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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

L'immagine sottratta


Il Museo del Novecento ha riaperto la stagione espositiva con una mostra di Franco Guerzoni (in foto) intitolata L’immagine sottratta a cura di Martina Corgnati.
La mostra è parte del palinsesto del Comune di Milano “Aria di Cultura”, il programma di iniziative culturali che ha accompagnato l’estate milanese.

“L’immagine sottratta” segna il ritorno di Franco Guerzoni nella città dove hanno avuto luogo alcune delle sue principali esposizioni, e prosegue l’indagine condotta dal museo sui protagonisti e i movimenti che hanno contrassegnato il panorama artistico italiano nella seconda metà del Novecento.
Nel percorso espositivo, una bacheca è riservata a un labirinto di sequenze fotografiche, spesso inedite, che raccontano progetti e aspirazioni risalenti alle sue origini inquiete che l’artista chiama “Irrisolti” frutto acerbo e tenero del suo ingresso nella ricerca artistica.
Un video-racconto dell’opera di Guerzoni è stato realizzato per l’occasione da Eva Marisaldi ed Enrico Serotti. Inoltre, alla mostra è associato un ricco volume, edito da Skira, con le immagini delle opere esposte, testi della curatrice Martina Corgnati e di Adele Ghirri con materiali utili ad approfondire il lavoro dell’artista.

Dice Guerzoni: “Con un’espressione della curatrice Martina Corgnati, che faccio mia, l’esposizione è pensata per essere ‘intima’ come intimo è lo spazio che la riceve al Museo del Novecento: la grande sala della Lanterna e lo spazio dell’Archivio. Non inseguirà l’ambizione di narrare una biografia, quanto piuttosto accettare la frammentarietà di alcune stagioni di ricerca che qui cercano di incontrarsi in una distanza temporale significativa”.

Estratto dal testo di presentazione di Martina Corgnati.

«Una decina di anni fa nello studio di Franco Guerzoni prende corpo una serie di lavori intitolati Impossibili restauri; il titolo continua a interessare l’artista per almeno un biennio, incrociando l’emergenza di alcuni altri momenti e passaggi segnalati da denominazioni diverse, quali Epistola e poi, più nitidamente, Museo ideale. È da questi cicli che prende le mosse l’esposizione accompagnata da questo libro, che riporta a Milano Franco Guerzoni dopo un certo tempo. Non un’antologica, naturalmente, tracciato operativo a cui, come ha già segnalato Fabrizio D’Amico, Guerzoni immancabilmente si sottrae (…) vale però la pena di soffermarsi un momento sulle ragioni che portano Guerzoni a sfuggire sempre al percorso dell’antologica perché sono assai significative e offrono un accesso privilegiato e diretto al suo modo di fare, o meglio al suo essere artista. Guerzoni, infatti, ama ma diffida dell’archeologia non in quanto metodo scientifico ma certamente in quanto metodo poetico; diffida anche dei maquillage, dei restauri e delle ricostruzioni che i titoli dei suoi quadri dichiarano, infatti, sempre, privativi, parziali, manchevoli anzi “impossibili”. E se questo è vero per le immagini e, in generale, per il passato, come potrebbe non essere vero per lui stesso e per la storia del suo lavoro? Un’antologica è una forma sistematica, in qualche modo archeologica; pretende di mettere ordine. Ma Franco Guerzoni non vuole questo, mentre invece aspira a costruire occasioni per lo sguardo, ricombinazioni, cortocircuiti, riletture capaci di rinnovare il passato, rivisitandolo attraverso un approccio parziale, non definitorio e meno che mai autocelebrativo. Non è la prima volta che l’artista si comporta così: l’antologica l’ha evitata a Palazzo Pitti nel 2013, poi al Mambo di Bologna alla fine del 2014; e la evita adesso, privilegiando invece piuttosto un atteggiamento possibilista che, rinnovando l’attenzione a certe cose (ma non a tutte) e alle loro insospettabili amicizie con le opere ultime, permette di riscrivere brani di storia. D’altronde, chi potrà mai dire di aver definito qualcosa una volta per tutte?».

Ufficio Stampa: Sara Zolla, press@sarazolla.it ; 346 – 84 57 982

Franco Guerzoni.
L’immagine sottratta
A cura di Martina Corgnati
Museo del Novecento
Piazza del Duomo 8, Milano
Informazioni:
Tel +39 02 884 440 61
Fax +39 02 884 440 62
Mail c.museo900@comune.milano.it
Fino al 14 febbraio 2021


Interlinea ricorda Vassalli

Cinque anni fa, all'età di 73 anni, Sebastiano Vassalli (in foto) ci lasciava più soli.
Candidato al Nobel per il 2015, a settembre di quell’anno avrebbe ritirato il Premio Campiello alla carriera, riservatogli per coronare una lunga vita letteraria, ricca di tanti scritti.
Uno dei suoi editori, Interlinea, ha ricordato la triste data della scomparsa mettendo on line una biografia ragionata che trovate qui di seguito.

«Sebastiano Vassalli nasce a Genova nel 1941 ma fin da bambino vive a Novara. Tra gli anni Sessanta e Settanta, nei quali insegna dopo la laurea in Lettere con una tesi su arte contemporanea e psicanalisi discussa con Cesare Musatti, partecipa alle vicende della neoavanguardia nell’ambito del Gruppo 63, all’inizio dipingendo e fondando una piccola casa editrice e riviste quali “Ant.Ed.” e “Pianura”.
Esordisce con testi poetici affermandosi con alcune prose sperimentali (“Narcisso” è del 1968, cui seguono “Tempo di màssacro” e “L’arrivo della lozione”, sempre da Einaudi, presso cui pubblica anche il poemetto “Il millennio che muore”); nella pagina travasa, attraverso un furore linguistico e una satira culturale, le inquietudini politiche e sociali di quegli anni. Rispetto a queste esperienze giovanili “Abitare il vento” del 1980 segna il primo tentativo di distacco e svolta. Il protagonista, come nel successivo “Mareblù”, si sente incapace di cambiare il mondo con metodi trasgressivi e rivoluzionari (chiedendosi alla fine: contro chi?).
Vassalli cerca quindi nuovi personaggi o, meglio, una letteratura pura. E in questo senso è per lui emblematico il poeta Dino Campana, la cui vicenda è ripercorsa nella “Notte della cometa”, la prima opera della stagione narrativa matura. La sua indagine approda a una dimensione esistenziale anch’essa pura, come la fanciullezza, al centro della ricerca delle origini della società odierna italiana nel romanzo “L’oro del mondo”, ambientato nel dopoguerra. Intanto Vassalli non smette di indagare il mondo con eclettismo intellettuale (si pensi a “Sangue e suolo” e “Il neoitaliano”).
L’investigazione letteraria delle radici e dei segni di un passato che illumini l’inquietudine del presente e ricostruisca il carattere nazionale degli italiani approda al Seicento con “La chimera”, un successo editoriale del 1990 (premio Strega), poi al Settecento di “Marco e Mattio”, uscito l’anno dopo, quindi all’Ottocento e agli inizi del Novecento con “Il Cigno” nel 1993.
Dopo la parentesi quasi fantascientifica, inquietante e satirica, di “3012” e il viaggio al tempo di Virgilio e Augusto di “Un infinito numero”, in “Cuore di pietra” ricrea un’epopea della storia democratica dell’unità d’Italia simbolizzata da un grande edificio di Novara, Casa Bossi dell’architetto Antonelli. Nei libri a cavallo del Duemila lo scrittore si avvicina al presente riscoprendo anche il genere del racconto, soprattutto con “La morte di Marx” e altri racconti del 2006 e “L’italiano” dell’anno successivo, prima del ritorno al romanzo fondato sulla storia: la prima guerra mondiale in “Le due chiese”, del 2010, e gli antichi romani in “Terre selvagge”, che segna nel 2014 il passaggio dall’editore di quasi cinquant’anni di libri, Einaudi, a Rizzoli, dove appare nello stesso anno una nuova edizione della “Chimera”.
Con Interlinea Vassalli pubblica “Il mio Piemonte”, la raccolta illustrata “Terra d’acque” e, tra gli altri titoli (oltre a “Natale a Marradi” e “Il robot di Natale” nella collana ‘Nativitas’), l’autobiografia “Un nulla pieno di storie”. “Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo” (con Giovanni Tesio in forma di intervista con documenti e immagini) e “Maestri e no. Dodici incontri tra vita e letteratura”.
Tra gli studi sullo scrittore novarese si segnala il recente numero di “Microprovincia” 49 (2011) La parola e le storie in Sebastiano Vassalli, oltre a La chimera. Storia e fortuna del romanzo di Sebastiano Vassalli, a cura di Roberto Cicala e Giovanni Tesio (Interlinea, Novara 2003). Una curiosità: allo scrittore è dedicata la prima guida italiana di itinerari letterari cicloturistici, Nella pianura delle storie di Sebastiano Vassalli, in italiano e inglese (Interlinea-ATL, Novara 2013).
Vassalli pubblica interventi militanti su quotidiani: dopo la collaborazione a “La Repubblica” e “La Stampa”, è opinionista del “Corriere della Sera” (i suoi Improvvisi. 1998-2015 sono raccolti dalla Fondazione Corriere della Sera nel 2016).
Muore nel luglio 2015 e nello stesso anno esce postumo da Rizzoli “Io, Partenope”, seguito da riedizioni e antologie tra cui I racconti del “Mattino”».

CLIC per aggiornamenti: si rinvia al sito in Rete.

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Dall’Ufficio Stampa, guidato da Ilaria Finotti, apprendo di un’altra iniziativa dell’Editrice. Si tratta di podcast molto ben centrati a cura di .Caterina Tognetti.


Mimebù


Si chiama MIMebù la nuova casa editrice del Gruppo Mimesis rivolta a bambini e ragazzi.

In foto il logo.
Dalla presentazione editoriale.
«MIMebù nasce grande e piccola allo stesso tempo. Siamo grandi perché le nostre fondamenta sono forti e robuste, costruite in anni di esperienza dal Gruppo Mimesis. Ma siamo anche piccoli, perché abbiamo deciso di aprirci a un pubblico differente, tutto da conoscere.
Il Gruppo Mimesis ci ha trasmesso una vocazione comune: il pensiero libero e indipendente.
Con un nuovo marchio vogliamo rivolgerci a bambini e ragazzi che speriamo di incuriosire, divertire e far riflettere.
I libri che intendiamo pubblicare non hanno barriere né pregiudizi.
L’obiettivo di MIMebù è il piacere della lettura, disinteressato e senza morali precostituite. Vogliamo essere moderni, freschi e divertenti.

Le nostre collane.
Primi Passi.
Accoglie titoli illustrati, in particolare albi, libri-gioco, silent book e prime storie. È pensata per invitare i più piccoli nell’universo della lettura, dando vita a nuovi mo(n)di di leggere e immaginare.

Scacciapensieri.

Raccoglie tutti i titoli di narrativa, senza distinzioni d’età. Il nome rivela l’intento di MIMebù – e in particolare di questa collana – di regalare ai lettori storie piacevoli, leggere (ma non frivole!) che permettano di allontanarsi per un momento dal turbinio della quotidianità per entrare nel mondo parallelo della lettura.

La Civetta.
È il ponte che collega la casa editrice a Mimesis Edizioni: si propone infatti di guidare i giovani lettori alla scoperta della filosofia. La civetta è la creatura alata che accompagna la dea Minerva nella mitologia romana e Atena in quella greca, divenendo simbolo di saggezza e filosofia.

MIMebook.
Questa è la collana attiva dal 2019 che propone titoli digitali con particolare attenzione per gli ebook interattivi (più propriamente enhanced books). MIMebù crede infatti che il digitale possa essere un valido sostenitore del cartaceo: entrambi i supporti possono valorizzarsi a vicenda, convivere e collaborare con l’obiettivo comune di promuovere la lettura, in tutte le sue forme».

Cliccare QUI per dare un’occhiata al catalogo.

Redazione: Via Monfalcone 17/19, 20099 Sesto San Giovanni (MI)
tel: 02 – 48 61 657 e 02 – 24 41 63 83; fax: 02.89403935 , mail: info@mimebu.it

Ufficio Stampa:Martin Hofer, Clarissa Gibella
ufficiostampa@mimebu.it ; tel. 02 – 24 86 16 57


La frontiera spaesata (1)


La casa editrice Exorma ha pubblicato La frontiera spaesata Un viaggio alle porte dei Balcani.
L’autore è Giuseppe A. Samonà.
Informazione dell’editrice: “Samonà è nato fra Palermo e Roma, dove ha conseguito un Dottorato in Storia delle religioni antiche all’Università «La Sapienza». Lasciata l’Italia nei primi anni Ottanta, ha vissuto e insegnato a Parigi, New York e Montréal (École Pratique des Hautes Études; State University of New York at Stony Brook; Université du Québec à Montréal).
Ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista (alcuni titoli: Gli itinerari sacri dell’aedo: Ricerca storico-religiosa sui cantori omerici, Bulzoni 1984; Il sole, la terra, il serpente: Antichi miti di morte, interpretazioni moderne e problemi di compara­zio­ne storico-religiosa, Bulzoni 1991; L’insaisissable religion des Taïnos: Esquisse d’anthropologie historique, «Journal de la Société des Américanistes» 2003…).
È stato cofondatore della rivista franco-italiana Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale franco-canadese ViceVersa. Attualmente vive a Parigi, dove scrive, traduce, insegna… Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.
“Quelle cose scomparse, parole” (Ilisso 2004; con una versione ampliata in e-book, nel 2013) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte delle antologie di narratori “La terra della prosa” (L’Orma 2014) e “Con gli occhi aperti” (Exòrma 2016) a cura di Andrea Cortellessa, e dell’antologia di critica “12 apostati” (Damiani 2015) a cura di Filippo La Porta.
“I fannulloni nella valle fertile”, di Albert Cossery (Einaudi 2016), è la sua ultima traduzione dal francese".

Dalla presentazione editoriale.
«Si parla molto di letteratura, di Storia e storie che sono indispensabili alla comprensione dei luoghi. Un percorso esplorato insieme agli scrittori e ai poeti di queste terre e che l’autore annota e disegna su tovagliette di carta: una sorta di mappa potenziale in cui cercare pezzi di itinerari che ognuno potrebbe comporre a modo suo; preziosa per chi volesse mettersi in cammino da Trieste, verso est e verso sud-est, lungo la costa dell’Istria o penetrando l’interno della Slovenia e della Croazia, verso il cuore dei Balcani».

Anteprima.
Di tappa in tappa, varcando una porta dopo l’altra – a ogni porta ti dici: ora ci siamo… – prova a chiedere dove si trovino, questi inafferrabili Balcani, il più delle volte ti risponderanno semplicemente indicando in direzione del paese, della porta seguente…

Sì, più vai avanti più la testa si gira all’indietro, dettagli trascurati acquistano una nuova importanza, e torni sull’inesauribile storia di queste terre – la Storia
è sempre inesauribile, ma la prospettiva via via si fa salda – e ogni volta ti sembra di capirne un pezzettino di più.

Dapprima ti è venuta incontro l’ossessione dell’autoctonia, l’idea che una terra appartenga agli uni o agli altri, esclusivamente, e che questo diritto debba esser sancito da un mitologico esser nato in loco, o comunque essere arrivati prima. Purezza: Trieste o Trst? Ora t’interroga l’ossessione del confine, l’idea che esistano, o si possano tracciare, linee che separino perfettamente. E l’una e l’altra ossessione qui si manifestano per inevitabilmente esplodere, svelandosi come illusioni, costruzioni ingannevoli – la purezza, il confine, la frontiera… Anzi, le frontiere. Perché al di là dei popoli Trieste e l’Istria interrogano, rimettono in questione, anche molte frontiere cosiddette naturali: per esempio quella fra matti e normali (Basaglia, ricordi? Da vicino nessuno è normale…); o persino quella fra i generi, frutto anch’essa di una natura in buona parte inventata dagli uomini, e quindi almeno in parte infinitamente reinventabile. E se anche in quanto uomini e donne fossimo, proprio come i luoghi in cui stai viaggiando, costantemente in bilico?

Il bilico, la sospensione, è in ogni caso quel che si respira in Trieste and the Meaning of Nowhere (in italiano tradotto come: O del nessun luogo), della storica e scrittrice Jan Morris: conobbe la città ventenne da soldato, nel 1945, quando era ancora James, e ne rimase catturata; così continuò a conoscerla e riconoscerla attraverso tutta la sua vita, prima e dopo la sua transizione da James a Jan, all’inizio degli anni Settanta, per poi scriverci sopra all’inizio dei Duemila. Anywhere out of the world scriveva Baudelaire per raccontare il bisogno dell’uomo di sottrarsi al dolore raggiungendo un luogo che sia… fuori dal mondo: ecco, quel luogo lo ritrovi positivamente, come se veramente esistesse, in molte pagine di questo libro. Aggiungilo alla tua lista di letture: anche se l’autrice sembra meno sensibile al fascino dell’Istria, quell’atmosfera è trasportabile anche qui – e poche ma utilmente spaesanti righe parlano anche di Pola».

Segue ora un incontro con Giuseppe A. Samonà.


La frontiera spaesata (2)


A Giuseppe A. Samonà (in foto) ho rivolto alcune domande.

Scrivi: “Sin da bambino sognavo di viaggiare lontano”. E lo hai fatto. Una tua definizione, quel che significa per te la parola “viaggio”

Nel folgorante “I viaggi, la morte”, che ho evocato anche nel libro, Gadda spiega, in senso letterale, la sua celebre “dialisi degli umani in sedenti e migranti”, per affermare – dal punto di vista dei “reduci”, cioè di coloro “che tornano dai paesi lontani” – “la desolata vanità del mondo spaziale”... a meno di non mettersi nella prospettiva del “secreto interiore dell’essere”. Questa affermazione non l’avrei capita nei miei vent’anni, quando, appena finita l’università, sono partito solo alla volta dell’India, dove sarei rimasto per ben sette mesi, avido di avventure, di meraviglie sconosciute, di sapere. Eppure, capisco oggi, che sono passati quarant’anni, che già in quel primo “viaggio lungo” – ce ne sarebbero stati altri – volevo conoscere qualcosa che nulla aveva a che fare con la dimensione orizzontale dello spazio: più che i luoghi mi interessavano le persone, le loro storie, che vivono nel tempo. Ecco, negli anni ho capito che il viaggio è per me essenzialmente uno strumento per esplorare il tempo, non lo spazio, anzi, è essenzialmente un mettere il tempo al cuore di tutte le cose, quel tempo che, tornando al testo di Gadda, costituisce appunto il vero “secreto interiore dell’essere” (c’è in questa formula un’eco del ‘secretum’ di Petrarca?).

E quale ruolo ha il tempo nel viaggio…?

I riverberi del tempo nel viaggio, così inteso, sono anche molto concreti: ho sempre concepito il mio viaggiare come uno spostamento lento, a piedi – è molto a piedi, di villaggio in villaggio, che mi sono spostato in quel primo viaggio lungo in India – a momenti quasi una marcia zen, dove le pause, la contemplazione, sia pur in movimento (anche le pause ‘si muovono’), il continuo calarsi verticalmente, appunto per scoprire le storie dei miei incontri, reali o letterari, dissolvono l’insensata fretta dell’andare. In questa prospettiva, la volatile briciola è spesso più interessante del fatto straordinario, il dettaglio più importante del tutto, il margine del centro, ed è assente il bisogno di accumulare freneticamente nozioni, “esperienze”, di vedere tutto – tutti i monumenti, tutti i musei… – perché è esattamente solo nelle schegge che si intravede il senso del fuori e del dentro, cioè si conosce. Del resto, le schegge continuano a muoversi a lungo, e sempre lentamente, una volta il viaggio finito, si ricompongono, tendono a formare un mondo: il viaggio continua – mi verrebbe quasi da dire “comincia”... – dopo il viaggio. E poi questo viaggio concreto ha un inizio e una fine, e non di rado viaggiando immaginiamo di quando, dopo, ricorderemo. Il tempo: come quello del viaggiatore Marco Polo, che Calvino (“Le città invisibili”) oppone allo statico Kublai Kan (di nuovo i “sedenti”, i “migranti”), e che “in ogni nuova città… ritrova il suo passato”, e anzi viaggia “per rivivere” il proprio “passato”, o forse – ma è lo stesso – il proprio “futuro”… O come quello del palestinese Murid al-Barghuthi (“Ho visto Ramallah”) , per cui i luoghi cui desideriamo ritornare non sono luoghi, ma tempo, “spazi di tempo” – è un tempo che riconosciamo quando viaggiamo; “ma è per i luoghi che si combatte” (appunto: le mura, le frontiere…). O ancora quello di Proust, del tempo vero e proprio Maestro, che fa dire a Bergotte morente: “la vita è un viaggio“... Questo celebre detto annassagoreo, sovente ripetuto superficialmente, non assume in questo contesto un’originale “lucentezza”? E attenzione, se ho nominato in queste poche righe ben cinque autori, non è certo per nascondermi dietro le citazioni: il fatto è che la letteratura, il viaggio, nel senso che ha preso negli anni per me, sono intimamente intrecciati. Dice molto borgesianamente il contadino-sapiente de “L’antimonio” (Sciascia, e sei, anzi… sette, se contiamo anche il grande scrittore argentino!) che “il libro è una cosa”…

cioè…?

… e come cosa lo puoi semplicemente guardare, può servire a sostenere un tavolo zoppo, a darlo in testa a qualcuno etc. – ma se lo apri e lo leggi diventa un mondo... “e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?” Ecco: questo parallelismo intrecciato io lo vedo fra viaggio e libro, con la lettura, non riesco più a immaginare l’uno senza l’altro. Entrambi si snodano e raccontano il tempo. Il viaggio, il mio viaggio, è innanzitutto la possibilità di capire determinati “luoghi-tempo” attraverso gli autori le autrici che li hanno raccontati per poi raccontarli a mia volta: il mio viaggio, da molto tempo, è anche un vortice di letteratura.

In particolare come nasce “La frontiera spaesata”?

In “Quelle cose scomparse, parole”, la mia prima opera di letteratura, fra gli amici conosciuta come “il Dizionario”, e che è esplicitamente orientata per esplorare il tempo, c’è una “voce”, una breve prosa, che si chiama proprio “Viaggio lungo” – a un certo punto vi si legge: «… Fino a quando si è tornati per sempre, e non si torna più: perché il lontano si è fatto vicino, e il vicino si è dissolto…». È l’elastico di cui parlo ne “La frontiera spaesata”: il momento in cui la spinta che ti riporta indietro si dissolve, e l’altrove diventa lo chez soi. Non una ‘patria’ (fra virgolette: il termine, per diverse ragioni che sarebbe lungo spiegare qui, non mi è mai piaciuto) ma molte, o nessuna – al mito di Ulisse, in senso superficialmente moderno, che avvalora la necessità di tornare sempre al proprio luogo natale, preferisco quello di Robinson Crusoe, che dice del desiderio di conoscere il non conosciuto (per altro il mito antico di Ulisse, che sia Omero o Dante, per non parlare di Kavafis, racconta altro: l’eroe alla fine riparte, quello che conta in ogni caso è il viaggio…). Concretamente, autobiograficamente, da quarant’anni in Italia, per viverci, appunto ‘non sono tornato più’: New York, Parigi, Montréal sono diventati i miei luoghi, i luoghi in cui ho vissuto, e vivo.

Tornavi talvolta in Italia?

Certo, annualmente ci tornavo, in Italia – ed ecco: innanzitutto, per ragioni affettive, familiari, tornavo a Trieste (io, fuoriuscito dall’altro margine italiano, la Sicilia… Significativo, no?). Trieste – dove già andavo l’estate da ragazzino, è la città di uno dei miei grandi amici d’infanzia, e di sempre – è diventata il mio principale punto di riferimento italiano, e da là ho “sconfinato”, da solo e in compagnia, lo racconto nel libro: viaggiavo ma avevo l’impressione di restare a casa. Gli appunti dei miei grandi viaggi: India, Egitto, Etiopia, Messico, Guatemala… sono ancora nel cassetto. Questo girovagare “balcanico”, che è stato anche un vivere, via via ingrossatosi negli anni, questo “viaggio non viaggio” privo di appunti, ha voluto farsi libro: perché negli anni mi sono reso conto che c’era in queste terre un intrico di dolore e bellezza che riguardava da vicino l’Italia, e anche l’Europa; e in Italia, e anche in Europa, era sostanzialmente sconosciuto. Volevo che i miei amici conoscessero questa bellezza, queste storie, volevo condividerle. Questo libro è un atto di amore. Per gli amici, reali o potenziali – e per la letteratura.

Il titolo del volume e quanto hai finora detto, mi spinge a una domanda: esistono più frontiere o più confini?

Qui me la caverei con una formula: se c’è un confine, nel senso di limite, o persino di muro, c’è quasi sempre, in maggiore o minor misura, una frontiera, nel senso di spazio mischiato, fluido; e viceversa. Ovviamente alcune regioni hanno acquistato una maggiore significatività nell’uno o nell’altro senso: i Balcani hanno la particolarità di aver esaltato entrambi gli aspetti, il sanguinoso muro, la mescolata frontiera...

Si parla molto di storia nelle tue pagine, eppure tieni a dire che “non è un libro di Storia”. Puoi precisare questa (almeno apparente) contraddizione?

A un primo livello potrei dire che il libro si nutre di Storia e del lavoro di storici importanti – vedi a questo proposito la bibliografia finale – a volte la riprende, la Storia, è il suo fondamento, uno dei suoi fondamenti, ma non il fine della sua narrazione. A un secondo livello, mi verrebbe da dire in generale che lo spaesamento, le frontiere fluide, che nel libro vanno al di là dei popoli, delle lingue etc. (ricordo quelle fra follia e normalità, fra maschile e femminile, fra umanità e animalità etc.), concernono anche il genere del libro: che non è un manuale di storia, appunto, non è poesia, non è un romanzo, non è una guida, non è un diario di bordo... ed è anche tutte queste cose insieme. Alla frontiera fra generi, ecco. Del resto, nello stesso senso, mi rivolgo a lettori diversi: da quello che cerca un approfondimento storico a quello che cerca il brivido misterioso del romanzo, o della poesia. A quoi bon “separare” i lettori?

Perché definisci “inafferrabili” i Balcani?

Innanzitutto, una suggestione letteraria: per chi non li conosce i Balcani, un po’ come la Patagonia, hanno una sorta di aura mitica, evocano in sé un territorio infinito, dai contorni confusi. Più concretamente, per Balcani s’intendono cose diverse dal punto di vista della letteratura, appunto, della geografia, della Storia, delle storie... Pessoa diceva che “i viaggi sono i viaggiatori”, e ancora che “ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo”. L’inafferrabilità dei Balcani, e di tutte le frontiere-spazio-fluido, rimanda alla nostra propria inafferrabilità, in quanto umani. Se ne dicessi di più farei da spoiler al libro, di cui questo è un asse importante.

Il frazionamento politico della Jugoslavia si è riflesso anche nelle arti (letteratura, cinema, teatro)? Oppure è ancora leggibile un, sia pure remoto, “genius loci” comune?

La risposta è sì a entrambe le questioni, che dovrebbero escludersi: è la contraddizione che attraversa tutto il libro. Anzi: è il libro! E il genius loci, che io chiamerei semplicemente polifonico laboratorio culturale, è ben più ricco, ‘europeamente’ speranzoso, di quanto il frazionamento, e le guerre devastanti, farebbero credere. È l’antidoto al demone del nazionalismo, che è sempre forte, e in agguato.

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Giuseppe A. Samonà
La frontiera spaesata
Con fotografie in b/n
Pagine 312, Euro 16.00
Edizioni Exòrma


Una nuova laurea


Nasce all'Università di Bologna una nuova Laurea Magistrale interamente dedicata alla Didattica e alla Comunicazione delle Scienze Naturali comprendendo una storia delle idee scientifiche e pseudoscientifiche.
È un momento quanto mai opportuno per studi che illuminino il confine tra scienza e pseudoscienza. Prima gli infelici “No Vax” poi l’epidemia Covid con i negatori dell’emergenza sanitaria hanno brutalmente portato alla luce quanto male producano notizie infondate specie poi quando rilanciate dai media.
A questo s’aggiunga il disastro che avviene quando prendono la parola quelli del paranormale (… avete fatto caso che paranormale e paranoico hanno in comune le prime 6 lettere?) annunciando date più o meno imminenti della fine del mondo oppure esibendosi in altre gags. Del resto, al mattino e a sera, le tv – pubbliche e private – accanto al meteo trasmettono l’oroscopo stabilendo, quindi, un’equivalenza tra una previsione scientifica e un’altra che non lo è e ha la sola proprietà di fare assai spesso della comicità involontaria.

Tra i docenti della nuova laurea ci sono Marco Ciardi e Sergio Zappoli.
Ciardi è già intervenuto su questo sito sia in occasione della pubblicazione del libro Frankenstein e sia de Il mistero degli antichi astronauti.
A lui ho rivolto la domanda che segue.

Com’è nata l'idea di un corso di Didattica e Comunicazione delle Scienze Naturali?

Da molti anni si discute sull'importanza di insegnare e comunicare correttamente che cos'è la scienza, quali sono i suoi valori e le modalità alla base del suo funzionamento. Tuttavia, a tale discussione hanno fatto seguito poche iniziative concrete, se non quelle legate all'istituzioni di master, fra i quali il più importante e autorevole continua ad essere quello che si tiene a Trieste presso la SISSA, volto alla formazione di figure specifiche nel settore della comunicazione della scienza. Ma la comprensione della scienza dovrebbe essere alla base della formazione di ogni cittadino (come la pandemia sta evidenziando ogni giorno). Per questo motivo c'è la necessità, in primo luogo, di formare docenti che sappiano cambiare il loro metodo di insegnamento, o comunque aggiungere nuovi contenuti rispetto a quelli tradizionali. A scuola ci sono troppe nozioni da mandare a memoria. Nozioni che poi sono rapidamente dimenticate, diventando inutili, almeno per coloro che non si iscriveranno a una laurea scientifica. Quasi del tutto assenti, invece, sono le analisi dei metodi e dei valori alla base della ricerca. Mancando una formazione adeguata su questi temi, non deve sorprendere che in molti non siano in grado di comprenderli e, conseguentemente, non solo di insegnarli ma anche di comunicarli adeguatamente. Naturalmente il corso si propone molti altri obiettivi, anche in stretta relazione con possibili sviluppi occupazionali. Oltre alla didattica e alla comunicazione (quest'ultima legata con il mondo dell'editoria, del giornalismo, eccetera), il corso di rivolge anche a coloro che intendano rivolgersi all'ambito museale e a quello dell'ambiente, per i quali sono previsti percorsi specifici.

Professor Zappoli, come sarà organizzato il corso? Quali saranno le modalità di accesso e i requisiti necessari per frequentarlo?

Il corso prevede al primo anno l’insegnamento di quattro didattiche disciplinari: Biologia, Ecologia, Chimica e Scienze della terra. Questi corsi di base intrecceranno, nel loro svolgimento, la discussione dei principali nuclei fondanti delle discipline con la presentazione delle principali difficoltà di apprendimento e delle possibili strategie per una loro efficace trasposizione didattica. Parallelamente saranno fornite le basi didattiche, pedagogiche e antropologiche necessarie per affrontare e gestire percorsi di formazione per ragazzi e adulti. È anche previsto un corso dedicato alla Storia delle idee scientifiche e pseudoscientifiche. Al secondo anno sono messi a disposizione quattro distinti curricula. Ogni curriculum è caratterizzato da un corso integrato interdisciplinare: Laboratorio Integrato di Didattica delle Scienze della Natura; Educazione e Comunicazione delle Scienze nei Musei; Didattica e Sviluppo Sostenibile; Didattica della Comunicazione Scientifica. L’ultimo semestre è dedicato al tirocinio e alla tesi, che si potrà svolgere presso uno dei numerosi soggetti pubblici e privati che hanno contribuito alla progettazione del coro di studio e ne costituiscono l’Advisory Board.
I diplomati in talune classi di laurea triennali (L-13, L-27, L-32, L-34), possono accedere direttamente se il voto di laurea è maggiore di 100/110, altrimenti è richiesto il superamento di un test. I laureati di tutte le altre classi possono accedere a condizione di avere maturato almeno 12 CFU in almeno un settore BIO, CHIM o GEO e previo superamento del test.

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Non chiedetemi che cosa significhino quelle lettere in maiuscolo seguite da numeri perché mai sono stato all’università quale studente e, facile da dedursi, neppure quale docente. Certamente, però, molto diranno a chi di quell’ambiente di studi è pratico.


Cronopio compie trent'anni


Festa nella casa editrice Cronopio che compie trent’anni.
A guidarla Maurizio Zanardi, nato a Napoli nel 1954, filosofo, ha partecipato, con Biagio De Giovanni, Massimo Cacciari, Roberto Esposito, alla fondazione della rivista di filosofia "il Centauro", dove ha pubblicato saggi su Agostino, Cervantes, Lutero, Machiavelli, Spinoza.
Conclusasi l'esperienza del Centauro, nel 1990 ha fondato Cronopio insieme con due socie, pubblicando autori quali Laurence Sterne, Philip K. Dick, Juan José Millàs, Jean-Luc Nancy, Alain Badiou, Deleuze, Derrida.
Quando le cofondatrici lasciarono l’editrice si profilarono difficoltà che Maurizio risolse grazie all'aiuto di amici e a un dono di Mimmo Paladino che regalò alla giovane Casa alcune copie autografe di una sua acquaforte ispirata dalla lettura dell'opera di Cortazar "Storie di Cronopio e Fama".
Intorno alla sigla editoriale si formò un gruppo di scrittori e traduttori, che col tempo ne divennero soci e tuttora partecipano alla definizione del programma editoriale.

A Maurizio Zanardi ho rivolto alcune domande.

Trent’anni di Cronopio: quale fu la maggiore difficoltà affrontata nel far nascere la casa editrice nell’atmosfera politica e culturale di trent’anni fa a Napoli?

La maggiore difficoltà fu iniziare. Per due anni cercammo libri capaci di indicare con nettezza il tipo di casa editrice che avevamo in mente. Gli inizi decidono il destino. I primi due titoli furono “Dopo il comunismo” di Biagio De Giovanni e “Un viaggio sentimentale” di Laurence Sterne, nella nuova traduzione e con lo straordinario commento di Giancarlo Mazzacurati. Dunque, una riflessione sul crollo dell’ordine spaziale mondiale e la riproposizione di un classico tra i più innovativi della letteratura europea: affrontare la durezza del reale e cercare scritture inclassificabili, dell’avvenire. È significativo che anni dopo abbiamo pubblicato “L’ipotesi comunista” sull’immortalità dell’”idea” comunista.
Dovemmo poi anche fronteggiare il fatalismo diffuso in città, vincerlo anche in noi stessi. C’era la convinzione dell’impossibilità di un progetto editoriale che da Napoli, considerata una città preda di un declino inarrestabile, potesse avere una risonanza nazionale e durare nel tempo. Un fatalismo che combattemmo anche con un libro di interviste che ebbe un grande successo: “La città porosa”. Un titolo che si richiamava alle ancora illuminanti riflessioni di Walter Benjamin su Napoli.

Qualche cifra e qualche nome nella vita di Cronopio in questi anni

Non abbiamo pubblicato molto. In trent’anni circa 250 volumi.
Abbiamo contribuito all’affermazione in Italia di filosofi come Jean-Luc Nancy e Alain Badiou, grazie alle traduzioni di Antonella Moscati. Pubblicato opere di Arendt, Freud, Foucault, Deleuze, Derrida, Jameson, Abensour, Gil, Lanzmann e, in letteratura, Ingeborg Bachmann, Peter Weiss, Hugo Hamilton.
Tra gli italiani, nel campo della filosofia, Pierandrea Amato, Gianfranco Borrelli, Eleonora De Conciliis, Romano Gasparotti, Bruno Moroncini, Valeria Pinto, Angela Putino, Nicola Russo, Valerio Romitelli, solo per fare dei nomi, tra i tanti.
E poi il primo romanzo di Tommaso Pincio, le scritture di Gabriele Frasca, Clio Pizzingrilli, Vega Tescari. I libri di poesia di Tommaso Ottonieri e Gino Trucillo, entrambi vincitori di premi importanti. E la ristampa anastatica dei “Canti Orfici” di Dino Campana, con la lettura integrale, in cd audio, di Claudio Morganti. E ancora le straordinarie poesie di Giacomo Lubrano.
Negli ultimi tempi l’incontro con il teatro di Jean-Luc Lagarce, Jan Fabre, Romeo Castellucci, Enzo Moscato. Tra breve anche una ponderosa pubblicazione della compagnia Anagoor e “Danza cieca” di Virgilio Sieni, il terzo libro che dedichiamo alla danza.

La cosa cui più tieni che sei riuscito a realizzare in questi trent’anni?

Come hai ricordato Cronopio è diretto da un collettivo di filosofi, studiosi di letteratura e amici che hanno deciso di sostenerci: Gianfranco Borrelli, Clemens-Carl Haerle, Giuseppe Episcopo, Bruno Moroncini, Antonella Moscati, Mario Mariano. Credo che la tenuta del collettivo, dopo gli abbandoni che si sono avvicendati in questi trent’anni, sia uno dei patrimoni più preziosi della casa editrice. Non si può che pensare e progettare insieme. Una casa editrice è nei fatti una parte dell’intelletto generale. La questione è come giocare questa parte. Credo che Cronopio si proponga come sezione di quella “università senza condizione” di cui scriveva Derrida. Un’università situata dentro e fuori l’università, impegnata a ricercare senza condizionamenti. Perché ciò accada, l’autonomia finanziaria è decisiva. Questo obiettivo ha intaccato, in misura più o meno grande, le disponibilità finanziarie di ognuno di noi, ma è il prezzo inevitabile per la libertà di ricerca. Per di più negli ultimi anni la nostra sede è diventata uno spazio di seminari, presentazioni, riflessioni collettive in cui nascono idee e avvengono fecondi incontri, spesso imprevisti.

Esiste una cosa che hai fatto in questo tempo e non ripeteresti oggi?

Sì, alcune.
Ma indipendentemente dalle mie buone intenzioni, credo che continueranno a ripetersi. Perché la loro ripetizione non divenga sempre più ottusa e presenti, si spera, qualche apertura, si tratta di assumerle, non nascondersele.
Illudersi di non ripetere ciò che non vorremmo più ripetere è la peggiore delle ripetizioni. Ma c’è ripetizione e ripetizione.

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Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web, l’Ufficio Stampa è affidato a
Antonella Cristiani: cronopio@blu.it

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Edizioni Cronopio
Via Broggia 11
80135 Napoli
Tel: 081 – 55 18 778


Dalla grafica alla videoarte


Giorni fa, presentando due libri di Sergio Zuccaro ne apprezzai anche il progetto grafico dovuto ad Antonio Poce (in foto).
Nato a Ferentino (Frosinone) è laureato in Musicologia all’Università ‘La Sapienza’ di Roma con Pierluigi Petrobelli.
Studi di Composizione con Ennio Morricone, Domenico Guaccero e Salvatore Sciarrino.
E' docente di Composizione presso il Conservatorio di Musica di Frosinone, direttore artistico della manifestazione intermediale Europa Festival, fondatore e direttore del Laboratorio Processi Intermediali Hermes Intermedia.
Da una sua “autopresentazione” sul web: L’Arte è ascolto, memoria che diviene scrittura. La mia è arte intermediale, integrando codici e sistemi in visioni simultanee: discipline diverse riappacificate (come disse Leonardo) in un unico processo creativo.

Parallelamente alle attività musicali si produce nel campo della creazione grafica, della fotografia e della videoarte. Ha esposto in Italia e all’estero ed è autore di numerosi video.
Eccone uno della durata di 4’50”, è intitolato Nuvolari: CLIC!

Nuvolari
Ispirato a due haiku di Giovanni Fontana
Soggetto: Antonio Poce
Musica: Valerio Murat
Montaggio: Antonio Poce
Regia: Antonio Poce – Valerio Murat


Garibaldi corruzione e tradimento (1)

La casa editrice Neri Pozza ha pubblicato un importante saggio: Garibaldi corruzione e tradimento Così crollò il Regno delle Due Sicilie
Ne è autore Alfio Caruso
Nato a Catania nel 1950, una laurea, una moglie, tre figli, una nuora, due nipotini, dopo quattro romanzi con Leonardo e Rizzoli si è dedicato con Longanesi alla storia italiana del Ventesimo secolo. Ne ha narrato l’escalation mafiosa (“Da Cosa nasce Cosa”, “Perché non possiamo non dirci mafiosi”, “Io che da morto vi parlo”, “Milano ordina: uccidete Borsellino”), l’abbondanza di misteri (“Il lungo intrigo”), i più importanti episodi della Seconda guerra mondiale (“Italiani dovete morire”, “Tutti i vivi all’assalto”, “Arrivano i nostri”, “In cerca di una Patria”, “Noi moriamo a Stalingrado”, “L’onore d’Italia”). Con Einaudi ha pubblicato due romanzi, “Willy Melodia” e “L’arte di una vita inutile”, con Salanti “Breve storia d’Italia”
Cosmotaxi già si occupò tempo fa di un altro suo felicissimo libro: I siciliani con ritratti sia al fiele sia al miele e tutti in 3D.

Questo suo nuovo lavoro sull’impresa dei Mille e la fine del Regno delle Due Sicilie, è un prezioso esempio di come si può scrivere un libro di storia lontano dalla retorica autoesaltante dei vincitori e distante dal lagnoso autocompatimento dei vinti.
Il ritmo della scrittura è incalzante sia quando svela cospirazioni sia quando descrive con potenza visiva battaglie che chi legge segue come su di uno schermo.
Libri così? Avercene.

Dalla presentazione editoriale.
«Nel maggio del 1860, il Regno delle Due Sicilie rappresentava ancora la più grande e longeva realtà statuale dell’antico regime, un regno – con la sua passata storia di Regno di Napoli e Regno di Sicilia – plurisecolare che appariva, sulla carta, come la principale potenza della Penisola. Con l’impresa dei Mille, in soli sei mesi si dissolse. Una caduta tanto rapida quanto stupefacente, le cui cause sono tuttora oggetto di indagine e interrogazione da parte degli storici.
Narrando dell’impresa dei Mille come mai è stata raccontata, nel chiaro dei suoi eroismi e nello scuro di pettegolezzi, congiure di palazzo, voltafaccia improvvisi, diserzioni ben remunerate, Caruso mostra, in queste pagine, come corruzione e tradimento, insieme naturalmente alla risolutezza garibaldina, siano tra le principali cause della fine dei Borbone.
Usando testi più celebrati, testimonianze quasi ignote e l’intrigante memoir di padre Giuseppe Buttà, cappellano del ix battaglione cacciatori di Francesco ii, cui rimarrà fedele sino alla fine, il racconto non trascura nessuno dei capitoli e dei personaggi in gioco in quella pagina fondamentale della nostra storia. Così si apprende che nella scaramuccia di Calatafimi le camicie rosse di Garibaldi furono sempre il doppio dell’esangue battaglione borbonico spedito dal pavido generale Landi, più preoccupato di avere libera la via per Palermo che di ributtare a mare il nemico. La leggendaria incapacità del luogotenente Lanza, intessuta di vigliaccheria e rassegnazione al punto tale da consegnare Palermo a un Garibaldi sul punto di abbandonarla, si unisce alle mille indecisioni di Francesco, sopraffatto dall’opportunismo di ministri e cortigiani, spesso a libro paga di Cavour. E nel libro campeggiano gli spericolati intrighi del Gran Conte, che ignorava l’Italia oltre Firenze e tuttavia non si lasciò sfuggire l’occasione di farla».

Segue ora un incontro con Alfio Caruso.


Garibaldi corruzione e tradimento (2)


A Alfio Caruso (in foto) ho rivolto alcune domande.

Perché non si può definire filoborbonica l’”indignatio” che scorre nelle sue pagine?

Si può e si deve criticare l’impresa dei Mille negli eccessi, nelle promesse non mantenute, negli accordi sottobanco con i <>, ma comunque rappresentò il futuro e il sogno del riscatto. Al contrario il regno di Francesco II e di Maria Sofia, al di là delle loro intenzioni, rappresentava una concezione medievale della società con l’asservimento dei quattro quinti della popolazione.

La narrazione dell’impresa dei Mille da entrambe le opposte prospettive è da lei condotta sia leggendo testi classici (Abba, Bandi, Macaulay, Hacton) sia, come scrive, giovandosi di un resoconto pressoché sconosciuto di Giuseppe Buttà… E perché le è stato utile quell’autore di “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”?

Buttà era un cappellano militare messinese più filo borbonico di Francesco e che tale rimase fino al termine dei propri giorni. Il suo memoir racconta in maniera gustosa il dietro le quinte fra gli sconfitti di quei sei mesi in cui si fece l’Italia.

Come spiega che ad oltre un secolo e mezzo dall’impresa dei Mille ci sono ancora tante esitazioni, talvolta veri occultamenti, nel raccontare episodi oscuri e meno oscuri di quel tempo?

L’eterno problema della storia ufficiale, che spesso è soltanto la storia dei vincitori. Purtroppo a giustificazione di quest’andazzo bisogna registrare che la storia raccontata in questi ultimi vent’anni dalla parte dei vinti è risultato un miscuglio poco digeribile di falsità, vittimismo, esaltazioni retoriche.

Cavour – come lei nota – soffriva Garibaldi “peggio di un dito nell’occhio”.
Com’è stato possibile un successo militare e politico con quei due vertici l’uno contro l’altro
?

Nonostante avevano un progetto in comune, l’Italia. Lo inseguirono da prospettive differenti e per uno di quei singolari sortilegi della Storia poterono camminare affiancati dal maggio al novembre 1860. Tuttavia, mentre Garibaldi andava avanti alla giornata, Cavour predisponeva le pedine per il dopo. Purtroppo la sua morte improvvisa ci privò dell’unico regista in grado di guidare la fresca unità.

La camorra a Napoli e la mafia in Sicilia quale ruolo ebbero negli avvenimenti di cui si occupa il suo volume?

Quello solito di appoggiare il vincitore con il tacito consenso del medesimo.

È vero oppure non è vero che le diseguaglianze ancora oggi esistenti fra Nord e Sud d’Italia si devono al modo in cui il nostro paese attuò la sua unificazione?

I politici piemontesi, e a seguire i toscani e gli emiliani, presero atto della realtà e si adeguarono senza neanche provarsi a cambiarla. Il dramma è che nemmeno noialtri meridionali abbiamo mai mosso un dito per modificare il corso delle cose. Aspettiamo ancora che siano i polentoni a tirarci fuori dai guai.

Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924
.
Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945
.
Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992
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E per Alfio Caruso la Storia che cos'è?

È la vita: un film senza il lieto fine.
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Alfio Caruso
Garibaldi corruzione e tradimento
Pagine 320, Euro 18.00
Neri Pozza


Zuccaro 1 e 2

Temo il Cofid diciannov…“Che scoperta fai! Ovvio, si può morire, attacca i polmoni”… e, a sentire la Santanché, ad alcuni anche la prostata… ma no, non mi avete fatto finire la frase... temo il Cofid diciannove perché, ne ho già avvisaglie, chissà a quanti ispirerà romanzi ambientati durante la pandemia, pagine che ci soffocheranno mentre trafitture di penne orchiclaste sevizieranno le nostre parti più intime. Inoltre, il contagio pare facile. Il bollettino letterario dell’OMS (Organizzazione Mondiale Scrittori) sforna ogni giorno previsioni da brivido.
Per fortuna, però, c’è chi ha resistito al virus (pare derivato dall’inchiostro di China) e, pur scrivendo proprio su quell’infettivo periodo, ha ingegnosamente trovato una chiave particolare per farne una prelibata operina, per palati letterari raffinati, in forma di diario, ogni giorno è contenuto, infatti, all’interno di una sola pagina. Una sfilata di microsaggi che in un lampo illuminano ora nuove goffaggini e inediti tic, ora vecchie ipocrisie e annose paure.
L’autore è Sergio Zuccaro (in foto), il titolo di questo suo lavoro: Oggi sottotitolo: quarantena.
Per conoscerne biografia e bibliografia CLIC sul sito che conduce in Rete.
In quei giorni passano rondini che annunciano un’incerta primavera, e più di un corvo, l’autore perde il padre, amici cari, apprende della morte di Arbasino, di Sepúlveda.
In una pagina, commentando la furia del tempo, scrive: Non è aprile il mese più crudele. La gelosia di marzo sta dando i suoi frutti.
La scrittura spesso assume pure toni umoristici: Affrontiamo questa giornata con serenità. In fondo è soltanto un venerdì 13, di un anno bisestile con una pandemia in corso.
Splendide le ultime righe: Durante la quarantena temevo che qualcuno potesse mettere mano a una pistola. Ora temo che nessuno lo faccia.

Questa nota l’ho intitolata “Zuccaro 1 e 2” perché due sono i libri usciti contemporaneamente firmati dal Nostro.
Insieme con le osservazioni sulla pandemia, ecco.123.45 memorie del cosciale.
Titolo che a chi non è aviatore professionista (e Zuccaro, invece, lo è stato) appare misterioso. In quarta di copertina, troviamo svelato l’arcano: 123.45 (centoventitré punto quarantacinque megahertz) è la frequenza radio usata dai piloti di tutto il mondo per le comunicazioni private. Oggi si direbbe una chat. Per invitare alla conversazione basta dire unoduetré.
Il “cosciale”, si apprende, è un guscio che si lega appunto alla coscia e contiene una sorta di diario di bordo.
Come sanno quei generosi che leggono queste pagine, talvolta mi soffermo sulla copertina, la pelle del libro. Quando mi piace molto oppure la gradisco quanto una colica renale.
Questo libro ha una semplicissima ma indovinatissima pelle, il progetto grafico è di Antonio Poce.

“123.45” è un memoir. Genere letterario difficile a comporsi perché a differenza dell’autobiografia espone fatti, non necessariamente disposti in ordine cronologico, legandoli più che alla verità meccanica del loro svolgersi alla verità emotiva vissuta dallo scrivente.
Il memoir di Zuccaro riproduce momenti di una vita da lui trascorsa fra località di tutto il mondo su aerei di tutti i tipi. Trasporto passeggeri o solo merci.
Sono pagine ricche di episodi gustosissimi che dietro la leggerezza della scrittura mostrano in trasparenza un puppentheater di personaggi e loro destini a volte buffi a volte tragici. Né manca un breve ‘trattamento’ (per i non addetti ai lavori: una pre-sceneggiatura) di uno spot pubblicitario immaginato per l’Alitalia che se io fossi un dirigente del marketing di quell’azienda ci farei un pensierino.
Nello scorrere delle pagine si scorge anche la figura dello scrivente, uomo capace di passare di colpo da uno sguardo crudamente icastico a uno teneramente rapito.
Qui un flash in cui dice degli altri e di sé: I colleghi stentavano a riconoscermi quando non ero in divisa. Tutti gli altri stentavano a riconoscermi quando la indossavo.
Un piccolo, incantevole, libro.

Sergio Zuccaro
Oggi
Pagine 60, sip
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123.45
Pagine 60, Euro 10.00
Per acquisto: Pay Pal sergio_zuccaro@fastwebnet.it


Trap Ebbasta


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Tra pochi giorni – precisamente giovedì 1 ottobre – non perdetevi un incontro qui, su Cosmotaxi, con Isabella Benaglia autrice di Trap Ebbasta (Laurana Editore) che spiega come meglio non si potrebbe quel tipo di musica: il suo profilo storico, sociologico, lessicale.

In quell’area, dove prevale una presenza dal discutibile stile macho, la mia preferenza va a una donna: Chadia Rodriguez.
Solo un verso di una sua hit (“Fumo bianco”) mi lascia perplesso quando afferma Fumare scopare mangiare per oggi mi basta, cara Chadia, ‘per oggi’ non mi pare che ti sia sacrificata troppo.


Cicap Fest


A Pizzighettone il 71enne SB, appreso che era una bufala la notizia dell’avvenuto completamento dell’autostrada Salerno - Reggio Calabria, è stato fermato appena in tempo prima di tentare un disperato gesto estremo: iscriversi a Italia Viva.
Ecco quale terribile conseguenza può avere una bufala con le disillusioni che comporta!
Combattere le bufale, specialmente quelle presenti nel campo delle scienze (vale a dire fra le più pericolose perché mettono a rischio la salute) è un dovere civico, politico, sociale.
È un impegno che in Italia è svolto egregiamente dal Comitato Italianoper il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze (Cicap).

Quest’organizzazione ha per Presidente Piero Angela, la segreteria nazionale è guidata da Massimo Polidoro e troviamo fra i soci onorari molti nomi d’illustri docenti nelle università italiane o a capo d’Istituti dedicati a ricerche e studi scientifici: dal genetista Guido Barbujani al biologo Edoardo Boncinelli, dal farmacologo Silvio Garattini al chimico e scrittore Marco Malvaldi, dall’antropologo Giorgio Manzi al filosofo della scienza Telmo Pievani, dal neurologo Giacomo Rizzolatti al Nobel per la Fisica Carlo Rubbia.

Dal 25 settembre al 18 ottobre ci sarà il Cicap Fest, QUI il programma.

CICAP
Via Rezzonico 6, 35131 Padova
info@cicapfest.it
Ufficio stampa: press@cicapfest.it


Ancora sul XX Settembre

Pur presente in Cosmotaxi giorni fa una mia nota sulla Presa di Porta Pia, varie contingenze personali e redazionali mi costrinsero ad una brevità non voluta. Ecco perché torno oggi sull’argomento già trattato.
A 150 anni dalla storica data del 1870, è bene ricordare che un tempo era festa nazionale. Dal 1930, per decisione del governo fascista, più non lo fu. Né è stata ripristinata dai governanti che vennero dopo la Liberazione.
Evidentemente è una ricorrenza ancora sgradita ad alcuni. E non solo Oltretevere.
Inoltre, succede in Italia, come in tante altre occasioni della nostra storia nazionale, che certi avvenimenti di grande portata per la nostra coscienza collettiva (si pensi a quanto accade per il 25 aprile) – siano visti come preziosi o polverosi, secondo gli sguardi, oggetti da museo. Sicché non è raro trovare stranieri che ricordano, a noi distratti e indaffarati, momenti storici e percorsi morali di casa nostra
Per esempio, una pubblicazione sul XX settembre di recente uscita nel catalogo della casa editrice il Mulino la dobbiamo allo storico francese Hubert Heyriès.
Titolo del volume: La breccia di porta Pia 20 settembre 1870
Heyriès insegna Storia contemporanea nell’Università di Montpellier III.
Studioso di Garibaldi e del garibaldinismo, ha pubblicato anche «Les travailleurs militaires italiens en France pendant la Grande Guerre» (2014) e, per il Mulino, «Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta» (2016, premio Acqui Storia).

Tra i meriti del libro c’è, per dirne uno soltanto, pure la smentita di volpine voci interessate – una fake news, come si dice oggi – che per ridimensionare il valore delle truppe italiane a Porta Pia ne riferiscono come una passeggiata o allegra scampagnata.
No, in quella battaglia ci furono 49 morti e molti feriti tra gli uomini guidati dal Generale Raffaele Cadorna.

Dalla presentazione editoriale.

«La presa di Roma da parte delle truppe italiane il 20 settembre 1870 siglò simbolicamente l’unificazione del paese. Come vi si arrivò? Un intreccio di passioni e cautele, di delicate tattiche diplomatiche e di congiunture favorevoli diede il via alla fulminea campagna che dal 12 al 20 settembre portò alla conquista del Lazio e dell’urbe. Il libro percorre a uno a uno questi piani, mettendo al centro anche una dettagliata cronaca del fatto militare, della sua preparazione, del suo procedere città dopo città: fino alla famosa breccia aperta a cannonate nelle mura di fianco a Porta Pia e all’ingresso, alle 10 del mattino del 20, dei primi fanti e bersaglieri nella città eterna, mentre sulle mura e sulla cupola di San Pietro veniva issata bandiera bianca».
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Hubert Heyriès
La breccia di Porta Pia
Pagine 232, Euro 16.00
Il Mulino


Anime Manga

Nuove immagini alla FMAV.
L’acronimo sta per Fondazione Modena Arti Visive.
È, in corso da pochi giorni, nei locali del Museo della Figurina, Anime Manga Storie di maghette, calciatori e robottoni a cura di Francesca Fontana ed Enrico Valbonesi.

A loro ho rivolto alcune domande.

Da quali motivazioni nasce questa mostra?

Francesca Fontana – La Collezione Museo della Figurina è composta da materiali databili a partire dagli anni '60 del XIX secolo che consentono di ripercorrere la storia della figurina. Nata con scopi prettamente pubblicitari per reclamizzare negozi o prodotti quali estratto di carne, sigarette, cioccolata, nella seconda metà del Novecento essa diviene invece un filone editoriale a sé stante.
Dagli anni '80 in poi, i protagonisti assoluti di album e figurine sono proprio gli anime giapponesi: la mostra intende far conoscere questa importante sezione della collezione museale, accompagnando il visitatore all'interno di quella stagione di "anime boom" che tanto profondamente ha segnato l'immaginario collettivo.

Qual è il legame che congiunge i “Manga” e gli “Anime”?

F.F. – Nella maggior parte dei casi le animazioni giapponesi derivano dai manga, la cui produzione è scrupolosamente suddivisa per fasce d’età e genere: vi sono manga per bimbi piccoli o in età scolare, per adolescenti maschi o femmine, per adulti, eccetera. Il manga viene solitamente pubblicato un capitolo per volta su riviste settimanali o mensili che includono diverse serie; se l’indice di gradimento della storia è alto, si procede appunto ad adattarne una serie animata (da cui il termine "anime", contrazione di "animation").
Da tale serie possono poi derivare gadget e merchandising, tra cui gli album di figurine.
Non mancano comunque esempi del percorso inverso, ovvero anime che hanno portato alla realizzazione del manga corrispondente: è il caso, per citarne uno, dei Pokémon.

Che cosa trovano nell’esposizione i visitatori della mostra?

F.F.: L'esposizione illustra la nascita e le modalità di diffusione tipiche di anime e manga, insegna a decodificarne il linguaggio peculiare e i segni grafici, spiega i generi principali in cui vengono suddivisi, da quelli per l'infanzia agli "spokon" a tema sportivo, passando attraverso i cartoni animati del World Masterpiece Theater tratti da opere letterarie occidentali. Alcune sezioni sono dedicate al genere femminile "shōjo", di cui fanno parte le celeberrime maghette e le storie sentimentali, e "shōnen", per il pubblico maschile, con un focus sui mitici robottoni come Mazinga e Danguard.
L'allestimento è giocoso e in stile "cartone animato", affinché la mostra coinvolga i visitatori anche dal punto di vista emozionale, suscitando i ricordi d'infanzia.

Si legge che la grande diffusione dei Manga avviene negli anni Cinquanta.
Ne esistono antenati
?

Enrico Valbonesi – Si possono ritrovare numerosi possibili "antenati manga" guardando alla storia dell'arte giapponese: molti ritengono che il capostipite del genere sia la raccolta di bozze e disegni liberi del celebre incisore e pittore Katsushika Hokusai, pubblicata attorno alla metà del XIX secolo e intitolata proprio "Manga", termine coniato per indicare un disegno ironico, semplice, popolare.
Tuttavia, si possono trovare esempi ancor precedenti nell'arte buddhista giapponese, con disegni dallo stile molto semplificato e comunicativo, già fortemente connessi ai testi e in certi casi anche alla sequenzialità. Basta osservare alcuni Amida Raigō o raffigurazioni di Bodhidharma per riscontrare caratteristiche ben note a un lettore di manga. Per questo l'individuazione di un punto di partenza rimane ad oggi molto incerta.

Su Manga e Anime sono piovute critiche e censure da pedagoghi e opinionisti.
Il vostro giudizio su quelle opinioni
?

E.V. – Sono opinioni che vanno prima di tutto contestualizzate in una società ed epoca ben precise. I "cartoni animati giapponesi" risultarono estremamente destabilizzanti rispetto ad alcune norme e idee fino a quel momento molto radicate. Ad una tradizione di cartoni in cui la finzione era palese anche nella violenza e gli eroi trionfavano sempre alla fine di ogni puntata, si contrapponeva un prodotto in cui i sentimenti venivano urlati, la violenza e i fatti narrati pretendevano di essere verosimili e le vicende si sviluppavano su numerosi episodi, che a volte non garantivano nemmeno un lieto fine.
Gli adulti di oggi, cresciuti insieme a quei cartoni, li considerano parte integrante e importante della propria formazione, e in molti casi incoraggiano i propri figli a guardarli; è quindi evidente che non li ritengono diseducativi.

Quel particolare stile grafico, sia nel fumetto sia nelle animazioni, ha avuto oppure no un’eco in Occidente? Se no, perché? Se sì, potete fare degli esempi?

E.V. – L'eco c'è stata e continua ad essere forte. Basti guardare alle tante mascotte con fattezze che ricordano quelle dei personaggi di manga o anime, o ai protagonisti dei fumetti con "i capelli a punta", o, ancora, a come i disegni di fumetti e animazioni si siano in molti casi semplificati, optando per grafiche definite e colori accesi. Va però specificato che anche l'arte visiva occidentale ha esercitato forti influenze sullo stile giapponese, nel corso degli anni.

…………………….

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web >>>
Ufficio Stampa: Irene Guzman = i.guzman@fmav.org >>> Tel (+39) 349 12 50 956
…………………….

Anime Manga
a cura di
Francesca Fontana – Enrico Valbonesi
Fondazione Modena Arti Visive
Palazzo Santa Margherita
Corso Canalgrande 103, Modena
Fino al 10 gennaio 2021


Pratiche sinestetiche


La Fondazione Berardelli nasce nel novembre del 2007 per volontà di Paolo Berardelli con la finalità di far conoscere il movimento artistico della Poesia Visiva, attraverso l'organizzazione di esposizioni, incontri, seminari e la pubblicazione di monografie dedicate alle maggiori firme degli autori verbovisivi.
Sviluppando negli anni questo piano espressivo, ai nostri giorni ne troviamo un maiuscolo approdo rappresentato dalla mostra Pratiche sinestetiche 1 La poesia visiva come arte plurisensoriale che oltre al valore autonomo dell’esposizione profila anche il cammino fatto nei volumi monografici pubblicati finora dalla Fondazione.
Il progetto concepito con Lamberto Pignotti, un protagonista internazionale dell’arte verbovisiva, darà vita ad una serie di esposizioni che, dopo quella in corso, vedrà esemplificazioni e riflessioni del rapporto fra i sensi: vista e udito, vista e olfatto, vista e gusto.

In apertura di un volume che accompagna “Pratiche sinestetiche”, troviamo un lucente saggio di Margot Modonesi che riflettendo sull’idea di “arte totale”, da Wagner passando per Kandinskij, conduce i lettori attraverso le avanguardie storiche per poi ragionare sulle tendenze estetiche del secondo dopoguerra e sull’intercodice. Soffermandosi in particolare sulla sinestesia - termine che ha origine nelle neuroscienze e indica la fusione in un'unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti – scrive: Se le pubblicità della rivista di moda, utilizzando un codice verbovisuale, sollecitano desideri e implicitamente dei sensi, allora la poesia visiva farà lo stesso, ma slegata dal fine commerciale, si diverte a sprigionare le più scioccanti ed equivocabili – proibite? – associazioni. La polisensorialità dell’opera di poesia visiva (“opera” in senso ampio) intende specchiare la pienezza della vita quotidiana, fatta di esperienze cognitive sensoriali e di sentimenti e di ricordi.

Lamberto Pignotti, nelle stesse pagine, a sua volta, nota: È sullo sconfinamento fra il piano del momento ludico e quello del momento mitico, che ha agito una gran parte delle esperienze artistiche del primo Novecento, ma è col secondo Novecento e in particolare negli assi Sessanta, che sia a livello di massa, dalla Dolce Vita alla Nouvelle Vague, sia a livello elitario, con l’esplosione delle “nuove avanguardie”, che in tutti i settori delle arti, dal new Dada alla Pop, dall’arte povera alla poesia visiva, viene posto con decisione il tema dello sconfinamento dei singoli specifici (…) da allora, e non solo emblematicamente, poesia e arte giocano e vanno in tutti i sensi.

Pratiche sinestetiche
A cura di
Lamberto Pignotti
Margot Modonesi
Fondazione Berardelli
Via Milano 107, Brescia
Info: 030 - 31 38 88
Fino al 31 ottobre 2020


Una bella data

Cosmotaxi non effettua corse il sabato e la domenica, ma esistono giorni del calendario della Storia che non possono essere trascurate anche se ricorrono in quei due giorni della settimana in cui non pubblichiamo.
Lo facciamo oggi con un giorno di ritardo, uno solo. Ma la storia politica della nostra Repubblica è oggi tanto, ma tanto in ritardo con quella data: i20 settembre.
Era l'alba del 20 settembre del 1870, quando l'artiglieria dell'esercito italiano entrava in azione per aprire un varco nella cinta muraria vaticana.
Dopo 5 ore il muro cedeva nel tratto tra Porta Pia e Porta Salaria.
Alle 9.45 i bersaglieri entravano attraverso quella breccia in Roma.
Era la fine della teocrazia vaticana. E Roma diventava capitale d’Italia.
Fu così sconfitto l’esercito papalino di Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti. Ha scritto il ‘Sillabo’ documento finora mai smentito dal Vaticano che in 80 proposizioni condannava tutta la filosofia moderna, ogni forma di progresso e perfino il cattolicesimo liberale; fu ferocemente antisemita tanto da confinare nuovamente gli ebrei nel ghetto.
Pio IX è stato puntualmente beatificato da Wojtyla il 3 settembre 2000.
A proposito del Sillabo, per intenderne appieno la portata storica, consiglio la lettura de “Il Sillabo e dopo” commentato da Ernesto Rossi, Kaos Edizioni.
Quest’anno la data del 20 settembre è stata ricordata a Roma con un itinerario storico condotto da Maria Mantello - Presidente dell’Associazione Nazionale Libero Pensiero - in Via XX settembre fino al luogo della famosa Breccia.

Ecco che cosa dice della festosa data Maria Mantello: In quel famoso 20 settembre Roma divenne finalmente capitale d’Italia e finiva il potere del papa re. Si apriva un orizzonte di fattiva emancipazione dalla sudditanza della fede. Oggi, di fronte a rigurgiti che vorrebbero la legge dello Stato laico e democratico asservita a diversi catechismi religiosi, Porta Pia è un simbolo di progresso e di civiltà. E’ un monito contro i fanatismi della fede di casa nostra e d’importazione, perché ci aiuta a ricordare che prima di omologanti appartenenze di gruppo, c’è l’individuo che ha il diritto dovere di autodeterminarsi e di progettarsi nel rispetto responsabile della propria ed altrui libertà.

Associazione Libero Pensiero
Associliberopensiero.giordanobruno@fastwebnet.it
tel: 329 – 74 81 111


Attraversare l'immagine


Diceva la grande fotografa statunitense Dorothea Lange (1895 – 1965): “La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere il mondo senza di essa”.
Lange è una delle tante autrici di fotografia che hanno dato molto all’espressività di questo medium. Dai tempi più lontani ad oggi: da Julia Margaret Cameron a Tina Modotti, da Diane Arbus a Cindy Sherman, da Francesca Woodman a Letizia Battaglia da Ketty La Rocca a Moira Ricci e a tante bravissime altre.
Scrive la storica della fotografia Federica Muzzarelli in ‘Le donne e la fotografia’: «Quello che hanno in comune le storie raccontate dalle donne è l’esserci profondamente, che si siano trovate dentro l’immagine o dietro l’obiettivo. Quasi mai fredde testimoni, sempre coinvolte partecipanti con una propensione speciale, innata, a non riuscire ad essere turisti distratti, distaccati voyeur. La fotografia stimola la partecipazione e il “sentire insieme” e questa dimensione si rivela la più adatta alla psicologia delle donne»

Valori che non sono sfuggiti a La Biennale Donna che, nata nel 1984, è giunta quest’anno alla 18° edizione. Dal 1990 è riconosciuta dal Ministero alla Cultura e dal Ministero alle Pari Opportunità. Si avvale degli spazi espositivi e della collaborazione della Direzione delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.
Quest’anno è di scena Attraversare l’immagine Donne e fotografia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta a cura di Angela Madesani.
Presenterà le opere di 13 fotografe italiane e straniere: Paola Agosti, Diane Arbus, Letizia Battaglia, Giovanna Borgese, Lisetta Carmi, Carla Cerati, Françoise Demulder, Mari Mahr, Lori Sammartino, Chiara Samugheo, Leena Saraste, Francesca Woodman, Petra Wunderlich.

Estratto dal comunicato stampa
«Il progetto si inserisce nella riflessione che dal 1984 l’UDI – Unione Donne in Italia, dedica alla creatività femminile in tutte le sue forme e linguaggi.
“Attraversare l’immagine” indagherà il mondo della fotografia al femminile mettendone in luce i filoni di ricerca più originali.
Numerose sono state, soprattutto negli ultimi anni, le rassegne dedicate alla fotografia delle donne. Nella maggior parte dei casi si è trattato di esposizioni che hanno presentato le opere di artiste e fotografe senza porre differenze fra i diversi ambiti di ricerca. “Attraversare l’immagine” invece si concentra sulle fotografe attive in un periodo di impegno politico e sociale portante nella storia del cosiddetto secolo breve, caratterizzato da grandi mutamenti di cui le donne sono state protagoniste.
La mostra si apre con ricerche a sfondo antropologico della fine degli anni Cinquanta per arrivare agli anni Sessanta, che hanno segnato l’avvio di significative lotte in nome di un cambiamento radicale della cultura e della società, per il raggiungimento di libertà individuali e di conquiste democratiche. Raggiungimenti che gli anni Settanta avrebbero estremizzato, animando, sullo sfondo di drammatici conflitti, il rapporto tra politica e cultura. Gli anni Ottanta hanno poi costituito in qualche modo il momento del riflusso: le grandi battaglie condotte per i diritti civili, per l’emancipazione delle classi sociali, delle donne, degli emarginati, sono defluite verso modi diversi di avvertire l’esistenza, soppiantando le pratiche collettive, delle quali l’arte e la fotografia si erano rese interpreti, a favore di un sentire più individuale.
Le fotografe hanno saputo registrare tali cambiamenti, concentrando il proprio sguardo su temi scottanti connessi al sociale, al patrimonio antropologico, alla sfera psicologica».

In occasione dell’esposizione sarà pubblicato un catalogo bilingue italiano e inglese con testi di Angela Madesani e di Francesca Pasini.

Per i redattori della carta stampata, radio, tv, web:
Ufficio Stampa: Sara Zolla > 346 - 84 57 982; press@sarazolla.com

Attraversare l’immagine
A cura di Angela Madesani
Palazzina Marfisa d'Este
Corso Giovecca 170, Ferrara
Informazioni: tel. 0532 244949
diamanti@comune.fe.it
UDI – Unione Donne in Italia
Tel. 0532 – 20 62 33
udi@udiferrara.it
Fino al 22 novembre 2020


Epigenetic Poetry


Sì, è vero, la parola epigenetica non l’usiamo tutti i giorni e neppure una volta ogni 7 giorni. Per rinfrescare la memoria, innanzitutto a me stesso, sul suo significato: CLIC.

La mostra Epigenetic Poetry nasce dalla collaborazione tra Fondazione Bonotto, CIPM (Centre International de Poésie Marseille) e Alphabetville, con il supporto iniziale di Julien Blaine, fa parte del programma Parallèles du Sud di Manifesta 13 Marseille, e presenta una serie di nuove opere, di grande formato, sviluppate da Giovanni Fontana specificamente per questo evento.
Un progetto, a cura di Patrizio Peterlini, che organizza lo spazio in una grande installazione sonora e visiva che con risorse tecnologiche amplia il concetto di intermedialità che la sostiene.
Grande importanza sarà data all’interazione del pubblico con le opere esposte, attraverso l’utilizzo di postazioni video e audio che offrono ai visitatori la possibilità di effettuare la scelta dei contenuti da vedere o ascoltare.

Giovanni Fontana è tra i protagonisti della poesia multimediale, le sue opere, che assemblano apparati elettronici per la proiezione di video e la diffusione di audio, rendono concreta la pluridimensionalità del lavoro che, oltre al loro valore sul piano visivo, hanno un rilievo anche sul piano testuale e si pongono come vere e proprie partiture.

Fontana: Il poema si organizza nello spazio sonoro. Ciò che è in nuce nella partitura si realizza in vibrazioni materiche che coinvolgono tutti i nostri sensi. La percezione non è soltanto uditiva, è anche ottica e aptica. Ma il testo poetico, come un organismo vivente, conserva la propria identità nella sfera delle trasformazioni. E si rigenera dall’interno con un processo autopoietico, sollecitato dalla voce e sostanzialmente ridefinito dalla rete delle relazioni con l’ambiente spazio-temporale. Il livello di organizzazione degli elementi interagenti è determinante ai fini della qualità dell’opera, intesa come vero e proprio sistema da leggere in chiave intermediale, nel senso che ciascuno degli elementi interagenti non ha senso se considerato in sé. Tutto è funzione del tutto. Nella dinamica delle trasformazioni (dalla staticità della pagina alla dimensione spazio-temporale del poema intermediale) il processo autopoietico garantisce l’identità nella diversità.

QUI il suo sito in Rete.

Ancora una cosa.
dia.foria ha appena pubblicato Opera grazie alla collaborazione degli eredi di Adriano Spatola [1941-1988] e alla curatela proprio di Giovanni Fontana.
Spatola, figura mitica di intellettuale multidisciplinare, nonché animatore delle migliori esperienze di sperimentazione letteraria negli anni ’70 e ’80, ha sempre intrapreso una via personale e mai di compromesso, rimanendo in osservazione e ascolto di nuove proposte e conoscenze. Nonostante rappresenti una grandezza consolidata, Spatola non è ancora conosciuto (e in certi casi ri-conosciuto) come si conviene.
Questa riedizione di tutta l’opera poetica a cura di Fontana vuole inaugurare dibattiti e studi, al fine di riformulare con più precisione la storia della nostra letteratura del secondo Novecento.

Per informazioni e prenotazioni: info@diaforia.org

Giovanni Fontana
Epigenetic Poetry
A cura di Patrizio Peterlini
Sede Mostra: CIPM
2 Rue de la Charité
Marsiglia
Fino al 20 dicembre 2020
Martedì - Sabato 11:30 -18:00


Il cielo è di tutti (1)

La casa editrice Dedalo ha varato una nuova collana chiamata Le grandi voci: testi brevi e vivaci, che riproducono i tempi e lo stile di una lectio magistralis, in cui prestigiosi scienziati ed esponenti della cultura italiana tracciano la loro esperienza di studiosi, trasmettono la loro passione e presentano le loro ricerche.
I primi due titoli usciti sono Europa gigante incatenato di Luciano Canfora e il libro che presento adesso intitolato Il cielo è di tutti.
Ne è autrice Patrizia Caraveo.
È stata Direttrice dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Milano.
Ha collaborato a diverse missioni spaziali internazionali e ha ricevuto numerosi riconoscimenti.
QUI più ampie notizie sulla sua figura scientifica.

Dalla presentazione editoriale.
«Il nostro cielo è inquinato: non solo dalle emissioni di anidride carbonica ma anche da rifiuti ben più grossi. Satelliti e detriti spaziali affollano sempre più il nostro spazio. I rischi sono molti, per la scienza e per il nostro futuro. E l’esplorazione spaziale è destinata ad aggravare ancora lo scenario
L’Unesco ha definito la volta celeste un patrimonio dell’umanità. Oltre a godere della bellezza del cielo stellato, parte integrante della nostra vita, tutti dovremmo però contribuire alla sua conservazione per le generazioni future. Purtroppo, invece, l’oscurità della notte è messa in serio pericolo dalla mancanza di attenzione degli esseri umani. La volta stellata diventa ogni anno più pallida a causa delle luci parassite con le quali cerchiamo di illuminare la notte creando una nuova subdola forma di inquinamento, quello luminoso.
Il problema è globale: un terzo della popolazione del pianeta vive in regioni così illuminate da non riuscire a vedere la Via Lattea. In effetti, l’Italia gode del non invidiabile primato di essere uno dei Paesi industrializzati con il più alto inquinamento luminoso.
Ma l’illuminazione indebita del cielo non è l’unico problema che insidia l’oscurità della notte. Nuove tecnologie portano nuove sfide e il cielo buio viene oggi minacciato anche dall’alto dalle nuove costellazioni di satelliti che hanno lo scopo di fornire servizi di connessione internet a livello planetario. Basti pensare ai 12 000 satelliti che Elon Musk, attraverso SpaceX, sta lanciando a gruppi di 60 ogni mese, ognuno dei quali ha un pannello solare che, con l’angolo giusto, riflette la luce del Sole e può essere più brillante delle stelle visibili a occhio nudo.
La comunità astronomica è molto preoccupata da questo nuovo tipo di inquinamento celeste e si sta organizzando per mitigare il problema e difendere il cielo. Tutti noi comunque possiamo contribuire, la nota astrofisica Patrizia Caraveo ci spiega come in questo libro agile e attualissimo».

Famose sono le parole del grande filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 – 1804): “Due cose mi stupiscono di più, fissare il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.
Vivesse ai nostri giorni, forse faticherebbe alquanto a vedere quel cielo stellato e quanto alla legge morale, si sa che varia col tempo e i tempi.
La prossima volta più prudenza signor Immanuel.

Segue ora un incontro con Patrizia Caraveo.


Il cielo è di tutti (2)

A Patrizia Caraveo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quali principali danni riceviamo dall’inquinamento luminoso?

Oltre a rappresentare uno spreco (quindi un danno economico), l’inquinamento luminoso è un danno culturale perché ci impedisce di godere della grande bellezza celeste.
Ricordiamo che il cielo è parte integrante della nostra cultura e perdere familiarità con il cielo stellato significa perdere parte della nostra cultura. La troppa illuminazione è anche dannosa per la fauna notturna e può compromettere l’orientamento degli uccelli migratori che sono disturbati dalle troppe luci. Non dobbiamo mai dimenticare che l’illuminazione notturna è stata introdotta molto di recente e che tutte le specie animali e vegetali che popolano la Terra (noi compresi) hanno bisogno del buio della notte.

Nel suo libro troviamo allarmi anche sui guasti prodotti dalle onde radio. In che cosa consistono i problemi che provocano?

Noi viviamo immersi nelle onde radio. Non parliamo solo di radio e televisione, ma pensiamo al segnale del cellulare, al wi-fi che ci permette di accedere alla rete, al GPS che ci guida nei nostri spostamenti, alle comunicazioni con i satelliti. Ogni applicazione utilizza una certa frequenza (o un intervallo di frequenze) e deve fare attenzione a non sporcare le frequenze vicine utilizzate da altri per altri scopi perché le frequenze radio sono richiestissime e vengono assegnate da un organismo internazionale.
La radioastronomia è l’unico utilizzatore delle frequenze che ascolta i segnali prodotti dagli oggetti celesti ma non trasmette niente. Dal momento che le emissioni celesti sono infinitamente più deboli di quelle di un ripetitore terrestre o di un satellite, le frequenze assegnate alla radioastronomia sono protette da più di mezzo secolo e nessun utilizzatore terrestre può utilizzarle. Tuttavia, la protezione internazionale non è sufficiente per impedire sconfinamenti dei segnali di provenienza umana che dovrebbero occupare frequenze vicine a quelle radioastronomiche. I radioastronomi devono monitorare continuamente le emissioni intorno ai loro strumenti che sono costruiti in zone remote nelle quali viene imposto il silenzio radio (con proibizione di usare wi-fi o cellulari, per esempio) ma possono essere disturbate (parecchio) dal passaggio di satelliti che trasmettono nelle bande vicine senza fare troppa attenzione alla pulizia del segnale.

Che cosa sta facendo la comunità scientifica per trovare soluzioni?

L’inquinamento luminoso, così come quello radio, è un sottoprodotto della nostra civiltà tecnologica. Dobbiamo, prima di tutto, renderci conto dell’entità del problema per cercare di correre ai ripari. La maggior parte delle regioni italiane ha approvato regole ragionevolmente stringenti per limitare l’inquinamento luminoso dovuto all’illuminazione degli spazi esterni prescrivendo l’utilizzo di lampade che illuminino solo il suolo e non disperdano luce verso l’orizzonte o verso l’alto. Come sempre, il problema è fare rispettare le ordinanze regionali (e spesso sono i comuni che le violano utilizzando lampade forse eleganti ma purtroppo sbagliate). In ogni caso, popolazione fa rima con illuminazione e gli astronomi ottici e radio si sono adeguati e hanno scelto di costruire i loro osservatori su alte montagne oppure in vallate isolate e possibilmente deserte.
Per affrontare il nuovo problema dell’inquinamento da satelliti troppo riflettenti, invece, le associazioni degli astronomi (come l’Unione Astronomica Internazionale) auspicano l’approvazione di regole condivise a livello mondiale. È una iniziativa che viene portata avanti dall’ufficio delle Nazioni Unite per l’utilizzo pacifico dello spazio. Aspettando queste regole globali, gli astronomi ottici e quelli radio devono cercare di risolvere i problemi chiedendo la collaborazione delle compagnie proprietarie dei satelliti in questione.

S’infittiscono articoli sui media circa visioni d’oggetti attribuiti da molti a presenze extraterrestri.
Ritiene possibile che quanto apprendiamo nel suo libro possa trarre in inganno tanti che, invece di alieni, si trovano a vedere effetti prodotti proprio dal nostro pianeta
?

Dopo ogni lancio dei satelliti Starlink (che partono in gruppi di 60 e vengono rilasciati in sequenza) c’è un picco di segnalazioni di avvistamenti di UFO. Gli avvistatori descrivono un trenino luminoso che altro non è che la fila degli Starlink che, dopo essere stati rilasciati, hanno aperto i pannelli solari che riflettono la luce del Sole. Il fenomeno è particolarmente evidente subito dopo il tramonto e prima dell’alba quando al suolo è buio ma i satelliti in orbita vengono ancora illuminati dal sole. Io stessa sono stata contattata da una signora che mi diceva di avere visto una sequenza di luci attraversare il cielo. Quando le ho detto che si trattava di satelliti, la preoccupazione è svanita.
Morale: se vedete un trenino luminoso che attraversa il cielo, andate a controllare quando è avvenuto l’ultimo lancio di un carico di Starlink perché l’effetto trenino avviene nei giorni successivi al lancio, poi i satelliti di disperdono. Elon Musk vuole iniziare a fornire il servizio internet globale a fine anno e procede al ritmo di due lanci al mese.

…………………………

Patrizia Caraveo
Il cielo è di tutti
Illustrazioni di Debora Gregorio
Pagine 96, Euro 11.50
Dedalo


Diari di Cineclub

Chi legge queste pagine forse ricorda che tra le riviste le quali si occupano di cinema molto stimo Diari di Cineclub periodico indipendente di cultura e informazione cinematografica.
La pubblicazione, distribuita gratuitamente online con file in formato PDF, è diretta da. Angelo Tantaro che guida una la redazione con sede a Roma e si avvale di un comitato di consulenza e rappresentanza composto da Cecilia Mangini, Giulia Zoppi, Luciana Castellina, Enzo Natta, Citto Maselli, Marco Asunis.
Il canale Youtube del webmag è a cura di Nicola De Carlo.

Adesso è in Rete il numero 86 che presenta un Indice ricco di riflessioni che esplorano il cinema attraverso plurali visioni che vanno da studi storici alla critica di film d’oggi, da ragionamenti sui festival a mostre d’arti visive rapportate allo schermo, da attenzioni al rapporto tra letteratura e film a come alcuni temi (politica, religione, finanza, sport, malavita) sono stati trattati da vari autori che si sono misurati con quegli argomenti.

Basta mandare una mail a diaridicineclub@gmail.com per richiedere l’abbonamento gratuito on line.


Edizioni EL

Cosmotaxi oggi ha invitato a bordo Orietta Fatucci che guida la casa editrice Edizioni EL specializzata in libri per “bambini, ragazzi e giovani adulti”.

A lei (in foto) ho rivolto alcune domande.

Un autoscatto: chi è Orietta secondo Orietta?

Laureata in lettere, approdata al mondo editoriale per caso, non per “famiglia”, sono un editore per ragazzi appassionato da oltre quarant’anni. Per tutti questi anni ho fatto soltanto l’editore. Un po’ dura, forse. Un caro amico collega un giorno mi ha detto che gli ricordavo la bora della mia città, Trieste, che stimola ma anche sferza. Esigente e intransigente con me stessa prima che con gli altri. Non disponibile ai compromessi e poco diplomatica. Ma anche trasparente, sincera, instancabile, piena di entusiasmo, generosa.

Quando nel 1976 le fu affidata la direzione dei libri per ragazzi quale fu la cosa che decise era da farsi per prima e quale per prima da evitare?

Lettori non si nasce, ma si diventa. Con un percorso personale, ma soprattutto con un progetto che abbia al suo centro il concetto di bambino/persona con i suoi diritti, le sue esigenze, le sue emozioni, il suo pensiero. Questa l’idea su cui è nata la casa editrice e che la ha fermamente accompagnata fino ad oggi. Un genio innovatore della letteratura per ragazzi degli anni ‘70, Francois Ruj Vidal, sosteneva: non c’è una letteratura per i bambini, c’è la letteratura; non ci sono i colori per i bambini, ci sono i colori; non c’è una grafica per i bambini, c’è la grafica che è il linguaggio internazionale delle immagini. Aveva espresso con parole perfette il mio pensiero. Sono partita da lì. Con l’ambizioso progetto di promuovere una cultura del libro e dell’immagine ma stando contemporaneamente molto attenta a far coincidere la qualità artistica delle immagini con la capacità di comprensione del bambino, per evitare il pericolo, sempre in agguato, di una eccessiva estetizzazione lontana dalla sensibilità e dalla possibilità di comprensione dei più giovani.

A oltre quarant’anni da allora, sono quelle stesse decisioni a ispirare la sua guida? O sono state sostituite da altre? Oppure se ne sono aggiunte altre ancora?

Nel 1981 ho pubblicata la prima collana di tascabili per bambini con l’obiettivo, grazie al bassissimo costo, di diffondere sempre più la cultura del libro. Nel 1988 ho fatto uscire la collana “Ex Libris”, la prima in Italia destinata espressamente agli adolescenti. C’erano infatti in Italia gli adolescenti ma non una letteratura a loro dedicata. Che trattasse argomenti specificatamente di loro interesse e con un linguaggio, uno stile e un ritmo a loro vicini. Scritta sostanzialmente nella lingua della vita in cui potessero ritrovare se stessi e il loro mondo. Dagli anni 2000 un grande cambiamento è stato quello di adeguare nei testi da pubblicare linguaggio e stili che tenessero conto del cambiamento dei gusti dei più giovani abituati ormai ad una comunicazione sia linguistica che visiva, quelle del mondo digitale, della pubblicità, del cinema, sempre più sintetiche e veloci.

Ricordo ai più distratti che EL, con la sua direzione, è stata la prima editrice italiana a pubblicare un librogame seguito con successo da altri nella collana Librogame EL.
Oggi nell’epoca delle “psicotecnologie” (copyright Derrick de Kerckhove), oltre a quello citato, quali altri registri stilistici sono i più adatti per avvicinare i ragazzi al libro
?

Sono del 1985 la scoperta, la pubblicazione e il trionfo del “Librogame”, collana iniziata con la serie “Lupo Solitario”, seguita da molte altre. Nata con l’obiettivo di avvicinare i giovani alla lettura con un “inganno”. Gli indici di lettura dei più giovani in Italia in quegli anni erano infatti disastrosi. Il “Librogame” era, a tutti gli effetti, un romanzo di avventura di circa 200/300 pagine che i ragazzi leggevano e rileggevano convinti di star giocando. Una rivoluzione nella concezione stessa del libro e della lettura in quanto per la prima volta veniva spezzata la linearità del racconto. Fu un successo editoriale senza precedenti che fece la fortuna della casa editrice e che, come molte volte è stato ricordato, generò quella esplosione della lettura che era stato il nostro obiettivo. Da quelle letture inconsapevoli infatti i ragazzi scoprirono il piacere della lettura e passarono ad altre tradizionali.

Molte disposizioni e leggi governative in Italia riportano titoli in inglese e nei nostri dizionari si contano 3500 anglicismi. Questo porta conseguenze anche nell’editoria libraria.
È stata rivolta una petizione al Presidente Mattarella affinché almeno nel linguaggio istituzionale ci siano solo espressioni in italiano.
Il suo pensiero su quest’argomento
?

Questa domanda mi fa sorridere. Ricordo periodiche battaglie negli ultimi decenni totalmente perse benché mosse da ragionevoli intenti. A cominciare da quella molto insistente degli anni ‘70 sullo strapotere che stava esercitando la televisione sui ragazzi e che avrebbe sottratto tempo alla lettura. Ma la televisione prese sempre più piede e la lettura anche. Poi ci furono altri mostri da combattere fino a quello gigantesco del mondo digitale. I ragazzi passano troppo tempo sui vari dispositivi! Vero. Ma sui vari dispositivi non giocano soltanto e non guardano soltanto sciocchezze. Leggono e apprendono tante cose. Il punto non è quello di opporsi al nuovo che avanza ma è quello di studiarlo, esaminarlo, se possibile farcelo amico e confrontarsi. Diversamente si perde. E direi giustamente. Non dobbiamo demonizzare il nuovo, dobbiamo stare al passo e fare sempre meglio. Come editore è quello che cerco di fare ogni giorno. Detto questo, oltre a curare in modo maniacale la qualità dei testi che pubblico, il venerdì, nelle consuete 150 mail quotidiane che ricevo e che immancabilmente chiudono con un “buon week end“, oppongo fermamente il mio “buon fine settimana”.

Un tema che suscita da tempo un vivace dibattito che riguarda l’editoria per ragazzi è rappresentato dai grandi classici della letteratura adattati per lettori più giovani.
Ci sono difensori e avversari di quella scelta. Lei che ne pensa
?

Consapevole, come d’obbligo, della nuova realtà all’interno della quale si muovono oggi i ragazzi, la mia casa editrice ha individuato nuove strategie comunicative, senza per ciò rinunciare all’aspetto educativo, culturale e sociale del libro. Ecco perché la EL si articola oggi in collane che permettono di accostarsi alla lettura con una modalità ludica che tiene conto della psicologia evolutiva e dei gusti sempre in trasformazione dei giovani lettori. Ed ecco, fra queste, la nostra collana di maggior successo degli ultimi anni. I “Classicini”. Collana di classici pensata per i lettori più giovani che a loro si rivolge con una leggerezza e una freschezza capaci di conquistarli. Storie grandi, grandissime, racchiuse per la prima volta in volumetti leggeri, molto illustrati e di prezzo contenuto. Né riassunti, né riduzioni ma grandi storie classiche raccontate da grandi autori contemporanei; storie accolte con entusiasmo da chi non è ancora pronto per una lettura impegnativa ma forse dopo la lettura del Classicino, lo sarà.

Lei pubblica volumi che trattano la storia anche recente, libri sulla persecuzione subita dagli ebrei dai nazifascisti, come, ad esempio, Cosa hanno fatto mai di male gli ebrei? Dialogo su nonno e nipote sull'antisemitismo
Quale eco hanno riscosso quelle pagine presso i lettori
?

Da molti anni pubblichiamo, per lo più nelle collane “Carta Bianca” e “Semplicemente Eroi”, romanzi che poggiano su grandi fatti della storia recente. Raccontano per lo più storie edificanti e allo stesso tempo avventurose di grandi protagonisti della nostra storia recente. Le vicende di Peppino Impastato, Oscar Schindler, Franca Viola, Roberto Mancini, Franco Basaglia, la tragedia di Marcinelle, vita e morte di Harvey Milk, la vicenda del Vajont. Non soltanto i titoli delle collane sono stati insigniti dei più prestigiosi premi di letteratura per ragazzi, ma l’apprezzamento da parte degli insegnanti e dei lettori è sempre crescente. Più recente l’uscita della collana “Presenti Passati”. Non ci sono mai state collane di saggistica per ragazzi. Soltanto Giulio Einaudi aveva fatto un tentativo di mettere a punto una biblioteca di saggi per ragazzi traendo linfa dalla collana saggi di color arancione. L’esperimento ebbe vita breve. Ma i tempi cambiano e cambiano i giovani lettori. Il successo di questo nostro tentativo decisamente ardito è andato al di là di qualsiasi aspettativa. I primi titoli trattano il Fascismo, l’Antisemitismo, il Bullismo, la Shoah, la Mafia, la Mascolinità oggi.

A partire dal prossimo ottobre che cosa offrirà ai lettori EL?

Questa è una domanda davvero difficile. Pubblichiamo 200 novità all’anno di cui molte nel trimestre finale. Quindi non è semplice citarne qualcuna. Provo. Uno spazio particolare avranno edizioni celebrative di opere di Gianni Rodari del quale quest’anno cade il centenario. L’album illustrato “Bella ciao”. “Dietro il muro” di Rosario Esposito La Rossa che racconta dieci storie di muri che dividono e quella di un ponte che unisce. “Fuori c’è la guerra”, storia di Anne Frank e del suo mondo arricchiti dalle foto degli album della famiglia Frank. “Gruffalò e i suoi amici”, raccolta delle più belle storie del celebre mostro amato dai bambini di 82 paesi del mondo.

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Edizioni EL
Via J. Ressel, 5 - 34018 San Dorligo della Valle (TS)
e-mail: edizioniel@edizioniel.it
Tel: 040 - 38 80 311 - Fax: 040 - 38 80 330


Mileva


Chi era Mileva Maric?
Se non conoscete chi sia, in parte, solo in parte, consolatevi perché non siete soli.
Eppure, quel nome ha grande importanza accanto a un altro nome: Albert Einstein.
Fu di lui, infatti, la prima moglie e insieme ebbero tre figli. Ma le cose non si fermano a un foglio municipale che da noi si chiamerebbe “Stato di Famiglia”, perché Mileva (Titel 19 dicembre 1875 – Zurigo 4 agosto 1948) è stata una fisica serba e, inoltre, fu la prima donna ad essere ammessa, ed aver studiato Fisica, al Politecnico di Zurigo.
Accanto al genio Einstein, abbandonò gli studi, ebbe una vita consegnata a oscurità e tradimenti. Il matrimonio naufragò quando nacque Liersel, da Albert avuta dalla cugina Elsa Lowenthal, nella casa dei genitori di lei. Divorzieranno nel 1914.
Proprio l’anno scorso, Mileva ha ricevuto ancora una sgarberìa. La fisica e scrittrice Gabriella Greison fa domanda ufficiale, sostenuta da prestigiose firme, affinché sia attribuita una laurea postuma alla Maric. Dopo quattro mesi di discussioni, a Zurigo negano quel titolo con la motivazione: “Quello che è capitato a Mileva Maric è successo a tantissime donne in quegli anni, erano le regole”. Aggiungono, curiosamente, una nota poco burocratica. Scrivono, infatti, “Albert Einstein, però, è stato il peggior marito che una donna, per di più con ambizioni da scienziata, potesse avere”.

Da febbraio scorso, prodotto dal CSS Teatro di Innovazione del Friuli Venezia Giulia è in tournée “Mileva” che ripercorre la vita della Maric, il suo epistolario col marito.
Ideato e scritto da Ksenija Martinovic (in foto) – collaborazione al testo di Federico Bellini – è da lei interpretato in scena con l’attore e danzatore Mattia Cason.
Lo spettacolo si avvale della consulenza scientifica di Marisa Michelini, professoressa ordinaria di Didattica della Fisica all’Università degli Studi di Udine.
Ora, tappa a Ostia, dove conclude la prima edizione di QuinteScienza al Teatro del Lido: 4 spettacoli teatrali, 2 lezioni multidisciplinari interattive per un programma di fine estate con la finalità di divulgare la scienza, la sua storia, i suoi protagonisti.

Secondo alcuni studiosi, Mileva avrebbe partecipato alla stesura dei lavori sulla teoria della relatività. Si sarebbe verificato un Effetto Matilda?

Impossibile stabilire il contributo scientifico di Mileva – dicono a una voce i due autori – Almeno con i documenti che abbiamo adesso. Lo spettacolo non vuole essere una soluzione a questo problema: è una delle ipotesi su di un tema ambiguo, sfuggente, che nulla toglie comunque alla genialità di quell’uomo.

Ksenija Martinovic aggiunge: A differenza delle biografie ufficiali di Einstein, dove appare come una pallida ombra a fianco del marito, da varie fonti apprendiamo però che Mileva Maric non è stata estranea alla straordinaria progressione creativa del compagno. La biografia di Mileva ci rimanda immediatamente a tutte quelle donne messe in secondo piano, per un’evidente discriminazione di genere; tra le più note possiamo citare Rosalind Franklin, Lise Meitner e Jocelyn Bell. Di recente questo fenomeno è stato definito Effetto Matilda, e ben si può rilevare proprio nel campo delle scienze.

Ufficio Stampa: HF 4 Marta Volterra, marta.volterra@hf4.it 340 – 96 900 12

Mileva
Teatro del Lido
Via delle Sirene 22, Ostia
Info:
06 – 56 46 962
ass.cult.affabulazione@gmail.com
promozione@teatrodellido.it
19 settembre, ore 21.00
Ingresso gratuito
……………………………………….
In tournée
prossima piazza: Trieste, Teatro Miela, 21 ottobre


Connessioni remote

Trascorse le vacanze estive, la sezione Cosmotaxi di questo sito da oggi riprende le pubblicazioni segnalando una rivista diretta da Anna Maria Monteverdi.
Connessioni remote il nome di questa nuova pubblicazione che delle relazioni fra teatro e tecnologie studia storia, rapporti, attualità, mete future.
Si articola in diverse sezioni:
*Tecnoteatro: le teoriche e le pratiche che integrano arti performative e tecnologia
*Artivism: Media Artivism, Networking as Art
*Archivio Giacomo Verde: saggi sull’arte ultrascenica e tecnopolitica di Giacomo Verde; immagini, video e testi provenienti dal costituendo archivio
*Omaggi d’artista: opere audio e video, interventi grafici, fotografici e sonori, progetti di digital art e net art.

A dirigerla, come dicevo, è Anna Maria Monteverdi un nome protagonista nel campo degli studi scenici intermediali.
Esperta di Digital Performance, è ricercatore di Storia del teatro all’Università statale di Milano e docente aggregato di Storia della scenografia. Ha insegnato Drammaturgia dei media, Digital video, Teatro multimediale in Accademie di Belle Arti e Dams. Ha pubblicato: Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi Editore 2018), Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Edizioni Giacché 2014) e, con Andrea Balzola, Le arti multimediali digitali (Garzanti 2004).
La più recente pubblicazione: Leggere uno spettacolo multimediale presso l’editore Audino.
Conduce in Rete un sito web ricchissimo di studi, cronache e documentazioni audiovisive.

A lei (in foto) ho chiesto di tracciare un profilo di “Connessioni remote”.

È una rivista scientifica nata all’interno del Dipartimento di Beni culturali e ambientali dell’Università di Milano.
Ha come focus Artivism, Teatro e tecnologia ed è stata da me ideata pensando al lavoro artistico e tecno-politico/poetico di Giacomo Verde recentemente scomparso, a cui la rivista è dedicata. Mi affiancano come collaboratori, editori e redattori i giovani studiosi Dalila Flavia D’Amico e Vincenzo Sansone. Il Comitato editoriale oltre a noi, vede la presenza di Laura Gemini dell’Università di Urbino e di Silvana Vassallo, curatrice d’arte di Pisa: entrambe conoscevano molto bene anche il lavoro di Giacomo.
Siamo onorati di avere nel comitato scientifico personalità di rilievo come il Rettore della Statale di Milano, prof. Elio Franzini, il direttore del Dipartimento Beni culturali prof. Alberto Bentoglio, la professoressa Sandra Lischi considerata la massima esperta italiana di videoarte, e molti altri.
Il primo numero è già on line da oltre due mesi ed è interamente dedicato a Giacomo Verde tecnoartista: abbiamo deciso di ospitare suoi testi, una galleria fotografia, un’antologia video e alcuni omaggi di artisti e studiosi. La sezione Archivio Giacomo Verde rimarrà sempre aperta a contributi. Il regolamento prevede per i prossimi numeri una “call” tematica: la selezione dei testi avverrà con una revisione “double peer” per garantire massima scientificità alla rivista
.

Per uno sguardo alla rivista: CLIC!

Connessioni remote
Diretta da Anna Maria Monteverdi
Cliccare QUI per contatti.


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