un caso, sono i videogames interattivi.

Gino Marchitelli
Il barbiere zoppo
Pagine 348, Euro 17.00
Con corredo iconografico b/n
Infinito Edizioni


Ricordo di Giulio Giorello


Lunedì 15 giugno Giulio Giorello (in foto) ci ha lasciato.
L’ultimo suo libro è intitolato “Errore”.
Eccone un brano facendo CLIC sulla copertina.

L’Ufficio Stampa della casa editrice il Mulino ha trasmesso in Rete un ricordo del filosofo.

«Ci uniamo al cordoglio del mondo della cultura ricordando Giulio Giorello, autore e amico del Mulino, con le parole di Pino Donghi con cui ha scritto il suo ultimo libro “Errore”.

“Una tristezza infinita nel ricordo di un uomo gentile, profondamente allegro e libero, caustico e finanche burbero a volte, ma mai capace di meschinità. A poco più di sette mesi dalla scomparsa di Remo Bodei, a due settimane da quella di Paolo Fabbri, la notizia della morte di Giulio Giorello certifica per il nostro paese la perdita di un patrimonio di pensiero che non si immagina chi possa colmare: anche se Giulio avrebbe commentato che tutto, invece, si può immaginare e che è nella natura delle cose di riempire i vuoti, di superare gli ostacoli, di fare tesoro degli errori.
All'Errore aveva dedicato l'ultimo suo saggio, a quello che considerava "condizione del progresso", rintracciandone la fecondità tra i testi di Mach, Darwin, Popper. Ci avevamo lavorato insieme. Ed era uno spettacolo seguirlo caracollante tra le migliaia di libri accatastati nella sua casa, alla ricerca di quello che gli serviva, che trovava dopo lunghissima ricerca ma che poi apriva sicuro alle pagine che voleva citare: "questo lo dobbiamo, dire è importante!". Quei ritrovamenti lo rendevano felice, e soddisfatto.
"Per oggi abbiamo fatto un buon lavoro, mi pare stia venendo bene. Adesso scendiamo a bere qualcosa, che ci siamo meritati un goccettuzzo!".
Una perdita assoluta, una tristezza infinita”».

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La filosofa Nicla Vassallo ricorda Giulio Giorello.

«Giulio, filosofo e amico. Spaziava con tutta la libertà e fedeltà in cui riponeva fiducia.
Allievo di chi? I giornali ne straparlano. Far filosofia? Lui era una sorta di intelligenza: ragionava, argomentare su quanto gli interessava non meno, ne oltre. Con estrema acutezza e misura. Quante talk per il pubblico ha dato Giulio? Una miriade. Con me circa una decina.Entrambi elitari, forse sì, forse no. Ma poco gli interessava l’elitè, decisamente meglio Topolino .
Riferiscono che incantasse molte donne. Non la sottoscritta, né la filosofa Simona Morini, sua amata, nonché ricambiata. In ogni caso, Giulio ha pronunciato qualcosa su una sorte di garante, da distruggere per poi ricostruire:
Già,mi ha insegnato che, a suo parere, vi sono molte entità, e le principali scorrono tra uno strano Topolino non governato da alcun Dio, neanche da un Dio minore. Mi parlava, nelle nostre intense chiacchierate, d'amore, nonostante non credesse nell’Uomo e nella Donna. Eravamo entrambi rigidi e fuori dalle regole, fuori dalla sfera di una borghesia, su cui lui sghignazzava, perché quella borghesia rubava senza saper volare, e, infine, senza sapere vivere.
Mi mancherai molto Giulio. Con Simona ci si divertiva parecchio.
E, in una delle case di Simona (la casa mia adorata, affacciata sul mare con delizia) ti ricordo a correggere bozze. Proprio così, benché, da un brutale sguardo esterno, tu risultassi solo un filosofo.
Ehi, caro amico mio, cosa mai sono in grado ora di fare per te?
Tornare nella casa in cui correggervi le bozze. Prendermi cura del giardino, giocare. Piango, Giulio, scusami. Vedrai comunque come andranno le cose. Ma quelle bozze in quale volume? Che stolta ero.
Torniamo assieme a dibattere insieme sulle donne e non, benché né tu (ha fatto tradurre Judith Butler) né io, si abbia un'idea di dove la navigazione ci condurrà.
Quale stupidaggine. Verso la morte».

QUI un incontro di Nicla Vassallo con Giulio Giorello prendendo spunto dalla pubblicazione per Longanesi di “Senza Dio”.


Cybersex addiction

Nel calendario internazionale esistono molte “Giornate” dedicate ad avvenimenti storici, a particolari sentimenti, ad animali non umani, e così via. Un grande giornalista, Enzo Golino, un giorno mi disse che sarebbe stato opportuno dedicare una giornata anche al Dizionario.
Non so se ha mai proposto a qualcuno quell’idea, ma so che ancora oggi quella Giornata non esiste. Peccato. Perché il Dizionario è una preliminare, primaria fonte d’informazioni..
Per esempio, un eccellente libro pubblicato dalla casa editrice FrancoAngeli reca il titolo Cybersex addiction Cause, sintomi, percorsi di autoterapia. Ebbene, nel volume si trovano spiegazioni, analisi, citazioni di teorie, ma per chi ancora non si fosse imbattuto in quell’espressione, grazie a un Dizionario può apprendere sinteticamente varie cose che favoriranno la lettura permettendo di apprezzare meglio le pagine.

Cyber: «Simbiosi fra umani e tecnologia. Il concetto si estende fino ad indicare un’integrazione,
meccanica o informatica, fra corpo e macchina».
Addiction: «1. Tossicodipendenza da sostanze stupefacenti; 2. Assuefazione a comportamenti, o stili di vita, compulsivamente ripetuti.
Cybersex addiction: «Dipendenza caratterizzata da costante attività sessuale attraverso Internet in collegamento con siti porno oppure con persone già conosciute».

Due gli autori di “Cybersex addiction”: Franco RiboldiEnrico Magni.

Franco Riboldi, medico chirurgo, specialista in Igiene e Medicina preventiva e in Criminologia clinica, direttore dell'U.O.C. Rete Dipendenze dell'ASST di Lecco.
Autore di vari volumi tra cui: “Stop alla dipendenza dall'eroina” (2008); “Stop alla dipendenza dall'alcol (2009); “Dipendenze dal piacere e autoterapia” (2013); “Droghe ricreative. Le life skills per crescere indipendenti” (2016); “Addiction.Nuove strategie d'intervento clinico (2019).
Enrico Magni, psicologo, psicoterapeuta, sessuologo, specialista in Criminologia, ha operato presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Ospedaliera di Lecco. Autore di vari volumi tra cui: Tecniche di distensione immaginativa. Manuale di auto-aiuto (2013); Storie borderline della mia pipa (2014); L'individuo in frantumi (2015); Delirio: composizione e scomposizione del pensiero delirante (2016); Droghe ricreative. Le life skills per crescere indipendenti (2016).

Va detto che il libro si tiene lontano da ogni giudizio morale. Hanno fatto benissimo i due clinici a così concepire il testo perché i comportamenti sessuali variano attraverso il tempo, difatti scrivono: “Più che la scienza è la cultura a definire i limiti della normalità, a conferma di questo, ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha depennato l’omosessualità dall’elenco delle patologie psichiatriche. La pedofilia, invece, tollerata nell’antica Grecia e in altri periodi storici, oggi è ritenuta estremamente trasgressiva e fonte di reato”.
E qui è anche il caso di ricordare che il fenomeno della cyber addiction attualmente non rientra nella bibbia degli psichiatri di tutto il mondo, cioè il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental).
La pubblicazione è decennale e più di uno specialista pronostica che nel 2025 si possa trovare la cyber addiction in quel corposo volume, l’edizione italiana del 2015 è di 1168 pagine.

Scrive Alfio Lucchini nella Prefazione a “Cybersex addiction”: “La dipendenza da sesso virtuale, interessa ormai il clinico. Come già abbiamo visto per il disturbo da gioco d’azzardo, le evidenze cliniche hanno preceduto le sistemazioni diagnostiche poi riconosciute dal DSM-5: molte dipendenze comportamentali senza sostanza iniziano a interessare sia gli specialisti (in particolare gli psicoterapeuti) sia alcuni Servizi delle Dipendenze sensibili agli sviluppi del rapporto tra le tecnologie e l’impatto sulla salute. Possiamo prevedere che, con la crescita delle evidenze scientifiche, partendo dai singoli sintomi spesso di carattere psicologico-psichiatrico (impulsività, ossessioni, craving), anche in questo caso si comprenderanno quelle caratteristiche di permeabilità psichica, invasiva e persistente proprie delle forme di dipendenza”.

Dalla presentazione editoriale.

«Come si trasforma l'identità sul web? Come evolve oggi la sessualità?
Come si genera e si alimenta un'addiction?
Cosa fare per non cadere nelle trappole della Rete?
Questi sono alcuni dei quesiti da cui prende spunto il volume per spiegare quanto la cybersex addiction sia attuale e incredibilmente diffusa in persone di ogni età: adolescenti, adulti, anziani. Il rischio è una sessualità appiattita, esaltata solo nei suoi lati più oscuri, incapace di contenere un desiderio di piacere ossessivo e fuori controllo. In tale disturbo del vissuto sessuale, non ancora contemplato nei manuali diagnostici, si rinviene tutta l'ambivalenza del cyberspazio, dove tutti possono accedere e spostarsi da un capo all'altro del mondo con un semplice "click".
Nel fotografare la complessità del rapporto tra sessualità e Internet, il testo illustra le motivazioni che possono portare a questa prigione virtuale e le diverse forme in cui si può sviluppare. Esempi di natura clinica, con personaggi della letteratura come protagonisti, proiettano il lettore nel cuore del problema coinvolgendolo sul piano emotivo e facilitando la comprensione dei significati. Seguono preziosi esercizi di distensione immaginativa per chi - professional o paziente - è alle prese con questo tipo di addiction e vuole riferimenti efficaci: una proposta originale di autoattivazione e di facile applicabilità che, attraverso appropriate induzioni al benessere, alla calma e al rilassamento, ridà vitalità al dialogo interno, ricomponendo un contatto più equilibrato con il proprio corpo e la propria sessualità».

Franco Riboldi – Enrico Magni
Cybersex addiction
Prefazione di Alfio Lucchini
Pagine 150, Euro 20.00
FrancoAngeli


Fatti assodati sulle uova


La casa editrice Carmelozampa è reduce da un maiuscolo successo. Le è stato assegnato per l’Europa il premio BOP (Bologna Prize for the Best Children’s Publishers of the Year) volto a premiare i migliori editori per ragazzi sul piano internazionale.
Il premio è assegnato dagli editori stessi, chiamati a votare quelle case editrici che più si sono distinte per innovazione, creatività e qualità delle scelte editoriali in ciascuna delle sei aree del mondo.
Uno dei punti di forza della casa editrice è la riscoperta di grandi testi internazionali sia di letteratura sia di scienza.
Ne è testimonianza, ad esempio, una sua recente pubblicazione: Fatti assodati sulle uova. Ne è autrice e illustratrice Lena Sjöberg.
Vive nel villaggio di Mörtfors, nel sud della Svezia. Lavora per numerose case editrici, riviste e agenzie, ma è soprattutto conosciuta per i suoi libri non-fiction per bambini. Nel 2009 ha vinto il concorso indetto dalla casa editrice svedese Opal per cercare nuovi talenti nel campo della divulgazione destinati ai ragazzi.
È stata selezionata per il prestigioso Premio August. I suoi libri hanno vinto numerosi premi e sono stati tradotti in molte lingue in tutto il mondo.

“Fatti assodati sulle uova” è un agile libro di divulgazione scientifica
L’ingegnere chimico Filippo Cangialosi nel suo libro “L’uovo perfetto” così scrive: «L'uovo è una piccola perfetta sintesi del cosmo, un microcosmo specchio della totalità, perciò quando lo mangiamo dobbiamo ricordare che stiamo assumendo in noi l’universo».
La Sjöberg esplora questo piccolo mondo ovale passando attraverso la riproduzione di mammiferi, anfibi, pesci, uccelli, rettili. Ne illustra le valenze nutritive, le risorse gastronomiche, perfino l’ispirazione che ha dato a detti celebri ed episodi storici.

L’uovo lo troviamo ad ogni giro di sguardo.
Alcuni esempi. Cominciamo dalla letteratura con un CLIC.
Passiamo alle arti visive facendoci guidare dalla storica dell’arte Barbara Martusciello in un viaggio nel tempo.
Per la musica ci sarebbe tanto, ma ho scelto per tutti un solo grande (e divertente) esempio che dobbiamo a Mozart ecco un suo brano dedicato a chi le uova le depone.

Dalla presentazione editoriale di “Fatti assodati sulle uova”
«Vi siete mai chiesti come fa il pulcino a respirare dentro l’uovo? O che aspetto avevano le uova di dinosauro? O se è possibile far rimbalzare un uovo di gallina? Sapevate che gli scienziati hanno scoperto delle uova nello spazio, e che alcuni animali fanno le uova quadrate?
Uno spassoso e originale picture book divulgativo sulle uova, da quelle dei volatili a quelle di insetti, pesci e rettili, passando per gli animali preistorici, ma anche per curiosità e tradizioni legate alle uova.»

QUI il Booktrailer.

Lena Sjöberg
Fatti assodati sulle uova
Traduzione: Samanta K. Milton Knowles
Pagine 48 con illustrazioni, Euro 13.90
Carmelozampa


L'antifascismo non serve più a niente (1)


Non lasciatevi ingannare dal titolo di questa nota.
La casa editrice Laterza ha pubblicato questo saggio dal titolo volutamente birichino che di punti interrogative ne sottende proprio parecchi.
Libro splendido, per contenuti ed esposizione degli stessi, di cui è autore Carlo Greppi.
Dottore di ricerca in Studi storici all’Università di Torino, è co-fondatore dell’Associazione Deina e membro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia.
Tra le sue più recenti pubblicazioni, L’età dei muri. Breve storia del nostro tempo (2019) per Feltrinelli e La storia ci salverà. Una dichiarazione d'amore(2020) per Utet.
Per Laterza è autore di 25 aprile 1945 (2018) e ha curato, con David Bidussa, Come farla finita con il fascismo (2019).

Dalla presentazione editoriale.
«Immaginate un paese in cui si ripete costantemente «che c’entriamo noi col fascismo?» e «ma poi, anche se fosse, tanto non era una dittatura, anzi ha fatto pure qualche cosa di buono». Immaginate un paese dove il crollo del fascismo viene chiamato anche ‘morte della patria’, dove la Resistenza diventa un’eredità scomoda da nascondere quanto prima nella soffitta della memoria. Ecco, ora immaginate di mettere alla prova dei fatti queste parole che sono diventate quasi senso comune. È quello che fa questo libro ripercorrendo le ragioni per cui è necessario, ora più che mai, riprendere in mano la storia dell’antifascismo italiano e con essa le parole e le azioni di alcuni suoi protagonisti, uomini e donne del secolo scorso che dedicarono anni – e spesso decenni – a una lotta senza compromessi. Anni percorsi da un afflato etico, prima ancora che politico, che manca terribilmente nell’Italia di oggi. E che va recuperato».

Segue ora un incontro con Carlo Greppi.


L'antifascismo non serve più a niente (2)


A Carlo Greppi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Dalla volontà di riprendere in mano la storia dell'antifascismo italiano, e con essa le parole e le azioni di alcuni suoi protagonisti, uomini e donne del secolo scorso che dedicarono anni – e spesso decenni – a una lotta senza compromessi. Dalla certezza che si tratta di un tema – ancora, di nuovo, sempre – enormemente attuale.
La matrice “fisica” è un mio intervento, tenutosi al Seminario di studi “Memoria pubblica e calendario civile in Italia. Conflitti, competizioni, convergenze”, organizzato nel 2019 (alla Fondazione Memoria della Deportazione di Milano) dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia. Le riflessioni che riporto sono, naturalmente, sedimentate in tanti anni di lavoro, spesso svolto all'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, per me una sorta di seconda casa. Il confronto con Giuseppe Laterza e con l'editor Giovanni Carletti mi ha poi aiutato a rendere la matrice di dodici pagine un libro (di 136 pagine), che è ora il primo volume della serie a cura mia “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti”. È un'avventura che comincia.

Quali le principali motivazioni che ti hanno spinto a scriverlo?

Riaffermare che alla base della società in cui viviamo ci sono l'antifascismo e la Resistenza. Riaffermare le ragioni di un nucleo combattivo e determinato di donne e uomini che ha dato battaglia al fascismo nel ventennio, inciampandosi e sbagliando, certo, ma avendo ben chiaro l'obiettivo ultimo della lotta. Molti aspetti della storia dell'antifascismo prima e della Resistenza poi si sono deliberatamente rimossi o sono stati colpevolmente distorti, e l’impressione è che oggi più che mai sia cruciale e vitale ribadirne senza sosta le traiettorie, le difficoltà, le conquiste. Se l’antifascismo storico è dunque (lapalissianamente) finito, non sono affatto superate le sue ragioni, le sue convinzioni, né devono esserlo le sue riflessioni e le sue pratiche contro ogni forma di torsione verso regimi criminali.

Nel trattare il tema che hai scelto, quale cosa hai deciso da fare assolutamente per prima e quale assolutamente per prima da evitare?

Come prima cosa penso sia necessario partire dalle basi: quello che è forse ovvio per gli “addetti ai lavori” non lo è affatto per i lettori e in generale per il grande pubblico. Per questa ragione ho scelto di non dare nulla per scontato ma, al contrario, di riprendere in mano diversi “classici” dell'antifascismo, morti nel ventennio o sopravvissuti a quella stagione: penso a Giacomo Matteotti, a Piero e Ada Gobetti, a Gaetano Salvemini, a Camilla Ravera, a Ferruccio Parri. Ovviamente ho dovuto fare delle scelte, e non è stato facile, ma l'obiettivo era appunto quello di ripercorrere le grandi questioni che solleva il lungo corso dell'antifascismo: l'opposizione a un regime criminale (in molti scelsero di conviverci); la scelta della clandestinità (e/o la prigionia, il confino, l'esilio); la disobbedienza (diventata relativamente “di massa” con il lungo 8 settembre); la scelta delle armi; la guerra senza quartiere e senza barriere di genere, di ceto e di nazionalità; l'unità antifascista infine raggiunta. Volevo, in due parole, ridare sostanza ai percorsi molto umani e concreti di quel nucleo combattivo prima e della vasta minoranza che poi, in armi, sconfisse il nazifascismo. Ricordarne le parole e le azioni.

Perché – come scrivi – tra le formazioni organizzate dai partiti nel CLN la storia che più ha perso peso è quella degli azionisti di Giustizia e Libertà?

È una questione di storia della memoria, e le ragioni sono certo molteplici: prima tra tutte, ovviamente, la scissione del Partito d'Azione, nel 1946. Non è un caso che il Pd'A sia stato definito il partito “della” Resistenza, a differenza degli altri partiti che furono (anche) “nella” Resistenza. Se pensi che le formazioni Giustizia e Libertà sono state seconde, per impatto numerico e per importanza, solo alle Brigate Garibaldi organizzate del Partito comunista, non possiamo che prendere atto del fatto che la loro memoria è letteralmente evaporata nell'Italia repubblicana. Basta chiedere a un qualunque passante se ne ha mai sentito parlare, temo, eppure la parabola giellista e azionista è uno degli esempi più commoventi di radicalità del Novecento: deve essere un modello a cui guardare per ispirarsi nel presente, per rendere attuale la storia dell'antifascismo e del suo portato valoriale.

È identificabile un momento in cui nasce la crisi dell’antifascismo per citare un titolo di Sergio Luzzatto che ricordi nel tuo volume?

I momenti sono diversi, ma la rottura dell'unità antifascista nella seconda metà degli anni Quaranta è stata il punto di partenza di un processo che, nonostante momenti di straordinaria e rinnovata convergenza (come il luglio 1960), ha infine portato, complici anche le divisioni del “fronte”, a un totale discredito dell'antifascismo e della Resistenza da destra e a un suo continuo “ripensamento” dall'altra parte. Chiave di volta è stata l'ondata “revisionista” provocata e cavalcata da Giampaolo Pansa a partire dai primi anni Duemila, strombazzata da televisioni e giornali e poi diffusasi in maniera incontrollata con l'avvento massiccio della rete. Se da un lato le responsabilità dei media, sempre alla ricerca di titoli ad effetto, sono rilevanti, non possiamo non notare come nessuna formazione partitica di rilievo, oggi, si ispiri esplicitamente all’antifascismo storico, a differenza di quelle che, a destra, evocando o scimmiottando il fascismo, sembrano invocare paradigmi autoritari e repressivi con molti tratti in comune, a partire dal nazionalismo aggressivo ed escludente per il quale, forse per un residuo di prudenza e per le reminiscenze terribili che risuonano in esso, è stato scelto un altro nome: “sovranismo”. Negli ultimi anni, poi, non si è fatto che parlare di fascismo, in un proliferare di prefissi (neo-, post-, cripto-, para-, filo-, ecc.) a suggerire che non è proprio la stessa cosa, ma neanche così diverso.

Fra i giovani, la più recente aggregazione – pur azzoppata dall’emergenza sanitaria – è stata quella delle Sardine dove s’è sentito riparlare di questione antifascista.
Vedi speranze oppure no da quel territorio
?

Non lo so: si tratta di un movimento che quando è scoppiata la pandemia era ancora allo stato embrionale, e che aveva fatto diversi passi falsi in questo senso cercando un ecumenismo che è impossibile se l'obiettivo è quello di ripensare da capo le forme e la sostanza della partecipazione politica in Italia. Penso infatti che la migliore risposta a questa continua opera di delegittimazione dell’antifascismo e della Resistenza sia innanzitutto il riprenderne in mano l'eredità, senza esitazioni. Esplicitamente. Dobbiamo saper vedere l’immensa capacità che ebbero questi uomini e queste donne del Novecento di sacrificare il loro presente e i loro destini per il bene della collettività, provando ad anticipare anche nel concreto scorrere della lotta frammenti della società nella quale credevano. Nella quale c’era spazio per tutti, indipendentemente dalla provenienza, ma non c’era spazio per i fascisti. Se le Sardine (come mi pare ultimamente abbiano spesso fatto) partono da questa base, senza farfugliamenti né tentennamenti, le guarderò e le guarderemo con interesse. Se no si aggiungeranno alla lunga lista di movimenti nati da uno slancio ideale, ma solo in apparenza, e schiantatisi subito per mancanza di radicalità, nel senso etimologico del termine: i problemi si risolvono alla radice. E se vuoi piacere (o non dispiacere) a tutti, fascisti e nazionalisti compresi, non stai facendo politica, ma show business.

Quando su questo sito incontro uno storico, concludo con la stessa domanda.
- Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

- Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

- Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Carlo Greppi la storia che cos'è?

L'eterna lotta tra il bene male, forse. Ci ho dedicato un intero libro (“La storia ci salverà. Una dichiarazione d'amore”, Utet 2020), nato idealmente dalla domanda di uno studente di diversi anni fa (“Che cos'è per te la storia?”), alla quale risposi d'istinto così, respingendo un'idea nozionistica della storia che va, putroppo, ancora per la maggiore. Ho poi cercato, ispirandomi a “Apologia della storia” di Marc Bloch e “Sei lezioni sulla storia” di Edward H. Carr, di proporre diversi percorsi, per essere precisi cinque, per arrivare ad altrettante possibili risposte a questa domanda, estremamente affascinante e complessa. In estrema sintesi credo che la storia, con i suoi racconti che ci possono emozionare e con gli interrogativi che trascina con sé, ci educhi alle scelte e a saper decodificare il nostro tempo, per poter essere presenti a noi stessi e renderci protagonisti. Ricordandoci, sempre con Bloch, che “l'unica storia autentica” è quella universale: la storia o riguarda tutti e tutte o riguarda solo alcuni, che la usano come una clava identitaria da brandire per colpire e sopraffare chi è ritenuto “altro”. E questa è l'idea di storia contro la quale, secondo me, bisogna combattere.

………………………………………….

Carlo Greppi
L’antifascismo non serve più a niente
Pagine 136, Euro 14.00
Laterza


Arabpop (1)


Le Edizioni Mimesis nella collana “Eterotipie”, diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna, hanno pubblicato un volume che ha per titolo Arabpop Arte e letteratura in rivolta dai paesi arabi.
È a cura di due arabiste: Chiara ComitoSilvia Moresi.

Comito, è laureata in Lingue e in Relazioni e istituzioni di Asia e Africa. Nel 2012 ha fondato Editoriaraba, il principale sito web italiano sulla letteratura araba contemporanea. Ha scritto per diverse testate “Internazionale”, “Vice”, “Arab Media Report”. Lavora come analista geopolitica occupandosi di Medio Oriente e collabora con festival letterari e del cinema, case editrici, librerie e biblioteche per promuovere la cultura araba.

Moresi, traduttrice, insegna Cultura e Letteratura araba contemporanea all’Istituto di Alti Studi SSML Carlo Bo, a Bari. Ha tradotto, per la casa editrice Jouvence, l’antologia Le mie poesie più belle (2016) di Nizar Qabbani e la raccolta poetica Undici pianeti (2018) di Mahmud Darwish. Dal 2017 è autrice, per “Q Code Magazine”, della rubrica Atlante Letterario Arabo, tradotta in francese e ripubblicata sulla rivista “Orient XXI”.

Il libro si avvale di saggi delle curatrici e di Catherine Cornet – Fernanda Fischione – Anna Gabai – Luce Lacquaniti – Anna Serlenga – Olga Solombrino.

Sono pagine di grande interesse, illuminano una parte di mondo a molti di noi sconosciuta perché l’immagine dell’universo arabo lo identifichiamo con i governi di quei paesi che si distinguono per la loro ferocia. Ne abbiamo esempi con il caso Regeni laddove si sono addizionate colpe dei nostri governi che non hanno posto finora l’energia necessaria per venirne a capo. E fanno pure di peggio. In questi giorni si discute se vendere oppure no delle navi da Guerra all’Egitto (sic!)
Il mondo arabo, inoltre, lo conosciamo anche per la religione professata che, come lo sono specialmente tutte quelle monoteiste, ha molti ghigni e nessun sorriso.
Tutto questo esiste, ma da noi (e non solo in Italia) è largamente ignorato un altro mondo che è nato in quei paesi, dalle caratteristiche tutte diverse da quello rappresentato da Al Sisi & soci.
Il grande merito di “Arabpop” è quello di farcelo conoscere rivelando come, seppur sconfitte, le primavera arabe abbiano portato alla ribalta istanze di pensiero di grande modernità.
V’invito a leggere l’imponente lavoro di Comito e Moresi perché dalle loro pagine apprendiamo quali sono quelle idee e i nomi di chi le propone agendo anche attraverso nuove dinamiche estetiche, principalmente nelle arti visive, nel cinema, in letteratura, in musica.

Dalla presentazione editoriale
«In Italia le cosiddette Primavere arabe del 2011 sono state spesso analizzate da commentatori e giornalisti solo come inaspettati scoppi di violenza o come il risultato di giochi di potere tra Stati occidentali. La miopia di un pensiero appiattito su posizioni islamofobe ci ha impedito di conoscere davvero chi scendeva nelle piazze di Tunisi, del Cairo o di Damasco: una giovane generazione che chiedeva libertà, rimettendo in discussione appartenenze politiche, religiose e di genere. Questo spirito di libertà è stato raccolto ed elaborato da intellettuali, artisti e scrittori arabi che al cinema, sui muri delle loro città, nei romanzi, nelle poesie e nelle canzoni hanno raccontato la genesi e le conseguenze dei movimenti di protesta. I contributi di questo volume intendono dare merito a questa incredibile stagione culturale, e far conoscere al pubblico italiano la letteratura, la musica, i film, i lavori artistici e teatrali nati da questo periodo di rivolta».

In quarta di copertina.
“Credo che le rivoluzioni non debbano mentire, per non perdere la loro credibilità. Credo che debbano raccogliere le dichiarazioni dei testimoni, in cui si intrecciano particolari che raccontano il dolore, l’assalto alle città, il fuoco aperto senza ritegno sui manifestanti. […] Abbiamo bisogno di verità in tempo di guerra, perché la vita e la morte dell’uomo non sono cose da prendere alla leggera. Abbiamo bisogno di una dose di bugia innocente, come nella scrittura, in tempi di pace e di amore, per addolcire l’esistenza di fronte alla crudeltà imperante”.
Khaled Khalifa, scrittore siriano.

Non perdetevi canzoni, video, foto, materiali extra: CLIC!

Segue ora un incontro con Chiara Comito e Silvia Morese.


Arabpop (2)

A Chiara Comito e Silvia Moresi ho rivolto alcune domande.

Come è da intendersi il titolo “Arabpop” da voi scelto?

Chiara Comito – Il titolo “Arabpop” nasce dalla voglia e dall’esigenza di provare a raccontare i fenomeni culturali nei paesi arabi nati e sviluppatesi dopo le rivolte scoppiate tra la fine del 2010 e il 2011. La parola “pop” qui deve intendersi in una doppia accezione: da un lato, pop riguarda tutti quei fenomeni artistici e culturali nati dal basso, che afferiscono quindi alla “popular culture”, in contrapposizione con la cultura dall’alto, quella dei regimi; dall’altra parliamo anche di produzioni culturali che sono diventate pop nel senso di popolari, commerciali, di fruizione per le masse e che hanno incontrato successo non solo localmente, ma anche a livello internazionale.
“Arabpop”, inoltre, ci piaceva perché con una parola sola ci permetteva di segnalare che stavamo parlando di cose pop, leggere e alla portata di tutti, e che questi fenomeni pop riguardavano il mondo arabo. Ci è sembrato fosse anche un modo diverso, fresco e originale di intitolare un libro che riguardasse la cultura araba e che fosse accattivante per i futuri lettori in modo da avvicinarli alla comprensione e scoperta di questa cultura.

Perché nell’Introduzione definite questo libro un “work in progress”?

Silvia Moresi – Mentre scrivevamo il libro, tra l’estate e l’inverno del 2019, in alcuni Paesi arabi c’è stata una nuova ondata di manifestazioni: in Egitto, che già aveva vissuto la stagione delle rivolte nel 2011, ma anche in Sudan, Algeria, Libano, che precedentemente invece non erano stati interessati da grandi proteste. La situazione non è ferma, dunque. Le cosiddette Primavere arabe del 2011 si sono concluse tragicamente nel sangue, con una palese sconfitta politica, e i motivi che le avevano generate (censura, oppressione, precarie condizioni economiche) non sono scomparsi, anzi, in alcuni Paesi, le cose sono spesso peggiorate. Nonostante questo tentativo da parte dei secolaristi o dei partiti religiosi di tornare alla solita politica di oppressione e repressione, le società arabe, soprattutto grazie alla forza creatrice dell’arte, come abbiamo sottolineato nel libro, hanno ormai rotto quel velo di paura che per anni le aveva soffocate. Gli intellettuali e gli artisti arabi (anche dai Paesi d’esilio) hanno continuato la “rivoluzione artistica”, che è andata avanti, e va avanti, influenzando e “eccitando” le società arabe; è per questo che abbiamo definito “Arabpop” un “work in progress”, perché non racconta “ciò che è stato”, ma ciò che è ancora in fermento, una situazione fluida, e forse ormai inarrestabile.

Sostenete che, specie nel nostro paese, c’è stata, e c’è, molta incomprensione su ciò che succede nei paesi arabi. Che cosa, al di là di marchiani errori non da tutti commessi, in Europa e in Italia principalmente è sfuggito, anche a sguardi volenterosi, del mondo arabo contemporaneo?

S.M. – Molto semplicemente, in Italia si ignora spesso tutta la cultura araba contemporanea, che invece noi, in questo libro, abbiamo tentato di rimettere al centro del discorso. Come abbiamo spiegato nell’introduzione, questa lacuna è forse la causa principale di una visione errata delle società arabe, descritte spesso attraverso i soliti schemi risalenti al periodo coloniale (schemi quindi falsi e pregiudizievoli), e che fanno apparire il mondo arabo come vecchio, passivo e retrogrado. Lo scrittore iracheno Hassan Blasim, citato nell’introduzione, definisce questo atteggiamento superficiale verso il mondo arabo, da parte della cultura europea, come “ignoranza dei colti”. La cultura araba contemporanea è ricca di espressioni artistiche vivaci, che non hanno nulla da invidiare alla cultura contemporanea europea. Inoltre, se in Italia si fosse letta più letteratura araba contemporanea, o si fosse prestata più attenzione alle altre espressioni artistiche del mondo arabo, forse si sarebbero commessi meno errori riguardo all’analisi delle cause che hanno portato alle Rivoluzioni del 2011, definite spesso dagli analisti occidentali solo come giochi di potere tra Stati occidentali. Gli scrittori, gli artisti e gli intellettuali arabi da molto tempo, infatti, raccontavano una storia diversa che andava dritta verso una rivoluzione.

Pur con i marcati tratti delle grandi culture locali, i generi artistici – dal fumetto alla street art alla performance – possiamo considerarli discendenti dalle modalità artistiche antagoniste sperimentate, ad esempio, a metà dei ‘60 negli Stati Uniti e nel ’68 in Europa? O ci troviamo di fronte ad altro?

C.C. – Quando abbiamo pensato e scritto il libro non abbiamo quasi mai tracciato traiettorie con la produzione culturale europea o occidentale tout court. Negli ultimi anni la politica, la società e la cultura dei paesi arabi sono spesso stati spiegati in riferimento alla politica, società e cultura del mondo occidentale: ci sono disegnatori come il libanese Mazen Kerbaj che è stato definito il “Picasso” libanese o musicisti, come il libanese Hamed Sinno, frontman del gruppo pop-rock Mashrou’ Leila, nonché attivista per i diritti LGBT, che spesso viene chiamato come il “Freddie Mercury” del Libano, e potrei fare moltissimi esempi di questo tipo. Credo che dovremmo cominciare a parlare di questi paesi senza metterli in costante riferimento con i nostri parametri culturali. Con questo non voglio dire che quanto raccontiamo nel libro non possa trovare dei collegamenti con le produzioni culturali occidentali, ma d’altra parte ogni cultura è interconnessa all’altra, al punto che trovare l’ascendente originale riveste poco senso. Paragonare la cultura araba sempre a quella occidentale toglie “agency” agli artisti e intellettuali arabi. Quello che ci preme dire con “Arabpop” è che i fenomeni culturali che raccontiamo sono stati sia genuini e originali che frutto di contaminazioni ed esperienze diverse: come in qualsiasi altra parte del mondo.

Parecchi i nomi femminili di attiviste, artiste, blogger che appaiono nei vari saggi del vostro volume. Quali lineamenti, diversi da quelli occidentali, ha il femminismo arabo?

S.M. – Premetto che non mi sono mai occupata in maniera specifica durante i miei studi né dei movimenti femministi arabi né di quelli occidentali, quindi non sono un’esperta dell’argomento. Quello che posso far notare è come le battaglie femministe nel mondo arabo si siano non di rado intersecate alle battaglie dei movimenti di decolonizzazione, come è accaduto in Algeria e come accade, ad esempio, in Palestina. Le donne, nei Paesi arabi, hanno portato avanti spesso una doppia battaglia contro il colonialismo esterno (lotta assente, per ovvi motivi, nei movimenti femministi occidentali), e una lotta di “decolonizzazione” dall’oppressione del patriarcato, un nemico interno alle loro stesse società. Anche durante le Rivoluzioni arabe del 2011, che hanno visto un numero enorme di giovani ragazze scendere nelle strade e impegnarsi nelle produzioni artistiche, c’è stata una battaglia su due fronti e le rivendicazioni sociali si sono mescolate spesso a richieste più specifiche sulla parità di genere. Oltre ai movimenti femministi laici, nei Paesi arabi esistono poi anche movimenti femministi legati all’ambiente islamico, che rileggono e reinterpretano il Corano secondo una visione femminista. Questi vengono frequentemente criticati da alcuni movimenti femministi occidentali che, influenzati dal solito pensiero “occidentocentrico”, ritengono le donne islamiche incapaci di autodefinirsi e autodeterminarsi; se l’argomento in discussione è davvero la libertà femminile, ogni donna deve potersi liberare da ciò che vuole, e seguendo il percorso che vuole.

Quanto è stato represso dagli apparati polizieschi, sono in parecchi osservatori – oltre alquanti a sperarlo – a credere possibile riesploda in un futuro

C.C. – Il mio è un pensiero da studiosa e osservatrice della regione araba da anni, anche se in “Arabpop” non ho indossato i panni della politologa bensì quelli dell’operatrice nel campo della cultura. Quello che posso dire è che nel 2020 stiamo ancora ragionando sulle cause e gli esiti della Rivoluzione francese e sono passati secoli da quando è avvenuta. Sono passati invece meno di dieci anni dalle rivolte arabe e credo davvero che fare predizioni sul futuro a questo punto della storia sia presuntuoso: la storia delle rivolte arabe è ancora un “work in progress”, e lo abbiamo visto nel 2019 con le proteste che Silvia ha citato nel suo intervento precedente. Inoltre, se c’è una cosa che la recente pandemia ci ha insegnato, è che tutto può cambiare da un momento all’altro. Quello che invece noi in Italia possiamo fare è sostenere le istanze di diritti, libertà e giustizia sociale che arrivano dalle piazze arabe e smetterla di supportare regimi liberticidi e autoritari che vivono letteralmente sulla pelle dei propri cittadini.
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A cura di
Chiara Comito • Silvia Moresi
Arabpop
Pagine 224, Euro 18.00
Con immagini b/n e colore
Mimesis


Atlante letterario di Villa Borghese

Ogni libro che assume forma di catalogo contiene il fascino dell’elencazione ipnotica di entità, fatti, cose, che palpitano con lo stesso cuore o sono apparentate talvolta perfino contro la loro natura originaria. Sicché può esistere, ad esempio, in uno stesso catalogo il nome del famoso cuoco Escoffier e quello del primo ministro del Vietnam Ho Chi Minh perché questi, com’è accaduto, lavorò per il primo come aiuto pasticciere.
Ne derivano epifanie che manifestano destini, accendono fantasie. Si pensi a Borges e all’uso che ne fa nelle narrazioni a cominciare dal catalogo fedele della Biblioteca di Babele e poi ai suoi cataloghi falsi, alla dimostrazione della falsità dei cataloghi, per giungere vorticosamente alla dimostrazione della falsità del catalogo autentico.
Una variante del catalogo è l’atlante geografico che di un luogo ne raccoglie i punti di maggiore interesse secondo l’intenzione dell’autore che può essere di natura architettonica, botanica, gastronomica, storica, e così via.
Non meravigli, quindi, che mi sia molto piaciuto un libro pubblicato dalla casa editrice Fefè intitolato Atlante letterario di Villa Borghese Ambientazioni della narrativa a Roma.
L’autore è Fabrizio Bramerini.
La nota editoriale in bandella informa che “Nato ad Arcidosso è laureato in architettura. Dal 2002 è nella Protezione civile nazionale, è nei gruppi di coordinamento sulla microzonazione sismica (2007), sulla condizione limite per l’emergenza (2011) e per il programma operativo nazionale per la riduzione del rischio ai fini di protezione civile (2016). Ha realizzato scritti ed altro, in copie limitate, spesso singole, solo per amici”.

Si è proposto un lavoro assai impegnativo, pienamente riuscendo nell’impresa, a sentir lui, cominciata, per curiosità e per gioco. Ha localizzato 14 punti di Villa Borghese associandovi ambientazioni letterarie scaturite da pagine celebri e meno celebri di cui sono puntualmente riferiti autori e titoli nonché una assai vasta antologia di brani.
Brani raccolti in otto temi: Amore e Baci, Distrazioni, Erotismo Urbano, Fantasie e Follia, Incontri, Inseguimenti e Addii, Inquietudini e Paura, Paesaggi Urbani, Scenografie per Sentimenti.
Attraversare Villa Borghese navigando fra la narrativa lì ambientata, cioè sull’imbarcazione della fantasia degli scrittori, significa vederla come un catalogo delle emozioni di volta in volta evocate dalle pagine, significa aggirarsi in una cartografia dell’immaginario.
Accanto a quello letterario, non è da trascurare anche un dato scientifico. Perché l’esperienza professionale dell’autore gli permette anche di muoversi con destrezza fra tabelle ed istogrammi che coordinano dati statistici.

Alberta Campitelli Storica dell’arte e dei giardini, scrive in una prefazione: “Al di là della piacevolezza della lettura forse questa raccolta può stimolare qualche riflessione sul corretto uso di un patrimonio incomparabile di arte e natura”.
Valter Fabietti, professore ordinario presso la facoltà di Architettura di Pescara, in altra prefazione: “La formazione di un luogo, di Villa Borghese, racconta dunque dell’inconsapevole formazione del luogo stesso, del suo riconoscimento come luogo inscindibile dalle emozioni che genera e costruito dalle emozioni che ha generato”.

Dalla presentazione editoriale
«Il Parco Storico più famoso di Roma e forse d’Italia è un luogo reale e bellissimo. Ma è anche il set di tante scene immaginarie descritte da grandi autori in libri famosi e meno noti: da Moravia ad Ammaniti, da D’Annunzio a Moccia, da Pasolini e Pirandello a García Márquez e Veltroni...
Questo libro è una mappa di luoghi letterari, articolata nei 14 luoghi più noti della Villa e dei suoi dintorni (Piazza di Siena, lo Zoo, il Pincio...), costruita attraverso la raccolta ragionata di circa 300 tra le più belle citazioni tratte da oltre 200 romanzi o racconti di 130 autori, classificate in 8 diversi temi (amore, follia, svago, natura...)».

Fabrizio Bramerini
Atlante letterario di Villa Borghese
Prefazioni:
Alberta Campitelli e Valter Fabietti
Pagine 304, Euro 15.00
Con corredo iconografico
Fefè Editore


L'Atea


C'era una volta...
- Un re! - diranno subito i miei visitatori.
No, ragazzi, avete toppato. C'era una volta… un bimestrale chiamato “L’Ateo” che dal 1996 al 2019 è stato l’organo dell’Unione degli Atei e degli Agnostici, ma che siccome era fatto assai bene, dall’anno scorso è stato soppresso e sostituito con un’altra pubblicazione. Patinata, colorata, con fotografie. Tanto teoreticamente organizzato e intellettualmente massiccio era L’Ateo quanto vaporose appaiono le nuove innocenti pagine che puntano sorridenti a beata leggiadria.
Ma don’t panic please!
Maria Turchetto ha riunito un gruppo di firme dando vita a una rivista on line che riflette sui temi filosofici e storici dell’ateismo.
Ai più distratti ricordo che è un’epistemologa già docente all’Università di Venezia; ha diretto per 15 anni il bimestrale “L’Ateo”; curato la raccolta di saggi “Darwin fra Natura e Storia”; le è stato dedicato il volume Sconfinamenti. Scritti in onore di Maria Turchetto pubblicato da Mimesis.
Torna così una voce che ragiona sui saperi d’origine di noi atei e li approfondisce alla luce delle nuove conoscenze dei nostri giorni.
Non solo, però, pagine pensose perché s’incontrano pure corrosive vignette e note frizzanti.
Nome della pubblicazione in Rete: L’Atea Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista.

La redazione, obbligatoriamente sulfurea, è composta da Stefania Basso - Stefano Bigliardi - Baldo Conti - Francesco D’Alpa - Enrica Rota - Stefano Scrima - Alba Tenti - Maria Turchetto.
I collaboratori, doverosamente luciferini, li trovate QUI.

CLIC per leggere la rivista.


Campi fascisti (1)


Il vento mosso da autoritarismo e razzismo che sta avvolgendo il mondo dagli Stati Uniti al Brasile, dall’Ungheria alla Polonia passando per quanto sta accadendo in Italia, pur facendo parte di quell’ondoso movimento della Storia che nei secoli tocca l’umanità facendole conoscere anche periodici arretramenti civili e culturali, non deve, però, lasciare inerti i progressisti d’ogni tendenza perché c’è il concreto pericolo non soltanto di una durata maggiore della notte delle coscienze ma anche del rischio che il prossimo arretramento possa essere peggiore e devastante.
In Italia, poi, la sciagurata epoca fascista ha lasciato tante tracce che sarebbe meno difficile dimostrarne le nequizie per evitare ripetizioni sia pure parzialmente simili, ma questo non è successo ed è roba che viene da lontani anni.
Nel tempo, da parte di tanta Sinistra si è permesso che fosse smarrita la memoria di quanto accadde precipitando in un clima dapprima autoassolutorio poi revisionista per arrivare al negazionismo e alla riabilitazione ricorrendo anche a clamorose bugie. Come quella di Mussolini creatore dell’istituto delle pensioni; si pensi che il governo italiano adottò ufficialmente un primo sistema di garanzie pensionistiche nel 1895. Il futuro “duce” aveva allora 12 anni, un precoce legislatore non c’è che dire!
E oggi siamo al punto che in parecchi dicono che “Mussolini, in fondo…”
A questo proposito, passo la parola a Roberto Benigni.

Chi fu Mussolini? Che cosa fu il fascismo?
Faccio seguire una citazione di uno che comunista non è, come comunista non è chi sta scrivendo questa nota: Ennio Flaiano (1910 – 1972). Mi sembra una lucida riflessione su quel tempo, chiama in causa anche larga parte del popolo italiano, per leggere CLIC!

Larga parte del popolo italiano, scrivevo prima. Sì, ma per fortuna, com’è esistita una minoranza che nella Resistenza non s’arrese al fascismo (non dimentichiamo che tantissimi italiani stavano alla finestra), anche oggi c’è chi non si rassegna alle tenebre che vogliono inghiottirci.
Presento oggi un libro tanto interessante quanto ben documentato, tanto ben scritto quanto necessario che ne è una valorosa testimonianza.
È intitolato Campi fascisti Una vergogna italiana
Si avvale di un’illustrazione.in copertina di Giulio Peranzoni.
Ne è autore Gino Marchitelli.
Avvincente scrittore di storie noir e d’impegnati documentari letterari come questo che ha firmato per la casa editrice Jaca Book.
Ha lavorato sulle piattaforme petrolifere in mare, è stato un militante di Democrazia Proletaria, fa parte dell’Associazione “Libera”, dell’Anpi, del Circolo Arci “Ponti di memoria”.
Per conoscere più estesamente la sua biobliografia cliccate qui.
Di sito web c’è in Rete anche Scrittore felice.

Dalla presentazione editoriale di “Campi fascisti”.
«L’Italia non ha mai fatto i conti con la vergogna delle repressioni attuate dal regime fascista durante il ventennio, ma la democrazia ha bisogno di tenere viva la memoria degli eccidi, delle torture, delle violenze fasciste di cui fu pervaso il nostro Paese dal 1920 alla fine della Seconda guerra mondiale. Una storia di abusi, odio, annientamento di ogni forma di opposizione politica e sociale di centinaia di migliaia di persone che hanno perso la vita a causa delle guerre sanguinarie che il regime proclamò fino alla Liberazione partigiana del 1945. Questo libro illustra, con una serie di esempi documentati, una verità sconosciuta: il numero dei luoghi di detenzione di ogni tipo che il regime aveva costruito per internare gli oppositori, gli antifascisti, gli ebrei, i “diversi” e i prigionieri di guerra utilizzati in campi di lavoro coatto e coercitivo. Prendendo spunto dal notevole lavoro on line www.campifascisti.it, l’autore racconta alcune esperienze e porta a conoscenza di un pubblico più vasto le verità scomode su quanto il mito “Italiani brava gente” sia un enorme e abominevole falso storico. Conoscere, sapere, raccogliere testimonianze è il vero antidoto affinché non abbia mai più a ripetersi una vergogna come quella del regime fascista».

Un breve intervento audiovisivo su “Campi fascisti” da parte dell’autore cliccando QUI

Segue ora un incontro con Gino Marchitelli.


Campi fascisti (2)

A Gino Marchitelli (in foto) ho rivolto alcune domande.

In quest’Italia di oggi, qual è stata la principale motivazione storica e morale che ti ha portato a scrivere questo libro?

Penso che in questo momento storico in cui le destre - e purtroppo anche una fetta consistente del centro sinistra - portano avanti un attacco senza precedenti alla memoria della lotta di Liberazione, del sacrificio dei partigiani e cercano in tutti i modi di riabilitare il fascismo e Mussolini noi abbiamo non solo il dovere ma il compito assoluto di raccontare e divulgare tutta la verità sull'infamia e violenza del fascismo per impedire la costruzione di una versione falsa della storia del nostro Paese.

Perché non c’è stato un processo simile a quello di Norimberga in Italia? E neppure una vera epurazione?

A mio parere il partito comunista d'allora, che tanto aveva speso in termini di sacrificio e vite umane per liberare l'Italia dalla dittatura fascista, non ha avuto il coraggio e la forza di andare fino in fondo nella ricerca e condanna delle responsabilità umane e politiche dell'apparato fascista per il timore di un intervento degli Alleati in funzione anti comunista. Ma questo poi si è rivelato un grande errore e i danni ce li siamo portati dietro fino ad oggi ancora.

L'amnistia Togliatti del giugno '46 (contrastata da molti nella base del Pci di allora) quanto ha pesato nei cedimenti della Sinistra negli anni fino a permettere lo sdoganamento berlusconiano?

Perché Togliatti ha amnistiato tanti dirigenti fascisti responsabili delle vergogne e oppressioni in camicia nera? A me non basta la favoletta del pericolo alleato pronto a stroncare un'insurrezione comunista nel nostro Paese, io credo che sia stato un vero e proprio errore politico che dimostra l'incapacità funzionale di Togliatti nello scenario post seconda guerra mondiale. E se anche si avesse voluto essere così democratici e leali da non punire tutti i delinquenti e l'apparato fascista che aveva perseguito gli oppositori e aiutato i nazisti nello sterminio non si doveva in alcun modo dar loro la possibilità di essere riciclati nel nuovo ordinamento democratico del Paese… Se abbiamo poi avuto i morti per le strade e nelle piazze e le Stragi di Stato la responsabilità politica viene dall'errore primordiale di Togliatti. I fascisti se non si voleva procedere all'eliminazione dei più coinvolti - come invece hanno fatto in Francia - dovevano essere relegati a piccoli e umili lavori ma mai e poi mai nella polizia e nell'apparato giuridico italiano. Mi fermo qui altrimenti per Togliatti ne ho ancora di più da dire...

La monumentale documentazione contenuta nel tuo libro degli orrori compiuti dai fascisti, fa sorgere un’ovvia domanda: com’è possibile che giri spesso la frase “il fascismo ha fatto anche cose buone”?
Passività della Sinistra? Abilità neofascista? Ignoranza dovuta a mancata informazione nella scuola e nei media
?

I fascisti e i revisionisti, in varia forma, e vestiti di altre giacchette sono ancora oggi presenti in molti partiti, nei giornali, in molti luoghi di potere bancario e finanziario, nonché industriale. Non hanno cambiato idea anche perché la nostra "democrazia" non ha mai voluto fare i conti con il passato dittatoriale e non ha introdotto lo studio della verità storica nelle scuole e alle nuove generazioni. Chiediamoci il perché... Una democrazia sana e moderna ha bisogno della verità, di far crescere nuove generazioni che sappiano, che vengano coinvolte nel percorso di costruzione di una società moderna, viva, sana e libera. Per fare questo io sono disposto anche a parlare criticamente e denunciare gli errori e orrori che possono essere accaduti durante la Liberazione ma esigo che si dica la verità, fatti e documenti alla mano, come nel sito campifiascisti.it e nella monumentale documentazione resa libera e accessibile dagli archivi del ministero della difesa, ai giovani. Ma non c'è trasparenza e pulizia nel nostro ordinamento politico, basta vedere come Salvini si contorni di personaggi pluri condannati, corrotti, corruttori e di peggio, delle peggiori bande neofasciste e neo naziste con un PD e altri che tacciono oppure alzino una vocina talmente flebile che manco riusciamo a sentirla. Una vergogna.

Una domanda a Gino Marchitelli che da uomo di cultura, probabilmente ti sarai posto.
Perché mentre in Germania e, soprattutto, in Francia gli intellettuali fascisti hanno espresso – sia pure moralmente nel male e nel peggio – un livello qualitativamente consistente, in Italia da quella parte, tranne qualche raro episodio in architettura, abbiamo invece trascurabili presenze in letteratura, musica, arti visive, cinema
?

Per me la risposta è semplice, il fascismo da cosa nasce in Italia? Da un manipolo di ignoranti, zotici, supponenti e saccenti servi della borghesia agricola e industriale. Senza studi, sopravvissuti e sfruttati nella prima guerra mondiale, gente con il cervello piccolo che ha messo a disposizione l'unica cultura che aveva dentro - quella della violenza - a servizio degli interessi del potere finanziario... quindi? quale cultura nelle arti e in letteratura avrebbero mai potuto esprimere persone che erano semi-analfabeti? Solo manganello e olio di ricino, violenza e armi da fuoco e Mussolini ha avuto vita facile a costruire il proprio potere economico, corrotto e politico in mezzo a tanti deficienti... Questo è quello che ci ha lasciato in eredità il fascismo, una schiera di decerebrati pronti a sedersi per terra a raccogliere e leccare le ossa che gettano loro i capitalisti... e avviene ancora oggi.
……………………………………..

Gino Marchitelli
Campi fascisti
Prefazione di Daniele Biacchessi
Pagine 224, Euro 20.00
Jaca Book


Lezioni di Fantastica (1)

I media, si sa, quanto ad anniversari sono voraci di date rotonde e Gianni Rodari, da buon professionista, ha provveduto rendendo loro propizio quest’anno. Come? Nascendo 100 anni fa e, compiendo 40 anni nel 2020 da quando è morto.
Non so se volutamente oppure no, ma valorosamente questo è certo, la casa editrice Laterza proprio quest’anno ha mandato nelle librerie Lezioni di Fantastica Storia di Gianni Rodari
L’autrice è Vanessa Roghi.
Storica, è autrice di documentari per “La Grande Storia” di Rai Tre. Ha insegnato Storia contemporanea all’Università Roma Tre, Storia e Tv nella Facoltà di Lettere della Sapienza Università di Roma e studia Storia della Cultura.
Per Laterza è autrice di La lettera sovversiva. da don Milani a De Mauro (2017) e Piccola città. Una storia comune di eroina (2018).

Dalla presentazione editoriale.

«Alzi la mano chi, nella sua vita, da bambino o da genitore, non ha mai avuto tra le mani un libro di Gianni Rodari. Il libro degli errori, Le favole al telefono, Filastrocche per tutto l’anno fanno parte dei ricordi e dell’immaginario di moltissimi di noi e non soltanto in Italia, visto che è uno degli scrittori più tradotti in tutto il mondo, oggetto di culto in Russia come in Brasile. Eppure, se fosse solo per questo, forse, non servirebbe un altro libro su di lui, basterebbero i suoi, di libri, e i tanti studi che lo collocano nella storia della letteratura (per l’infanzia), in quella della pedagogia o in quella del giornalismo. Ma Gianni Rodari non ha ‘soltanto’ inventato favole e filastrocche, ha fatto molto di più: ha inventato un nuovo modo di guardare il mondo e l’ha fatto rivolgendosi ai bambini e, usando gli strumenti della lingua, della parola e del gioco, ha portato l’elemento fantastico nel cuore della crescita democratica dell’Italia repubblicana. L’ambizione di questo libro, dunque, è quella di raccontare un Gianni Rodari à part entier, un Rodari tutto intero, non a una sola dimensione soltanto, sottraendolo allo stereotipo dello scrittore ‘facile’ e mettendone in luce il ruolo di intellettuale nella cultura italiana. Lezioni di fantastica ricostruisce la vita di questo grande intellettuale a partire dai grandi ‘insiemi’ che l’hanno riempita – la politica, il giornalismo, la passione educativa, la scrittura e la letteratura – a partire da fonti in grandissima parte sconosciute o dimenticate: interventi sulla stampa, lettere ad amici, appunti di viaggio, note sulla scuola e sugli incontri, reali o immaginari (da Lenin a Breton, da Kant a Pigmalione). La biografia di un uomo il cui gioco di invenzioni e parole, come ha scritto lui stesso, «pur restando un gioco, può coinvolgere il mondo».

Segue un incontro con Vanessa Roghi.


Lezioni di Fantastica (2)

A Vanessa Roghi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da che cosa principalmente è nato il tuo interesse per Rodari?

Mi interessa Rodari perché incarna una figura di intellettuale che mi sembra allo stesso tempo attuale e assai poco conosciuto in quanto tale: un intellettuale che si occupa di infanzia e così facendo si occupa di tutta la società, del suo benessere, del suo futuro. Mentre, per il fatto di essersi occupato di bambini, Rodari è sempre stato considerato uno scrittore di genere piuttosto che un intellettuale vero e proprio. La sua figura è assente da tutte le storie culturali dell'Italia Repubblicana, per esempio.

Già, Rodari, come Collodi, è stato per decenni confinato solo nello spazio della letteratura per ragazzi. Quali le cause di questo comune destino letterario fra i due scrittori, comune anche nel tardivo riconoscimento di loro ulteriori valori?

Come ti dicevo il confinamento nasce dallo sguardo di chi legge i fenomeni culturali: c'è chi pensa che per entrare nel canone letterario si debba essere poco letti, solo da alcuni, sicuramente non dai bambini. Rodari è stato letto moltissimo da genitori e figli, lo unisce a Collodi oltre a un comune destino di riflessione sulle proprie vicende biografiche, l'aver dovuto entrambi lavorare per vivere, e l'aver immaginato un bambino che usciva fuori dagli schemi tradizionali del loro tempo. Un bambino che non bamboleggia, come ha scritto Pino Boero.

Rodari ebbe un’adolescenza da seminarista, una maturità da comunista.
Il secondo mondo ha rifiutato il primo oppure vi leggi una contaminazione fra le due esperienze
?

La contaminazione c'è, Rodari rimane uno. Il suo imprinting cristiano non lo abbandona mai, il senso di dover fare sulla terra il proprio mestiere di esseri umani come scriveva Charles Peguy, incontra, come accade a molti, il marxismo: il regno dei cieli si sposta sulla terra, la dimensione utopica sostituisce quella palingenetica. Forse un giorno Dio esisterà, dice Rodari qualche mese prima di morire, perché non possiamo pensare di risolvere tutti i nostri misteri, rispondere a tutte le nostre domande, con la sola ragione. Ma nel frattempo dobbiamo risolvere i problemi che abbiamo qui e ora, a Dio penseremo poi.

Come spieghi che Rodari non fu amato da tutti nel Pci, tanto da ricevere qualche sgradimento da firme pure autorevoli, ad esempio, quelle di Nilde Jotti e Palmiro Togliatti ?

La polemica del 1951 con Jotti e Togliatti rientra in un gioco delle parti tipico del PCI di allora: se Togliatti non lo avesse amato Rodari non sarebbe diventato direttore della rivista Il Pioniere e poi di Avanguardia. Semmai lo scambio di battute sui fumettti racconta qualcosa di diverso: che il mondo comunista non era così monolitico come farebbe oggi comodo pensare per semplificare il passato.

A proposito de Il libro degli errori tempo fa affermasti che “ci libera dagli schemi”. Da quali schemi ci libera?

Il libro degli errori, uscito nel 1964, è un capolavoro: sovverte tutto quello che si è pensato fino a quel momento in tema di errori grammaticali trasformando in gioco un H perduta, una doppia mancata. Libera dallo schema che vorrebbe che l'insegnamento fosse fatto sempre piangendo, in ginocchio sui ceci. Ma Rodari dice: è giusto imparare piangendo quello che si può imparare ridendo? No. E penso sia una lezione valida anche oggi.

Vanessa Roghi
Lezioni di Fantastica
Pagine 295, Euro 19.00
Laterza


Bella Ciao

È un’espressione tipicamente italiana, perfino aldilà dei significati ai quali rimanda il famoso brano, tanto che viene pronunciata nella nostra lingua anche dagli stranieri.
Ma siccome ogni lingua è piena di tràstule, basta invertire quelle due parole per precipitare in un’espressione oggi di moda nei saluti tanto usurata quanto sciapa.
Ma qui si parla di Bella Ciao una pubblicazione - casa editrice Garzanti - che indaga su origini, storia e motivi di popolarità di quella canzone.
Esce a cura di Marcello Flores. Ha insegnato Storia contemporanea e Storia comparata nell’Università di Siena e nell’Università di Trieste.
Il suo libro precedente è Storia della Resistenza (con Mimmo Franzinelli).

Le origini di quel canto vedono gli storici non tutti d’accordo e Flores illustra le varie tesi in modo rapido ed efficace ricordando quanti vi hanno speso studi: da Cesare Bermani a Emilio Jona, da Sergio Liberovici a Lionello Gennero e Michele Straniero.
Parlare su “Bella ciao” obbliga a ricordare Fischia il vento, altra bella e severa canzone partigiana che, pur cantata da molte formazioni era preferita da parte comunista, mentre “Bella ciao” era più giovale e, forse, anche a questo deve la sua fortuna diventando l’inno dell’internazionale radicalità giovanile e di tutti i ribelli del mondo contro il potere.
Nella storia di questo brano, va dato primario merito all’antropologo Alberto Maria Cirese per essersene interessato e aver notato come fosse un riadattamento (con altre parole) della canzone epico-lirica che Costantino Nigra (1828 – 1907) chiamò “Fior di tomba”, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918.
Sta di fatto che oggi quella canzone, da tempi lontani fino alle nostre piazze riempite dalle Sardine, risuona forte e perfino nella triste America di Trump quelle note e quei versi sono diventati un canto d’opposizione e per la libertà.
Tantissimi gli artisti che l’hanno incisa, eccone un elenco, folto sì, ma probabilmente non esaustivo.

Dalla presentazione editoriale

«È difficile trovare oggi qualcuno che non conosca Bella ciao: il suo richiamo alla libertà e insieme il suo carattere non violento ne hanno fatto un simbolo universale, legato non più soltanto alla lotta contro il fascismo ma rappresentativo dei più alti ideali di giustizia e libertà. Decine sono le traduzioni in altre lingue, innumerevoli le cover e le citazioni in film e serie tv: in questo volume lo storico Marcello Flores ricostruisce com’è nato, come è stato tramandato e perché ha avuto fortuna questo celebre canto, che affonda le radici nella tradizione della Resistenza italiana, fino a diventare un mito dall’inarrestabile successo planetario»

Concludo com’è necessario con l’ascolto di quel brano famoso.
Ma una piccola sorpresa l’ho riservata ai lettori di queste righe: un video.
Una versione jazzistica.
Al clarinetto Woody Allen con la sua New Orleans Jazz Band.
Buon ascolto!

A cura di Marcello Flores
Bella Ciao
Pagine 96, Euro 4.90
Garzanti


Carlo Lapucci


C’è un libro che ha valorosamente difeso la sua presenza dalla diaspora dei tanti traslochi che ho subito e mi segue di casa in casa da oltre cinquant’anni soccorrendomi in varie occasioni di scrittura, per la radio, la tv, la pubblicità, redazione di schede in occasione di performances: “Per modo di dire”, dizionario dei modi di dire della lingua italiana.
L’autore è Carlo Lapucci, (in foto), lessicografo e non solo.
La sua bibliografia è di grande ampiezza – cliccare QUI – perché spazia dall’antropologia alla linguistica frequentando ognuno di questi campi con sapiente leggerezza, non rinserrandosi in sussiegosa accademia in modo da non escludere alcun lettore istruendolo perché prima appassionandolo.
Ci sono, poi, altri spazi, colti e birichini, coltivati da questo scrittore funambolo.
Alcuni esempi.
Teatro: scene dall’assurdo al postfuturismo.
La parodia, praticata fra sale e paprika facendone quel feroce gioco letterario che, secondo Aldous Huxley, rappresenta “la critica più acuta”.
Andamenti compositivi “à la manière de” in cui esercita su oggetti o temi sconsacrati lo stile di alcuni scrittori che a ben alti propositi avevano candidate le proprie parole.
O ancora si dedica a scrivere detti aprocrifi “dal buio delle caverne all’età dei lumi”.
Un esempio dell’antico Egitto:
“Papero del Nilo, goditi la tua bella Papera, sarà sempre migliore d’una Faraona.”
(Graffito sul basamento del Palazzo reale di Tebe).


Diari di Cineclub

Sono poche le riviste di cinema fra quelle stampate e on line che mi piacciono.
Ho gusti difficili? No, la cosa che principalmente mi contraria è il loro linguaggio accademico, difetto questo che ricorre, peraltro, anche in testate che si occupano di letteratura per non dire di quelle d’arti visive. Queste ultime, ammettiamolo, sono imbattibili!
Molti anni fa, Valerio Miroglio (1928 –1991), un artista che meriterebbe ben più intenso riconoscimento oltre quello ricevuto, costruì un oggetto chiamato Eidocalamus detto anche il Criticometro, un beffardo marchingegno che avvalendosi di frasi criptiche di famosi critici fatte ruotare intorno a un asse combinavano perfettamente recensioni di mostre, libri, concerti, e Miroglio sosteneva adatte anche a recensire una fidanzata, un paesaggio, il menu di uno chef.
QUI lui lo spiega in un video di 50” che estrassi da un documentario dedicatogli dalla Rai.

C’è, però, una rivista che mi piace: Diari di Cineclub Periodico indipendente di cultura e informazione cinematografica diretta da Angelo Tantaro (chiedermi se nel cognome l’accento cade sulla prima o sulla seconda A, lo ritengo un atto di scortesia nei miei riguardi, perché non lo so).
Sia chiaro, questa testata non l’ho scoperta io, infatti, ha ricevuto riconoscimenti quali, ad esempio, il XXIV premio Domenico Meccoli “ScriverediCinema” Magazine on-line di cinema nel 2015 e il Premio Nazionale Tatiana Pavlova per la Divulgazione dell’Arte Contemporanea nel 2019.
Ricca di articoli scritti senza toni sussiegosi, estesa su plurali temi che vanno da ritratti di attori, registi, sceneggiatori a rapporti fra letteratura e cinema, curiosità storiche.

La redazione è a Roma e si avvale di un comitato di consulenza e rappresentanza composto da Cecilia Mangini, Giulia Zoppi, Luciana Castellina, Enzo Natta, Citto Maselli, Marco Asunis.

Hanno collaborato in redazione per il numero di giugno: Maria Caprasecca, Nando Scanu.
Il canale Youtube del webmag è a cura di Nicola De Carlo.

Ancora una cosa: “Diari di cinema” – lo scrive in pagina – non chiede finanziamenti, rifiuta la pubblicità ed è distribuito gratuitamente; per ricevere basta mandare una mail a diaridicineclub@gmail.com


I Mirtilli


È questo il nome del salutare frutto di una nuova collana della casa editrice ETS. È destinata a testi che studiano storia, protagonisti e nuove tendenze dell’audiovisivo.
A dirigere la collana c’è Sandra Lischi, nome di grande rilievo nello scenario degli studi sul linguaggio delle immagini intermediali.
Laureata in Storia dell'Arte nel 1973 (con una tesi sul video) all'Università di Pisa dove è docente di audiovisivi nel corso di laurea in "Cinema, Musica, Teatro" (Facoltà di lettere). Ha ideato nel 1985 la manifestazione "Ondavideo-Suoni e immagini del futuro", tuttora attiva a Pisa, e codirige a Milano "Invideo-mostra internazionale di video d'arte e cinema oltre". Collabora a "il manifesto". Dagli anni Settanta a oggi ha pubblicato vari libri, saggi, articoli e cataloghi sulle arti elettroniche, curato mostre e collaborato con istituzioni e centri internazionali. Oltre che di video arte si occupa di cinema sperimentale e di ricerca, di produzioni non narrative, di cinema e video indipendente. Fra le numerose pubblicazioni, la più recente, di quest’anno: La lezione della videoarte per Carocci. Prossimamente, su questo sito, parleremo del volume.
A lei (in foto) ho chiesto d’illustrare in sintesi il profilo della collana I Mirtilli. Così ha risposto.

«Il mirtillo è un frutto piccolo e resistente, che fa bene al cervello, al cuore e alla vista...” Inizia così la descrizione della collana di libri “I Mirtilli” delle edizioni ETS dedicata a indagare in modo agile e chiaro i territori della sperimentazione, della produzione indipendente, delle indiscipline audiovisive fra cinema, televisione e video. L’idea mi è venuta non solo per valorizzare quanto, fin dai primi anni Ottanta, si studia e si organizza a Pisa, fra Università e “Ondavideo”, fra didattica, ricerca e iniziative culturali, ma anche perché sempre più la videoarte e la sperimentazione audiovisiva conquistano spazio e attenzione, e c’è quindi bisogno di strumenti di conoscenza agili e affidabili in questi ambiti. Piccoli volumi quadrati, di un centinaio di pagine, a un costo molto accessibile e con un inserto illustrato, dedicati ad autori e autrici non sufficientemente conosciuti oppure, se già noti, descritti in modo sinteticamente efficace (certo, su Paik e Viola esistono volumi specializzati e soprattutto molti cataloghi, ma non ci sono pubblicazioni di alta divulgazione, accessibili e snelli).
I Mirtilli vogliono essere quindi strumenti di diffusione e conoscenza, fra maestri della videoarte e della TV creativa, giovani artisti, protagonisti di esperienze innovative. Dopo il primo volume dedicato nel 2018 a Giacomo Verde (purtroppo recentemente scomparso) usciranno il volumetto su Bill Viola (di Andreina Di Brino), quello su Ursula Ferrara (di Elena Marcheschi), quello su Jean-Christophe Averty (di Sandra Lischi). In programma anche un Nam June Paik (di Marco Gazzano), un Jem Cohen (di Teresa Soldani) e altri testi, fra documentario innovativo, animazione e arti elettroniche».

Circa il testo dedicato a Giacomo Verde è a cura di Silvana Vassallo e ha per titolo Giacomo Verde videoartivista.
Contiene testi della curatrice e di: Andreina Di Brino, Marco Maria Gazzano, Sandra Lischi, Francesca Maccarrone, Anna Maria Monteverdi.

Dalla presentazione editoriale
«Questa è la prima monografia su Giacomo Verde. I vari aspetti della sua produzione artistica sono analizzati in saggi critici che ne restituiscono le sfaccettature nel contesto internazionale, fra tecno-teatro e videoarte, tradizione di conta-storie e sperimentazioni con innovative tecnologie digitali e interattive, performance audiovisive e ricerche sul videofonino, con un approccio che coniuga improvvisazione giocosa e profondità di riflessione teorica».

Il volume di 128 pagine con corredo iconografico, costa 12.00 euro.

Per i redattori della carta stampata, radio.tv, web
l’Ufficio Stampa è di Barbara Baroni:comunicazione@edizioniets.com


Piccoli addii


La casa editrice Adelphi ha varato un’originale iniziativa redazionale che è una proposta di sintetica lettura che va oltre l’assaggio di pagine perché si tratta di un piccolo integrale testo. La collana si chiama “I Microgrammi”
Per uno sguardo ai titoli: CLIC!

Fra i primi autori di questa collana trovo, per mia gioia, il nome di Giovanni Mariotti, scrittore finissimo.
È nato a Pietrasanta, in provincia di Lucca. Ha lavorato molti anni presso varie case editrici. Ha tradotto opere di Itard, Gobineau, Schwob, Denon, Nerval.
Ha pubblicato “Butroto”, Feltrinelli 1984, “Lazzaro o le tribolazioni di un risorto”, Mondadori 1997; “Musica nella casa accanto”, Mondadori 1999; “Creso”, Feltrinelli 2001; “Le rovine di Segrate”, Le Vespe 2002. Del romanzo “Matilde” (1993 presso Anabasi), Mariotti ha dato una seconda stesura più ampia dal titolo Storia di Matilde, Adelphi, 2003. Presso Marsilio, 2005, “Storia di Alì”
In questa veloce biografia, forse lacunosa, ho lasciato per ultima una cosa che ritengo di gran pregio: ha diretto la Biblioteca Blu per l'editore Franco Maria Ricci. Grande collana, uscivano due volumi al mese, ne possedevo la collezione, ora falcidiata purtroppo dai troppi traslochi. Si chiamava Biblioteca Blu perché in tal modo erano chiamati i libri popolari venduti dagli ambulanti nelle Fiere. Ma, quelli pubblicati da Mariotti, libri popolari non erano, novità sorprendenti accanto a gemme dimenticate. Ricordo tre autori per tutti: Machado de Assis (L’Alienista), Macedonio Fernandez (La materia del nulla). E il terzo? Il terzo è proprio Mariotti che lì pubblicò uno splendido “A.” (1974), libro che mi piacerebbe vedere ripubblicato perché è introvabile. E imperdibile.
La A. è l’iniziale di ‘Aismo’, termine (mai trovato altrove) che indica il desiderio d’una donna di offrire il proprio uomo a un’altra donna. Così è detto in “Dizionario del libertino” (Mondadori, 1981): vertiginoso periplo in 76 tappe nel pensiero di Mariotti attraverso suoi scritti pubblicati su “Repubblica” e “L’Espresso”.
Anni fa, c’incontrammo su questo sito. Il formato di quelle interviste prevedeva la domanda d’apertura uguale per tutti. Quando gli chiesi “Chi è Mariotti secondo Mariotti?”, lui rispose: La vita conserva per me un certo interesse proprio perché non lo so e non lo voglio sapere. Ignoro se il tracciato dei miei movimenti, da quando nacqui a quando morirò, finirà per disegnare nello spazio il mio viso (come fantasticò Borges), o uno scarabocchio senza senso, o entrambe le cose. Chi mi vedrà morire forse si farà un’idea di cosa, a conti fatti, sono stato. Subito dopo se ne dimenticherà, com’è giusto.

Ora Adelphi, nella collana “I Microgrammi”, di cui dicevo in apertura, ha pubblicato di Mariotti Piccoli addii.
Pagine di ricordi nella cipria del tempo, nitidi nella memoria nebbiosi nel cuore definiti dall’autore “brevi congedi da un mondo che non c’era più”.
Le calze velate con quel rigo sul polpaccio, le sigarette vendute sciolte, la carta assorbente, il camino ululante di vento, immagini, odori, suoni che scandiscono anni illuminati da una luce crepuscolare.
“Piccoli addii” è diviso in due parti “Piccoli addii alle cose della vita” e “Scene di un debutto in società”. E qui è un susseguirsi di scene: l’umiliante nudità della visita militare, le camere e le affittacamere, il varietà e le prostitute, per chiudere con un canto sussurrato in francese con la madre. Senza sapere che quelle sarebbero state le ultime parole pronunciate insieme. Scene con personaggi che sembrano sfilare immobili su di un tapis roulant, entrano da una quinta spariscono nell’altra. Per sempre.

Dalla presentazione editoriale
«In questo piccolo libro Giovanni Mariotti parla di un’epoca in cui le donne portavano le calze velate e la volpe al collo, in cui era possibile acquistare le sigarette sciolte, in cui esistevano ancora la carta assorbente e i treni a vapore. Rielaborando appunti e ritagli di suoi vecchi articoli, ha conferito a ogni pagina uno smalto letterario che si riallaccia a una nobile e antica tradizione italiana: l’elzeviro. E ogni ricordo acquista nelle sue pagine la lucentezza di un gioiello. Di Giovanni Mariotti Adelphi ha pubblicato Storia di Matilde (2003), definito da Pietro Citati "Il più bel romanzo scritto in Italia negli ultimi vent’anni"».

Si può acquistare questo e-book da: Amazon.it - Apple iBookStore (per iPhone e iPad) - BookRepublic - Google Play - IBS.it - la Feltrinelli - Libreria Rizzoli - Mondadori Store

Giovanni Mariotti
Piccoli addii
pp. 100
Euro 1.99
Adelphi


Breve storia della letteratura rosa (1)


La casa editrice Graphe.it tra le sue collane ne ha una, chiamata Parva particolarmente indovinata perché pratica la saggistica breve riuscendo così, attraverso autori chiamati a scrivere su argomenti di cui sono specialisti, ad informare i lettori su plurali temi. Chi l’ha detto che un pesante tomo debba valere più di un agile volumetto se ben fatto?
I latini non a caso elogiavano la brevitas sostenendo che se si conosce profondamente un argomento, si è allora capaci di esporlo chiaramente senza tante parole.

È quello che fa Patrizia Violi scrivendo Breve storia della letteratura rosa.
L’autrice, giornalista, vive e lavora a Milano, collabora con la “27maOra”, “Futura” e la ‘Lettura’ del Corriere della Sera, occupandosi di attualità, costume e psicologia.
Ha pubblicato “Love.com” (Emmabooks), “Una mamma da URL” e “Affari d’amore” (Baldini & Castoldi), “La vigilia di Natale” (Graphe.it) e “L’amore è una bugia” (Giunti).

La letteratura rosa, così bistrattata e considerata di serie B, è un’incredibile fucina di best seller. Con i romanzi d’amore sempre in vetta alle classifiche è nata una vera e propria industria del rosa, imperi editoriali internazionali hanno capitalizzato sulle storie d’amore.
La “Breve storia della letteratura rosa” ripercorre cambiamenti e trasformazioni di questo genere letterario, dagli albori nel diciottesimo secolo fino ai nostri giorni, tra serie televisive, app e tecnologie. Con l’obiettivo di comprendere e approfondire i dettagli dello storytelling sentimentale: dai romanzi di appendice di Carolina Invernizio per arrivare all’erotismo delle Cinquanta sfumature e alla fan fiction di Anna Todd.

Dalla presentazione editoriale.

«Avete mai letto un romanzo rosa? No? Probabilmente, invece, lo avete letto eccome, solo che non vi vien facile associare in un unico genere Pamela di Richardson e Liala, Jane Eyre e Twilight. Questo ci dice che il mondo del «rosa», nella sua storia e nelle sue differenti espressioni, è molto più complesso e profondo di quanto forse siamo abituati a pensare. L’autrice, in questo saggio piacevole e leggero, illustra con precisione elementi ricorrenti, evoluzione, nomi celebri e recenti sviluppi della letteratura di consumo più amata di sempre, e non certo soltanto dalle donne».

Segue ora un incontro con Patrizia Violi.


Breve storia della letteratura rosa (2)


A Patrizia Violi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da dove nasce il tuo interesse critico per la letteratura rosa?

La mia curiosità nasce essenzialmente da due ragioni. La prima, più personale e istintiva, dal ricordo di mia madre, che aveva un’indole romantica: da piccola invece delle favole mi raccontava gli amori di Hollywood. L’altro aspetto, più serio, dal fatto che questo tipo di letteratura fornisce una chiara fotografia della condizione femminile attraverso gli anni. Quindi può essere considerata un’accurata lente sociologica.

Quali sono le origini storiche di quella letteratura?

Sono piuttosto antiche. Lo schema del romanzo rosa deriva dalle fiabe, in particolare dalla prima versione di Cenerentola, scritta nel 1634 da Giambattista Basile e intitolata “La gatta Cenerentola”. La seconda riscrittura arriva a metà del XVII è quella di Charles Perrault, meno aspra della precedente, adatta a essere raccontata alla corte del Re di Francia. La fiaba cambierà ancora con i fratelli Grimm nel 1812, dove la protagonista sarà sempre più consapevole delle proprie potenzialità. Fra queste ultime due rielaborazioni si inserisce “Pamela o la virtù premiata”, romanzo epistolare del 1740 scritto dall’inglese Samuel Richardson. La storia di una servetta, come Cenerentola, che comportandosi bene, riesce non solo a evitare le molestie del suo datore di lavoro, ma anche a diventarne la moglie. Questo romanzo, che ebbe grandissimo successo, è considerato il prototipo della letteratura rosa. Una storia con la protagonista bella e senza mezzi, ma buona e sensibile, tanto da meritarsi il lieto fine.

In Italia, quando vedono la luce questi romanzi?

Attorno al 1870, dopo l’Unità di Italia, grazie ai romanzi di appendice di Carolina Invernizio, inizialmente pubblicati, come “feuilletton” a puntate su varie riviste. Anche se questa autrice non risponde esattamente al canone del rosa, nelle sue storie c’è l’amore ma narrato in tonalità più cupe, quasi da romanzo gotico. Però in fondo la giustizia, il bene e i sentimenti più puri trionfano sempre. Un altro dettaglio importante lanciato dalla Invernizio, che poi si rivelerà fondamentale nella chick lit, è la solidarietà femminile. Una sorellanza così forte da travalicare classi sociali e limiti di età: si ritrova fra la cameriera e la padrona, fra le donne più anziane e le giovani.

Nel ventennio fascista questa letteratura perché venne avversata?

Nei primi decenni del secolo scorso i romanzi sentimentali erano già best seller e quindi furono usati come propaganda, divennero mezzi educativi per convincere le ragazze a diventare delle brave moglie e madri. Infatti, vennero stampati vari fascicoli dai titoli inequivocabili come “Donnina”, per imparare a diventare gli angeli del focolare domestico, o “L’ora dell’ago”, per conoscere tutti i segreti del cucito. Si pubblicavano però anche romanzi più trasgressivi, come quelli di Maria Assunta Giulia Nannipieri, in arte Mura, con trame complesse in cui invece trapelava il concetto della donna tentatrice, consapevole del proprio fascino. Rappresentavano una grave minaccia per l’ideologia dominante, perché le donne non erano sottomesse al loro destino di angeli del focolare, quindi messi al bando.

Quando arriva il ’68 come se la cava la letteratura rosa?

Lo schema classico del romanzo rosa che prevede la protagonista inetta e romantica che sogna il principe azzurro e il matrimonio, viene considerato ridicolo e anacronista. Poi anche la mancanza di temi sociali nella trama provoca molto disprezzo. Ma la voglia di sognare di cui sono intrise le storie d’amore non sparisce, semplicemente migra dai libri alle riviste. Sono infatti gli anni d’oro dei fotoromanzi che raccontano vicende sentimentali che grondano romanticismo, vendono moltissimo e rendono divi i protagonisti. Poi, un decennio dopo, nell’81, sbarca in Italia “Harmony” (marchio che nasce dalla crasi del nome della casa madre candese “Harlequin” con la partner italiana Mondadori). Se il rosa in libreria fa storcere il naso, queste pubblicazioni si vendono in edicola, a prezzi contenuti e sono subito richiestissime.

Nel 2011 E. L. James scrive “Cinquanta sfumature di grigio”.
Siamo parecchio lontano da Invernizio o Peverelli.
Che cos’è accaduto? Perché si considera quel libro nello scenario della letteratura rosa
?

Il segreto della longevità di questo canone letterario è nel suo essere camaleontico, nella capacità estrema di rigenerarsi e adattarsi ai tempi. Le “Cinquanta sfumature di grigio”, ripropongono lo schema del romanzo rosa. Lei, bella e ingenua, si innamora di lui, affascinante, ricco e misterioso, ma numerosi ostacoli allontanano il lieto fine. Nelle “Cinquanta sfumature”, gran parte di questi ostacoli sono rappresentati dalle stranezze sadomaso del protagonista maschile. Ma è ancora una favola come quella dell’antenata Cenerentola (infatti alla fine si capisce che le perversioni di lui non sono niente di troppo grave, solo frutto di un’adolescenza infelice!), però condita a luci rosse, adeguata ai tempi più tolleranti e disinibiti. Infatti, è stata definita “mommy porn”, pornografia da mamme, piccante ma non troppo. E ha dato via al filone erotico del romanzo rosa, culminato poi, in versione più giovane, con la serie di “After” di Anna Todd.

La struttura narrativa tipica del racconto rosa ha un andamento simile fra i vari titoli e il finale mai è amaro.
Come spieghi che, nonostante questa ripetitività, non stanca chi legge che continua a leggere, e leggere ancora, in pratica, lo stesso libro
?

È il patto implicito che si istaura fra chi scrive questo tipo di romanzi e il lettore. Lo schema non deve cambiare e il finale deve sempre essere lieto. Tante possono essere le varianti di ambientazioni e genere, ma la trama deve contenere gli stessi elementi. Questo perché la routine è rassicurante. Il grande pregio del rosa è di essere analgesico, creare ottimismo. Convincere che alla fine tutto si aggiusterà.

Nel concludere il tuo volume, hai saggiamente citata una statistica di Amazon che ha rilevato dove si trovano le più fedeli lettrici della letteratura rosa in Italia.
Si va da Bolzano a Trieste, da Milano a Padova. Nessuna località dall’Emilia Romagna alla Campania, dal Lazio fino alla Sicilia.
Come spieghi che proprio nelle città che pare abbiano il più alto tasso di acculturazione è tanto letta una letteratura così marcatamente popolare
?

Sono stata sorpresa dal risultato di questa indagine, ma credo che alla fine la voglia di immergersi in una storia sentimentale sia un passatempo che travalica il livello culturale e territoriale del lettore. Rappresenta un momento di semplice svago. Una fittizia oasi di benessere nel caos delle complicazioni della vita. Quasi come spaparanzarsi sul divano e fare zapping, lasciandosi svuotare il cervello.

…………………………………………………………….

Patrizia Violi
Breve storia della letteratura rosa
Pagine 90, Euro 8.00
Graphe.it


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