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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Caporali tanti, uomini pochissimi


Il 15 aprile 1967, moriva, a 69 anni, il principe Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, in arte Totò; il cinema, il teatro, l’umanità perdevano un loro grande rappresentante nelle sale di spettacolo e nel mondo.
Nell'ultima sua interpretazione cinematografica, nel ruolo di Jago-marionetta, nell’episodio pasoliniano “Ma che cosa sono le nuvole” (1967), nel carretto della spazzatura che trasporta i burattini morenti, questa, la sua ultima battuta recitata da un set fissando il cielo: Straziante, meravigliosa bellezza del creato. “Muore – come nota Gabriele Gimmelli – “da burattino e non da bambino perbene”.
A Giacomo Gambetti in un’intervista del 1966 dice:” Sono un comico che improvvisa, se dico una battuta la dico così perché mi viene di farla. Ho fatto ridere per anni dicendo «a prescindere». Ora, che cosa c'è in “a prescindere”? Ho fatto ridere dicendo «siamo uomini o caporali?», e che cosa significa? Niente, e ho fatto ridere”.

La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro che fra i tantissimi scritti su Totò è di quelli che resterà non solo per l’acutezza dei giudizi critici che contiene, ma anche per l’originale modalità seguita nello svolgere il testo.
Titolo: Caporali tanti, uomini pochissimi La storia secondo Totò.
La storia, appunto. Quella con la S maiuscola che Totò da attore vive attraverso i film ambientati nelle varie epoche dall’Egitto dei Faraoni all’Italia dei Forchettoni, passando attraverso rivoluzione francese, età napoleonica, fascismo, Resistenza.
L’autore è Emilio Gentile.
Storico di fama internazionale, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il ‘Premio Hans Sigrist’ per gli studi sulle religioni della politica. Collabora al “Sole 24 Ore”.
“25 luglio 1943” ha vinto nel 2018 il ‘Premio Acqui Storia’, il più importante premio storico-letterario italiano.
Tanti i suoi titoli pubblicati da Laterza, per conoscerli: CLIC.

Su diverso mezzo, la Tv, Achille Bonito Oliva, nel 1996, in un mediometraggio farà di Totò un personaggio che attraversa momenti importanti della storia dell’arte, qui Emilio Gentile lo proietta attraverso secoli lontani e anni a Totò contemporanei usando parte dei 97 film cui prese parte.
Grande libro questo “Caporali tanti, uomini pochissimi”, il titolo deriva da parole che Totò aveva detto a Oriana Fallaci nel ’63: “Ricordate quella mia battuta: siamo uomini o caporali? Ebbene, alla mia età mi accorgo che al mondo di caporali ce ne sono tanti, di uomini pochissimi”.
Queste pagine scandite da puntuali esemplificazioni tratte dai film che lo vedono agire in tante epoche lanciando battute ora da copione e ora spesso improvvisate, fanno sorgere ancora più forte una vecchia domanda: chi era Totò da un punto di vista politico?
Bisogna partire dalla constatazione, suggerisce Gentile, che Totò non aveva fiducia negli uomini preferendo ad essi gli animali (in particolare i cani, mise su un canile con 200 randagi salvati dalla camera a gas). Non credeva nel patriottismo, ebbe qualche problema a teatro con la censura fascista, troppo caporalismo fra quei neri simboli iettattorii per potergli far piacere il Regime, la Liberazione lo deluderà, beccò censure anche dai governi democristiani “… della politica aveva una visione negativa” pur se “nei film le battute antipolitiche erano genericamente allusive alla corruzione, come per esempio: «A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare», ‘Fifa e Arena’, 1948”.
Religione? Lui si diceva religiosissimo. Franca Faldini, sua compagna, ridimensiona parecchio quel troppo proclamato fervore.
Prima che di lui sì accorgessero Goffredo Fofi, Mario Soldati, Bernardino Zapponi, Giovanni Arpino, e una massa di giovani che negli anni ‘70 affollarono i cinema d’essai per vedere i suoi film, Totò fu massacrato da tanti intellettuali di Sinistra che lo disprezzavano. Si distinsero allora nelle stroncature Guido Aristarco sulla seguitissima rivista “Cinema Nuovo”, non piaceva a Moravia né a Francesco Savio giornali quali l’Avanti! e L’Unità lo recensivano con marcato imbarazzo, Diffusa era la voce (quando gli andava bene) che sdottoreggiava “Sì, vabbè, ma ha bisogno di un regista”.

Emilio Gentile ha colto come meglio non si poteva la cifra umana e artistica di Totò scrivendo un libro che consiglio non solo agli amanti di quel grande comico, ma anche a chi ama conoscere i meccanismi che fanno – ci sono, infatti, altri casi – di un uomo tragico un attore comico.
QUI l’Indice utile per chi sta leggendo queste mie righe per capire il percorso seguito nel saggio da Emilio Gentile..
Sono d’accordo con l’autore, quindi, su tutto? No. Di Totò mi piace tutto tutto tutto, ma la poesia “A livella” (che Gentile mostra d’apprezzare) quella proprio no. Non credo che la morte ci renda uguali. Chi muore da fetente tale resta e non va confuso con altri. Se dicessero a tanti morti che loro sono uguali… che dire?... uguali a Hitler oppure a Stalin, sono convinto che i cimiteri diventerebbero giardini in rivolta.

Dalla presentazione editoriale.

Il principe Antonio De Curtis non era solito leggere i racconti degli storici. Lo appassionava solo la storia della sua famiglia, che risaliva all’imperatore Costantino. Non lo divertiva la Storia, cioè l’esistenza umana nel fluire del tempo, perché aveva una visione tragica della vita. Ma permetteva a Totò di spernacchiare tutte le persone che nella Storia, e quindi nella vita, si comportano da ‘caporali’: i prepotenti che tormentano gli ‘uomini’ qualunque, costretti a vivere un’esistenza grama. Nei suoi novantasette film, ambientati nelle più varie epoche storiche, dall’Egitto dei faraoni all’Italia del miracolo economico e all’Europa del Muro di Berlino, Antonio incarna nei personaggi di Totò sia i ‘caporali’ sia gli ‘uomini’, ma sempre con lo stesso proposito: spernacchiare i caporali, spiegando che la pernacchia “ha tanti scopi: deride, protesta, esplode con un grido di dolore”. E difende così la dignità dell’uomo libero».

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Emilio Gentile
Caporali tanti,
uomini pochissimi
Pagine 178, Euro 14.00
E-Pub con Drm: Euro 9.99
Laterza


Mind the Gap (1)

È nelle librerie Mind the Gap La vita tra bioarte, arte ecologica e post internet.
Ne è autrice Elena Giulia Rossi, nata a Roma dove lavora.
Dopo aver studiato e lavorato a Chicago per tre anni, è tornata in Italia per approfondire la sua ricerca nell'arte contemporanea, dove i suoi interessi l'hanno condotta in ambiti trasversali e transdisciplinari, al crocevia tra biologia, tecnologia e scienza. In questi percorsi si sono intrecciate le sue esperienze lavorative, tra pratica e teoria, con musei, gallerie, riviste e quotidiani, con la piattaforma online Arshake e con l'attività didattica presso l'Accademia di Belle Arti di Roma dove insegna, come docente esterno, net art e teoria delle arti multimediali.

Dall’Introduzione.
«La tecnologia applicata alla biologia, il suo estendersi all'ecologia, il confluire del tutto nel paesaggio algoritmico si ritrovano in sperimentazioni artistiche riconosciute in generi come: nanoarte, bioarte, arte meteorologica ed ecologica, arte del network (net art e post-Internet). “Mind the Gap” rilegge i cambiamenti epocali che hanno seguito l'era informatica nello sguardo caleidoscopico dell'arte. Coltivati per lo più in un contesto di nicchie specialistiche, si rivelano punti di vista preziosi per ripercorrere la storia a ritroso, per poterla rallentare e soffermarsi su alcuni aspetti e momenti, prima inosservati, in realtà centrali. Il testo corre a ritmo serrato, oscillando tra ciò che l'arte vede e i metodi impiegati; sguardi che hanno saputo cogliere l'invisibile molto prima che si restituisse prova della sua esistenza. Adottarli può significare cambiare il modo di vedere e di raccontare. Questa è una di tante storie possibili».

Ritengo, e non sono il solo, quest’autrice una delle migliori menti applicate sul panorama dell’intercodice non solo nei suoi risultati espressivi ma – maiuscola originalità dei suoi studi – sui meccanismi che permettono nuove creazioni in aree di nuove sensibilità.
Il suo lavoro viene da lontano, ricordo una splendida mostra (“Corpi nel Cyberspazio”) da lei curata al Maxxi circa dieci anni fa che illustrava e interpretava la Net Art cogliendone i primi passi verso l’ingresso nel “sistema dell’arte” e quindi del mercato artistico.
Ecco in questo video un suo intervento del 2010 su questi temi.

Oggi, “Mind the Gap” è il frutto di un pensiero critico di questa storica della creatività contemporanea che partito alla fine degli anni ’90, passato poi attraverso il saggio Archeonet si è successivamente sviluppato nell’analisi dell’ibridazione arte-scienza-tecnologia nei modi che va evolvendosi nello scenario socio-antropologico dei nostri giorni.

Ancora una volta con questo libro noto l’assenza di un Indice dei nomi. Ormai da tempo, come numerose volte ho scritto su questo sito, gli editori… non tutti d’accordo, ho ricevuto qualche cordiale risentimento da chi ci pensa e m’invita a non mettere tutti nel mucchio… trascurano colpevolmente quello strumento, fino a pochi anni fa usato sempre nella saggistica; utilissimo al lettore, organo tipografico che prolunga la vita dei volumi.

Segue ora un incontro con Elena Giulia Rossi.


Mind the Gap (2)

A Elena Giulia Rossi (in foto) ho rivolto alcune domande

Qual è la principale finalità che ti sei proposta con questo libro?

Ancora prima che per una finalità, il libro è nato da un’esigenza. In questi anni la ricerca mi ha portato in mondi diversi, per lo più legati alla sperimentazione tra arte, scienza e tecnologia: net art, nanoarte, bioarte, arte e clima, ambiti spesso trattati in maniera a sé stante. L’esigenza è stata quella di riprendere queste ricerche e attraversarle in una lettura trasversale per capire cosa tutto questo avrebbe rivelato del mondo attuale. Una selezione di lavori che si sono relazionati con la vita senza intermediazioni di sorta, è stata adottata come lente attraverso cui guardare il mondo cambiare. Questo ha significato lasciare per un momento da parte il discorso che ruota attorno al rapporto – sempre molto complesso e irrisolto - tra questo tipo di sperimentazioni e arte tradizionale, per quanto continui ad interessarmi molto…

Da parecchio avevi quest’idea?

Sì, sono diversi anni che avevo quest’idea in mente, e ci stavo lavorando da tempo. Quando siamo rimasti confinati in casa, ho avuto l’impressione molto forte che tutto questo mondo invisibile che emergeva dal nulla e che iniziavamo a toccare con mano attraverso i sintomi del virus sull’uomo (e sul sistema), questi artisti di cui parlo l’avevano già anticipato da tempo. Se l’arte aveva guardato alla vita, ora la vita aveva messo al suo posto l’ultimo tassello del puzzle. La contemporaneità degli eventi è stata sorprendente. Alzavo gli occhi dal libro e vedevo scorrere il suo prosieguo in tempo reale, incluso il legame del tutto con la comunicazione, in questo caso uno spazio interstiziale tra noi e il virus che dimostra di essere centrale per il modo spaventosamente efficace con cui lavora sulle corde percettive ed emotive costruendo una schizofrenia di realtà, tutte oggettive, anche quando una in contraddizione con l’altra. Gli artisti hanno spesso provocato errori nel sistema per poterne rivelare il vero funzionamento. Ora sembra che il sistema si sia inceppato su se stesso. Lo capiamo, ma ormai troppi spazi ci separano dall’oggetto.

Nel titolo hai usato un allarme ferroviario. Quella metafora a quale “vuoto” si riferisce?

“Mind the Gap”, come giustamente dici tu, fa proprio riferimento all’allarme ferroviario, messaggio e annuncio della metropolitana inglese impresso nella coscienza collettiva di tutto il mondo che chiama all’attenzione verso un pericolo, mette in guardia. Nel caso della metropolitana, certo, è il vuoto tra la banchina e il vagone. Nel nostro caso il gap è un anello di congiunzione tra cose, qualcosa che non riusciamo più a vedere, perso nell’accelerazione del tutto, mimetizzato in un mondo modellato in immagini nitide e iperrealistiche. Gli artisti che hanno contribuito a ricostruire questo viaggio nel paesaggio contemporaneo, hanno individuato questi spazi e momenti interstiziali; li hanno ritrovati mettendosi in gioco, trovando punti di osservazione alternativi, possibili da conquistare solo entrando attivamente negli ingranaggi della vita.

Mi pare che nel libro se ne trovano esempi illuminanti

Sì, alcuni dei lavori descritti nel libro, per esempio, si insinuano tra le maglie della comunicazione e ne decostruiscono così i meccanismi. Il titolo si avvale proprio di un messaggio che nella comunicazione, nella sua ripetizione, richiama all’attenzione in maniera molto efficace. Io stessa non sono riuscita liberarmene da quando, aspettando la metropolitana a Londra nel caldo luglio di un anno fa, lo avevo ipotizzato come titolo. Per diversi motivi ci ho provato in tutti i modi e per molto tempo. Non mi è mai riuscito.

Questo “vuoto” che hai indicato è un pericolo o un’opportunità?

Riconquistare l’attenzione, accorgerci che qualcosa non torna nell’immagine così nitida del nostro mondo perfetto, almeno quello che abbiamo creduto essere fino a qualche tempo fa, è certamente un’opportunità. Sintonizzarsi con lo sguardo di artisti che, non solo si sono posti al limite tra cose, ma sono diventati loro stessi figure al limite, tra scienza, antropologia, informatica, comunicazione, anche questa è una grande opportunità. Mettere a fuoco questo gap, quindi, è un’opportunità…

Forse il cammino può essere lungo affinché si realizzi compiutamente

Accade che i più visionari, tra artisti, filosofi, scienziati, stanno cercando di aprire nuove strade di conoscenza perché la nostra vista si possa adattare al buio dei nostri tempi. Non è un compito facile e credo che ancora ci sarà molta strada da fare. Qualcuno ha schiacciato l’acceleratore del progresso tecnologico e di quello della comunicazione ad una velocità tale da rendere tutto molto opaco, confuso. L’opacità è mimetizzata proprio dietro alla perfezione delle immagini, come quelle di Google Earth che sembrano proiettarci in ogni luogo in tempo reale, o dietro al ritmo martellante della comunicazione che entra irreversibilmente nel nostro immaginario ma anche nel sistema nervoso, proprio come ‘Mind the Gap’.

Scrivi: «… quando si parla di sperimentazioni, al confine tra arte, scienza, network e informatica, c’è una domanda che sorge spontanea: “Questa è arte?”».
Immaginiamo quella domanda a te rivolta. Come rispondi
?

Non sento di avere una risposta certa. In linea generale, credo che dobbiamo adattarci ad una trasformazione dell’arte che sta allontanando in maniera sempre più radicale questa parola da modelli classici di rappresentazione. Si sta, piuttosto, ri-avvicinando a ciò a cui si riferiva in tempi antichi, quando nella parola “ars”, traduzione latina del greco “tékhne”, si riconoscevano abilità professionali legate a discipline, come medicina, geografia e navigazione. Questo ri-avvicinamento alla vita, così come tutti questi grandi cambiamenti epocali di cui si parla anche nel libro, non sono cosa nuova né improvvisa. L’arte di cui tratta “Mind the Gap” li percorre nel tempo restituendo una lettura che chiarisce alcuni dei passaggi che hanno condotto al tempo attuale. Se parliamo di arte, certamente è per molti aspetti estrema, al limite come lo sono opere e artisti, ma lo è rispetto a parametri tradizionali ai quali siamo ancora piuttosto vincolati.

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Elena Giulia Rossi
Mind the Gap
Pagine 192, Euro 21.00
Con 72 immagini in b/n
postmedia • books


Il caso Bontempelli (1)


Lo scrittore Massimo Bontempelli (Como, 12 maggio 1878 – Roma, 21 luglio 1960) è stato narratore, saggista, drammaturgo, giornalista; ebbe tra i suoi amici ed estimatori Alberto Savinio, Giorgio De Chirico, Orio Vergani, Alberto Savinio, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello che lo spinse a scrivere lavori teatrali impegnandosi a rappresentarli come, infatti, avvenne.
A Pirandello lo legò anche un altro importante momento, ne accennerò fra poco.
Bontempelli è noto anche per essere un protagonista del “realismo magico”, dizione usata nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh (1890 – 1956) per indicare narrazioni con una visione straniante del reale. Ma fu proprio Bontempelli (considerato da Borges un maestro) a organizzare un’elaborazione di quella corrente letteraria che coinvolse scrittori e pittori in tutta Europa.
Fu legato sentimentalmente a Paola Masino, scrittrice verso la quale la critica letteraria e l’editoria, secondo molti, ancora oggi sono in largo debito.
Accennavo prima a un importante episodio che vide Bontempelli insieme con Pirandello. Avvenne nel 1924: entrambi aderirono quell’anno al Partito Nazionale Fascista.
Fra i due, sono in tanti a dire che il più convinto fosse proprio Bontempelli, già interventista nel 1917, ufficiale di artiglieria, due medaglie al valore e tre croci di guerra.
In seguito, diverrà prima segretario nazionale del Sindacato Fascista Autori e Scrittori, nel 1930 Accademico d'Italia.
Poi le cose cambiarono, cominciò a dissentire col regime fino a quando all'istituzione delle leggi razziali rifiutò di succedere ad Attilio Momigliano, sollevato dalla cattedra di Letteratura italiana nell'Università di Firenze.
Breve: fu espulso dal Pnf.
Non basta, anni dopo, da Salò fu emesso un ordine di cattura per eseguire la condanna a morte, fortemente voluta da Pavolini, decretata da un tribunale repubblichino.
Insomma, non passò all’antifascismo, come tanti, dopo il ’45, ma nella seconda metà degli anni Trenta.
Nel 1948 venne eletto senatore nelle liste del Fronte Democratico Popolare. Nel 1950 però il suo seggio fu invalidato poiché, nel ’35, aveva curato un'antologia per le scuole medie, e la legge elettorale dell'epoca prevedeva il divieto a candidarsi per «gli autori di libri e testi scolastici di propaganda fascista» per cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione.
Finì male per lui. Fu cacciato dal Senato.

Su quel momento della storia della nostra Repubblica la casa editrice Sellerio ha pubblicato Il caso Bontempelli Una storia italiana.
Ne è autore Paolo Aquilanti (Roma, 1960).
Per molti anni consigliere parlamentare al Senato della Repubblica, dal 2017 è Consigliere di Stato.
Edito nella collana ‘Il divano’ che ospita piccoli preziosi libri, questo felicissimo testo descrive quel 2 febbraio 1950, giorno in cui si decise se espellere dal Senato oppure no Bontempelli, strutturando la narrazione in “Mattino”, “Pomeriggio”, “Sera”, “Il giorno dopo”.
L’autore fa rivivere quelle appassionanti ore attraverso una scrittura tesa e asciutta, senza nessuna concessione a cosmesi letteraria, che va a sostenere il ritmo dell’alternarsi di speranze e angosce.
Fu giusta quella condanna? Penso di sì. In omaggio a una giusta precedente legge.
Qualche altra riflessione, però, s’impone. Ne faccio una che mi urge sulla tastiera.
Per quell’antologia scolastica venne espulso l’allora divenuto (non dal giorno prima) antifascista Bontempelli, ma Palmiro Togliatti, dopo aver varato il 22 giugno del ‘46 l’amnistia per i repubblichini e le loro spie, avrà quale suo collaboratore al Ministero il presidente del Tribunale della Razza, Gaetano Azzariti, il quale appena il 28 marzo 1942 aveva sostenuto, «l’egualitarismo dominante (…) senza differenza di età di sesso di religione o di razza ora è relegato in soffitta» proseguendo «la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente».
Togliatti se lo tiene al suo fianco dal giugno 1945 al luglio 1946 (uno che se di passaggio a Norimberga rischiava di brutto). Poi lo caccia? Macché, a don Gaetano si spiana la carriera, diventerà Presidente della Corte Costituzionale!
È un caso clamoroso, non il solo e per non dire di un’infinità d’altri casi formato mignon, ma non graziosi.
E allora? Giusto cacciare Bontempelli dal Senato?
A voi la sentenza.
Dopo, s’intende, aver letto il libro di Aquilanti che ora incontriamo nella parte che segue.


Il caso Bontempelli (2)


A Paolo Aquilanti (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nella storia parlamentare italiana, dopo il caso Bontempelli, ci furono avvenimenti simili?

Il caso Bontempelli fu unico nel suo genere: la vicenda, infatti, è circoscritta, anche come semplice possibilità, ai primi cinque anni del parlamento repubblicano. In quella sola legislatura era prevista l’ineleggibilità, tra gli altri, degli “autori di libri e testi scolatici di propaganda fascista”. Un caso analogo, ma con andamento inverso e risultato opposto, fu quello di Salvatore Foderaro, noto giurista e deputato della Democrazia Cristiana in quella stessa, prima legislatura repubblicana. L’elezione a senatore di Bontempelli fu contestata perché autore di un’antologia scolastica, pubblicata negli anni Trenta, ritenuta di propaganda fascista: la Giunta delle elezioni del Senato, organo competente per l’istruttoria del caso, non giudicò questo fatto così rilevante da determinare l’ineleggibilità e dunque la decadenza di Bontempelli dal seggio parlamentare, ma il Senato non approvò la proposta di convalida e Bontempelli fu dichiarato decaduto.

Perché fu contestata l’elezione di Foderaro alla Camera dei deputati?

Fu contestata perché autore di una monografia giuridica sulla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, braccio armato del partito e del regime fascista, erede delle famigerate ‘squadre’ attive fino alla loro normalizzazione nella Milizia; inoltre Foderaro era stato direttore della “Rivista di diritto fascista”, e un’altra delle cause d’ineleggibilità temporanea era quella di essere stato direttore di “riviste fasciste”. La Giunta delle elezioni propose di invalidare l’elezione di Foderaro ma la Camera respinse la proposta e Foderaro conservò il seggio.

Che cosa le fanno dire quelle due vicende?

Nella loro simmetria speculare, manifestano il carattere dei tempi: un periodo di ferite ancora aperte, rinnegamenti repentini del passato, tentativi d’inclusione nel ceto dirigente della neonata Repubblica anche verso intellettuali già intrinseci al regime fascista. Di conseguenza, vi furono anche molti rifiuti di tali forme di “assoluzione” sia da quanti erano stati sempre antifascisti, sia anche da alcuni che, pur con un passato fascista, non esitarono ad accogliere chi veniva dalla loro parte, ma con le censure più severe a chi, dalla stessa provenienza fascista, approdava alle parti avverse. Insomma, giudizi non sempre equanimi e condizionati, al contrario, da calcoli di convenienza politica, quando non anche da avversioni personali e ostilità professionali.

Come spiega che nel dibattito parlamentare sul caso Bontempelli lo scrittore ebbe la vicinanza di un nome maiuscolo dell’antifascismo qual è quello di Umberto Terracini?

Umberto Terracini era l’oratore ideale per l’occasione: avvocato dalla retorica efficace e fluida, esperto di procedure parlamentari, circondato da un’aura di credibilità e di autorevolezza dovute al suo passato di perseguitato dal regime fascista (era stato in prigione e al confino) ma anche alla sua indipendenza di giudizio, che gli aveva procurato la temporanea espulsione dal Partito Comunista proprio quando si trovava al confino nell’isola di Ventotene. Infine, era stato Presidente dell’Assemblea Costituente. Si potrebbe anche ipotizzare che la scelta di far intervenire Terracini potesse scongiurare o almeno contenere un dissenso interno già immaginabile, ma che comunque si è poi verosimilmente realizzato, nel voto segreto, con alcuni voti negativi su Bontempelli provenienti dalle file comuniste.

Bontempelli, dopo l’espulsione dal Senato partecipò alla vita politica italiana?

Dopo l’esclusione dal Senato Bontempelli continuò a scrivere per l’Unità, organo di stampa del Partito Comunista, ma non prese parte in modo attivo alla vita politica. Probabilmente ciò fu dovuto anche alle sue condizioni di salute, che presto si fecero critiche fino al successivo isolamento protratto per gli ultimi suoi anni. Tuttavia, vi è una singolare coincidenza: nel 1953 vinse il Premio Strega, con la raccolta di racconti intitolata “L’Amante fedele”, e nello stesso anno vi furono le elezioni politiche ma lo scrittore non fu candidato, anche se la causa d’ineleggibilità era venuta meno: una scelta personale o una decisione politica?
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Paolo Aquilanti
Il caso Bontempelli
Pagine 200, Euro 12.00
E-Book: 8.49
Sellerio


25 novembre


Oggi Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Fu istituita dall’Assemblea Generale dell'Onu ufficializzando questa data scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell'Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi, tenutosi a Bogotà nel 1981.
Perché proprio il 25 novembre?
Perché in quel giorno, nel 1960, furono trucidate le tre sorelle Mirabal, tre coraggiose oppositrici del dittatore della Repubblica Dominicana Rafael Trujillo (1930-1961).
Si recavano a incontrare i loro mariti incarcerati dal Governo quando caddero in un agguato teso loro dalla polizia segreta.
Portate in un campo, furono violentate, bastonate e poi strangolate. I loro corpi messi nell’automobile dove le tre viaggiavano che fu fatta precipitare in un burrone per far credere in un incidente stradale. Il regime di Trujillo cadde poco dopo

Per ricordare il significato di questa data, fra le tante valorose testimonianze, ho scelto un video che vede dialogare la filosofa Nicla Vassallo e l’attrice Carla Signoris: CLIC!

Finale in musica.
Todavía cantamos, todavía pedimos, todavía soñamos, todavía esperamos, a pesar de los golpes que asestó en nuestras vidas el ingenio del odio, desterrando al olvidoa nuestros seres queridos.
Con queste parole si aprivano tutti i concerti della grande cantante argentina Mercedes Sosa alla vigilia della caduta del regime militare nel suo paese e poi seguiva questa canzone RICLIC!


Spinoza


Il 24 novembre del 1632 nasceva ad Amsterdam Baruch Spinoza.
Consultato il Calendario Perpetuo, si apprende che il 24.11.1632 era di mercoledì.
Se pioveva?... Faceva bel tempo?... Ah, ma siete pignoli! Non lo so!!
So, però, che Spinoza è un tipo che mi garba.
Ci berrei volentieri qualche bicchiere al bar con questo scomunicato con parole feroci dagli ebrei e detestato dai cattolici.
Non crede nel creazionismo, né nella Provvidenza, concilia la dualità mente-corpo, non ammette intrusioni religiose o governative nel pensiero dei cittadini, vi basta?

Passa, e in parte lo è, di difficile lettura.
V’invito a un clic su questo video che ha il grande pregio di far capire in parole semplici il complesso e luminoso pensiero di Spinoza.


L'ultimo lenzuolo bianco

“Ci sono persone che scrivono libri perché il loro lavoro è scrivere libri. Per me non è così. Non sono uno scrittore. Io sono un militare e mio padre è un generale afghano. Ho studiato Scienze strategiche in Italia, all’accademia Militare di Modena. Nel mio paese ho fatto la guerra. Ho sparato, ho ucciso. Ho incontrato gli sguardi dei nemici, abbiamo fiutato il terrore l’uno dell’altro…”.

Così comincia un libro scritto da un guerriero islamista che si è battuto contro i talebani.
La casa editrice Neri Pozza ha pubblicato quel volume col titolo L’ultimo lenzuolo bianco.
L’autore è Farhad Bitani (Kabul, 1986).
Ex-capitano dell’esercito afghano, è fondatore di GAF, Global Afghan Forum, e Vicepresidente di “Hands for Adoptions”. Figlio di un generale dell’esercito afghano, ha vissuto la guerra prima sotto il regime dei mujaheddin e poi dei talebani. Ha compiuto i suoi studi militari in Italia, prima a Modena e successivamente alla Scuola di Applicazione di Torino. Dopo essersi definitivamente trasferito in Italia come rifugiato politico, ha deciso di dedicare la sua vita al dialogo interculturale e alla pace.

Non sono uno scrittore, tiene a precisare nelle prime righe della prima pagina, forse proprio per questo riesce a scrivere in modo atrocemente crudo con molta naturalezza senza praticare sulle parole cosmesi alcuna né nobile (come hanno fatto tante grandi penne), né sciatta (come fanno tanti pennivendoli professionisti).
Eccone un esempio nella descrizione di un episodio agghiacciante.
«La città di Kabul venne divisa in circa quaranta zone, in ciascuna delle quali c’era un gruppo che comandava sugli altri. Se io, di etnia pashtun, mi azzardavo a entrare in un’altra zona, era meglio che non incappassi in un posto di blocco, altrimenti sarebbero stati guai seri.
Quando fermavano qualcuno lo interrogavano per capire che dialetto parlasse. Se il malcapitato non fosse stato dei loro, la punizione avrebbe potuta essere brutale, disumana.
Al poveretto veniva tagliata la testa e introdotto dell’olio bollente nel corpo. Ai posti di blocco tenevano appositamente degli stereo portatili, perché dopo aver compiuto quel macabro rituale, mettevano la musica e battevano le mani, mentre il corpo del decapitato si agitava per i riflessi causati dal liquido bollente. Era il ‘ballo del morto’: il “raqs morda»”

.Dalla prefazione di Domenico Quirico
«Raramente ho sentito, in un libro che parla di molte cose, l'odore della guerra: fumo, sudore pane stantio e immondizie. È l'odore delle cose che non sono più e non sono ancora morte. La vita non l'ha ancora afferrata questo giovane afgano: ella ha per lui un'aria di inafferrabilità. Ma in questo libro è già stata ridotta in minimi termini. C'è tutto, anche se in linee sottilissime. Racconta cose terribili e piccoli gesti della vita quotidiana che, in quello spazio, hanno un significato arcano e difficile. Guarda dentro con infinita pazienza. Racconta di qualcuno che è stato ucciso. Le parole non esprimono emozione: è un fatto.
Si nasce, si combatte, gli amici muoiono, i nemici muoiono, si muore noi stessi».

QUI l’autore risponde ad un’intervista sul suo libro.

Oggi Bitani si è convertito al cristianesimo e da come racconta se stesso, si direbbe che la sua vita non possa essere tale se non con un Dio in cui credere.
Crede in Dio e nella Pace. Due cose che, in verità, mi appaiono inconciliabili.

“Finché ci saranno religioni ci saranno guerre di religione, come ci sono sempre state e ci sono. Mentre invece non ci sono guerre di scienza, né ci sono mai state, perché la scienza è una sola: magari non santa, ma certo katholika, nel senso letterale di 'universale'”.
Piergiorgio Odifreddi

Capisco… state combattendo una guerra di religione.
Cioè vi state uccidendo sul serio per decidere chi abbia l'amico immaginario migliore”
.
Battuta dell’attore comico statunitense Richard Jeni.

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Farhad Bitani
L’ultimo lenzuolo bianvo
Prefazione di Domenico Quirico
Pagine 208, Euro17.00
Neri Pozza


non è musica leggera (1)


Nella mia ultratrentennale militanza Enpals (Ente Naz. Previdenza Assistenza Lavoratori Spettacolo, per chi non conoscesse quella sigla assorbita oggi dall’Inps), mi è capitato tante volte di richiedere a musicisti con cui lavoravo o a docenti oppure a giornalisti che incontravo sui set tv e in studi radiofonici quella tale informazione poni caso su di una sinfonia ottocentesca o un compositore del ‘700. Spesso se l’interrogato apparteneva allo scenario cosiddetto leggero rispondeva con strafottenza che non era il suo focus, viceversa se era uno della schiera del “classico” richiesto di un complesso rock, rispondeva disgustato che non era il suo focus.
Entrambi quasi a dire “Ma come ti permetti di rivolgermi tale domanda!”
Credetemi mi veniva voglia di dare loro Focus!
C’è, però, in Italia uno che avrebbe risposto alle mie domande su entrambi i campi, è l’ex chitarrista e cantante degli Stormy Six, musicista e musicologo Franco Fabbri.

La casa editrice Jaca Book ha pubblicato di recente non è musica leggera, l’autore è quel Franco Fabbri di prima, noto per essere stato uno dei primi studiosi della popular music, non solo in Italia. Ma fin dall’inizio della sua attività di ricercatore e di saggista ha continuato a occuparsi anche di altre musiche, e soprattutto della musica colta del Novecento. Fra i vari aspetti della sua personalità di musicista e studioso polimorfo (l’aggettivo è nella motivazione del Premio Tenco, che gli è stato conferito nel 2019) ci sono quelli di conduttore a Radio Tre (…sì, là qualche volta per sbaglio danno il microfono a uno bravo), docente all’Università e al Conservatorio, amministratore di enti lirici e sinfonici, direttore artistico di rassegne musicali, redattore di riviste musicologiche.
Tra i suoi libri: “Elettronica e musica” (1984, con un’introduzione di Luigi Nono), “Il suono in cui viviamo” (prima edizione 1996), “L’ascolto tabù” (prima edizione 2005). Vi basta? Direi: accontentatavi per oggi.
Due indirizzi web per conoscerlo meglio: CLIC e RICLIC.

Per conoscerlo meglio ancora, ecco alcune delle parole ed espressioni (in ordine alfabetico) che, come scrive, «rendono istantaneamente inutili le cure antiipertensive del mio cardiologo: “a 360 gradi, alla grande, anche no, assolutamente no, assolutamente sì, bipartisan, blindato, cantautorato, casta, ci sta, col botto/ha fatto il botto, come dire, criticità, d'antan, declinare, devastante, dialogare, è nel mio/suo/loro DNA, (di) eccellenza, ed è polemica, fare la quadra, fare sistema, fare spogliatoio, gattopardesco, gogna mediatica, impiattare, in grande spolvero, in qualche modo, lockdown, (i) mercati, meritocrazia, mettere dei paletti, mozzafiato, piuttosto che, postare, problematiche, quant'altro, quello che è, quelli che sono, resilienza, sdoganare, senza se e senza ma, silenzio assordante, smart working, spaccare, spiritualità, stellato, straordinario, supportare, tolleranza zero” ».
Se lo incontrate, evitate quelle locuzioni. Vi ho avvertiti.

Dalla presentazione editoriale di “non è musica leggera".
«Quella di definire una musica ‘al contrario’ è una pratica più comune di quanto non sembri. Nell'Ottocento si dovette trovare un nome per la musica che non era d'arte né folk, e nacquero i concetti di popular music, di musica leggera, di musique de variétés. Ancora quarant'anni fa qualcuno la chiamava musica extracolta. E allora perché non definire la musica colta come quella musica «che non è leggera»? Spesso un cambiamento di prospettiva fa vedere le cose sotto un'altra luce. La prima parte di questo libro (con un'unica eccezione) contiene saggi su musiche nate fra l'inizio del Novecento e i primi anni Duemila, da Mahler a Donatoni, Sciarri-no e Francesconi, passando per Ives, Bartók, Weill, Sostakovic, Schönberg, Bernstein, Glass, Zappa (lo Zappa «colto», naturalmente) e altri.
La seconda parte contiene saggi teorici su musica e musicologia, che affrontano la musica eurocolta come una delle culture musicali del pianeta, non la sola. Non è musica leggera, appunto».

Segue ora un incontro con Franco Fabbri.


non è musica leggera (2)


A Franco Fabbri (in foto) ho rivolto alcune domande.

Il libro ha un titolo che fa pensare tu ce l'abbia, con qualcuno o alcuni... con chi ce l’hai?

Ce l’ho, in questo caso, con un certo numero di luoghi comuni diffusi fra coloro che si ritengono intenditori di musica, a vari livelli. Uno dei più dannosi, perché viene citato con grande naturalezza anche da intellettuali attivi nelle più diverse discipline (alcune escluse, come dirò), è che la musica sia "un linguaggio universale". È una sciocchezza, perché se la musica fosse davvero un linguaggio universale tutti la comprenderebbero immediatamente. E invece, come mai chi sostiene quest’idea, se messo a confronto con una cultura musicale diversa da quella europea “colta”, si arrende di fronte all’incomprensibilità di “quell’altro” linguaggio (che so, i rāga indiani, i qasa’id che cantava Oum Kalsoum, il bebop, il rebetico, i canti della tribù dei Venda)? Per chi abbia qualche familiarità con l’antropologia, la semiotica, l’etnomusicologia è ovvio che non sia così, ma queste sono proprio le discipline che alcuni musicologi si rifiutano di considerare, invocando per se stessi una modestia artigianale, che consisterebbe nello studio delle partiture, ricorrendo ai metodi tradizionali, storici, della disciplina, a sua volta egemonizzata dal postulato ontologico che l’opera musicale coincida con la partitura. Ho messo in esergo al libro una frase di Hanns Eisler, presa a prestito dal filosofo del Settecento Georg Christoph Lichtenberg: “Chi sa solo di musica, non sa in realtà nulla neanche di essa”.

Allora l’idea dell’universalità della musica a che cosa è stata legata?

A una concezione etnocentrica, eurocentrica, (e aggiungiamo, con una chiara e soffocante egemonia maschile) che impone l’uso di aggettivi e altre specificazioni per qualunque musica diversa da quella eurocolta, l’unica ritenuta degna di essere chiamata musica tout court. Inizialmente volevo intitolare il libro L’altra musica, usando il termine con cui negli ambienti “colti” si chiamava tutto il resto dell’universo musicale, ma rovesciandolo a denominare proprio la musica del canone. Poi mi sono ricordato che il concetto di “musica leggera” (o di “popular music”) era stato creato nell’Ottocento per definire l’insieme di tutte le musiche che non erano né “classiche” né “folk”, e così mi sono detto che si poteva provare a guardare la musica del canone colto sotto una prospettiva nuova, come musica che "non è leggera".

Come scrivi in prima pagina il volume raccoglie tuoi scritti che vanno da programmi di sala a testi di conferenze dal 1984 al 2015.
Pur provenendo da occasioni diverse fra loro quei materiali risultano legati da una benvenuta compattezza. Che cosa li tiene insieme
?

Pur avendo studiato anche al Conservatorio, e pur avendo conseguito un dottorato in musicologia, non ho mai seguito un corso di storia della musica: ho letto, e intensamente, i saggi di autori di primo piano, da Adorno a Fubini, da Rognoni a Nattiez e Stefani, e – allo stesso tempo e allo stesso livello – di antropologi e altri studiosi, come Merriam e Blacking, e – con grande passione – di Eco (nonostante che le sue teorie sulla musica mi siano parse molto deboli e non all’altezza del suo pensiero semiotico più generale). Insomma, sono sfuggito allo studio della melassa storica sulla quale si formano gli studenti del Conservatorio e dell’Università, in Italia. E poi, naturalmente, i grandi autori dei popular music studies: Tagg, Middleton, Shepherd, Scott. Alcuni, soprattutto Eco e Tagg, sono stati per me anche dei modelli di stile. Conosco un solo modo di scrivere di musica, con varianti molto piccole a dipendere dal tipo di testo.

La categorizzazione delle composizioni musicali quali guasti ha prodotto? È da escludere ogni utilità?

Mi occupo di teorie sui generi musicali da quarant’anni, e sono noto (soprattutto all’estero) per quel lavoro. Le tassonomie musicali servono, soprattutto a parlare e a scrivere di musica, ma molto anche per farla. Non sono fra quelli che pensano che esista solo la musica bella e la musica brutta, e che i generi siano fatti solo per vendere. Ma per questo rimando alle molte cose che ho scritto, che si trovano anche in rete.

Citi la “peste del linguaggio” lamentata da Italo Calvino nell’uso delle parole estendendola anche alla musica. In quali elementi la riconosci?

Mi cito, se posso: "La peste del linguaggio, la perdita di forma, si estende certamente anche alla musica: si esprime nelle formule trite e nelle approssimazioni ideologizzanti delle ex avanguardie come del giovanottismo (ex-) postmoderno; diluisce nell’anonimato le pulsioni del rock, fa sbracare perfino l’efficienza aziendalistica dei jingles o della musica di sottofondo.” Aggiungerei che in quest’epoca di lockdown, smart working e altre ovvietà decorate dal suono di un inglese inesistente, il testo della lezione americana di Calvino che cito nel mio capitolo su Sciarrino risulta profetico come non mai.

Come capita spesso viene attribuito a più d’uno questo detto: “Spero mai mi chiedano quali tre dischi porterei con me su di un’isola deserta perché non saprei scegliere”.
Sempre che su quell’isola ci sia la corrente elettrica e un giradischi, capiterebbe anche a te lo stesso imbarazzo oppure puoi indicare adesso quei tre dischi che porteresti con te?
Non di musica leggera o di musica non pesante, a te la scelta ovviamente

Be’, vado spesso in un’isola quasi deserta, e mi porto un iPod dove ci sono circa ventiduemila pezzi di ogni tipo. Ma se proprio devo limitarmi a portare tre dischi, senza pensarci troppo, direi questi: uno con il Quartetto numero 8 di Šostakovic, Kind of Blue di Miles Davis, Lavirinthos di Sokratis Malamas.

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Franco Fabbri
non è musica leggera
Pagine 328, Euro 20.00
Jaca Book


Nat Tate

La casa editrice Neri Pozza ha pubblicato uno di quei libri che a me più piacciono. Perché? Forse a nessuno può interessare perché mi piacciono, ma lo dico lo stesso. Perché con il loro contenuto futile portano in superfice una serie di questioni che investono non solo la letteratura ma la nostra maniera di praticare l’esistenza.
Breve: sono dei libri che tirano in ballo la filosofia della storia, e se ne fanno beffe.
Del resto, sosteneva Paul Valéry “Quello che è sempre stato creduto da tutti, dovunque, è quasi sicuramente falso”.
Stefano Piantini ricorda che Andy Warhol scrisse “Ignoro dove l’artificiale finisca e cominci il reale”; Picasso: “Tutto ciò che puoi immaginare è reale”; Albert Einstein: “La realtà è una semplice illusione, sebbene molto persistente” e lo ha pure dimostrato.
Di quei libri ce ne sono di vari tipi, quello su cui mi soffermo oggi riguarda proprio, e strettamente, il falso.
Alcuni di questi sono fatti a scopo di lucro, in pratica sono delle truffe (si pensi, ad esempio, per stare su tempi non lontani, ai “Diari di Hitler”). Lì si può ammirare l’arte di calligrafi con conoscenze non solo storiche ma anche di carte e inchiostri dell’epoca in cui si svolgono le finte narrazioni. È tanto, d’accordo, ma sono un po’ noiosetti. Per non dire poi che scoperto l’inganno nessuno più se li fila. Quelli, invece, che sfidano il tempo e sono incantevoli riguardano il falso sul falso: raccontano con apparente, massima attendibilità, fatti mai avvenuti, personaggi mai esistiti senza farne romanzo, ma cronaca rigorosamente arbitraria. Non è un caso che l’apocrifo affascinò e fu praticato da Borges al quale poi capitò il buffo episodio che potete leggere QUI.
Ancora una cosa per cui mi piacciono quei libri: rispondono perfettamente a quanto sosteneva Giorgio Manganelli: “La prima qualità di un artista è quella di essere inutile”.

Di luminosa inutilità è fornito il libro Nat Tate Un artista americano, 1928 – 1960 e il suo autore William Boyd.
Nato ad Accra, in Ghana, il 7 marzo del 1952, vive oggi a Londra.
È considerato uno dei più grandi scrittori inglesi viventi. Il suo primo romanzo, A God Man in Africa (1981), vinse il Whitbread First Novel Award e il Somerset Maugham Award. Tra le sue opere si segnalano: An Ice-Cream War (finalista del Booker Prize 1982), Brazzaville Beach (James Tait Black Memorial Prize 1990), The Blue Afternoon (Sunday Express Book of the Year 1993, Los Angeles Times Book Prize 1996).
Con Neri Pozza ha pubblicato “Ogni cuore umano” (2004), “Inquietudine” (2006), “Le nuove confessioni” (2007).

Nel 1998 la "21 Publishing", casa editrice fondata da David Bowie, pubblicò una raffinata monografia di William Boyd dedicata a un pittore sconosciuto alla comunità artistica internazionale del tempo: Nat Tate. Corredata da foto del pittore e da immagini di suoi disegni, la monografia ricostruiva la breve e tragica esistenza di un artista di cui, in apparenza, non restavano che poche tracce. Utili, comunque, ad apprendere che Tate nacque nel New Jersey nel 1928, rimase orfano da ragazzo e fu adottato da una ricca coppia di Long Island. Grazie a un indiscusso talento per la pittura, frequentò una scuola d’arte e poi il milieu artistico del Greenwich Village, a Manhattan, dove negli anni Cinquanta, in cui emergevano e si affermavano le nuove tendenze dell’arte contemporanea, riscosse un certo successo come giovane esponente dell’Espressionismo astratto.
L’abuso di alcol, tuttavia, e il fatale incontro con due geni della pittura, Pablo Picasso e George Braque, conosciuti entrambi in Francia durante il suo unico viaggio all’estero, lo gettarono in una profonda prostrazione. Tate cominciò a dubitare del suo talento e, durante un weekend in cui cadde preda della più cupa disperazione, diede fuoco alla quasi totalità delle sue opere. Tempo dopo si suicidò (l’8 gennaio, data della nascita di David Bowie; ma tu guarda che combinazione!) gettandosi da un traghetto nelle acque del fiume Hudson. Il suo corpo non fu mai trovato. Naturalmente.

Ho fatto spoiler, come si dice oggi, rivelando trama e finale?
No. Perché, se sfogliate il volume sul banco in libreria, è possibile che lo sguardo si posi su quanto dice lo stesso autore su questo suo lavoro rivelando l’arcano.
E allora? Allora “Nat Tale” è godibilissimo per la tesa scrittura con cui è realizzato, capace di trascinare il lettore nei vortici della vita di Nat addirittura dimenticando che sta leggendo un falso. Prodigi di una virtuosistica capacità di scrivere.
Questo libro un precedente ce l’ha. Nel 1958 Max Aub, scrittore di lingua spagnola, scrisse la biografia immaginaria del pittore Jusep Torres Campalans, da lui incontrato per caso, quando l’artista era vecchio, malato, ignorato dal pubblico e dal mercato.
Anche Aub qualche indizio al lettore che stia leggendo un falso lo dà, scrivendo che il confine tra finzione e realtà è labile, inoltre citando un detto del filosofo Santiago de Alvarado (ovviamente inesistente, ma omonimo di un conquistador spagnolo del ‘500): “Impossibile avere la Verità, senza mentire”.
Come Aub, farà anche Boyd dipingendo di sua mano le opere di Nat Tale riprodotte nel libro mentre le fotografie inserite nel volume – dovrebbero testimoniare l’esistenza di Tale – sono il risultato di suoi acquisti di foto al mercato delle pulci.

Dalla presentazione editoriale
«Questa monografia scritta da William Boyd ebbe subito una vasta risonanza sulle pagine culturali dei giornali e sulle riviste d’arte britanniche. Non mancò naturalmente di destare l’attenzione di critici e artisti sull’altra sponda dell’Oceano. David Bowie organizzò un party per la presentazione del libro a Manhattan, nello studio di Jeff Koons dove accorsero gli esponenti più in vista del mondo dell’arte newyorchese. L’interesse per un pittore dimenticato e riscoperto mezzo secolo dopo crebbe e perdurò a tal punto che il 10 novembre 2011 venne battuto all’asta da Sotheby’s, con grande eco, un disegno dell’artista: il Bridge no. 114.
Nelle pagine della postfazione a questa edizione italiana di “Nat Tate”, Boyd ricorda al lettore che ogni scrittore è una sorta di dottor Frankenstein che sguinzaglia per il mondo i suoi mostri, ai quali può anche capitare di farsi involontariamente beffe di uomini e cose. In realtà, questa raffinata opera mostra uno dei principi irrinunciabili della scrittura letteraria: che il vero esiste solo in quanto può alimentare il falso, la magnifica finzione in cui consiste il potere proprio della letteratura».
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William Boys
Nat Tate
Traduzione di Laura Prandino
Pagine 104, Euro 19.00
Neri Pozza


Hai sbagliato foresta

Che le parole presentino – e, talvolta, nascondano – plurali significati è cosa nota sia nei piani alti frequentati dai linguisti sia nella strada vissuta da noi tutti nella pratica quotidiana. Esiste, però, una diversa carica dirompente fra le parole, alcune esplodono come innocenti mortaretti, altre possono provocare disastri se deflagrano.
Una di queste parole, identità, è stata osservata da un grande filologo e antropologo qual è Maurizio Bettini in un libro – pubblicato dalla casa editrice il Mulino nella collana "Intersezioni" – intitolato Hai sbagliato foresta Il furore dell’identità.
Maurizio Bettini, classicista e scrittore, è professore di Filologia classica dell’Università di Siena. È autore di romanzi e racconti e collabora alle pagine culturali di «Repubblica». Per il Mulino dirige la collana «Antropologia del mondo antico» e ha fra l’altro pubblicato «Elogio del politeismo» (2014), «Radici» (2016), «Il grande racconto dei miti classici» (nuova ed. 2018), «Viaggio nella terra dei sogni» (2017), «Dai Romani a noi» (con F. Prescendi e D. Morresi, 2019), «Ridere degli dèi, ridere con gli dèi. L’umorismo teologico» (con M. Raveri e F. Remotti, 2020).

Il titolo del volume è tratto da una quartina di Giorgio Caproni “Cabaletta dello stregone benevolo”.

Non chieder più.
Nulla per te qui resta,
Non sei della tribù.
Hai sbagliato foresta

Lo stregone (benevolo, ma sempre stregone è) sta in una foresta da ravvisare nella nostra società e più non vede il cercatore, o turista per caso, come un passante oppure un curioso, ma un estraneo che diventerà presto un nemico. Gli viene detto perciò che ha “sbagliato foresta”.
Via, prima che forse sia troppo tardi per lui. Lontano e per questo guastatore dell'identità del territorio che sta attraversando.
Identità diventa una corazza entro la quale in tanti si chiudono rivendicando una serie di convincimenti (ovviamente vengono chiamati “Valori”), usanze (diventano “Tradizioni”) abitudini (trasformati in “Riti”) spruzzato il pepe della Superstizione detta prontamente “Religione” ed ecco servito il piatto piccante del “noi e loro”.
Gli spunti che portano ad una Identità, tutta scritta in maiuscolo, non è faticoso cercarli sono infiniti, c’è l’imbarazzo della scelta, come ricorda Bettini, c’è quella “nazionale, regionale, territoriale, linguistica, gastronomica fino a quella italiana, padana, veneta, friulana, tirolese e così via; salvo che, allargando appena l’orizzonte fuori dai nostri confini, incontriamo subito l’identità austriaca, quella catalana, quella serba (assai malfamata), quella québecquoise, quella wallonia (con ovvia e contrapposta identità fiamminga.”
L’identità vissuta come difesa porta a risultati nefasti: al convincimento che qui c’è la pulizia e lì lo sporco, che qui c’è la salute e là la malattia, qui l’onestà e da quella parte si annidi solo delinquenza.
Lo stesso concetto di delinquenza subisce una modifica: non si chiama delinquenza quella della corruzione politica o, peggio ancora, della disonestà fiscale praticata in modo micidiale per la nostra economia.
“Hai sbagliato foresta” un libro sui guasti dell’Identità. Un libro da leggere.

Dalla presentazione editoriale.
«”Non sei della tribù. Hai sbagliato foresta”: due icastici versi di Giorgio Caproni, l’epigrafe ideale per i nostri anni ossessionati dall’identità. Ormai sembriamo preoccupati solo di stabilire chi appartiene alla tribù e chi no, chi deve stare nella nostra foresta e chi andarsene, angosciati dalla nostra identità da affermare, da difendere in quanto paurosamente minacciata dal proprio declino. Le nuove parole d’ordine sono delimitare, escludere e soprattutto ‘rimettere a posto’ i diversi, per vincere la ripugnanza suscitata dal ‘disordine’ che essi sembrano introdurre. Questo libro passa in rassegna i misfatti del furore identitario nella nostra conversazione culturale, dall’atteggiamento verso i migranti e i rom all’ossessione per la purezza, persino alla moda dei tatuaggi. Una guida alla nostra foresta, un filo per uscirne».

Mi avvio alla conclusione lasciandovi a un video condotto da Ugo Berti, dove Bettini illustra la sostanza che nutre le pagine del suo libro.
Ancora una cosa. Oggi non soffro – cosa che, invece, avviene con cadenza pressoché quotidiana – di chiudere un libro notando l’assenza di un Indice dei nomi. Qui c’è!
Perché da tempo, come numerose volte ho scritto su questo sito, gli editori trascurano colpevolmente quello strumento, fino a pochi anni fa usato sempre, che rafforza e prolunga la vita dei volumi.
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Maurizio Bettini
Hai sbagliato foresta
Pagine 176, Euro14.00
e-book Euro 9,99
Formato: ePub, Kindle
Il Mulino


Antartide, come cambia il clima


La casa editrice Dedalo nella nuova collana Le grandi voci, ha pubblicato Antartide, come cambia il clima.

Ne è autrice Elena Ioli, fisica teorica, ha studiato all’Università di Bologna e all’École Normale Supérieure di Parigi; ha un Master in Comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste. Da oltre 15 anni è autrice di manuali di fisica (è tra gli autori del più celebre testo di Zanichelli per le scuole superiori), insegna fisica nella scuola secondaria superiore e collabora con le edizioni Dedalo (in catalogo Le parole di Einstein) e fa parte dell’editorial board della rivista Sapere.
Nel febbraio del 2018 si è recata in Antartide insieme a 77 scienziate da tutto il mondo con il progetto australiano “Homeward Bound”.

Dalla presentazione editoriale.
«Una missione in Antartide, una spedizione internazionale di donne scienziate per promuovere la leadership al femminile nel mondo tecnico-scientifico, studiare il clima e salvare il nostro pianeta: questo e molto altro in un libro che fa il punto sull’emergenza climatica e racconta una storia incredibile».
Il volume è diviso in due parti.
La prima tratteggia alcuni momenti, scientifici e personali, della missione antartica dell’autrice, in una sorta di giornale di bordo.
La seconda parte fa il punto sull’emergenza climatica che così da vicino ci riguarda tutti, cercando di raccontare la storia dall’inizio: dalla definizione di concetti quali effetto serra, Antropocene, riscaldamento globale, decarbonizzazione, passando per quello che ci dicono i dati raccolti dagli archivi nei ghiacci, fino a offrire qualche prospettiva di futuro
.
A Elena Ioli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Perché il libro è strutturato in due parti?

Perché nella prima tratteggio, in una sorta di giornale di bordo, alcuni momenti, scientifici e personali della missione antartica cui ho fatto parte. La seconda parte, invece, è dedicata a fare il punto sull’emergenza climatica che così da vicino ci riguarda tutti, cercando di raccontare la storia dall’inizio: dalla definizione di concetti quali effetto serra, Antropocene, riscaldamento globale, decarbonizzazione, passando per quello che ci dicono i dati raccolti dagli archivi nei ghiacci, fino a offrire qualche prospettiva di futuro.

Riferendomi alla prima parte del volume, quale la principale, indelebile, sensazione provata in quel viaggio che credi ti accompagnerà per sempre?

Come giustamente dici, è stata un’esperienza life-changing. Oltre allo spaesamento provato in mezzo a quella natura incontaminata e maestosa, al sentirmi catapultata in una dimensione di vita e di lavoro completamente nuova, la sensazione più forte provata riguarda la capacità di lavorare in gruppo, di mantenere uno spirito collaborativo e gentile. Senza queste caratteristiche sarebbe difficile resistere a un’esperienza di studio e di ricerca in Antartide.

Scrivi: “Nessuno possiede l’Antartide”. Quel territorio non ha un governo?

No, non esiste un governo, non ci sono città né residenti autoctoni permanenti, né inno né bandiera. Questa zona remota del nostro pianeta, compresa fra il polo Sud e il 60° parallelo di latitudine, non è soggetta ad alcuna sovranità. Tutte le rivendicazioni territoriali sono state sospese il 1° dicembre 1959, quando fu stipulato il Trattato Antartico, che fissava le linee guida per l’utilizzo pacifico delle risorse naturali del continente e per la preservazione del suo ecosistema. Il Trattato è sorprendentemente breve, ma straordinariamente efficace. L’articolo 1 del Trattato recita una toccante dichiarazione d’intenti: «L’Antartide deve essere utilizzata solo per scopi pacifici».

Le osservazioni scientifiche svolte in Antartide ti hanno tranquillizzata oppure ancora più allarmata rispetto all’emergenza climatica da più parti denunciata?

Tutti i progetti di ricerca nelle basi scientifiche antartiche riguardano, in un modo o nell’altro, l’emergenza climatica. L’Antartide è una sorta di sensore ambientale, un indicatore ecologico, particolarmente sensibile anche alle minime alterazioni di temperatura dell’aria e degli oceani. Durante la mia permanenza nella Penisola Antartica, ho potuto rilevare che tanti sono i monitoraggi ambientali che denunciano l’emergenza climatica: aumento della fioritura scarlatta delle alghe dei ghiacci, che riducono l’albedo, recessioni dei ghiacciai nei pressi della base americana Palmer, morie delle specie più fragili di pinguini antartici, quelli di Adelia. Nessuno degli scienziati che svolgono attività di ricerca in Antartide dubiterebbe che l’emergenza climatica sia reale. La Terra è un meraviglioso sistema dinamico, complesso, non lineare: per questo piccole variazioni locali possono produrre effetti di portata significativa non sempre facili da prevedere.

Nel film del 1959 “L’ultima spiaggia” di Stanley Kramer, s’immagina che per effetto di un mortale inquinamento l’umanità sia completamente distrutta. Resta a sventolare uno striscione su cui è scritto “Fratelli, siete ancora in tempo”. Quelle parole d’intonazione religiosa si riferivano al pentirsi prima della morte. Noi possiamo dire oggi, in senso laico “Fratelli siete ancora in tempo” per salvare le future generazioni da un progressivo annientamento fisico oppure, visto quanto accaduto, è già tardi?

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo che verifica e valida numerosi studi indipendenti sui cambiamenti del clima, ha rilasciato nel 2018 un rapporto speciale sui possibili
scenari futuri del nostro modello di sviluppo per l’ambiente, gli oceani e l’atmosfera. Questi documenti affermano che la temperatura media del pianeta nel decennio 2005-2014 è di 0,87 °C maggiore rispetto ai livelli medi precedenti alla Rivoluzione industriale (1850). Stiamo già assistendo alle conseguenze di un riscaldamento globale di 1 °C, si pensi all’aumento di eventi meteorologici estremi (inondazioni, fenomeni siccitosi, eccetera) all’innalzamento del livello dei mari, alla diminuzione del ghiaccio marino nell’Artico. Per limitare questo aumento di temperatura e mitigare dunque gli effetti sul clima del pianeta, sono necessarie rapide e lungimiranti transizioni a livello energetico ed economico in settori cruciali della nostra vita, quali suolo, energia, edilizia, trasporti, pianificazione urbana. Le emissioni globali di CO 2 prodotte dalle attività umane nell’Unione Europea dovrebbero diminuire entro il 2030 del 45% rispetto ai livelli del 2010, raggiungendo un impatto climatico pari a zero nel 2050. Ciò significa che ogni emissione residua dovrebbe essere compensata dalla rimozione di CO 2 atmosferica.
Le sfide sono dunque numerose e correlate. Occorre un cambio di paradigma, occorre immaginare un futuro diverso dal punto energetico. Forse, senza essere accusata di pessimismo, cambierei la frase del film in “Non c’è più tempo”. Bisogna agire ora.

Elena Ioli
Antartide, come cambia il clima
Pagine 96, Euro 11.50
Dedalo


Amore amore amore, amore un cazzo

È questo il titolo del più recente disco di Paolo Pietrangeli.
Riuscita operazione letteraria e musicale, una sorta di rêverie icastica (passatemi l’ossimoro, poi non lo faccio più) che attraversa anni lontani dell’autore scanditi da quella vertiginosa composizione lessicale di Gioacchino Belli “Er padre de li santi” (1832).
La canzone si avvale di un gran bel video girato dalla regista Chiara Rigione che ha usato immagini dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.
L’album (contiene tredici canzoni delle quali tre inedite) è pubblicato su label Bravo Records/Ala Bianca con distribuzione Warner.
Nella terza di copertina si trova un QR Code che - scansionato con fotocamera dello smartphone – permette l’ascolto in streaming e al download di un concerto di Pietrangeli al Teatro Parioli di Roma nel 1995.

CLIC per sentire Amore amore amore, amore un cazzo e vedere il clip.

Paolo Pietrangeli si racconta (la foto è di Marco Donatiello)

«Sono Paolo Pietrangeli e sono nato tantissimi anni fa grazie a un padre, Antonio che ha sempre fatto lo sceneggiatore e il regista incomparabilmente più bravo di me. È grazie a lui che ho imparato alcune cose fondamentali come la passione per la lettura, la dedizione al lavoro e la voglia, anzi l'urgenza di raccontare. Raccontare comunque e con ogni mezzo di cui riuscivo ad appropriarmi. Da sempre ho fatto l'aiuto regista prima e poi il regista dal lunedì al venerdì e il cantastorie i fine settimana. Da sempre, cioè da più di cinquant'anni, dopo il colpo di fortuna che mi ha portato, studente tra gli studenti, a scrivere alcune canzoni che sono diventate la colonna sonora della fine degli anni Sessanta. Senza dischi, senza radio, senza TV ma grazie solo alla tradizione orale, al passa parola da bocca a bocca, da persona a persona, canzoni come ‘Contessa’, ‘Rossini’, ‘Valle Giulia’ mi hanno convinto a continuare e piano piano ho registrato sedici tra LP e CD e ho realizzato e diretto quattro film ed una serie sterminata di documentari da ‘Bianco e nero’ a ‘Genova. Per noi’, sui fatti di Genova del 2001, a ‘Ignazio’, una lettera filmata a mio figlio che cerca di raccontare questi quaranta anni della nostra vita. E poi la televisione che ancora faccio e che continua a darmi la possibilità di raccontare attraverso le facce delle persone che appaiono sulle mie telecamere e a concedermi la libertà di scrivere musica come voglio io e con chi voglio e, adesso, questo non è poco»

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Ufficio stampa: Monferr’Autore monferrautore@gmail.com

Promo dep.t: Irene Cavazzoni Pederzini: irene@alabianca.it

alabianca@alabianca.it ;tel.059 – 28 49 77


Lunga storia di noi stessi


Noi umani siamo quel che siamo perché derivazione multifattoriale di cause. Di parecchie nostre componenti ne sappiamo tutto, del cervello molto più di un tempo ma ci manca ancora tanto, però siamo lontani da una conoscenza e meno ancora da ipotesi concordi su una di esse (componente particolare che ci differenzia anche dai meno lontani noi, come le grandi scimmie) ed è la coscienza.
Come la definisce il vocabolario? Leggiamo: “Facoltà propria dell’uomo di avere consapevolezza della propria attività psichica”. Via, diciamo la verità, la fa facile. Perché poi quella facoltà ha una serie di declinazioni che attraversano campi che vanno dalla morale alle religioni, dalle ideologie, alle culture locali. Inoltre, capace di diventare di volta in volta giudice o giudicato, e spesso, quel che più complica le cose, giudice e giudicato insieme.
La coscienza con la pluralità d’interrogativi che suscita è perciò territorio attraversato sia dalla filosofia sia dalla scienza; ho premesso filosofia a scienza non per un motivo alfabetico ma storico, cronologico, perché la scienza è solo da meno di un secolo, grazie allo sviluppo impetuoso di nuovi mezzi tecnologici, che cerca risposte alle domande sull’identificazione di quell’entità-motore.
Per tanti secoli il tema della coscienza è stato terreno filosofico, da Platone fino a Cartesio, passando per il fondamentale snodo del Cristianesimo, quando il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa. In filosofia, le interpretazioni della coscienza sono non poche, ma anche nel mondo scientifico poche non sono. Si pensi che si va dalla vertiginosa teoria di Roger Penrose sull'origine quantistica della coscienza (un anestesista americano, Stuart Hameroff, sostiene che si è vicini a provarla sperimentalmente) ad altre ancora. Un’esemplificazione di quest'appassionante discussione si trova al link qui segnalato e si svolge fra nomi massimi degli studi specialistici su cervello e coscienza.
Anche in Italia è assai vivo l’interesse e gli studi su quest’argomento. Un maiuscolo esempio è dato da “Human Brains” un percorso triennale (partito questo mese terminerà a novembre 2022), promosso dalla Fondazione Prada, dedicato agli studi sulla coscienza nell’ambito delle neuroscienze attraverso il confronto con altre discipline: psicologia, linguistica e antropologia.
Così come un importante testo, nel catalogo proprio di Raffaello Cortina, è “La neurobiologia del tempo” – di Arnaldo Benini, professore emerito di Neurochirurgia e neurologia presso l’Università di Zurigo – riedito per rendere conto degli ultimi risultati della ricerca.
C’è pure però chi, pur lavorando in campo scientifico ottenendo importanti risultati come Federico Faggin, arriva alla conclusione che la coscienza non può derivare solamente dal cervello.
Mario Bruschi, Dipartimento di Fisica dell’Università “La Sapienza”, si chiede se non stia addirittura nascendo "una Scienza della Coscienza".
Insomma, molte domande, tanti al lavoro, parecchi laboratori in azione nel mondo, per trovare la chiave del mistero che fa di noi umani quel che siamo.
Buoni o cattivi e pure buoni e cattivi al tempo stesso. Invasori della coscienza o invasi dalla stessa, sulla quale Miguel De Unamuno si espresse (come aveva fatto Fedor Dostoevskij prima di lui) in modo lapidario: “La coscienza è malattia”.

Larga parte di quanto finora qui accennato è tratta da una storia degli studi sulla coscienza che ho letto in un libro di recente pubblicazione. Descrivere e commentare tale storia addirittura partendo da prima della nostra comparsa sulla Terra, osservando il procedere della vita a cominciare da quando sono esistite le entità viventi, gli organismi, è cosa che poteva riuscire a pochissimi, uno di questi ha compiuto l’impresa e, non a caso, è uno dei più importanti studiosi di neurobiologia al mondo: lo statunitense Joseph LeDoux.
La casa editrice Raffaello Cortina – nella collana “Scienza e idee' fondata da Giulio Giorello – ha pubblicato un poderoso saggio di questo scienziato; titolo: Lunga storia di noi stessi Come il cervello è diventato cosciente.
LeDoux insegna al Center for Neural Science and Psychology della New York University.
Nel catalogo RaffaelloCortina già due sue pubblicazioni:Il sé sinaptico (2002) e Ansia (2016).

Una guida alla lettura del volume la fornisce lo stesso autore: “I capitoli sono raggruppati tematicamente, così se volete apprendere, in particolare, come sono apparsi la vita e il comportamento dei batteri, come è apparsa la riproduzione sessuale, come la vita è passata da unicellulare a multicellulare, come si sono evoluti i sistemi nervosi, il ruolo chiave di spugne e meduse nell’evoluzione umana, come si evoluta la cognizione o l’emozione , o quello che sappiamo della coscienza e del cervello, potete semplicemente leggere le parti che vi interessano. Ma se lo leggerete dall’inizio alla fine, questo libro vi dà la possibilità di salire sull’albero della vita, permettendovi di collegare le capacità di sopravvivenza degli antichi microbi alle nostre capacità uniche di sopravvivere e di prosperare grazie al pensiero e al sentimento, di contemplare il passato e il futuro della nostra storia personale nonché il futuro della nostra specie”.

Dalla presentazione editoriale.
«Il noto neuroscienziato Joseph LeDoux ricostruisce la storia naturale della vita sulla Terra per fornire una nuova prospettiva sulle somiglianze fra noi e i nostri antenati vissuti nel più lontano passato. Il coinvolgente resoconto dell’intera evoluzione della vita sul pianeta getta nuova luce sul modo in cui si è evoluto il sistema nervoso negli animali e si è sviluppato il cervello, e su cosa significa essere umani. LeDoux sostiene qui che la chiave per comprendere importanti aspetti del comportamento umano si trova nello studio dell’evoluzione fin dai primi organismi viventi. Ripercorrendo la catena della linea temporale evolutiva mostra come anche gli antichi organismi unicellulari dovessero risolvere problemi simili a quelli che incontriamo ogni giorno noi e le nostre cellule. In questo percorso LeDoux esplora il nostro posto nella natura, come l’evoluzione del sistema nervoso abbia potenziato la capacità degli organismi di sopravvivere e prosperare e in che modo l’emergere di ciò che noi umani indichiamo come coscienza abbia permesso alla nostra specie di ottenere sia i risultati più grandiosi sia quelli più terribili».

Il libro si avvale di confortevoli apparati e – cosa ormai diventata pressoché rara – di un Indice dei nomi. Perché da tempo, come numerose volte ho scritto su questo sito, gli editori trascurano colpevolmente quello strumento, fino a pochi anni fa usato sempre, che rafforza e prolunga la vita dei volumi di saggistica dando l’opportunità a chi legge di rintracciare velocemente certi passaggi, cogliere momenti del volume che lo hanno interessato alla prima lettura.

Joseph LeDoux
Lunga storia di noi stessi
Traduzione di Gianbruno Guerrerio
Illustrazioni di Caio da Silva Sorrentino
Pagine 514, Euro 29.00
Con 13 tabelle e 111 figure b/n
Raffaello Cortina Editore


La bellezza della nuova musica (1)


“La musica è abbastanza per una vita, ma una vita non è abbastanza per la musica”.
Ho scelto queste parole di Sergej Rachmaninov per introdurre la segnalazione di un libro pubblicato dalla casa editrice Dedalo con il titolo La bellezza della nuova musica.
Il libro contiene dei codici QR che consentono, avvicinando uno smartphone alla pagina, di ascoltare i brani via via citati nelle pagine

L’autore del saggio è il pianista Emanuele Arciuli.suona per alcune delle istituzioni musicali di maggior prestigio (Teatro alla Scala, Maggio Musicale Fiorentino, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Biennale di Venezia, Berliner Festwochen, Wien Modern al Musikverein, Concertgebouw Amsterdam e altre ancora).
Il suo repertorio spazia da Bach alla musica d’oggi, di cui – con speciale riferimento agli Stati Uniti – è considerato uno degli interpreti più convincenti. Numerose le opere a lui dedicate e da lui eseguite in prima assoluta.
Incide per Innova Records, Chandos, Bridge, Vai, Naxos, Wergo, Albany e Stradivarius. L'album dedicato a George Crumb, inciso per Bridge, ha ricevuto la nomination per i Grammy Awards.
Ha pubblicato in Edt “Musica per pianoforte negli Stati Uniti”, per la Ets ”Il pianoforte di Leonard Bernstein”.
Insegna all’Accademia di Pinerolo, al Conservatorio di Bari e, dal 1998, è frequentemente professore ospite in molte università degli Stati Uniti, dove ha tenuto oltre quaranta tournée. Nel 2011 gli è stato conferito il Premio Abbiati come miglior solista.

Per ascoltare sue interpretazioni: CLIC!

Per visitare il suo sito web: RICLIC!

Dalla presentazione editoriale.
«Musica classica contemporanea sembra una contraddizione. Ma non lo è. Una guida appassionata per conoscere quello che tanti compositori in ogni parte del pianeta scrivono oggi. Musiche diversissime fra loro, ma tutte accomunate dalla capacità di cogliere i colori e gli umori del mondo attuale».

Segue ora un incontro con Emanuele Arciuli.


La bellezza della nuova musica (2)


A Emanuele Arciuli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Leggiamo nelle prime pagine del suo libro: “Ho scritto questo libro spinto da tre motivazioni forti”… Cominciamo dalla prima

La prima è il desiderio di spiegare, comunicare, rendere chiaro - a me stesso e agli altri - ciò di cui mi occupo. Che non è la musica contemporanea, ma la musica. Quando suono, sempre, più ancora della poesia, della emozione (che sono le ragioni prime che mi hanno spinto a fare il musicista, e che spero di trasmettere agli ascoltatori), mi interessa che arrivi con chiarezza il pensiero, l’idea del compositore. E, prima ancora, il fatto stesso che la musica sia pensiero.

La seconda

La seconda è la consapevolezza che la musica di oggi meriti di essere conosciuta, e che questo non accada abbastanza, né nei teatri né in altri contesti. La quantità di informazioni di cui disponiamo, oggi, la facilità con cui si può accedere all’ascolto di qualunque cosa, ha spento la curiosità. È talmente facile trovare, che abbiamo dimenticato come si fa a cercare. E così il mondo della musica sta diventando di una mortale noia, persino per me che in quel mondo ci vivo. Non se ne può più. Si ascoltano quasi sempre le stesse cose, e il pubblico sembra voglia solo quelle.
Il desiderio di scoprire ciò che ancora non sa, il pubblico non ce l’ha, è uno stimolo atrofizzato. E siccome il sistema di sovvenzioni pubbliche della musica segue intricati algoritmi che implicano il numero di biglietti venduti come primo requisito, il repertorio rischia di diventare una sorta di realtà stagnante, sempre uguale a sé stessa, e la cultura rischia di essere condannata alla triste e paradossale condizione secondo cui, per esistere, debba mettersi da parte in favore del botteghino.

La terza motivazione?

Terzo motivo: il mondo sta cambiando, totalmente. E non è immaginabile che non cambi anche il rapporto fra musica e pubblico. C’è bisogno di un nuovo pubblico, e questo pubblico esiste già: sono le persone che affollano le mostre d’arte contemporanea, che leggono, che vanno al cinema - non solo per i cinepanettoni - che comprano dischi di musica non commerciale. E per non commerciale intendo anche certo rock, a cominciare dal “progressive” degli anni Settanta, il jazz, certa world music, e altro. Generi nei quali spesso ascoltiamo talenti non inferiori rispetto a quelli del versante classico.
Però molte persone ignorano, semplicemente, di poter trovare un’inesauribile fonte di piacere (intellettuale ma anche sensuale) in tanta musica classica di oggi. Perché non sanno che esiste, molti teatri si affannano per tenergliela nascosta, proponendone semmai la versione più noiosa, accademica e inutile. Poi, per carità, i gusti sono soggettivi, però le scelte implicano una conoscenza, una opzione fra mondi possibili.

Tre domande in una.
Com’è percepita oggi la musica “contemporanea”? Quanta se ne produce? Come ne giudica la qualità
?

La “contemporanea” rischia di esser percepita come un’enclave di irriducibili che, come si dice volgarmente, se la cantano e se la suonano.
E invece le cose non stanno affatto così.
Perché di musica “classica” se ne scrive ovunque nel mondo, da Parigi a Tokio, da Kuala Lumpur a Seoul, da Nairobi a Bangkok, da Seattle a Fairbanks. Anzi, forse sono più numerosi i compositori attivi oggi di tutti quelli del passato; la qualità è spesso eccellente, e oggi la contemporaneità è un’idea che abbraccia e include linguaggi, stili, processi diversissimi fra loro, finalmente tutti legittimi e legittimati, proprio in nome di una libertà di espressione che - nell’accogliere Philip Glass, Lois Andriessen e Steve Reich, Nico Muhly e Graham Fitkin - rispetta posizioni e scelte di chi guarda anche a Boulez e Maderna, visti non più come percorso obbligato, ma scelta fra le molte possibili…

… e il pubblico?

… è spesso sorprendente la reazione del pubblico o degli studenti, nel momento in cui scoprono la musica d’oggi: entusiasmo e sorpresa, proprio perché tutto pensavano di ascoltare tranne che musica emozionante, intensa e non incatenata a griglie di intellettualistica astrazione.
È un delitto che, pur con la estrema facilità di accedere alle informazioni, e con la messe di dati disponibili ovunque online, tutto questo non si sappia. O meglio, lo sappia un ristretto gruppo di persone; dispiace perché la musica ha trovato, appunto, gli strumenti per riattivare un rapporto col pubblico. Non necessariamente diventando piaciona, ruffiana e a buon mercato. Ma tornando a raccontare l’oggi, e farlo con linguaggi diretti e immediati. E spesso tonali, come dice Lachenmann compositore tedesco classe 1935, campione della musica più ostica, densa, atonale, materica e difficile di oggi, nonché protagonista indiscusso delle avanguardie musicali europee degli anni Sessanta/Settanta. Una tonalità che non è più quella del passato, ma è stata attraversata da mille intemperie, avventure e viaggi, che l’hanno resa diversa e nuova.

Una previsione sul futuro più vicino della vita musicale

La vita musicale tutta è in continua ridefinizione. Difficile azzardare previsioni, e tuttavia non è pensabile che la crisi economica che si è abbattuta sul mondo intero in questo periodo (scrivo nel 2020) e che - nell’ambito della cultura e dello spettacolo - spariglia le carte e ridefinisce nuovi equilibri, non avrà conseguenze. Pur senza farci alcuna illusione su improbabili palingenesi, l’auspicio è che si possa ripartire con forza, entusiasmo e nuove energie, magari ricominciando dalla musica contemporanea; che potrà dirsi davvero nuova quando avrà un pubblico nuovo, vasto, attento, partecipe e creativo con cui condividere le proprie ragioni. Un’interlocuzione che le riconosca un ruolo non puramente decorativo nella propria esistenza, è condizione necessaria alla musica d’oggi, per non tradire le potenzialità e le attese che la sua vitalità incoraggia, e che sarebbe un peccato restassero promesse non mantenute.

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Emanuele Arciuli
La bellezza della nuova musica
Pagine 80, Euro 11.50
Dedalo


Il suicidio

“I suicidi sono degli impazienti" diceva Gesualdo Bufalino.
A guardare le statistiche, gli impazienti non sono pochi: nel mondo ogni anno oltre 800.000
Su questo drammatico tema la casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un libro – che pur non trascurando, proprio per niente, i meccanismi psicologici e sociali che portano a darsi la morte – contiene schede, prontuari e consigli per gli addetti ai lavori affinché rilevino per tempo i rischi suicidari dei loro intervistati o pazienti.
Attraverso la sostanza delle domande contenute in quei moduli si capisce, talvolta meglio di un saggio sociologico, quali sono le motivazioni che possono portare al gesto estremo.
Titolo del volume: Il suicidio Eziopatologia del rischio e prevenzione.
L’autore è Stefano Callipo
Presidente dell'Osservatorio Violenza e Suicidio, psicologo clinico, giuridico, psicoterapeuta ad approccio breve strategico, da molti anni si occupa di suicidologia e di prevenzione del rischio suicidario. È docente della scuola dell'Accademia di Psicoterapia Psicoanalitica (SAPP) e in diversi istituti di formazione clinica e criminologica.
Tra le sue pubblicazioni: “La valutazione del rischio suicidario in età adolescenziale” in "Il suicidio in adolescenza" (a cura di Formella e De Filippo, 2011); “La valutazione del rischio suicidario” (2013); “Crisi e rischio suicidario nel mondo del lavoro (2013); ‘Violenza sulla donna e rischio suicidario’ in "All'ombra di Caino" (a cura di Cerrato e Pino, 2017).

Una diffusa credenza vuole che il suicidio sia praticato soprattutto da artisti e pensatori. C’è da dubitarne. Il fatto è che quei personaggi essendo famosi, o diventati tali nei secoli o negli anni successivi al loro gesto, siano ricordati più di quanti praticando altri lavori mettano volontariamente fine alla loro esistenza.
Abbiamo statistiche divise per categorie di quanti avvocati, sarte, medici, falegnami, giudici, ferrovieri, si siano tolti la vita? Non credo.
Non a caso, quindi, possediamo un’abbondanza di testi sui suicidi illustri, ne cito un paio a caso: “Suicidi d’autore” di Antonio Castronuovo (d’autore perché ben firmati da chi compì il gesto senza ritorno), “I suicidi Dada” indagati da Marzia Mascelli. Per non dire delle tante opere sul tema suicidario dal famoso Werther di Goethe al Club dei suicidi di R. L. Stevenson.
Dal canto mio, penso che quelle donne e quegli uomini famosi e non, suicidatisi, chissà che non abbiano beffato l’inesorabile Parca decidendo il proprio momento, dicendoci che la vita, e la morte, appartiene solo a noi e a nessun dio.
Quando Mario Monicelli, sapendosi incurabile, si suicidò lanciandosi nel vuoto da una finestra dell’ospedale dov’era ricoverato, il famoso sito Spinoza.it scrisse «Monicelli, 95 anni, sfugge alla morte buttandosi dalla finestra», facendo un rispettoso omaggio laico a quel regista e tracciando al tempo stesso un affettuoso e filosofico ritratto di un uomo che, tra l’altro, era stato per tutta la vita un amante dell’umorismo nero.
Su tutti quanti compiono quel gesto fatale valgano – e consiglio a congiunti e conoscenti – quelle tre parole contenute nel biglietto scritto dopo aver ingerito il veleno da Cesare Pavese: “Non fate pettegolezzi”.

Su questo libro scrive nella Prefazione Domenico Chindemi: “Chi vuole suicidarsi non cerca la morte, ma una fuga dalla vita (…) il volume di Callipo porta a capire cosa accade nella mente del protagonista del gesto suicidario e cosa lo spinge a compiere tale gesto, anche con rifermento alla donne vittime di stupro, segnalando inoltre al lettore, le differenze di genere, le differenti tecniche adoperate dalle donne e dagli uomini, le diverse stagioni e giorni della settimana in cui il fenomeno ha maggiori possibilità di verificarsi”.

In questo video (registrato nel maggio di quest’anno quando sembrava che l’epidemia si avviasse a lasciarci) Stefano Callipo risponde a un’intervista proposta dallo psicologo Giandomenico Bagatin sul tema del suicidio riferendosi anche agli effetti prodotti sulla nostra mente dal Covid 19.
Le sue riflessioni sono, purtroppo tornate d’attualità.

Dalla presentazione editoriale.

«Questo libro nasce dall'esigenza, non soltanto di professionisti del settore affermati ma anche in formazione, di comprendere meglio un fenomeno ancora troppo sconosciuto, di essere supportati nella valutazione del rischio suicidario oltre che di poter approntare una corretta e mirata azione preventiva. Ma si presenta anche come strumento utile per conoscere i processi cognitivi coinvolti nella mente suicida e per riconoscere, in tempo, i segnali di allarme.
Il libro è di supporto anche ai cosiddetti "altri significativi", o survivors, cioè familiari e amici delle vittime, offrendo loro spunti riflessivi per combattere lo stigma sociale e per superare il dolore mentale che a volte può essere più forte e insopportabile di quello fisico. La ricerca di senso della vita costituisce il file rouge dell'opera, attraverso un elogio alla vita e ai valori ad essa legati».

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Stefano Callipo
Il suicidio
Prefrazione di Domenico Chindemi
Pagine 124, Euro 18.00
FrancoAngeli


Alchemilla


Da circa un anno, a Bologna, nelle stanze dello storico Palazzo Vizzani (in foto) agisce uno spazio multifunzionale per le arti che si articola attraverso residenze d’artisti ed eventi culturali (mostre, proiezioni, recital, concerti) offerti gratuitamente al pubblico.
Il nome di questo progetto è Alchemilla.
Per visitare il suo sito web CLIC!
Necessario un avvertimento: nella videata d’ingresso leggerete: Nuove contaminazioni nel contemporaneo… don’t panic please!... le contaminazioni si riferiscono all’intercodice fra le discipline artistiche che sempre più vanno a intrecciare i propri linguaggi. Quella parola, inoltre, è stata scritta lì prima che la pandemia abbracciasse il nostro pianeta in quest’anno bisestile che già accompagnato da sempre di sinistra fama, stavolta ha voluto esagerare.

Al team di Alchemilla ho rivolto alcune domande.

Perché all’Associazione è stato attribuito il nome di una pianta qual è l’Alchemilla?
A quale intento vuole riferirsi quella scelta
?

Il nome dell’Associazione deriva da una mostra qui ospitata a gennaio del 2019 e intitolata proprio Alchemilla. L’evento, ideato e curato da Fulvio Chimento, ha visto la partecipazione degli artisti David Casini, Cuoghi Corsello, Alessandro Ferri (Dado), Claudia Losi, T-yong Chung. La mostra ha avuto un riscontro importante e quindi abbiamo deciso di proseguire su questo sentiero ben augurante.
In quell’occasione i lavori degli artisti nel loro “stare insieme” nello spazio alteravano volutamente il proprio senso, come soggetti a un processo alchemico in grado di favorire una lieve alterazione linguistica. Proprio per questo motivo il titolo della mostra prendeva spunto da una delle piante più note agli alchimisti: l’alchemilla (A. vulgaris) o “erba stella”, considerata pregiata per la goccia di rugiada che spesso conserva all’interno della sua foglia, e che resiste al processo di evaporazione. La perla di rugiada può quindi rappresentare una forma scultorea prodotta e modellata dalla natura stessa, al pari del lavoro manuale e intellettuale che gli artisti svolgono nella relazione con la materia.

Quando e dove nasce l’Associazione Alchemilla?
Quali le specialità professionali dei fondatori
?

Alchemilla nasce alla fine del 2019 in via Santo Stefano 43 all’interno del cinquecentesco Palazzo Vizzani. Le competenze che abbiamo convogliato nell’associazione vanno dalla curatela in campo artistico, all’architettura, alla comunicazione, alla didattica, fino all’impegno sociale e ambientale. Abbiamo messo i nostri saperi a servizio di obiettivi comuni: creare una comunità di persone che sia aperta e dialogante e che contribuisca attivamente alla crescita culturale e artistica della città di Bologna.

Nell’invitare alla residenza gli artisti, quali sono i criteri che seguite nel selezionarli? C’è una tendenza espressiva che preferite?

È importante sottolineare come gli artisti che invitiamo possono essere considerati (effettivamente) dei giovani, l’attenzione è quindi rivolta ad artisti “under 30” di provenienza italiana e internazionale. Siamo contenti che in un periodo caratterizzato da incertezza riusciamo a ospitare in residenza, con le necessarie attenzioni, Elena Bastogi (Italia, 1995), le sorelle Carminda e Maria Soares (Portogallo, 1993) e Zheng Ningyuan (Cina, 1989). Le scelte del gruppo di lavoro legato ad Alchemilla vanno nella direzione della ricerca di talenti che dimostrano buone capacità espressive e che coltivano progetti ricchi di significato. Gli ambiti sperimentali delle residenze possono variare, ma l’importante è creare le condizioni affinché gli artisti riescano a esprimersi, anche attraverso un lavoro di supervisione e di supporto portato avanti da Alchemilla in collaborazione con i formatori che scegliamo di volta in volta. Portare avanti questo tipo di progetti, mirati principalmente alla produzione di interventi artistici, per noi rappresenta in questo momento storico un segnale di “resistenza”, che permette di mantenere accesa la fiammella dell’arte. A sostegno di questo progetto abbiamo incontrato il supporto della Fondazione Zucchelli e della Fondazione Del Monte.

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Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web
Ufficio Stampa: Irene Guzman: i.guzman@fmav.org ; T. +39 349 – 125 09 56

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Alchemilla
info@alchemilla43.it
Tel: 333 - 29 15 615
Via Santo Stefano 43
Bologna


Il cervello semantico (1)


La casa editrice Carocci ha pubblicato Il cervello semantico

Ne sono autori Daniele Panizza, Eleonora Catricalà, Stefano F. Cappa.
Il volume è pubblicato nella serie “Il cervello linguistico”, ideata e diretta da Mirko Grimaldi. Con un approccio divulgativo, ma senza rinunciare al rigore scientifico, questi libri si propongono di fare il punto critico degli studi su cervello e linguaggio, offrendo, per la prima volta in Italia, un quadro completo dei risultati raggiunti negli ultimi trent'anni.

Qualche cenno biografico sugli autori.
Daniele Panizza è ricercatore in Psicologia del linguaggio all’Università di Gottinga.

Eleonora Catricalà è professoressa associata di Psicobiologia e Psicologia fisiologica allo IUSS di Pavia.

Stefano F. Cappa è professore di Neurologia allo IUSS e all’IRCCS Fondazione Mondino di Pavia.

Dalla presentazione editoriale
«Che cosa succede nel nostro cervello quando perdiamo la conoscenza dei concetti e delle parole che usiamo quotidianamente? In quali aree del cervello vengono elaborati? Quanto tempo ci mette il nostro sistema cognitivo a comprendere il significato delle frasi che ascoltiamo, e quali operazioni e processi neuronali rendono possibile questa incredibile capacità propria della nostra specie? Il volume risponde a queste domande introducendo così alla neurolinguistica, una disciplina moderna che studia il modo in cui il nostro cervello opera in maniera armoniosa e complessa per infondere significati alla realtà che percepiamo».

Segue ora un incontro con Daniele Panizza.


Il cervello semantico (2)


A Daniele Panizza (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come si legge nel libro, negli ultimi decenni è andata affermandosi, attraversando più discipline, l’idea che “la capacità di comprendere e dare un significato a tutto ciò che ci circonda siano dovuti essenzialmente ai progressi sociali e culturali della nostra specie (…) Ebbene quest’idea è frutto di un abbaglio clamoroso”
Quale la principale ragione che smentisce quella convinzione
?

Premetto che il tema in questione non costituisce l'argomento principale del libro, ma riflette una problematica delle scienze cognitive che è al centro di un forte dibattito dai tempi della rivoluzione cognitiva fino alle teorie contemporanee dell'apprendimento del linguaggio e delle capacità simboliche, di astrazione e di ragionamento proprie della nostra specie. L'esempio riportato nell'introduzione era quello del fallimento dei tentativi di insegnare ad apprendere e produrre il linguaggio umano alle specie più simili a noi, come i bonobi o gli scimpanzè. Il fatto che Kanzi (un bonobo), ad esempio, non sia mai stato in grado di produrre una serie di più di due o tre elementi lessicali in una frase dimostra che esiste una lacuna nelle capacità cognitive, geneticamente determinate, che non glielo consente. Il dibattito all'interno delle moderne teorie di apprendimento linguistico e cognitivo verte sull'esatta caratterizzazione di questo limite. Per lo psicologo statunitense Michael Tomasello, secondo la tradizione dell'apprendimento basato sull'uso del linguaggio, i primati non riuscirebbero a dirigere l'attenzione condivisa su uno stimolo allo stesso modo degli umani, per cui il loro limite risiede nella cognizione sociale e pragmatica. Per Noam Chomsky, secondo la tradizione generativista, si localizza nella capacità, unica della nostra specie, di comporre due elementi lessicali per formare una nuova unità (merge).

E nel vostro libro?

Ne "il cervello semantico" abbiamo sposato una visione integrazionista, cercando di collocare diversi tipi di elaborazione dell'informazione semantica (logico-simbolica, lessicale e concettuale) nei rispettivi network corticali, senza ridurre l'intero funzionamento del sistema ad un solo tipo di elaborazione o senza sottolineare la maggiore importanza di un tipo di elaborazione sull'altro - ovvero, senza schierarsi a favore di Chomsky o Tomasello, Jerry Alan Fodor Fodor (padre del modularismo) o Giacomo Rizzolatti (padre dei neuroni specchio), ecc. Più nello specifico, abbiamo collocato l'elaborazione di informazioni simboliche, grammaticali e logiche in un circuito essenzialmente composto dalle aree frontali (inclusa l'area di Broca) e temporo-parietali (il giro angolare), l'elaborazione di informazioni lessicali e statistiche nelle aree temporali posteriori (inclusa l'area di Wernicke) e l'elaborazione di informazioni concettuali multimodali nelle aree temporali più anteriori, che ricevono afferenze dalle cortecce associative di tutto l'encefalo.

Psicocronometria e psicofisiologia, com’è spiegato nelle pagine de vostro saggio, quando i loro metodi sono applicati a fenomeni linguistici si entra nel territorio della psicolinguistica. o neurolinguistica.
Questi due termini sono sinonimi? E se non lo sono quale differenza li separa
?

La psicolinguistica è una branca della psicologia cognitiva che studia la comprensione e l'elaborazione del linguaggio. La psicocronometria, che si occupa della misurazione della durata dei processi cognitivi, è strettamente relata alla psicolinguistica per quanto riguarda gli studi che si occupano di registrazione di tempi di reazione, tempi di risposta, tempi di lettura e movimenti oculari. La psicofisiologia, invece, si occupa di come i processi cognitivi siano implementati in un substrato neuronale e dello studio del loro funzionamento, e di conseguenza è strettamente relata alla neurolinguistica.

Psicolinguistica e neurolinguistica sono o non sono due discipline indipendenti?

Psicolinguistica e neurolinguistica non sono due discipline indipendenti, anzi traggono ampi benefici dalla loro mutua interazione e lo studio della semantica ne costituisce un esempio paradigmatico. Si pensi allo studio delle anomalie semantiche che generano una onda N400 in esperimenti di psicofisiologia e danno luogo a tempi di elaborazione più lunghi in compiti di lettura, in chiave psicolinguistica. In generale, è buona regola condurre un esperimento "comportamentale", che rientra quindi nel campo della psicolinguistica, prima di condurre la stessa versione dell'esperimento con metodologie neuroscientifiche: trovare un effetto significativo nel compito comportamentale solitamente costituisce un prerequisito alla conduzione dell'esperimento di psicofisiologia o neuroimmagine, anche se in principio è possibile che lo stesso compito dia origine a risultati apprezzabili in una sola delle due metodologie.

Il complesso di studi che conducete quali contributi (o travasi) ha nelle ricerche che si svolgono nell’area dell’Intelligenza Artificiale?

Se l'obiettivo di un software intelligente è quello di imitare il funzionamento del cervello umano, o del suo funzionamento, allora è verosimile pensare che un programma che imiti l'architettura del sistema semantico tragga giovamento dall'essere implementato secondo la stessa struttura, gli stessi principi e lo stesso funzionamento del sistema semantico dell'uomo. Nel caso in cui non lo sia, è possibile che questo programma fallisca in contesti in cui il sistema umano non fallirebbe.

Possiamo fare un esempio?

Sì, certo. Un esempio concreto: il riconoscimento automatico delle immagini. I programmi contemporanei si basano su algoritmi statistici implementati in una rete neurale sottoposta a un training composto da un grande database di immagini. Un programma di questo tipo riuscirà ad astrarre le proprietà statistiche di un oggetto, ad esempio una palla, basandosi sulle invarianti statistiche - la colorazione, la posizione nello spazio - dei pixel che compongono la palla. Tuttavia, questo algoritmo non conoscerà nulla sul reale funzionamento di una palla, sul suo comportamento nello spazio e sul contesto in cui solitamente occorre. Un esempio reale del fallimento di questo programma è rappresentato dal caso in cui l'intelligenza artificiale controllava la telecamera durante una partita di pallone, a causa dell'assenza di operatori umani, e identificava come palla la testa calva del guardalinee, quindi centrando erroneamente di continuo l'inquadratura su di esso.
Identificare come è strutturata l'architettura di un sistema di elaborazione di informazioni complesso, e quali sono i sotto-sistemi che lo compongono, è di grande utilità al fine di simularlo con l'implementazione di un sistema virtuale.

Daniele Panizza
Eleonora Catricalà
Stefano F. Cappa
Il cervello semantico
Pagine 144, Euro 12.00
Carocci


Il teatro ai tempi della peste (1)


È questo il titolo che con lodevole tempestività, visti i tempi che attraversiamo, la casa editrice Jaca Book ha mandato da poco nelle librerie
L’autore del volume “Il teatro ai tempi della peste Modelli di rinascita” è il regista, saggista e giornalista Alberto Oliva.
Per conoscere la sua biografia CLIC!

Sono pagine che si giovano anche delle esperienze di un un corso di storia del teatro tenuto da Oliva. Attraversano, infatti, secoli di vicende della scena viste nel tessuto antropologico e sociale in cui si sono svolte dall’antichità ad oggi, pagine scandite con puntuali riferimenti ai momenti più difficili provocati spesso proprio da epidemie come la prima che si ricordi: la peste di Atene del 430 a. C.
Gran bel libro “Il teatro ai tempi della peste” che con scorrevolissima scrittura dimostra come la malìa dello spettacolo riesca a rinascere anche quando tutto pare contro la sua vita. Ci sono stati perfino prigionieri nei lager nazisti e nei gulag comunisti che hanno improvvisato teatro in quei loro tristissimi giorni.
Perché forse fare teatro è connaturato alla natura di noi umani, perché, come diceva il mio amico Pino Caruso, “Il teatro è una forma di felicità interrotta dall’esistenza” o anche a sentire Joël Jouanneau “Se scrivere è, come alcuni dicono, annerire una pagina bianca, fare teatro è illuminare una scatola nera”.

Dalla presentazione editoriale.

«Nella millenaria Storia del Teatro, non è nel 2020 la prima volta che le sale sono state chiuse, con il divieto di rappresentare pubblici spettacoli. La peste colpisce come un flagello fin dall'antichità e la reazione dei popoli e dei governi alla sua devastazione ha spesso comportato la scelta, dolorosa ma forse inevitabile, di sospendere ogni occasione di assembramento, prima fra tutte lo spettacolo dal vivo. La reazione scomposta e irrazionale che abbiamo sperimentato nasce dal fatto che a memoria d'uomo i teatri d'Occidente non erano mai stati chiusi. Ma, si sa, la nostra memoria è corta, mentre la storia del teatro di secoli ne ha compiuti venticinque, attraversando epoche in cui le epidemie colpivano con più frequenza e incontravano popoli più preparati - soprattutto dal punto di vista psicologico - ad affrontare gli inevitabili periodi di quarantena. Tutte le epidemie hanno sconvolto il mondo che hanno trovato, senza eccezioni. Ma il teatro, da sempre, si trasforma e si reinventa, trovando la forza di resistere e rinascere, animato da resilienza, creatività e passione. Il libro racconta il passato per immaginare prospettive future, che sappiano trasformare la crisi in un'occasione di rinascita».

Segue ora un incontro con Alberto Oliva.


Il teatro ai tempi della peste (2)


Ad Alberto Oliva (in foto) ho rivolto alcune domande.

L’emergenza sanitaria e le sue durissime conseguenze hanno portato verso enti governativi e privati un affollamento di proposte, appelli separati di categorie, plurali richieste di varie forme di finanziamenti.
In Italia che cosa ha messo in luce – nel bene e nel meglio così come nel male e nel peggio – il nostro sistema spettacolo
?

Lo stop forzato ha portato alla luce l’estrema fragilità di un settore atavicamente incapace di presentarsi unito nei momenti difficili, soprattutto in Italia. La frammentazione delle voci, fra attori di prosa, cantanti lirici, danzatori, artisti circensi – tra marzo e aprile 2020 sono arrivati al Ministero della Cultura 90 appelli diversi tutti con annessa una raccolta di firme! - ha fatto sì che il comparto diventasse ai più del tutto “invisibile”. L’energia è tanta, la buona volontà si spreca, ma la capacità degli attori di fare sistema è ostacolata dal basso da un dilettantismo esuberante che pretende diritti assurdi e non compatibili con ciò che si definisce “mestiere”: nel Decreto Rilancio del maggio 2020 i sedicenti attori hanno ottenuto la folle garanzia che per accedere al sostegno previsto per i lavoratori dello spettacolo nei mesi della chiusura bastassero 7 giornate lavorative in tutto il 2019! Se per definirsi professionisti basta versare sette contributi in un anno, è chiaro che si sta perdendo di vista il reale obiettivo di ottenere una dignità di esistenza come lavoratori, in nome soltanto di un sostentamento precario in tempi difficili. Sono battaglie sindacali assurde, in cui si fa leva sul pietismo e sul racconto di una categoria fragile e inerme da proteggere, invece che fare leva sulla qualità e sull’importanza di un mestiere che sia davvero l’impegno principale con cui si vive tutto l’anno. Dall’altro lato si sono registrate le fughe in avanti delle grandi star, che si sono fatte vedere in chat con il Ministro, hanno accumulato comparsate in televisione per elemosinare parti per se stesse nelle fiction senza mai riuscire ad essere rappresentanza di un settore che conta al suo interno più di centomila lavoratori. Una su tutte, l’apparizione di Alessandro Gassman su Raiuno a “Porta a Porta” la sera del 20 maggio, in cui ha utilizzato buona parte del tempo a disposizione con il Ministro Franceschini, collegato in diretta, per raccontare quanto fosse buona la pasta con la bottarga che aveva cucinato per cena...

Qual è, a tuo avviso, la premessa delle premesse per realizzare una rinascita del palcoscenico quando finirà il tempo funestato dal virus?

Henry Miller diceva che “l’arte non insegna niente, se non il senso della vita”.
Oggi, nonostante qualche sporadica eccezione, assistiamo in Italia a uno svuotamento di valore pericoloso e desolante, che ha fatto sì che la chiusura dei teatri all’inizio di marzo 2020 sia stata accolta dall’opinione pubblica come un ovvio provvedimento sanitario e dagli addetti ai lavori come qualcosa di inevitabile, con la rassegnazione di chi non crede veramente di essere utile alla società – pur rivendicandolo a parole o in qualche bacheca dei social, nemmeno nel momento in cui gli viene palesemente dichiarata la sua inutilità. La responsabilità di questa miopia dei lavoratori del teatro in Italia ricade sia sulla “naiveté” di troppi sedicenti artisti che intraprendono il percorso – definirlo carriera non sarebbe corretto vista l’endemica difficoltà di dare continuità alle scritture professionali – senza reale coscienza dei motivi per cui lo fanno – parlare di vocazione apparirebbe inadeguato - sia sull’opportunismo politico di molti quadri dirigenti che viaggiano da una nomina all’altra cercando di difendere rendite di posizione al posto di reali interessi di sistema.
Antonin Artaud, uno dei più feroci teorici del Teatro, negli anni Trenta del Novecento ha dato alle stampe una delle pietre miliari della riflessione culturale del secolo scorso, “Il Teatro e il suo doppio”, ne leggo un brano:

«Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita… La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame».

Niente è cambiato da allora?

Niente è cambiato da quel 1938 in cui Artaud denunciava il vicolo cieco di autoreferenzialità sterile in cui l’arte si era infilata, senza più riuscire ad essere fondamentale per la vita come lo è mangiare. Tutta l’arte da ormai troppo tempo si è chiusa in una torre d’avorio in cui artisti e pubblico sono le stesse persone, un ristretto gruppo di sedicenti eletti che condividono lo stesso linguaggio e alimentano un mercato ridotto e di corto respiro. Questo potrebbe forse avere un senso – quantomeno commerciale - laddove girano parecchi soldi (penso al mondo delle arti visive) ma di certo non ha nessun senso nel mondo del teatro, specialmente italiano.

In tutto questo è arrivato il Covid 19

…già. La crisi generata dalla pandemia ha sicuramente accelerato una crisi latente e prolungata del settore, che se vuole rinascere deve ritrovare il suo significato, capire quale debba essere la giusta collocazione dello Spettacolo dal vivo nel mondo di oggi. Il teatro può e deve, però, ritagliarsi un ruolo fondamentale nel dibattito di una società viva, come baluardo di riflessione e come laboratorio di idee, attraverso il suo linguaggio unico fatto di compresenza fisica e immediata in un mondo sempre più digitale e asettico.
Negli intenti del Piccolo Teatro di Milano nell’anno della sua fondazione, il 1947 si leggeva che “Il teatro è il luogo dove una comunità, liberamente riunita, si rivela a se stessa: il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere”.
Basterebbe solo ridare pieno valore a questa semplice dichiarazione d’intenti per comprendere qual è la via da perseguire, nella libertà di adesione di un pubblico che condivide il suo tempo in uno spazio comune per ascoltare con mente aperta un messaggio che può sposare o respingere, senza che questo crei divisioni o atteggiamenti settari, che sono alla base di tanta parte della frammentazione sociale e sistemica del teatro di oggi.

Usciamo da pandemie e Covid: 5 parole che sono anche beneauguranti.
Restiamo, però, tra le pagine del tuo libro con temi da te trattati
Voglio fare due domande. Introduco la prima con un motto di John Cage: “Molti hanno paura dal nuovo, io sono terrorizzato dal vecchio”.
Fra parecchi autori, attori, critici e altri addetti ai lavori noto – conoscendo alquanti di loro nella mia ultratrentennale militanza Enpals – una decisa ostilità verso le nuove tecnologie intervenute nello spettacolo. Da dove viene quell’avversione che sfiora il panico
?

Nella premessa alla domanda c’è già la risposta. Il cambiamento terrorizza, anche nel teatro che è la forma di espressone umana più antica e longeva e che ha dimostrato di saper resistere a tutto ciò che è accaduto all’uomo negli ultimi 2.500. Eppure, evolvere fa paura, ma tanto accade lo stesso, e quindi nonostante l’avversione, le nuove tecnologie nel teatro ci sono entrate e ci stanno benissimo, senza ucciderlo, ma anzi fortificandolo. Sono entrate in tutto l’apparato del suono, nei macchinari scenici, nella comunicazione che fa sì che il pubblico possa arrivare a conoscere l’esistenza degli spettacoli. Ogni tanto arrivano anche nelle scenografie, nei costumi, nell’uso dei microfoni, e lì magari trovano ancora qualche sacca di resistenza da parte di alcuni artisti nostalgici di una maggiore artigianalità. Ma l’importante, a mio parere, è che il teatro sia il senso ultimo dell’azione creativa. La tecnologia è un mezzo. Se è utile, funzionale e idonea a fare uno spettacolo più bello, ben venga. Altrimenti bastano gli attori, in carne ed ossa.

La seconda delle due domande prima annunciate.
Maurizio Grande in un suo intervento si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Tu come risponderesti a tali quesiti
?

L’attore è l’anima del teatro, la proiezione dell’inconscio di un regista che prende vita attraverso le parole di un attore, la proiezione dei desideri del pubblico sublimati nell’arte, la pedina di una scacchiera viva e pulsante… tutto questo e molto altro, ma prima di tutto un essere umano che si mette al servizio di un’opera più grande di lui per darle vita.
………………………………………

Alberto Oliva
Il teatro ai tempi della peste
Corredo iconografico b/n e colore
Pagine 208, Euro18.00
Jaca Book


Ultim'ora


I risultati delle elezioni in America hanno fatto correre il rischio a me ateo di cantare lodi a Dio.
Poi ho trovato un modo migliore per festeggiare.
Quale? Usare un brano del compositore Fabio Cifariello Ciardi.già altre volte ospitato con mia gioia (e non soltanto mia) in questo sito.
Per chi ancora non lo conoscesse: CLIC!

Il pezzo che ho scelto è un trailer – durata di 5’00” – di “Background checks” per voce e video presentato lo scorso gennaio dall’Orchestra Haydn diretta da Marco Angius.
È una ‘proiezione’ nell’orchestra della voce di Barack Obama in uno dei suoi più importanti discorsi sull’uso sconsiderato delle armi negli Stati Uniti.
Buona ascolto e buona visione!


Asti, Città degli Arazzi (1)

Gran bella mostra Asti, Città degli Arazzi, a cura di Andrea Rocco, in corso dal 19 settembre nella città piemontese. Non solo per la bellezza dei lavori esposti, ma anche per la documentazione sulla modernità di quel medium di filamenti fino all’indovinato allestimento.
Letta o ascoltata la parola “arazzo” rimanda subito a tempi antichi, a sontuose sale di castelli nobiliari, chiese monumentali, prestigiosi ambienti di corte. È un’opera decorativa che in Europa associamo all’età del Medioevo perché da noi si affermò nel XV secolo, però i più antichi arazzi risalgono all'antico Egitto e alla Grecia tardo ellenica, ma erano diffusi ovunque nel mondo, dal Giappone all'America precolombiana. Da quelle lontane epoche ne sono giunti a noi non troppi esemplari a causa della deperibilità dei materiali tessili con cui erano, e sono, composti sennonché oggi disponiamo di risorse protettive che ne permettono una migliore conservazione.
È, quindi, in gran parte impropriamente che l’Europa sia ritenuto da molti il territorio in cui nacque quel genere d’arte, ma, sia come sia, la stessa parola arazzo è fatta derivare dal nome della città di Arras in quanto quella tipologia di manufatti veniva lì prodotta proprio dal Medioevo.
Dalla fine del Settecento, con l’affermarsi della produzione industriale e il crescere del costo della manodopera le arazzerie entrarono in crisi e il loro numero diminuì decisamente mai però azzerandosi.
E in tempi più vicini a noi? E oggi?
Possibile che un oggetto tanto antico ai giorni nostri abbia ancora vita in produzione?
Ebbene sì. Basta digitare la parola “arazzo” sul computer e troverete offerte perfino da Amazon con veloce consegna a domicilio e tante altre occasioni di mercato. Nelle scene rappresentate non troverete soltanto quelle araldiche, campestri, religiose, epiche, ma tante ispirate alla vita contemporanea anche se non ho trovato figurazioni che rimandino a imprese nello Spazio… ma no, in verità una ne ho trovata, ma di questo ve ne dirò nella seconda parte di questa mia nota.
L’arazzo, inoltre, fa parte da anni di una corrente artistica contemporanea detta Fiber Art

Fu il pittore francese Jean Lurcat l’artefice della rinascita dell’arazzo in tempi moderni. A lui si deve, ad esempio, negli anni ’60, l’inaugurazione, a Losanna, di una “Biennale internazionale dell’Arazzo”.
Da allora troviamo importanti nomi delle arti visive che si misurano con la realizzazione di arazzi: da Rouault a Léger, da Braque a Matisse, da Picasso a Dufy, da Miró a Derain, ad altri nomi ancora.
E in Italia?
Da Remo Salvadori a Luigi Spazzapan, da Giacomo Balla a Lucio Fontana, da Mario Sironi a Renato Guttuso, da Fortunato Depero a Corrado Cagli, da Valerio Miroglio a Ugo Nespolo, da Ettore Sottsass a Gillo Dorfles, sono tanti i nomi che si sono misurati con quella particolare tecnica.
Questo anche perché in Italia abbiamo delle arazzerie di livello internazionale e Asti è famosa anche per questo.
Ecco spiegato perché, come scrivevo in apertura, troviamo – allestita dallo Studio Cappellino – la mostra Asti, Città degli Arazzi nelle sale di Palazzo Mazzetti con opere provenienti da collezioni private o di proprietà d’enti e istituzioni.

Per saperne di più, propongo due servizi giornalistici il primo! dà voce ai promotori e spazio alla nascita della mostra:
Il secondo servizio alterna notizie dell’esposizione scandite da informazioni sulle risorse storiche, artistiche, enogastronomiche del territorio astigiano.

Per sfogliare il catalogo, a cura di Roberto Rocco e Tino Balduzzi, con testi dei due curatori e di Roberta Ricci, profili degli artisti, foto delle opere: RICLIC!

Segue ora una seconda parte di questa nota sulla mostra ad Asti.


Asti, Città degli arazzi (2)


Come avete visto se avete cliccato sul link del catalogo citato nella nota precedente, tanti i nomi prestigiosi degli artisti in mostra ad Asti, amati dal pubblico degli studiosi d’arti visive e stimati dalla critica specializzata, mi soffermerò in particolare sul nome di uno di loro.
Quel nome è Valerio Miroglio (Cassano Magnago,1928 – Asti, 1991).giunto ad Asti nel 1935, a sette anni, e lì vissuto per il resto della sua vita.

In foto: “Flora”, arazzo di Valerio Miroglio, 1991.

Artista visivo e visionario ha condotto un’esistenza riservata, lontano dai circoli influenti pur non mancandogli riconoscimenti da importanti nomi… Umberto Mastroianni, Marisa Vescovo, Adriano Spatola, Achille Bonito Oliva, Ettore Sottsass, Rossana Bossaglia, Lea Vergine… di lui però solo da alcuni anni si sta accorgendo anche il mercato,
Da ragazzo nelle file della Resistenza, poi da giovane artista, pur impegnato nella lotta politica nelle file di Sinistra, rifiutò il realismo socialista, lo zdanovismo, orientandosi verso l’astrattismo per poi pervenire negli anni ’60 all’arte concettuale.
Il rapporto che ha con l’arte dell’arazzo proviene – e qui sta l’importanza di vedere esposti i suoi lavori in questa mostra – da uno che a differenza degli altri artisti visti a Palazzo Mazzetti, tutti validissimi, detto in modo assolutamente non formale, ha praticato quasi per intero lo scenario mediale: dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla grafica, dalla letteratura alla radio, dal teatro alla mail art, dal giornalismo alla poesia visiva alla performance. Manca il web perché l’informatico inglese Tim Berners-Lee mandò in linea il primo sito internet della storia il 6 agosto 1991, Miroglio morì il 10 settembre di quell’anno.
C’è anche dell’altro. In questi ultimi anni si è intensificato lo scambio di codici fra arte e scienza, Rossana Bossaglia – ordinatrice nel 2008 di un’antologica di Miroglio – scrisse che una cosa che l’aveva particolarmente colpita era la capacità di trasferire considerazioni e procedimenti di tipo scientifico in linguaggio artistico.
Tutti questi i motivi fin qui esposti che mi hanno portato a soffermarmi sul suo nome.
Questa complessità del suo tracciato espressivo, attraversando stili e tecniche, lo portarono a riscoprire e rivisitare anche un’antica antica forma visiva qual è l’arazzo attestandone la possibile versione odierna di quel medium.
Nella prima parte di queste righe, ho accennato al fatto di non aver trovato tra le immagini degli arazzi concepiti oggi, una che rappresentasse l’uomo nello Spazio, in realtà una ne ho scoperto ed è quella che vedete in foto ed è di Miroglio.
La riproduzione fotografica qui di ridotte dimensioni non fa apprezzare la bellezza di quella navicella spaziale con a bordo un astronauta che respira ossigeno dalle piante attraverso un impossibile cavo.
Anche in tutte in tutte le altre sue creazioni in mostra si nota la grande passione che ebbe per gli arazzi, passione che condivideva con Mirò; chissà, forse quelle quattro lettere iniziali comuni ai loro cognomi contengono qualche epifania.

La mostra “Asti, Città degli Arazzi” è realizzata dalla Fondazione Asti Musei, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, dalla Regione Piemonte, dal Comune di Asti e dalla Camera di Commercio di Asti, sponsor Gruppo Cassa di Risparmio di Asti e con la collaborazione di Arthemisia per la comunicazione e la promozione.

La Comunicazione è guidata da Giulia Moricca e Serena Martinis
L’Ufficio Stampa è curato da Salvatore Macaluso

In seguito all’emergenza sanitaria, prima di visitare la mostra si consiglia d’informarsi sui giorni e gli orari consentiti dalle nuove disposizioni.

Asti, Città degli Arazzi
Palazzo Mazzetti
Corso Alfieri, 357
Per info e prenotazioni
e-mail: info@fondazioneastimusei.it
tel: 0141 – 53 04 03
martedì - domenica dalle 10.00 alle 18.00
Fino al 17 gennaio 2021


WUDRome 2020


L’Intelligenza Artificiale (acronimo AI) non è cosa nata in tempi recenti o recentissimi, come alcuni immaginano. Per trovarne le prime tracce dobbiamo fare un salto all’indietro sul calendario e arrivare al 1955. Precisamente al 31 agosto di quell’anno quando Marvin Minsky e John McCarthy coniarono il termine “intelligenza artificiale” e annunciarono un convegno a Dartmouth che segnò un radicale mutamento nel rapporto tra l’uomo e le macchine..
Di fronte a tutte le novità tecnologiche è da sempre fatale che si formino due schieramenti composti da sostenitori e detrattori.
Finora il mondo è andato avanti vedendo vittoriosi i primi e sconfitti i secondi.
Ovviamente il progresso ha comportato anche degli inconvenienti, un filosofo qual è Paul Virilio si è particolarmente soffermato ai nostri giorni su quest’aspetto di non poco momento.
Diverso ragionamento si trova tra le file dei postumanisti, propugnano una tecnofilosofia che in un lontano (o, forse, lontanissimo) futuro vedrebbe addirittura l’esistenza di una vita postbiologica.
Sull’AI riflette, ad esempio, il recente, e sapientissimo, saggio di Lev Manovich “L’estetica dell’intelligenza artificiale. Modelli digitali e analitica culturale”, a cura di Valentino Catricalà, edito da Luca Sossella.
Fra posizioni opposte, si fa strada anche il pensiero di quanti affermano che siamo giunti in un momento storico in cui le novità delle tecnologie (prima fra tutte l’AI) potrebbero non essere più gestibili da noi umani. Non si tratta di fantascienza, di robot che si ribellano, e altri terrori da schermo cinematografico o pagine letterarie, ma dell’approdo a possibilità prima assolutamente inconcepibili. A cambiamenti sociali cui il genere umano si troverebbe del tutto impreparato con conseguenze imprevedibili ma di sicuro non allegre.
Rinunciare ai tanti vantaggi del progresso? No, sostengono questi ultimi, ma studiare i modi per prendere il più possibile i vantaggi del nuovo, riducendo i rischi di quel nuovo.

Su questo tema si annuncia il WUDRome 2020.
Di che cosa si tratta, dove e quando, lo affido al comunicato stampa che mi è pervenuto.

«2005-2020: negli ultimi 15 anni la tecnologia, l’intelligenza artificiale, la machine learning hanno fatto passi da giganti, dando luce al mondo del touch, della 3D alteration, degli smartphone, di app che possono, addirittura, valutare lo stato di salute dell’essere umano, monitorarlo costantemente. Se parole come deep fake, chatbot, biohacking (insieme a molte altre) sono ormai entrate nel lessico quotidiano di tutti, la sfida dell’intelligenza artificiale è ancora tutta da giocare.

Per 3 giorni, lo scacchiere internazionale dedicato all’Intelligenza Artificiale vedrà riuniti esperti da tutto il mondo, sarà WUD - World Usability Day.
Google, Microsoft, Twitter, Dataninja, ma anche Tlon, Pi Campus e molti altri saranno gli ospiti di WUDRome 2020, la settima edizione dell’evento italiano, che dall’11 al 13 novembre, vedrà confrontarsi - online - designer, ricercatori, sviluppatori e professionisti della comunicazione italiani e internazionali per rispondere a una delle più grandi questioni aperte della contemporaneità: il rapporto tra Intelligenza Artificiale ed essere umano, la “Human-centered Artificial Intelligence”.

Come costruire un futuro che abbia a che fare con l’intelligenza artificiale e che allo stesso tempo risulti sicuro? Come includere l’intelligenza artificiale per progettare un domani migliore che non rappresenti una minaccia?
“In occasione di WUDRome 2020” spiega Carlo Frinolli, CEO e Co-founder di WUDRome “ripercorreremo gli aspetti più importanti legati alla progettazione e alle opportunità (e minacce) con l’intelligenza artificiale: dagli algoritmi (ovvero i modi in cui funzionano) collaborativi, all’etica delle scelte, fino alla sfida della progettazione di un’intelligenza che non sia computazionale, ma emotiva. Scopriremo ambiti di applicazione, casi di studio, pratiche virtuose, rischi applicativi e opportunità che si nascondono tra le pieghe di queste nuove tecnologie per metterle al servizio delle persone, dei loro bisogni creando soluzioni tecnologiche abilitanti e inclusive”. E così conclude: “Il nostro lavoro, il lavoro di noi designer è immaginare il futuro, progettare per innovare, stimolare il cambiamento e creare inclusione. Progettiamo con e per le persone e così deve essere anche per gli algoritmi e l’intelligenza artificiale che permea le nostre vite e le nostre relazioni. L’Intelligenza Artificiale deve avere al centro l’essere umano”».

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web:
Ufficio Stampa: Marta Volterra, marta.volterra@hf4.it 340 - 96 900 12

WUDRome 2020 si svolgerà online QUI dall’11 al 13 novembre.

CLIC per leggere il programma.


L'altra parte (1)


La casa editrice Moretti&Vitali, nella collana Amore e Psiche diretta da Carla Stroppa e Marta Tibaldi, ha pubblicato L'altra parte I fantasmi della psiche al cinema.
L’autore è il critico e saggista Angelo Moscariello.
Docente di Storia del Cinema presso l’università di L’Aquila e docente dalla sua fondazione presso l’Accademia dell’Immagine della stessa città.
Fra i suoi libri, su questo sito in occasione dell’uscita del volume “Breviario di estetica del cinema, si trova una una conversazione con lui”.
“L’altra parte” è un titolo che richiama quello di un romanzo pubblicato nel 1909 dallo scrittore-pittore austriaco Alfred Kubin.

Per conoscere di Moscariello il suo pensiero sul cinema e il mondo che lo circonda, o assedia, QUI una raccolta di alcuni scritti e segnalo anche quest'intervista.

Estratto dalla Premessa

«“Die andere seite” di Alfred Kubin è volutamente rievocato nella titolazione di questo volume di Angelo Moscariello. Quel libro dei primi anni del secolo scorso si inserisce nella grande tradizione del “romanzo fantastico” risalente a Edgar Allan Poe o E.T. Hoffmann, esploratori dell’inconscio in forme tra l’onirico, l’assurdo e il grottesco. Tra gli ammiratori di questi romanzi troviamo il fondatore della psicologia analitica Carl Gustav Jung il quale li cita spesso, citandoli a proposito della creatività artistica, come esempi di opere dove si realizza con successo quella che lui chiama “funzione trascendente” capace di conciliare nella rappresentazione l’“altra parte” – costituita dai fantasmi dell’inconscio – con il piano della coscienza. Jung sottolinea la centralità dell’“immagine” scaturita dalla fantasia attiva, quella stessa immagine che sta alla base dell’arte del cinema. E proprio il cinema capace di esplorare l’“altra parte” è al centro di questo libro, partendo da quei film di ieri e di oggi che Jung avrebbe amato in quanto conferma visibile della sua teoria sull’arte, titoli che vanno dai classici Suspense e Gli invasati ai più recenti L’inquilino del terzo piano e Mulholland Drive nei quali affiora il perturbante freudiano e le immagini riflettono gli incubi che ci assalgono di giorno e di notte».

Segue ora un incontro con Angelo Moscariello.


L'altra parte (2)


Ad Angelo Moscariello (in foto) ho rivolto alcune domande.

‘L’altra parte. Territorio fra inconscio e coscienza è una terra di nessuno oppure chi ne sono gli occupanti?

L’altra parte è la zona intermedia tra l’inconscio e la coscienza alla quale si accede attraverso la porta del sogno che è un varco misterioso che ci mette in contatto con l’altro-noi-stessi e fa emergere alla luce il nostro profondo popolato di fantasmi personali e collettivi. Come dice Jung “ il sogno è la piccola porta occulta che conduce alla parte più nascosta e intima dell’anima” una porta aperta “all’originaria notte cosmica che era anima assai prima che esistesse una coscienza dell’Io”.

Perché proprio l’occhio cinematografico avrebbe la possibilità di scrutare ‘l’altra parte’?

L’occhio del cinema può scrutare meglio questa parte in virtù della natura animistica del linguaggio cinematografico, una virtù posseduta dalla pellicola il cui nitrato d’argento opera quella trasmutazione alchemica delle cose in simboli di cui parlava negli anni Venti il regista e teorico Jean Epstein ( questo almeno prima dell’avvento del digitale che ha privato il cinema della sua magia originaria e prima della rilocazione dello stesso sulle piattaforme casalinghe). Il fascio di luce che fende il buio della sala è il tramite per poter accedere a un mondo altro che è più reale di quello reale,un mondo popolato dai mille volti segreti di noi la cui visione produce un effetto che è quello del “perturbante” studiato da Freud ( lo stesso effetto presente in alcuni dei film analizzati nel mio libro). Come diceva Artaud il cinema, quando non è asservito né al teatro né alla letteratura, “ può implicare un rovesciamento completo dei valori, uno sconvolgimento dell’ottica, della prospettiva, dei valori. E’ più eccitante del fosforo, più accattivante dell’amore”.

Il titolo di un paragrafo del libro recita “Perché davanti allo schermo Jung è meglio di Freud”. Quell’affermazione la faccio diventare una domanda.

Davanti allo schermo Jung è meglio di Freud perché Jung è più aperto a una dimensione magica e cosmica del mondo come dimostra la sua teoria degli archetipi, a differenza di Freud che non deroga mai dalle premesse razionalistiche nella sua analisi tanto da fare un “dogma” dei suoi principi ( cosa che provocò la sofferta rottura tra il maestro e il suo allievo). Oggi gli studiosi di cinema in chiave psicoanalitica si stanno orientando sempre più su Jung vista la polivalenza del metodo junghiano rispetto a quello più univoco di Freud seguito soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta ( ad esempio nelle analisi dei film di Hitchcock). La psiche è immagine, dice Jung, il cinema è immagine, dunque il cinema è per sua natura psiche.

È paragonabile attraverso l’immagine cinematografica il risveglio di ricordi sepolti nel profondo dello spettatore con quello prodotto dall’assunzione di sostanze psichedeliche?

Sulla capacità delle sostanze psichedeliche di risvegliare ricordi sepolti nel profondo dello spettatore rinvio di nuovo a Jung il quale negava a tali sostanze la capacità di integrare il piano dell’inconscio in quello della coscienza. A proposito del peyote a base di mescalina da lui studiato durante il soggiorno presso gli indiani Pueblo nel Nuovo Messico Jung dice che “la mescalina è una scorciatoia che può giungere a impressioni estetiche soffocanti ma che, come esperienza isolata, non integrata, non aiuta lo sviluppo della personalità” e chiarisce che gli stati svelati dalla droga “ sono trascendenti solo in senso psichico, ma non sono affatto “trascendentali”, cioè metafisici”, e questo in contrasto con gli psichiatri americani che negli anni ’60 ne consigliavano l’uso a scopo terapeutico. Quanto a Freud egli ammetteva negli uomini l’uso di sostanze “inebrianti” per rimediare ai problemi psicologici connessi con il “disagio della civiltà” e ricordiamo che fu lui stesso per alcuni anni consumatore di cocaina nonché del tabacco di quei sigari che gli avrebbero provocato il cancro alla gola per cui morì. Come si può dedurre dal confronto tra i due Freud fu solo sapiente mentre Jung fu anche saggio (invece che solo “mistico” come gli rimproverò l’illuminista Freud).

………………………….

Angelo Moscariello
L’altra parte
Pagine 120, Euro 12.00
Moretti&Vitali


Il valore del tempo


Tra le domande che noi umani ci poniamo senza accordo sulla risposta c’è quella sul Tempo. Esiste oppure no? Quale ruolo recita nel mondo e quale significato attribuire alla sua presenza o alla sua assenza?
Fin dai tempi di Platone («Il Tempo: immagine mobile dell'eternità») e scavalcando secoli arrivando ad Agostino d’Ippona («Il tempo? Se non me lo chiedi so cos’è. Ma se me lo chiedi non lo so più»). Nessuna incertezza, invece ebbe quel dottore della Chiesa nel giudicare la donna («La donna è maligna e mira ad umiliare il marito, è piena di cattiveria e principio di ogni lite e guerra, via e cammino di tutte le iniquità», vabbè, chiudiamola qui, ma ricordarlo non è male.
E che dire del Tempo di cui dal secolo scorso si occupano tutti i fisici teorici che cercano di unificare la relatività generale di Albert Einstein e la meccanica quantistica in un’unica teoria unitaria?

La casa editrice Hoepli ha pubblicato un poderoso saggio intitolato Il valore del tempo Mito, fisica e ambiente che riflette su quel grande tema.
L’autore è Walter Grassi.
Professore ordinario di fisica tecnica all'Università di Pisa.
Ha lavorato presso l'Università di Houston per conto del Department of Energy, USA.
Inoltre, ha svolto ricerche in microgravità (ESA) e collaborato con ENEA su temi di risparmio energetico.

Come scrive Elena Rinaldi nella Prefazione: “Partendo dalle diverse visioni del pensiero greco, Walter Grassi ci accompagna in una riflessione che intreccia domande filosofiche con teorie scientifiche. Da una parte gli scienziati hanno cercato di misurare il tempo in modo sempre più preciso e dall’altra hanno notato che quando nulla cambia in un sistema pare che il tempo non scorra. Si ha dunque l’impressione, come scrive lo stesso autore, che sia destinato al “non essere” poiché come passato è stato, ma non è più, mentre come futuro sarà, ma non è ancora”.

Se sfogliate “Il valore del tempo” sul banco di una libreria, può capitare che l’occhio scorga alcune pagine con formule matematiche che possono scoraggiare l’acquisto. Dont’ panic, please! Chi scrive questa nota è lontano dalla comprensione del mondo dei numeri (e me ne vergogno perché ho capito – tardi – che quello è un mondo poetico) eppure quei segni, da me atleticamente saltati, non mi hanno impedito di seguire il ragionamento svolto nelle pagine tanta è la chiarezza d’esposizione di Walter Grassi. Un libro, infatti, che parte da osservazioni sul cane dell’autore e le proprietà di conoscenza di quel quadrupede giungendo nelle conclusioni a riflessioni su cause e conseguenze del Covid 19 che sta assediando l’umanità.
ll Tempo, qualunque sia quella sostanza immateriale, ci è alleato o nemico?
Dice Claudio Magris: “Per quel che mi riguarda, il tempo è essenzialmente il presente. «Il tempo passa, Aureliano» — «Mica tanto». Così è detto in Cent’anni di solitudine. Mi sembra che, in qualche modo, tutto sia presente. Dante «è», non «era» un poeta. Così le persone che hanno accompagnato la nostra vita sono, anche se hanno varcato la soglia finale; sono con noi e in noi, come il rosso o il blu che la nostra mente accoglie traducendo la lunghezza d’onda”

Funzione e finzioni, incontro e scacco del Tempo li trovo esemplificati in questi versi di Corrado Costa che cito dalla sua composizione intitolata “Il fiume”.
Greta Garbo / si contempla nel film / e vede il film che si contempla / in Greta Garbo. / Noi li vediamo rimanere / e scorrere. / Greta Garbo che vede un vecchio film / di Greta Garbo / lo vede scorrere / lentamente in avanti / e lentamente lo vede / rimanere indietro / rimanere e scorrere / è parlare di un fiume / che scorre come il tempo / dietro le spalle / di Greta Garbo.

Dalla presentazione editoriale di “Il valore del tempo.
«Nella storia della scienza, e nella storia in generale, non si può prescindere dal concetto di tempo, passando per le idee di tempo assoluto, relativo, irreversibile. Il contributo più noto, o almeno il più popolare anche se non sempre realmente compreso, è stato quello di Einstein, che tolse ai fisici, e non solo a loro, l'illusione nata con Galileo e Newton che il tempo fosse universale. Oggi la termodinamica insegna che il tempo ha una direzione preferenziale, in avanti, ed è irreversibile, come Prigogine mise a fuoco negli ultimi decenni del Novecento. Il volume aiuta a capire come si possano misurare i rapporti di causa ed effetto, e i tempi diversi fra quelli del pianeta Terra e degli esseri che esso ospita. Temi questi assolutamente decisivi poiché ne va della sopravvivenza dell'intero sistema o, come lo chiamava Lovelock, di Gaia».

Walter Grassi
Il valore del tempo
Prefazione di Elena Rinaldi
Pagine 182, Euro 12.90
Hoepli


Il mio gatto mi mangerà gli occhi?


La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato Il mio gatto mi mangerà gli occhi?, manuale di autodifesa da felini domestici particolarmente aggressivi? Non proprio.
L’autrice è Caitlin Doughty nata a Kaneohe (Hawaii), florida ragazza dalla risata contagiosa (finalmente un contagio da non temere!), parlantina veloce accompagnata con smorfiette da bambinaccia, persona dalla simpatia immediata.
Anche blogger e scrittrice. Professione: impresaria di pompe funebri.
Oppure, se vi sembra un’espressione tenebrosa, si può dire “operatrice funeraria”, ma, secondo me, così è peggio.
Nel 2011 ha creato un canale YouTube di grande successo: Ask a Mortician.
Dalla sua esperienza in un centro crematorio ha tratto i saggi “Smoke Gets in Your Eyes” (2014), da quella d’imbalsamatrice il volume “From Here to Eternity” (2017).
È fondatrice dell’organizzazione The Order of Good Death.
Ecco perché il suo volume reca il sottotitolo che segue (prima da me volutamente taciuto): e altre grandi domande sulla morte.
Ulteriori, diffuse, forse troppo diffuse, notizie biografiche su Doughty: CLIC.

Caitlin risponde in modo competente, senza nascondere anche imbarazzanti particolari (ottici, tattili e olfattivi), alle più bizzarre domande che le sono rivolte; le più fantasiose provengono, ma non ci sorprende, dai bambini. Risposte che hanno il tono leggero di chi, come l’autrice spesso ripete, consideri la morte un avvenimento naturale com’è la nascita. Solo pochi gruppi etnici al mondo (per esempio Andamani, Pigmei, Gond) considerano la morte di un componente la collettività come uno dei tanti aspetti della natura. E così, ovviamente, Caitlin Doughty che al decesso toglie ogni atmosfera orrorifica o morbosa al contrario degli autori di letteratura gotica e di Poe (troppo spesso, però, si tralascia di lui che scrisse anche pagine umoristiche come "L'uomo d'affari", "Tre domeniche in una settimana" e tante altre).
Di fronte a certe risposte che dà questa birichina hawaiana si ripropongono vecchie domande: si può ridere della morte? È legittimo o è irriverente?
Dipende da molte cose, prime fra tutte l’intelligenza di chi induce al sorriso. Cito, per capirci, un brillante esempio. Quando Mario Monicelli, sapendosi incurabile, si suicidò lanciandosi nel vuoto da una finestra dell’ospedale dov’era ricoverato, il famoso sito Spinoza.it scrisse «Monicelli, 95 anni, sfugge alla morte buttandosi dalla finestra», facendo sì ridere ma tracciando al tempo stesso un affettuoso e filosofico ritratto di un uomo che, tra l’altro, era stato per tutta la vita un amante dell’umorismo nero.
Il caso di Doughty è parallelo, ma ancora diverso, descrive un’esperienza professionale di un lavoro a contatto con il più grande dei nostri tabù, e di quella realtà mette in evidenza gli aspetti quotidiani più singolari e bizzarri.
Ride ma non irride.
Dal suo libro traspare pure una garbata riflessione su certe abitudini d’agghindare i cadaveri, anche qui non priva di qualche lato buffo. Garbata, dicevo, ma che fa pensare a quella invece aspra critica sullo stesso tema contenuta nel racconto umoristico “Il caro estinto” di Evelyn Waugh e nel film omonimo che ne fu ricavato diretto da Tony Richardson.
Ancora una cosa. Riguarda il titolo del libro frutto di una domanda rivolta all’autrice: “Se una persona all’improvviso muore e abitando soltanto con un gatto nessuno lo viene a sapere, quel povero micio dopo giorni, in preda alla fame, le mangerà gli occhi”?
“No” – risponde Doughty – “No. O almeno non subito”.

Dalla presentazione editoriale.
«Se prima di morire mangio un sacco di pop-corn crudi che cosa succede quando mi cremano? I gemelli siamesi muoiono sempre nello stesso momento? Se muoio facendo una smorfia mi resterà per sempre? È vero che sugli aerei c’è uno scomparto segreto per chi muore in volo? Posso far conservare il mio corpo nell’ambra come gli insetti di Jurassic Park? Ogni domanda sulla morte è un’ottima domanda.
Con “Il mio gatto mi mangerà gli occhi?” Caitlin Doughty risponde a tutti gli interrogativi possibili su cadaveri, sepolture e funerali e vi fa scoprire gli aspetti più bizzarri e inaspettati della grande livellatrice. Imparerete così che anche da morti potete fare cose molto utili come donare il sangue; che se vi viene un coccolone mentre cenate la vostra fetta di pizza ha ancora molta strada da fare e molte cose da raccontare; che la pellicola da cucina è essenziale per rendere presentabile un cadavere; che tutte le leggende metropolitane di morti a cui crescono i capelli o che si mettono a sedere nell’obitorio sono, appunto, leggende; che se volete diventare uno scheletro bello pulito dovete farvi seppellire in un terreno umido, argilloso e ricco di microrganismi, mentre se volete diventare una splendida mummia dovete scegliere un suolo arido.
Con “Il mio gatto mi mangerà gli occhi?” scoprirete soprattutto un modo diverso di pensare alla morte e comincerete a vederla come un evento del tutto naturale, di cui conoscere i processi chimici e con cui avere a che fare attraverso riti meno alienanti di quelli attualmente in uso nella nostra cultura; e su cui si può anche sorridere».

Caitlin Doughty
Il mio gatto mi mangerà gli occhi?
Traduzione di Alessandra Castellazzi
Illustrazioni di Dianné Ruz
Pagine 232, Euro 17.00
il Saggiatore


La Festa dei Vivi

Mi è pervenuto un comunicato che segnala l'11ª edizione della Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte).
«Per l’occasione» – è scritto – «qualcuno a San Cesario, nella sede della Fondazione Lac o Le Mon, farà qualcosa.
Immaginiamo di poter condividere con tutte le persone, ovunque esse siano, lo spirito della Casa Cafausica, del terreno che la circonda, delle piante e degli alberi, vivi e morti, morenti e nascituri, che fanno ombra e fanno respirare».

Quell’avvenimento fu fatto nascere da Emilio Fantin - Luigi Negro - Giancarlo Norese - Cesare Pietroiusti – Luigi Presicce.
So di che cosa si tratta perché una volta invitato a quella Festa vi partecipai con un mio testo.
Per tutti quelli che non sanno, ecco due link che spiegano tutto.

Il primo è della Rivista Alfabeta di qualche anno fa: CLIC.
Il secondo, su Flash Art, illumina sulla Fondazione Lac o Le Mon: RICLIC!

Un’idea mi frulla
scema come una rosa
Dopo di noi non c’è nulla.
Nemmeno il nulla
che già sarebbe qualcosa.

(Giorgio Caproni)


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