Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
mercoledì, 31 gennaio 2024
La vita delle parole
Che cosa sono le parole? Alcuni pareri di grandi firme. - Le parole sono le mie puttane. (Denis Diderot) - Uno è padrone di ciò che tace e schiavo di ciò di cui parla. (Sigmund Freud) - Le parole sono ancelle d’una Circe bagasciona, e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinnìo (Carlo Emilio Gadda) - Per le donne il miglior afrodisiaco sono le parole. Il punto “G” è nelle loro orecchie. Chi lo cerca più in basso sta sprecando il suo tempo. (Isabel Allende) Qualche curiosità sulle parole. Qual è la parola più pronunciata al mondo? Pare sia “ok” pronunciata in molte lingue. E quella più lunga? Sembra imbattibile l’inglese methionylthreonylthreonyl (…) isoleucina, composta da ben 189.819 lettere. È il nome chimico di una proteina, la titina. La parola è così lunga che per pronunciarla per intero ci vogliono più di tre ore. Su parole correnti e rare di casa nostra, sul loro significato studiato dalla semantica, sui percorsi sociali e storici sui quali corrono, in voce e scritte, la casa editrice il Mulino ha pubblicato La vita delle parole Il lessico dell'italiano tra storia e società destinato ad essere un ever green.. L’autore è Giuseppe Antonelli. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Pavia, collabora con il «Corriere della Sera» e racconta storie di parole su Rai Tre. Tra i suoi ultimi libri: «Il museo della lingua italiana» (Mondadori, 20202), «Il Dante di tutti. Un’epopea pop» (Einaudi, 2022). Con il Mulino ha già pubblicato «Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato» (2010) QUI su questo sito un mio incontro con lui in occasione di quella pubblicazione. Altro titolo nel catalogo del Mulino: «L’italiano nella società della comunicazione 2.0» (2016). L’incipit del saggio introduttivo di Antonelli in "La vita delle parole": «Se vogliamo fare il mestiere più difficile, il mestiere di esseri umani e persone civili, possiamo e dobbiamo trovare, fra le parole della lingua, quelle che fanno viaggiare meglio i sensi che vogliamo esprimere. Ciò che scriveva Tullio De Mauro nella sua Guida all’uso delle parole si presta perfettamente a rendere il senso di un’opera collettiva come questa, tutta dedicata al lessico dell’italiano. Conoscere meglio le parole della nostra lingua – la loro storia, i loro significati, le loro ricadute – significa poterle usare con maggiore cura, efficacia, consapevolezza». In questo video il curatore illustra il profilo della cospicua opera che conta quasi 800 pagine. Il libro è dedicato alla memoria di Luca Serianni. Nel volume, oltre al testo del curatore che ho citato prima, si leggono interventi di Marcello Aprile, Roberta Cella, Davide Colussi, Nicola De Blasi, Rita Fresu, Riccardo Gualdo, Gianluca Lauta, Sergio Lubello, Marco Mancini, Federico Milone, Michele Napolitano, Alessandro Parenti, Lucilla Pizzoli, Maria Silvia Rati, Alessio Ricci, Luca Serianni, Stefano Telve, Pietro Trifone, Paolo Zublena. Dalla presentazione editoriale. «Ci sono parole che per ognuno di noi hanno un valore speciale: da cui la memoria sprigiona in forma di pura emozione, si fa sentimento attraverso i sensi; porta con sé un suo sapore, un suo odore o colore, una superficie levigata o ruvida, una strana consistenza concreta e tridimensionale. Oggi che ogni nostra parola può essere amplificata, moltiplicata, enfatizzata dalla rete e dai social network, la responsabilità delle parole è diventata molto più gravosa. Oggi più che mai, le parole sono pietre e per questo è fondamentale conoscerle ed essere in grado di usarle con cognizione di causa. Tutti noi viviamo una vita tra le parole. Parole d’amore e d’odio, parole di lavoro; parole dette, scritte, lette, ascoltate, sentite e dimenticate, parole sbagliate. E poi, ancora, parole che evocano emozioni o ricordi, parole che mancano, perché proprio non ci vengono, parole che non si riescono a dire, e parole che non si possono dire. Nel continuo flusso di informazioni da cui ogni giorno siamo raggiunti, le parole condizionano sempre di più la nostra vita: il nostro modo di pensare e di agire. Conoscere meglio le parole della nostra lingua – la loro storia, i loro significati, le loro ricadute – significa poterle usare con maggiore cura, efficacia, consapevolezza. Questo nuovo libro curato da Giuseppe Antonelli è uno straordinario viaggio alla scoperta del patrimonio lessicale dell’italiano, una lettura di grande piacevolezza, che riserverà utili consigli, curiosità e sorprese». Mi piace concludere con una riflessione su parole e numeri di un grande linguista: Tullio De Mauro. Egli scrive: “Per essere cauti si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso”. ………………………………... La vita delle parole A cura di Giuseppe Antonelli 792 pagine * 38.00 euro e-book, formato e-Pub 23.99 il Mulino
martedì, 30 gennaio 2024
Come l'intelligenza artificiale cambia il mondo
La più bella definizione dell’Intelligenza Artificiale, in sigla italiana IA, l’ho trovata finora scritta da Carola Barbero: “… ci aiuta e ci confonde, ci isola e ci connette, ci delude e ci stupisce, registrando tutto senza capire niente”. In quest’epoca delle ‘psicotecnologie’ (copyright Dennis De Kerchove), l’IA è diventata protagonista sulla stampa quotidiana e periodica, alla radio, alla tv, sul web, impersonando al tempo stesso ogni Bene ed ogni Male. Nello scenario contemporaneo la digitalizzazione ha avuto un impatto eccezionale con una serie di progressi tecnologici: l'Internet delle cose, la blockchain, l'automazione robotica dei processi, i veicoli autonomi, l'analisi dei big data, la sterminata memoria d’Internet. L’IA è tutto questo più altro e proietta l’umanità in un mondo inimmaginabile appena pochi anni fa. Vari e contrastanti i giudizi sull’IA. • Sam Altman, fondatore e Ceo di OpenAI al Senato degli Stati Uniti: “La mia più grande paura è che il campo dell’AI possa davvero far male al mondo. Se questa tecnologia prende la direzione sbagliata. Penso anche alle elezioni presidenziali americane, area di grande interesse”.
• Lo scienziato taiwanese Kai-Fu Lee, tra i massimi esperti al mondo di IA: “La tecnologia genera sempre preoccupazioni. Anche l’automobile era considerata spaventosa, e così l’elettricità ed i personal computer. Le tecnologie nel breve termine creano problemi. Sul lungo periodo però tutte le innovazioni hanno portato più benefici che danni”. • Helga Nowotny docente di studi sociali all’Eth di Zurigo: “L’IA con gli algoritmi predittivi usa big data trascorsi per prevedere il futuro, ma così facendo perpetua il passato e riduce le possibilità di cambiamento. Il rischio è di trovarci a vivere in un mondo deterministico in cui il futuro è già deciso a priori”. • Hiroshi Ishiguro, docente all’università di Osaka, noto per il suo lavoro su androidi dall’aspetto umano: “L’IA è fluida e transgender. ChatGPT è solo un grosso data base, un enorme modello statistico. Non pensa nulla, non può creare concetti suoi ma è bravissima a riorganizzare i concetti che ha dentro, su cui ha studiato e imparato. Nel prossimo decennio ci sarà utile quale strumento quando ci serviranno robot non come li conosciamo ora, ma robot avatar teleoperati da remoto al cui interno mettere la nostra presenza, così da poter camminare in posti distanti, lavorare, studiare, superare gli handicap, partecipare a incontri. La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un libro che fa luce su vantaggi e rischi dell’IA. Titolo: Come l'intelligenza artificiale cambia il mondo Le promesse, i pericoli, le scelte che dobbiamo fare. QUI Indice e Anteprima. L’autore è Stefano Machera Laureato in Fisica, è Senior Manager in una delle principali aziende di soluzioni informatiche e di high-tech d'Italia. Lavora da oltre 35 anni nel campo dell'Information Technology, prevalentemente come consulente e Program Manager per diverse delle maggiori aziende italiane. Appassionato di scienza, economia e politica, scrive sulla rivista online "Readaction Magazine". Ha pubblicato con il sociologo Claudio Bezzi il saggio “Pensare la democrazia nel terzo millennio”. Per un giro fra suoi scritti: CLIC. Dalla presentazione editoriale. «Sentiamo ogni giorno parlare di Intelligenza Artificiale, a volte come la bacchetta magica che risolverà ogni nostro problema, altre volte come la più grande minaccia per l'umanità. Cosa dobbiamo davvero sapere, come cittadini, sull'Intelligenza Artificiale? Quali sono le sue promesse credibili, e quali i rischi che comporta? E, soprattutto, cosa si può e si deve fare per far sì che l'IA, alla fine, non sia solo un mezzo per produrre un maggior profitto per pochi, ma renda migliore la nostra vita e quella dei nostri figli? Quale nuovo mondo possiamo costruire per noi, e per loro? Questo libro, destinato ai lettori interessati ma non necessariamente specialisti, vuole rispondere proprio a queste domande, senza tecnicismi ma senza comunque rinunciare a spiegare l'essenziale, ponendo al centro dell'attenzione le potenziali trasformazioni della nostra organizzazione economico-sociale che potranno trarre origine dai futuri sviluppi dell'IA, se accompagnata da una visione politica finalmente lungimirante». ………………………........................................ Stefano Machera Come l'intelligenza artificiale cambia il mondo 150 pagine * 21.00 euro PdF con Drm 17.99 euro Epub con Drm 17.99 euro FrancoAngeli
lunedì, 29 gennaio 2024
Carne coltivata
Tra i dibattiti privi di basi scientifiche c’è quello sulla carne coltivata o detta sintetica. Coltivata o sintetica, non si tratta, infatti, di carne artificiale. E' carne vera. D’accordo, basterebbe pensare che contro quel tipo di carne si è espresso il ministro Lollobrigida per scegliere il contrario di quanto lui sostiene, ma non fermiamo il treno fuori percorso dal ragionamento degli scienziati.
QUI il discorso al Senato della biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo. L’Associazione Luca Coscioni si è rivolta all’Unione Europea per provare a fermare l’assurdo proibizionismo preventivo sulla “carne coltivata”. Ha presentato, infatti, un parere, redatto in collaborazione con le giuriste Vitalba Azzollini e Giulia Perrone nell'ambito della procedura TRIS presso la Commissione Europea. La procedura TRIS è quella per cui l’Unione Europea valuta la compatibilità di progetti di legge degli Stati membri con il diritto europeo relativo alla libera circolazione delle merci. Invece di depositare un progetto di legge come prevede la procedura, il Governo Meloni ha depositato una legge già approvata. In attesa della valutazione della Commissione Europea, prevista entro i primi di marzo, il parere dell’Associazione Coscioni è qui leggibile con un CLIC. I rilievi riguardano il diritto europeo e gli obblighi internazionali relativi al Diritto alla Scienza. Per saperne di più, consiglio l’ascolto della puntata del Maratoneta su Radio Radicale: ancora CLIC. Un plauso di Cosmotaxi va a Lorenzo Mineo - Responsabile della campagna sulla carne coltivata e a Marco Perduca - Cofondatore di Science For Democracy.
Praticamente nulla da vendere
Tempo fa dedicai uno Special al prezioso Archivio Pari & Dispari, fondato da Rosanna Chiessi (in foto) e diretto oggi dalla figlia Laura Montanari. L’Archivio è protagonista prossimamente ad Arte Fiera – in occasione dei 50 anni della kermesse bolognese – con una mostra a cura di Uliana Zanetti intitolata Praticamente nulla da vendere La performance ad Arte Fiera nel 1976. Estratto dal comunicato stampa «Il titolo dell’esposizione – in collaborazione con il Museo d’Arte Moderna MAMbo – deriva da parole di Rosanna Chiessi che nella Fiera del 1976 disse: “Praticamente non avevamo nulla da vendere”. Uliana Zanetti è riuscita ad ampliare ciò che si sapeva sulla performance nell’edizione di Arte Fiera del 1976, in particolare ricostruendo l’attività di Rosanna Chiessi/Pari&Dispari insieme allo Studio Morra, da un lato, e la Galleria del Cavallino con la Ronald Feldman Fine Arts, dall’altro. In due grandi stand indipendenti si svolsero quotidianamente due programmi di performance per tutta la durata della Fiera. Nel giugno 1976 nello stand di Pari&Dispari e Studio Morra, intitolato “8 giorni 8 performances”, Hermann Nitsch mette in scena un happening del repertorio del Teatro delle Orge e dei Misteri secondo un rituale liturgico, imbrattando la persona crocifissa col sangue di un animale squartato che rimane impresso sulla tela. L’artista giapponese Fluxus Takako Saito inscena una performance-gioco con maschere di carta. Joe Jones realizza un concerto con gli strumenti musicali autosuonanti (cetra e bauletti). Geoff Hendricks si immerge in un happening di suoni naturali con materiali lignei. Urs Luthi nascosto da un passamontagna distribuisce negativi di sue fotografie, ma se esposti alla luce non sono più stampabili. Franco Vaccari inscena la performance Sogni, scattando fotografie dietro una tenda immerso nelle piante. Giuseppe Desiato procede alla vestizione e velature delle sue modelle come in una processione mediterranea. Heinz Cibulka infine realizza una performance assolutamente proibita in fiera: prepara una cena. Rosanna Chiessi segnalò che successivamente furono vietate le performances in Fiera per il loro valore dirompente al di fuori degli schemi tradizionali». D'accordo, Rosanna aveva nulla da vendere in quel 1976 ma aveva solo aperto un nuovo capitolo nella storia italiana della performance. Quanto servirebbe oggi una Chiessi... avercene! …………………………………..... Praticamente niente da vendere A cura di Uliana Zanetti Arte Fiera, Bologna Padiglione 25 2 - 4 febbraio 2024
venerdì, 26 gennaio 2024
Giornata della Memoria
“Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti. Un’ondata di cruente certezze fu tra le cause dell’Olocausto. Oggi, invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi negazionismi, talvolta tacitamente incoraggiati, o non puniti, perfino da vari governi.
La data per la “Giornata della Memoria” fu scelta per ricordare il 27 gennaio 1945, quando le truppe dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz). Lì scoprirono l’atroce campo di concentramento e liberarono i superstiti. La scoperta d’Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista, della Shoah. Shoah, in ebraico significa “annientamento”; indica lo sterminio di oltre sei milioni d’ebrei e preferisco questo termine a “olocausto” per eliminare qualunque idea di religiosità insita in quest’ultimo. I nazisti non furono soli nel commettere quel crimine contro l’umanità, furono aiutati da molti governi collaborazionisti e, prima ancora, dal fascismo italiano che il 6 ottobre 1938 promulgando le leggi razziali determinò la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager. Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio dello stesso anno, firmato da 10 scienziati italiani, sorretti da altre 329 firme; per sapere chi erano e come agirono consiglio la lettura di un volume che segnalai tempo fa in queste pagine:I Dieci. Circa quei nomi di vergognosa memoria, Franco Cuomo così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”. Furono tanti? Sì, tanti. Del resto, perché meravigliarsene? Il nostro è un paese in cui anni fa, di questo millennio, un presidente in carica del Consiglio dei Ministri, Berlusconi (il cui partito è ancora oggi componente della maggioranza), alla vigilia di una Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager e definì “luoghi di villeggiatura” i luoghi in cui il fascismo confinò gli oppositori. In questi giorni, poi, come accennavo in apertura, vanno moltiplicandosi, manifestazioni, spesso impunite, che inneggiano a passati regimi che si resero responsabili di quelle stragi. Si sente dire che è necessaria al proposito un’azione culturale che spieghi e illumini. Sì, è così, ma quell’azione ha tempi omeopatici ed è necessario accompagnarla anche con energiche misure punitive spesso ripetutamente mancanti nonostante l’esistenza di leggi esplicite al riguardo. Per libri più recenti pubblicati sul tema della Shoah, una panoramica la offre il Libraio.it. Ho ricevuto parecchi comunicati che segnalano spettacoli e mostre per ricordare quel 27 gennaio del 1945. Citare alcune di quelle occasioni potrebbe significare escluderne altre, allora scontento tutti e scelgo di pubblicare le immagini di un’opera - Yolocaust - pubblicata dall'ottimo webmag Exibart. È dell'autore satirico tedesco-israeliano Shahak Shapira autore che ha agito sul tema della Shoah dimostrando con i suoi fotomontaggi quanto non esiste limite alla stupidità di tanti che si fotografano in selfie durante una visita al Memoriale dell’Olocausto di Berlino.
mercoledì, 24 gennaio 2024
Pasolini nostro contemporaneo (1)
La casa editrice Marsilio ha pubblicato Pasolini nostro contemporaneo Prospettive e eredità. Il volume è a cura di Maura Locantore. Studiosa dell’opera di Pasolini, ha pubblicato molti contributi nell’àmbito della critica letteraria. È segretaria del Comitato Nazionale per le celebrazioni del Centenario di Pasolini, istituito dal Ministero della Cultura; è attualmente impegnata in un progetto di ricerca presso l’Université de Poitiers ed è stata docente incaricata del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Basilicata. Per le edizioni Marsilio ha curato nel 2022 il volume «Io lotto contro tutti». Pier Paolo Pasolini: la vita, la poesia, l’impegno e gli amici; tra i suoi altri lavori si ricordano: La sfinge nell’abisso. Pier Paolo Pasolini. Il mito, il rito e l’antico (UniversItalia 2020) e «Non sono venuto a portare la pace ma la spada». Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, cinquant’anni dopo in Basilicata (Sinestesie 2015).
Nel presentare il volume, Flavia Leonarduzzi scrive: “A cento anni dalla nascita, possiamo affermare che Pasolini è nostro contemporaneo. Anche attraverso questa pubblicazione si dimostra quanto il poeta di Casarsa sia stato in grado di rappresentare nelle arti, con il suo genio e il suo estro, i cambiamenti di una società in cui i valori della cultura erano smarriti. È così che la prospettiva pasoliniana diventa una lezione i cui sedimenti resistono tuttora e sono essenziali per promuovere, ancor più, una visione critica del mondo”. In ordine di apparizione nelle pagine scritti di: Giulio Ferroni - Guido Santato - Andrea Zannini - Mariarosa Santiloni - Eleonora Rimolo - Angelo Fàvaro - Carlo Vecce - Paolo Desogus - Massimo Fusillo - Giovanni La Rosa - Luciano Parisi - Renzo Paris - Mirella Armiero - Florinda Nardi - Rino Caputo. Dalla presentazione editoriale. «Il volume mette in luce, nella mutevolezza dei suoi testi critici e, persino, nel carattere incompiuto di molte sue prove letterarie, la inesausta ricerca di un’intensità fuori della parola ed esorbitante dai modi letterari. È il contatto diretto con la realtà, lo scavalcare la limitatezza, l’inadeguatezza, la corruzione del linguaggio, che genera la pasoliniana contaminazione di sempre nuovi codici espressivi, che trova senso e continuità in un bisogno di autenticità, in un desiderio spasmodico di conquistare una dimensione di verità integrale: un’urgenza atavica, fanciullesca, al tempo stesso sacra e narcisistica, il cui adempimento Pasolini sente continuamente minacciato. Dalla matrice esistenziale e dalla vocazione sperimentale della sua produzione, è invalsa la tendenza di leggere tutta l’opera di Pasolini come un unicum, in cui si declinano, in varie forme, le sfaccettature di alcune ossessioni, e di guardare alla parabola pasoliniana come una sola, vasta azione di militanza, che si snoda nell’impegno civile e che prolifera nel flusso di idee e di affetti radicati nella biografia». Segue ora un incontro con Maura Locantore.
Pasolini nostro contemporaneo (2)
A Maura Locantore (in foto) ho rivolto alcune domande.
Come e quando nasce questo libro? Il volume raccoglie i contributi del convegno internazionale di studi “Pasolini 100. Ieri. Oggi. Domani”. Un evento, organizzato dal Centro Studi Pasolini e da me curato, svoltosi nel novembre 2022 a Casarsa della Delizia e a cui hanno partecipato tanti studiosi pasoliniani. Il convegno, oltre ad avere la rara peculiarità di prevedere la pubblicazione degli atti e quindi di aggiungere pagine importanti alla bibliografia pasoliniana, ha voluto, in vista della conclusione delle celebrazioni dell’anno centenario, tracciare un bilancio sulla figura e l’opera dello scrittore più controverso del Novecento letterario italiano. Nel nostro presente, infatti, l'indagine sulla lezione, o, meglio ancora, sulle tante lezioni di Pasolini, deve essere intesa in senso prospettivo e, seguendo le traiettorie della sua multiforme produzione e del suo pensiero, deve essere orientata a valutare l'eredità pasoliniana offerta alle generazioni più giovani e alla cultura italiana ed europea del prossimo futuro. Da qui la scelta del sottotitolo. Perché Pier Paolo Pasolini è “nostro contemporaneo”? In termini di storia di lungo periodo cento anni potrebbero anche non essere poi così tanti, tuttavia, a guardarsi intorno, anche solo il tempo passato dalla morte tragica di Pasolini, pare marcare una distanza immensa e così, proprio per verificarne l'attualità o l'inattualità, è parso utile leggerlo dando peculiare rilievo proprio a quelle estensioni dove emergono, con particolare nettezza, la forza e l'originalità di un metodo critico che riesce a scavalcare molte antitesi teoriche degli ultimi decenni, a cominciare da quella fra indagine formale e interpretazione storico-sociale. Non è facile, in fin dei conti, decidere se il poeta delle Ceneri sia diventato ormai un classico e come tale inattuale e impraticabile nel presente, o se invece, come questa miscellanea prova a dimostrare, sia nostro contemporaneo e, neanche tanto implicitamente, la lettura della sua opera significhi scommettere ancora sulla sua disperata vitalità, sulla sua camusiana «resistenza alla aria del tempo», che è un po' anche la nostra. I diversi saggi contenuti nel volume, evidenziano, infatti, quanto sia contemporanea la capacità di Pasolini di privilegiare, insieme alla dimensione letteraria, stricto sensu, quella dei contesti e delle pratiche reali che la rendono possibile, facendone interagire le condizioni simboliche con quelle pragmatiche, in un lavoro culturale che è accompagnato dalla profonda consapevolezza di Pasolini dello stretto rapporto tra forme e contesti, scelte espressive e luoghi di espressione sia fisici che istituzionali. Che cosa ha significato per Pasolini l’incontro con il cinema? Si potrebbero dare molte interpretazioni e rintracciare svariati significati sull’argomento, soffermarsi a riflettere sulle tante pelliccole pasoliniane che hanno caratteristiche, tematiche e soggetti differenti, dal primo cinema neorealista fino al “Vangelo” e al suo controcanto de “La ricotta”, dal film-romanzo “Teorema” fino all’ultimo “Salò”.. Ecco io credo che sia meglio affidare direttamente all’autore la risposta, contenuta nella celebre intervista che Pasolini rilascia al critico inglese Jon Halliday nel 1968: «A mio parere, il cinema è sostanzialmente e naturalmente poetico, per le ragioni che le ho esposto: perché ha il carattere del sogno, perché è vicino ai sogni, perché una sequenza cinematografica e la sequenza di un ricordo o di un sogno – e non solo questo, ma le cose in se stesse – sono profondamente poetiche […]. ‘Il cinema di poesia’ è il cinema che adotta una particolare tecnica, proprio come un poeta adotta una particolare tecnica nello scrivere versi. Se si apre un libro di poesie, si riconosce immediatamente lo stile, il modo di rimare e tutto il resto: si vede la lingua come strumento, si contano le sillabe di un verso. L’equivalente di quello che si vede in un testo poetico lo si trova in un testo cinematografico, attraverso gli stilemi, ossia attraverso i movimenti di macchina e il montaggio. Per cui fare film è essere poeti». In questi ultimi anni si sono ripetuti i tentativi della Destra di trascinare, sia pure con qualche specioso distinguo, nella loro area la figura di Pasolini? Come lo spieghi? Ci sono scrittori che si stimano e si ammirano e ci sono scrittori di cui si sente il bisogno perché i loro libri lasciano un segno nella nostra vita, aprono una finestra su una realtà nuova o, più ancora, su un mondo nel quale ci si riconosce, in cui si scoprono e si ritrovano - con maggiore chiarezza - le proprie paure e le proprie speranze: “Esiste un'enorme zona d'ombra”, ha scritto Javier Marías, in cui solo la letteratura e le arti in genere possono penetrare; di certo, non per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l'immensità e la complessità: “è come accendere una debole fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì e di non dimenticarlo”. E, quindi, se la vita è insieme questa fonda oscurità e questa luce fioca ma tenace, la letteratura che non ha doveri di coerenza ideologica, non ha messaggi da proporre né sistemi filosofici e morali da enunciare, può e deve rappresentare la contraddittoria esperienza del tutto e del nulla della vita, del suo valore e della sua assurdità e Pasolini è stato il poeta di quell'enorme zona d'ombra e insieme di quella fiamma che permette di accorgersi del buio. Le tante strumentalizzazioni politiche operate intorno a Pier Paolo Pasolini sono semplicemente la conseguenza, a volte mediocre, del suo essere intellettuale fuori da ogni schema conformistico. …………………………………… A cura di Maura Locantore Pasolini nostro contemporaneo Presentazione di Flavia Leonarduzzi 192 pagine * 19.00 euro Marsilio
lunedì, 22 gennaio 2024
Marlene secondo Alfred Polgar
Ci sono libri che suscitano, perfino aldilà del testo stesso, interessi da parte degli editori e lettori più curiosi e sensibili. Uno di questi è stato pubblicato dalla.casa editrice Adelphi. Ha tre caratteristiche che ne fanno un piccolo scrigno di sorprese: il particolare contenuto, l’autore, l’avventura editoriale. Il volume traccia la biografia della celebre cantante e attrice tedesca naturalizzata statunitense Marlene Dietrich (1901 - 1992), fu anche nota per il suo impegno antinazista: “La sola attrice capace di «far sognare il nostro sangue nelle vene».“ L’autore del libro e della frase appena riportata è il viennese Alfred Polgar (1873 – 1955), QUI. suoi essenziali tratti biografici. Troppo essenziali. Perché (ma nessuna colpa ha Wikipedia) manca quanto in questa sede particolarmente ci riguarda. Cioè, il rapporto fra Marlene e Polgar che fu tra i tanti adoratori della grande diva fin da quando la vide nel 1927 impegnata in una parte nella commedia “Broadway” di Dinning e Abbot alla Kammerspiele di Vienna. Sostenuto economicamente da lei quando Polgar, sfuggito al nazismo, se la passava male. Scrive una biografia sì encomiastica ma sincera, nulla inventa e niente trascura, però un tormento lo affligge: quella figura dell’attrice trattata in misura tanto apologetica non sarà vista da altri quale un segno di riconoscenza? Insomma, il timore di passare per un ringraziamento a chi lo ha beneficato. Veniamo al terzo punto di curiosità che suscitano quelle pagine: l’avventura editoriale. Terminata la scrittura, il testo mai fu pubblicato. Poi nel 1984 (29 anni dopo la morte di Polgar è Ulrich Weinzierl a trovare il libro che conosciamo adesso con il titolo Marlene Ritratto di una dea.
QUI un estratto dale prime pagine. Risvolto «A metà degli anni Venti in un teatro viennese andava in scena Broadway, una dark comedy impreziosita da “cinque signorine elegantemente svestite”. Tra queste, ne spiccava una “di strana e avvincente bellezza”, che “sbrigava la sua parte con una sorta di baldanzosa bravura”. Alfred Polgar, che era tra il pubblico, ne rimase folgorato. Tanto che a distanza di anni – quando quell’attrice, assurta a fama mondiale, era ormai diventata il simbolo stesso del divismo cinematografico – scrisse questo ritratto ispirato, vera e propria ecfrasi dell’opera d’arte vivente che era Marlene Dietrich. Con quella leggerezza di tocco che lo aveva reso celebre nella Vienna di inizio Novecento, Polgar dipinge magistralmente i tratti che hanno fatto di Dietrich un fenomeno unico: un viso “che parla non solo all’occhio ma anche allo spirito”; una voce «in cui verità e illusione coesistono in maniera sconcertante”, e che “esercita una fortissima magia erotica”; il portamento inconfondibile di chi “ha la musica dentro” – e una personalità che si riflette nei personaggi da lei interpretati: “donne per le quali l’amore è l’aria che respirano, la rinuncia un peccato contro natura, l’infedeltà un imperativo della fedeltà che esse serbano al proprio io”». “Il volume contiene un saggio di Weinzierl che così lo conclude: “La Dietrich ritornò a Polgar da lettrice, come era già stata in precedenza. Nella sua copia del solo libro tascabile di Polgar apparso in vita, Im Lauf der Zeit [Col tempo], nella ristampa del 1959, Marlene rivela un interesse tutto particolare per il «Discorso sulla vecchiaia». Le frasi che seguono sono sottolineate in rosso e segnate con una x a margine: « Non mi accorgerei dei miei anni se gli altri non me li rammentassero continuamente. Non avvertirei l’età che ho se gli altri non insistessero a dirmi che devo avvertirla ». Marlene Dietrich qui si sentì compresa fino in fondo. La lotta per la « bellezza senza età » contro la vecchiaia e i suoi acciacchi fu la sola che alla fine perse, che doveva perdere...” Queste parole mi ricordano una frase di Cioran: ““La vecchiaia, in definitiva, non è che la punizione toccataci per essere vissuti". Non posso chiudere questa nota senza la voce di Marlene. Eccola, basta un CLIC. ……………………………………… Alfred Polgar Marlene Traduzione di Maria Letizia Travo Cura e saggio di Ulrich Weinzierl Con corredo di foto in b/n 112 pagine * 12.00 euro Adelphi
Elogio del Gender (1)
La casa editrice Fefè ha pubblicato un saggio assai interessante che va a inserirsi in modo maiuscolo nel dibattito sui modelli di dominio maschile nella società. Titolo: Elogio del Gender maschilismo: dominio e catastrofe planetaria Ne è autore Roberto Sabatini. Sociologo, docente di Scienze umane, avvia la sua attività di saggista con inchieste e riflessioni sull’erotismo, la pornografia, l’identità di genere e il fenomeno scambista (“L’Eros in Italia”, Milano 1988 e “L’astuzia del desiderio”, Roma 1996). Si dedica poi, da docente, allo studio del sistema formativo e del disagio giovanile con ricerche ed esperienze sul campo (“Malessere giovanile e sistema formativo”, Roma 2000). Affronta quindi il tema del sacro, dell’obsolescenza disadattiva e divisiva delle religioni (“La misura dell’infinito,” Roma 2003 e “Umano, molto umano”, Roma 2018). “Elogio del Eender” è un gran bel libro dedicato all’analisi delle dinamiche più distruttive che la nostra specie ha sempre messo in atto e che ora, rischiando di oltrepassare un punto di non ritorno, vanno ad investire economia, ambiente, salute, relazioni sociali. Sabatini pone all’origine del possibile disastro planetario (di cui avvertiamo plurali sintomi) la legge del più forte rappresentata dal ruolo del maschio come si è formato attraverso il tempo e come è diventato immagine che deve avere particolari requisiti per essere degno di appartenere al genere maschile. Essere impermeabile come tuta subacquea ai sentimenti, dirsi preparato ad ogni atto di coraggio, pronto a ogni esercizio di prestigio muscolare anche quando ha i reumatismi, manifestare al prossimo un minuto sì e l’altro pure la sua indefettibile eterosessualità approcciando chiassosa corte anche a donne alle quali non tiene ma altrettanto sollecito nel risalire in disordine e senza speranza le avances che aveva disceso con orgogliosa sicurezza, e soprattutto sempre e dovunque esercitando controllo e dominazione. Eppure, “Per quanto possa apparire paradossale” – scrive Sabatini in “Elogio del Gender” – “questo lavoro cercherà di mostrare che anche la maschilità è stata vittima del maschilismo. Forse è stata la parte che ha pagato il prezzo minore, ma ha comunque dovuto – e deve sempre – pagare un prezzo a questo integralismo distruttivo che ha prevalso nella storia della nostra specie. Essendo stata ed essendo ancora in gran parte la metà privilegiata della nostra specie, gli uomini hanno compreso poco e male i gravi danni etici, psicologici ed esistenziali che l’amplificazione esagerata e strumentale di alcune caratteristiche e potenzialità del loro genere ha prodotto; questa patologia sociale e culturale comporta invece gravi conseguenze anche per la maschilità: la posizione dominante di quest’ultima le ha solo attutite, rese più sopportabili”. Dalla presentazione editoriale «Il maschilismo è la legge del più forte, modello di dominio e di governo sociale e culturale. Nei secoli ha significato oppressione, ingiustizie e conflittualità sociali, invasione e sottomissione di popoli, saccheggio planetario. Molte religioni e quelle monoteiste in particolare si fondano sul maschilismo, che è invece un paradigma da abbandonare al più presto perché ci sta portando alla catastrofe: il collasso ambientale nel nome degli interessi di privilegiati e prevaricatori. Nell’ultima parte del libro – insperatamente propositiva – l’autore suggerisce alcune vie di fuga ancora percorribili: esse chiamano in causa proprio le dinamiche di genere e chiedono l’abbandono dei tradizionali spartiacque identitari fino all’androginia, una integrazione armoniosa del maschile e del femminile oltre tutti gli stereotipi». Segue ora un incontro con Roberto Sabatini.
Elogio del gender (2)
A Roberto Sabatini (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quale la principale motivazione che ha fatto nascere “Elogio del gender” ? Lo sdegno di appartenere al genere che ha prodotto e continua a produrre così tanti disastri e il bisogno improcrastinabile di contrastarlo nel solo modo in cui posso farlo io, ossia con le idee. Una tua definizione della parola “Gender” … Un termine anglofono per genere, inteso soprattutto come identità di, componente essenziale della personalità: il termine concerne soprattutto quel che siamo dalla vita in su, mentre sesso connota quel che siamo da un punto di vista più genitale. Nell’accingerti a questo saggio qual è stata la prima cosa che hai ritenuto da scrivere assolutamente per prima e quale quella assolutamente per prima da evitare? Una testimonianza indirettamente autobiografica: la sofferenza provata da tutti quei maschietti che, come me, non corrispondevano al paradigma maschilista in un mondo che, invece, chiedeva e imponeva loro di incarnarlo e anche l’ammissione, personale, di averlo compreso molto tardi. Malgrado questo ho cercato di evitare, invece, una vera e propria personalizzazione. Esiste una base scientifica per la cosiddetta “Teoria del Gender” oppure è un pensiero del tutto privo di scientificità? È’ una falsa e infondata attribuzione di scelte, comportamenti, identità e valori a chi si batte per una libertà personale e collettiva, creata apposta per screditare la comunità LGBTQIA+ e generare confusione sul tema. I sostenitori della Teoria del Gender si appellano sempre alla “Natura”. Ma che cosa ci dice la “Natura” al proposito? La natura fornisce potenzialità, predisposizioni, basi e materiali di partenza, insomma un patrimonio che non va trascurato e tantomeno negato, ma che lascia ampia libertà di assemblaggio, impiego e scelte di campo, ossia tutto il vasto ambito di modellamento della cultura. Una cultura che non tenesse conto della natura sarebbe evolutivamente disadattiva, ma la libertà di movimento che la natura concede non lascia alla cultura alcuna giustificazione: dobbiamo prenderci questa responsabilità! Da dove nasce e da che cosa è alimentata la paura che agita la propaganda no-gender? Prima di tutto fobia e pregiudizio verso orientamenti sessuali non etero e subito dopo verso le identità non cis o non perfettamente classificate come M o F in senso tradizionale. Paura che è sperimentata in più alta misura proprio da chi non accetta la propria complessità, da chi non sa fare i conti le ambiguità della propria identità e delle proprie propensioni sessuali. Un contributo per uscire fuori da questo terreno di scontro può venire da una opportuna valorizzazione del concetto di androginia. ll numero dei femminicidi e la brutalità con cui sono commessi inducono a pensare ad un esclusivo istinto omicida in parte dei maschi, ma è ipotizzabile anche una trasversalità della violenza che comprenda – come scrivi in una tua pagina – donne e perfino bambini. E allora?... Sfortunatamente la violenza può essere universale (e d’altra parte il maschilismo come modello può essere fatto proprio da tutti, donne incluse, ovviamente) e con le armi moderne la forza fisica, retaggio del maschile tradizionale, tende ad andare in secondo piano. Tuttavia i maschi sono i protagonisti largamente maggioritari delle brutalità sia per la loro storica consuetudine con la violenza, sia perché non sono stati formati ad una reale parità con l’altro genere e non sanno accettarla nella vita relazionale (le emozioni e i sentimenti sono ancora oggi considerati poco virili!) e quando non sono loro a gestire l’andamento e soprattutto la fine di un rapporto, lo sperimentano come una sconfitta bruciante, che li annienta e perdono ogni controllo (tanto che alcuni anche si suicidano). Il tuo libro nelle ultime pagine fa una panoramica tanto realistica quanto cruda della situazione sociale e psichica del mondo. Eppure, da quello scenario terribile prospetti nel finale “Prima che sia tardi: idee per vivere” e “Vie di fuga ancora possibili”. Come sei arrivato a quella conclusione? Un po’ la speranza, ma anche il riconoscimento che al mondo ci sono risorse umane e materiali che militano incessantemente contro il disastro, il declino, il saccheggio, lo sfruttamento, l’avvelenamento e via dicendo. Ci sono sempre state e non sono certo io a inventarle! Aggiungo però che non solo è ora di valorizzarle, di diffonderle, di praticarle, ma anche che questa opzione sta per diventare indilazionabile. Un'altra ragione della possibilità di farcela, almeno in extremis e almeno al minimo sindacale, è riposta nella circostanza che ben presto anche la porzione privilegiata dell’umanità sarà travolta dalla catastrofe che, appunto, definisco “planetaria”: insomma rallenteremo e forse anche fermeremo questa marcia suicida, ma non tanto per saggezza e lungimiranza, ma perché non ci saranno più alternative! Non ho fiducia nelle utopie e rigetto ogni assolutismo, perciò le mie vie di fuga sono possibili solo a prezzo di volontà, impegno, lavoro e consapevolezza: Le indicazioni di un Latouche possono dare una mano per cominciare! Ma non bisogna mai dimenticare che la regressione, nella nostra storia, è sempre dietro l’angolo! ………………………........ Roberto Sabatini Elogio del gender 248 pagine * 15.00 euro Fefè Editore
venerdì, 19 gennaio 2024
Linguaggi senza senso (1)
Un saggio particolarmente interessante lo ha pubblicato la casa editrice Meltemi: Linguaggi senza senso clinica transculturale. L’autore è Pietro Barbetta. Si occupa di psicoterapia, etnoclinica e letteratura. Insegna Psicologia dinamica all’Università degli Studi di Bergamo, ha diretto il CMTF – Centro Milanese di Terapia della Famiglia ed è autore per riviste cliniche e letterarie: “Doppiozero” e “Fillide”. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo la monografia “La follia rivisitata” (2014) e le curatele “Complessità e psicoterapia” (con U. Telfener, 2019) ed “Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practices” (con M.E. Cavagnis, I.-B. Krause, U. Telfener, 2022). Inoltre, ha curato: “Louis Wolfson” (con E. Valtellina, 2015); “Un singolare gatto selvatic”o (con G. Conserva, E. Valtellina, 2017); “Diritti umani e intervento psicologico” (con G. Scaduto, 2021)
QUI un suo intervento in video su di un tema purtroppo di grande attualità: l’odio. Dalla presentazione editoriale. «Le lallazioni infantili, le ecolalie e le gergalità neurologiche, le glossolalie religiose e schizofreniche presentano una varietà che viene perdendosi nel tempo dell’apprendimento educativo, della riabilitazione neurolinguistica, della guarigione dalla psicosi. Quando il soggetto entra, o rientra, in comunità – quando inizia, o riprende, a comunicare – assistiamo a una perdita dei suoni, dei grugniti, delle manducazioni e delle espressioni visuali curiose, estraniate e dissidenti. L’arte poetica e letteraria metasemantica, il teatro sperimentale, i canti ecolalici, le polifonie vocali mantengono invece vive queste perdite, le conservano in testi e in oralità idiosincrasiche e ripetitive. In questo volume, Pietro Barbetta riporta la riflessione di una lunga attività clinica e di ricerca sull’infanzia, le neuro-differenze, le dissociazioni, i deliri e i nomadismi. Secondo l’autore, qualcosa accomuna queste esperienze fisiologiche, patologiche, etniche: l’estraneità al linguaggio significante e all’ordine grammaticale, nonché la presenza del corpo, espressione disordinata, ostacolo alla comunicazione». Segue un incontro con Pietro Barbetta.
Linguaggi senza senso (2)
A Pietro Barbetta, (in foto), ho rivolto alcune domande. Da quali motivazioni nasce questo libro? Nasce una nipote, che mi riporta indietro nel tempo, a quando, a trent’anni presi il mio primo incarico professionale stabile, entrai in una equipe di psicologhe e psicologi che dovevano coadiuvare le educatrici dei nidi per l’infanzia di una città di medie dimensioni. Ricordo, di quell’epoca, il bisogno di alcuni maestri e maestre del nido di intervenire durante le interazioni tra i bambini per cercare di correggerne le condotte, soprattutto quel che osservavamo era il bisogno adulto di intervenire durante l’insorgere del conflitto tra pari, anziché osservare come andavano a finire le vicende conflittuali quando ci si limitava a osservarle. Spesso due bambine iniziavano un’interazione conflittuale che, se lasciate fare, evolveva in un’interazione cooperativa, anche, anzi soprattutto, quando una bambina era più grande e l’altra più piccola, a volte accadeva, benché meno spesso, anche tra i maschietti. Da quel momento trassi l’idea, un po’ ingenua, che i bambini hanno competenze relazionali maggiori degli adulti. Più avanti nel tempo mi imbattei in alcune riflessioni nel campo della linguistica, materia poco, o per nulla, studiata oggi dagli psicologi. Là trovai alcune riflessioni di Roman Jakobson sulla perdita dei fonemi durante la crescita, quando si apprende la lingua materna (anche più lingue materne) che ci costringono a selezionare un numero limitato di fonemi adatti alla lingua che apprendiamo e a scartare quei fonemi che non vengono usati nella lingua materna. Daniel Heller-Roazen, un linguista e allievo di Jakobson, prosegue questo percorso nei primi due capitoli del libro Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue. Insomma, la crescita comporta una perdita. Una perdita relazionale, una perdita linguistica una perdita della xenolalia, dei linguaggi altri. Nello scrivere questo suo saggio qual è stata la cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare? La prima cosa è stata quella di rivalutare ciò che ci sfugge, che ci appare anormale, anomalo. La normalità è corrispondenza biunivoca, certezza e conflitto irriducibile, questo è noto, ma bisogna spingersi un po’ più in là, cercare di leggere una complessità di prospettive tra loro differenti e non sempre conciliabili. Ho deciso di re-imparare le lallazioni da mia nipote, ho deciso di ascoltare le gergalità idiosincratiche dei pazienti affetti da afasia. Sulle tracce delle riflessioni di Jakobson, ho deciso di studiare a fondo la sua riflessione sulla poetica schizofrenica di Friedrich Hölderlin, di rileggere le ecolalie autistiche nella relazione madre bambino come un evento di creazione di nuovi linguaggi, riferendomi all’opera di Michail Bachtin. Insomma, ho pensato che fosse il momento di rompere con il linguaggio come strumento per trasmettere informazioni, di riaprire l’ipotesi di Edgar Morin: il linguaggio in homo sapiens-demens nasce quando i cuccioli di questo animale imitano il canto degli uccelli. Ho preso una posizione eterodossa, non convenzionale. Quale contributo può ricevere pratica e teoria della diagnostica psichiatrica dall’espressività artistica sia essa letteraria, o visiva, oppure scenica? Si tratta di una domanda che rinvia alla nascita degli studi psichiatrici. Nasce forse a inizio Novecento con Hans Prinzhorn, che era psichiatra, ma anche storico. Prinzhorn pensa a raccogliere i materiali artistici dei folli, chiese anche a Sante De Sanctis di aiutarlo nel raccogliere questi materiali. C’era allora, in questi autori, un interesse che pian piano è andato scemando a favore di una medicina piatta, che sfocia nella teoria dei farmaci. Io vorrei rivalutare un approccio dia-gnostico (una conoscenza attraverso) che possieda due caratteristiche: la condivisione con la/il paziente, attraverso la cura di sé, del proprio singolare modo di vivere; la componente di creazione che possiede il sintomo. La poiseis del sintomo, la sua potenzialità di creazione di mondi altri: gioiosi, fantastici, terribili. Ci sono sintomi e sintomi, da anni mi domando se non sia il caso di rivedere la diagnostica contemporanea drasticamente, tenendo conto di quanto accade nel mondo: dobbiamo domandarci se un sintomo delirante o allucinatorio di uno schizofrenico, sia davvero più grave di un sintomo narcisista o psicopatico. Dobbiamo domandarci davvero se oggi le persone che fanno carriera non soffrano di una patologia ben più importate di un Hölderlin, di un Artaud o di uno Schreber. Perché nel libro ha definito “babelica” la trinità formata da Artaud, Carroll e Joyce? Mi piace leggere la vicenda di Babele come un dono del Signore. Quando gli uomini parlavano la stessa lingua, scalavano il potere, la torre è l’emblema di un fusto che cresce a dismisura. Il Signore (qualsiasi cosa sia) confonde gli uomini facendo loro parlare lingue differenti, una differenza che crea una differenza, lingue che sembravano non avere alcun senso, rizomatiche. Da quel mito nasce l’arte poetica, da quel mito nascono i linguaggi schizofrenici: Artaud, Joyce, Carroll, ma anche per esempio Louis Wolfson, e molti altri, riprendono in epoca moderna questa babele. Penso spesso all’idea di Jorge Luis Borges: la biblioteca di Babele è la combinazione di tutte le lettere di tutti gli alfabeti; un caos. Ma dentro a questo caos ci sono tutti i libri scritti, tutti quelli che si sanno scrivendo e anche quelli che si scriveranno in futuro. Mi pare coincida con il concetto di caosmosi, evocato anche da un testo di Felix Guattari, uno psicologo che ci ha detto qualcosa che ancora dobbiamo decodificare. Dopo le lallazioni infantili e le gergalità afasiche, arrivano le glossolalie schizofreniche. Come lei sa meglio di me, a Vienna lo psichiatra Leo Navratil, volle – destinato a pazienti con risorse artistiche - un reparto loro destinato, successivamente guidato (lo chiamerà Haus der Künstle) dall’altro psichiatra Johann Feilacher. Tante le mostre realizzate, molte opere sono in parecchi musei sia in Austria sia in altri paesi. Ma l’arte è una malattia o una terapia? L’esperienza di Navratil e di Feilacher, sono straordinarie, così come il Centro per l’arte e la psicoterapia a Gugging in Austria. Il loro lavoro riveste grande interesse perché sostengono che la follia in fase acuta si foriera di opere d’arte rilevanti. Ho pensato a lungo alla definizione di Art Brut - come nel caso del museo di Losanna, in Svizzera - come a una raccolta di prodotti dei matti. Ci sarebbe dunque una Grande Arte, composta dagli artisti con il loro stile e una Art Brut come arte “minore”, credo che Navratil e Feilacher mettano in discussione questo presupposto. L’Art Brut rischia di farci perdere la singolarità del gesto di creazione, la riduce a una categoria, produce uno sguardo pietoso intollerabile da parte del visitatore… … e di Kingsley Hall che cosa ne pensa? Fu un esperimento importante anche quello di Kingsley Hall a Londra, fu chiuso in un tempo breve per la radicalità dell'esperienza, ma tra i pazienti ricordiamo Mary Barnes e Axel Buchardt Jensen. Di recente, mi è captato di scrivere un breve saggio per una mostra tenuta presso la Galleria Ceribelli di Bergamo, in onore del pittore schizofrenico Tarcisio Merati (esiste in Rete l’Associazione Tarcisio Merati), il cui stile pittorico è inconfondibile e ci porta dentro un mondo fantastico fatto di uccelli meccanici e di macchinette trombetta. Insomma, il momento dell’ispirazione è un’uscita fuori di sé, un volo pindarico dentro la creazione. Non può essere ridotto a una tecnica, benché la tecnica sia importante. Per essere artista si tratta di essere folle. Il sottotitolo del mio libro - clinica transculturale - ricorda anche in qual modo dovremmo pensare ai fenomeni nomadici e migratori a partire dalla storia di un popolo, così un caso clinico di consulenza con una giovane avviata alla prostituzione, diventa paradigmatico per riscrivere una storia dell’Europa razzista, quella che abbiamo di fronte oggi. ………………………………..... Pietro Barbetta Linguaggi senza senso Prefazione di Enrico Valtellina 164 pagine * 15 euro Meltemi
mercoledì, 17 gennaio 2024
I volti della paura (1)
"Smetterai di avere paura quando avrai smesso di sperare". (Lucio Anneo Seneca) "Ogni vera gioia ha una paura dentro". (Alda Merini) La “paura” secondo il Dizionario: «Stato emotivo di repulsione e di apprensione in prossimità di un vero o presunto pericolo». Tanti i modi di dire intorno alla “paura”: una paura matta, una paura del diavolo, una paura da morire, mettere paura, la paura fa novanta, paura della propria ombra, ed esiste anche il coraggio della paura e un improbabile cavaliere senza macchia e senza paura. Quanto al rimario della lingua italiana fra le centinaia di parole che rimano con ‘paura’ la prima dell’elenco è «Abbacchiatura» e l’ultima «Zoppicatura», si sa chi è abbacchiato dalla paura zoppica pure nell’andatura. Impossibile essere esaustivi nel citare narrazioni letterarie, teatrali, cinematografiche, pittoriche, che vedono rappresentata la paura. Mi limiterò a citare solo un titolo, appartiene al film “Il terrore corre sul filo” con Barbara Stanwyck. Perché proprio quello? Perché quando lo vidi ero poco più che bambino e provai paura per quell’angoscioso racconto. Immaginate quale fu il mio turbamento quando diventato regista, mi capitò a Radio Rai nel programma “Il girasole” (antologia di prosa e versi) una scena tratta da “Scusi, ha sbagliato numero” di Lucille Fletcher autrice del radiodramma da cui era stato tratto il film. La parte l’affidai alla bravissima Laura Betti e confesso di avere provato angoscia nel sentire riproporre quell’atmosfera tenebrosa. Ma se volete sapere quante facce ha la paura, perché abbiamo paura, perché la paura ci danna e ci salva, leggete il saggio che vi propongo oggi I volti della paura edito dalla casa editrice il Mulino. L’autore è Roberto Escobar. Per una sua bio: CLIC. Tanti e tutti godibilissimi i suoi libri. Tempo fa di uno di quelli mi occupai QUI e, non me ne vogliano altri autori, è il migliore saggio, almeno in Italia, scritto su Woody Allen. Leggetelo e mi darete ragione. Così come vi consiglio questo libro che studia la paura in un modo che fa capire perché ne soffriamo. L’autore conclude la prefazione affermando che il libro è “un tentativo di dare nomi e senso alla paura”. Rassicuro Escobar: quello che lui chiama “tentativo” è perfettamente riuscito. Dalla presentazione editoriale. «La paura è l'emozione più forte, e la più fraintesa. Ci rifiutiamo di indagarne i segreti. La temiamo come una nemica, ma non possiamo farne a meno per stare al mondo. È un campanello d'allarme: segnala un pericolo e spinge a fuggirlo, ma poi a volte suggerisce di sospendere la fuga, di conoscere quello che temiamo per trasformare il pericolo in un rischio consapevole, da affrontare e superare. Ecco i due volti della paura. Il primo difende quanto già abbiamo e siamo, come quando teniamo chiuse le porte di casa. L'altro induce ad aprire quelle porte e a varcarne la soglia, alla scoperta di ciò che potremo essere e avere. Ma c'è anche una paura che diventa terrore o angoscia, che ci lascia in balìa del pericolo, incapaci di arricchire le nostre vite con la curiosità. Da qui provengono molte sofferenze e miserie morali, e l'odio per chi non è di casa». QUI alcune pagine del libro. Segue ora un incontro con Roberto Escobar.
I volti della paura (2)
A Roberto Escobar (in foto) ho rivolto alcune domande.
Che cosa principalmente ti ha spinto a scrivere questo saggio sulla paura? La paura è stata a lungo espulsa dalla ricerca filosofica e, per paradosso, da quella filosofico-politica. Quando, nel 1997, uscì il mio «Metamorfosi della paura», tra i miei colleghi molti, pur apprezzandolo, erano convinti che non riguardasse la disciplina. La paura per loro era una questione prepolitica, non politica. Così rinunciavano agli strumenti teorici necessari per comprendere l’emergere (anche in Italia) di narrazioni e ideologie che sulla paura costruivano il proprio consenso. Rasentava l’ingenuità, quel loro ottimismo, che infatti negli anni sarebbe stato tragicamente smentito. Dalla fine degli anni Ottanta, insieme con la libertà e la solidarietà, la paura è stata invece al centro dei miei interessi, sia nelle sue manifestazioni per così dire pratiche, sia nel suo essere radice della nostra condizione di “animali senza artigli”, i più esposti alla precarietà del mondo. In questo libro lego le sue due dimensioni, quella morale e politica, e quella più antropologica e radicale, dalla cui elaborazione (o metamorfosi) l’Homo sapiens ha tratto gli artifici necessari a costruire se stesso come animale appunto artificiale, facendo del mondo il “suo” mondo. "La paura ci fa paura. La fuggiamo". Si legge nel Prologo. E perché, come si continua leggendo, "Ci rifiutiamo di indagarne i segreti"? C’è, in ognuno di noi, uno sguardo doppio nei confronti della paura. Il primo sguardo vale e prevale nella vita quotidiana, all’interno dell’ordine costruito dalla politica, dall’immaginario, dall’abitudine. Qui, nello spazio della sicurezza, ci piacerebbe vivere “come se” il disordine fosse ormai domesticato, per sempre. Ammettere di avere paura contraddice esistenzialmente questa certezza, e ci appare come una debolezza. Quindi, lo nascondiamo agli altri e a noi stessi. Viviamo la paura come una emozione sminuente, e quando ce ne sentiamo mordere, rifiutiamo di “guardarne” le ragioni. Anche nella riflessione teorica troppo spesso la paura fa paura. E però, non scendendo nei suoi segreti – non indagando l’altro suo lato, che ne fa un essenziale campanello d’allarme rispetto alla precarietà del nostro stare nel mondo –, la si lascia agire senza poterla controllare, e senza poterla trasformare in sicurezza. Quando una paura incontrollata percorre un gruppo sociale moltiplica se stessa, e c’è chi ne fa occasione del proprio potere. Tante le angolazioni in cui nel tuo saggio è studiata la paura da rendere impossibile esaurirne in una breve conversazione, come questa, analisi particolareggiate. Mi limiterò, quindi, a due domande che riguardano anche i nostri anni, ma ne abbiamo esempi pure in epoche lontane.Da dove nasce in molti popoli la paura dello straniero? Lo straniero – quello che viene tra noi per restare, non il turista – ci fa paura perché mette in dubbio la nostra appartenenza, la nostra compattezza di gruppo. Lo vediamo arrivare, lo vediamo vivere accanto a noi, ma non sappiamo come classificarlo. Tu e io – per fare un esempio – ci riconosciamo a vicenda in quanto appartenenti a uno stesso gruppo sociale e culturale. Siamo italiani, in questo sta la nostra uguaglianza. E poiché siamo uguali, non temiamo di essere differenti: tu hai la tua biografia, io ho la mia, e tu e io possiamo riconoscerle a partire dalla nostra eguaglianza. Questa eguaglianza è un metro con cui ci si misura l’un l’altro, e da cui nascono le nostre identità singolari. Con lo straniero non c’è alcun metro comune, non c’è una eguaglianza che ci misuri, dunque, ci è impossibile – o almeno difficile – misurare le nostre differenze/identità. Con lui c’è invece una paradossale somiglianza. Abbiamo gli stessi desideri, gli stessi bisogni, la stessa fame di vita. In qualche modo, siamo sovrapponibili. Tra noi non ci sono confini. Non siamo differenti in quanto uguali, siamo simili. Le nostre non sono identità, ma “identicità”. Ecco, dunque, che immaginiamo che lui desideri quello noi abbiamo, e che ci vuole rubare. D’altra parte, noi desideriamo quello che lui ha, o che immaginiamo abbia: una scandalosa, magnifica libertà dai doveri che la nostra uguaglianza – la nostra appartenenza – ci impone. Per difenderci da lui, e per difenderci dal nostro desiderio inconfessabile di essere (come) lui, lo odiamo, lo perseguitiamo, lo uccidiamo. Diceva John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me terrorizza il vecchio”. Una delle paure più recenti diffuse ai nostri giorni è quella suscitata dall’Intelligenza Artificiale. Perché in tanti hanno paura del nuovo? Specie se scientifico o tecnologico. Da dove deriva quel panico? Per fare del mondo il suo mondo, lungo centinaia di migliaia di anni l’Homo sapiens – e con lui le altre specie del genere Homo – ha manipolato quello che gli stava intorno – la “natura” –, come Prometeo ha fatto con il fuoco, ossia con l’artificio e la tecnica, di cui è simbolo la brace rubata a Efesto, il dio fabbro. Alla tecnica dobbiamo quello che siamo e abbiamo, ma anche un sempre rinascente senso di colpa. Ogni manipolazione è (e ci appare) un furto rinnovato a danno della natura. Speriamo che ce ne venga un bene, temiamo che ce ne venga un male. Di manipolazione in manipolazione, l’Homo sapiens ha oggi la capacità di distruggere il suo mondo, e con esso il mondo. Che cosa fare? Rifiutare la tecnica significherebbe scomparire come specie. Dunque, occorre governarla, affinché da strumento di vita non diventi strumento di morte. Lo stesso vale per l’intelligenza artificiale. Occorre governarla, occorre che la politica la governi, sottraendola all’arbitrio del mercato. E qui si aprirebbe un discorso complesso. Dopo avere parlato tanto di paura, vorrei da te una definizione del “coraggio” ... Chi non conosce la paura, chi ne ha paura, non è coraggioso. Coraggioso è chi, conoscendola, non la nega, ma la affronta senza veli ideologici, senza illusioni, senza patetici ottimismi, per trasformarla, per produrre quella sua ininterrotta metamorfosi di cui è intessuto il nostro mondo. …………………………………. Roberto Escobar I volti della paura 288 pagine * 20.00 euro e-book, con DRM, 13.30 euro il Mulino
Bildugsroman di Giulia Marchi
La Labs Contemporany Art presenta Bildungsroman, la seconda personale in quella galleria di Giulia Marchi. Un’inedita ricerca fotografica che indaga il concetto di formazione (Bildungsroman è il termine tedesco per indicare il romanzo di formazione) attingendo dal percorso formativo intellettuale dell’artista che spazia dalla letteratura, alla pittura e alla cinematografia. QUI un suo profilo. Giulia Marchi (Rimini, 1976) ha studiato lettere classiche all’Università di Bologna e attualmente insegna Fotografia alla LABA Libera Accademia di Belle arti di Rimini. La sua formazione di forte impronta letteraria l’ha portata ad un’espressività connotata di narrazione, anche quando la forma scelta (spesso la fotografia, ma non solo) non rende la lettura così immediata, ma rimanda a combinazioni successive, come codici che prima ancora di essere decifrati si lasciano interpretare da una sorta di fascinazione, sia per il sapiente uso dei materiali sia per la comunicatività dell’immagine. La mostra è accompagnata da un testo di Fabiola Troilo. Eccone un estratto. In foto Giulia Marchi. «Sul comodino aveva un’urgenza, sparsa in forma di n+1 libri impilati; non soltanto edifici di parole, ma colonne portanti di una cattedrale. Quell’urgenza era l’esercizio del ricordo. Quella cattedrale era l’architettura della memoria. È come in quel racconto di Raymond Carver, pensò, in cui un cieco domanda a un suo amico di fargli capire com’è, una cattedrale, e lui gliela disegna calcando il tratto e permettendogli di sentire, sotto i polpastrelli, la pressione della matita, così da poterla immaginare. Sentire + Immaginare = Sentire l’immagine. Ecco l’equazione fondamentale per chi desiderava, come lei, vivere autenticamente di arte: le immagini non vanno ingoiate, come quelle solubili da social che mandano in overloading la capacità immaginifica, ma decantate e gustate. Profondamente sentite. Nello stomaco, nei muscoli, sulla schiena. In quella mandorla del cervello che si chiama amigdala e che, da impresse nella retina, le trasporta dritte dritte nella memoria – facendone piene esperienze estetiche, non istantanei anestetici. Toccando mentalmente quanto la cultura sappia farsi profezia si ricordò di Heidegger, che già nel 1938 – ossia, quasi un secolo prima che venisse reso noto il numero delle immagini prodotte su scala annuale dal presente genere umano: un trilione – definì la modernità l’epoca dell’immagine nel mondo. Un trilione, un miliardo di miliardi, 1.000.000.000.000.000.000. Da qualche parte aveva anche letto che un uomo medievale entrava in contatto, nell’arco della sua intera vita, con circa quaranta immagini prodotte, di contro a quello contemporaneo per il quale il numero schizza a dodici miliardi. Nella grande abbuffata di junk food iconografico cui siamo costantemente sottoposti, volenti o nolenti bulimici scopici, se l’immagine è il nostro pane quotidiano occorre liberare la tavola dalla spazzatura preconfezionata e masticata, perché la formazione (che in tedesco si chiama Bildung) possa non finire mai (…) Da quando la conosco, so che è così che lei è: punta all’essenza, perché è lì che si trova il sacro. Agisce per sineddoche, una parte per il tutto, memore della lezione estetica di Adorno: perché un’immagine possa dirsi arte deve sapersi fare enigma, eccedendo la sua stessa forma. “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua / Il successo sta nel circuito”, scrisse, nel Poem 1129, Emily Dickinson. Fu a partire da questi pensieri – sparsi in forma di n+1 opere, custodite nella cattedrale della sua memoria – che Giulia Marchi si apprestò a scrivere con la luce il suo personale Bildungsroman». ………………………………………………………………………………………………………. Ufficio stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956 ……………………………………………………………………….………………………………. Giulia Marchi Bildungsromance Labs Contemporary Art Via Santo Stefano 38, Bologna Informazioni Tel. +39 051 3512448 Mob. +39 348 9325473 info@labsgallery.it Fino al 2 marzo ‘24
lunedì, 15 gennaio 2024
Uomini contro (1)
La casa editrice Longanesi ha pubblicato un importante saggio intitolato Uomini contro La lunga marcia dell’antifemminismo italiano. L’autrice è Mirella Serri. È docente di Letteratura e giornalismo presso l’Università La Sapienza di Roma. Di lei troviamo numerosi saggi dedicati ai maggiori scrittori contemporanei. Ha pubblicato Carlo Dossi e il racconto; Storie di spie. Saggi sul Novecento in letteratura; ha partecipato ai volumi collettivi: Il Novecento delle italiane; Amorosi assassinii. Storie di violenze sulle donne. Ha curato il Doppio diario.1936-1943 di Giaime Pintor. I suoi più recenti libri: Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista (premio Capalbio e premio Salvatore Valitutti) e I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, (premio letterario internazionale Isola d’Elba-Raffaello Brignetti, premio Alessandro Tassoni, premio Vladimir Nabokov, premio Ninfa Galatea-Lido dei Ciclopi). Ha realizzato trasmissioni culturali per la radio e la tv. Collabora a L’espresso, La Stampa Ttl, Corriere della Sera-Magazine.
È stato scritto che questo volume è di grandissima attualità. Giusto. Non è, però, un instant book perché Serri vanta da tempo sul femminismo una serie d’interventi radiofonici, televisivi, stampati, come ad esempio il titolo che precede “Uomini contro”: Mussolini ha fatto tanto per le donne!. Questo più recente libro sarà amato da tutti quei lettori dalla testa libera da preconcetti ideologici o, forse meglio dire, mentali. Perché non risparmia nessuno nell’illustrare, attraverso una rigorosa ricostruzione storica quanto è stato operato sia dalla Destra ovviamente, ma anche dalla Sinistra (perfino quella extraparlamentare d’un tempo) nel praticare un ostracismo verso l’avanzata delle donne nella nostra società. Una lettura che, grazie alla grande capacità espositiva dell’autrice si legge con passione, ma pure indignazione con quanto apprendiamo nelle pagine. Dalla presentazione editoriale. Avevano militato fianco a fianco nei Gap partigiani, condiviso per giorni gli stessi spazi dentro cantine umide, mangiato lo stesso pane secco, percorso gli stessi chilometri, rischiato con loro la vita. Eppure, furono proprio i compagni i primi ad abbandonarle e a tradirle. Quando si ritrovarono a occupare una poltrona in Parlamento, gli uomini che avevano beneficiato delle capacità delle donne impegnate a combattere contro i fascisti, anziché fare loro posto, abbandonarono gli ideali di uguaglianza di genere e operarono varie forme di ostruzionismo che limitarono la presenza femminile in politica. Nilde Iotti, per esempio, fu lasciata sola dai suoi ex compagni e, ritenuta «umorale, femminile», subì attacchi che le piovvero addosso da ogni settore della politica. Solo negli anni Settanta la Sinistra cominciò a rimuovere gli ostacoli all’ascesa delle donne, in un’altalena di conquiste e di recessioni. A consolidare e rilanciare i più vieti pregiudizi pensò la Destra, in particolare attraverso giovani neofascisti influenzati dal pensiero di Julius Evola, fra i quali i tre feroci adepti che misero in atto il massacro del Circeo. Nei decenni successivi l’opinione pubblica, influenzata dalle tivù e dai giornali di Silvio Berlusconi, si sarebbe nutrita di un immaginario femminile superficiale e mercificato. In questo nuovo, attualissimo saggio, Mirella Serri rivela la lunga guerra della Destra contro le donne, spoglia la Sinistra dei suoi camuffamenti egualitari, e dimostra che la lunga marcia dell’antifemminismo non si è mai fermata, ed è arrivata fino ai giorni nostri orientandoli e condizionandoli, più prepotente che mai. Segue un incontro con Mirella Serri.
Uomini contro (2)
A Mirella Serri (in foto) ho rivolto alcune domande.
Nel presentare il tuo libro l’editore scrive: “Avevano militato fianco a fianco nei Gap partigiani, percorso gli stessi chilometri, rischiato con loro la vita. Eppure…”. Eppure… Ti chiedo: durante la Resistenza si erano già manifestati, oppure no, segni di ostruzionismo verso le donne? Carla Capponi una delle protagoniste dell’attentato di via Rasella era una militante dei Gap dei Gruppi di Azione Patriottica: “Nell’affollamento del tram si trovo”, così racconto nel libro la storia di Carla, “schiacciata contro un milite piccolino, più basso di lei, vestito con una divisa che lo faceva sembrare un pupazzo, di una taglia più larga della sua. Era un ragazzo della milizia fascista. Il tram frenò bruscamente e lei finse di cadergli addosso. Gli sfilò la Beretta 9 e pure il caricatore dal cinturone e fece passare la pistola di cui si era impadronita all’interno del trench e poi la collocò in tasca. Un uomo la stava fissando. ‘Aveva l’aspetto di un poliziotto in borghese e con la rivoltella che avevo in tasca lo spinsi verso l’uscita del tram’, raccontò Carla. Avendo capito l’antifona, l’uomo fece finta di niente e scese dal veicolo. «Con la pistola mi sentii paritaria». Era arrivato il momento. Finalmente aveva anche lei un’arma. I partigiani non volevano le donne armate. Ma Carla rubando la pistola riuscì a sentirsi uguale agli uomini. La pistola è un simbolo. Finita la guerra nessuna donna che partecipò alla lotta antifascista divenne come accadde per gli uomini, dirigente di una grande azienda, direttore di giornale, preside di Facoltà, rettore di Università e così via. Alcune, poche, pochissime divennero parlamentari, cosa che accadde invece agli uomini. Stalin nei suoi anni al Cremlino quale influenza ebbe sui comunisti italiani di quell’epoca? Fondamentale. Addirittura, mandò telegrammi ai compagni italiani per fermare l’ascesa politica di Nilde Iotti. Stalin fin dagli anni Trenta seguiva una specifica politica di persecuzione antifemminista e mandava a morte o al confino le sovietiche più libere ed emancipate. Aveva riempito la casa di Iotti e Togliatti di spie e si occupò a più riprese di Nilde. Perché hai dedicato tanto largo spazio alla figura di Julius Evola nella storia dell’antifemminismo in Italia? Mi sono soffermata sulla riscoperta nel dopoguerra, da parte dell’estrema destra, di Julius Evola, il filosofo noto in particolare negli anni Trenta del secolo scorso, attraverso il cui pensiero, ancor oggi e in contesti assai diversi, vengono riportati in vita i più retrivi principi dei regimi totalitari – del fascismo e del nazismo – contro le donne. Nel primo dopoguerra dagli anni Cinquanta in poi, i ragazzi della estrema destra giovanile, ebbero un punto di riferimento nel filosofo più ferocemente antifemminista e antisemita del Novecento, proprio Julius Evola (padre del movimento terrorista Ordine Nuovo e ancora oggi molto seguito dai giovani estremisti). Frequentavano la sua casa e furono i suoi discepoli più fedeli Angelo Izzo e Andrea Ghira che debitamente istruiti divennero gli autori del massacro del Circeo. Evola teorizzava la subalternità totale delle donne, il disprezzo degli ebrei, l’uso delle droghe (che spacciavano e di cui facevano abbondante uso gli assassini del Circeo) e la pratica dell’orgia fino alla completa distruzione del corpo femminile, come avvenne proprio nella villa del Circeo. Fra le alterazioni apportate alla società italiana da Berlusconi quali sono quelle derivanti dalla rappresentazione dell’immagine della donna prodotta dai suoi giornali e tv? Le donne non vengono valorizzate per gli studi o per la professione ma per la bellezza e la seduzione. Nonostante le rivolte e le opposizioni negli anni Settanta del movimento femminista, capeggiato da alcune donne coraggiose come Carla Lonzi e dal suo gruppo, la politica degli “Uomini contro” non si è mai fermata e si è alimentata nei decenni successivi di numerosi contributi come quello della televisione commerciale di Silvio Berlusconi. La Destra vanta il primato di avere portato una donna al vertice del governo. Considerando come si rappresenta e agisce “il” Presidente – come vuole essere chiamata – possiamo considerare la sua figura un avanzamento della nostra società? Sicuramente. È bello poter dire alle nostre figlie e ai nostri figli “Guarda anche le donne possono diventare Capo del Governo”. Basta l’appartenenza al sesso femminile e l’occupazione di una posizione di prestigio per essere vista quale una vittoria delle donne? Ma la nostra premier non è interessata al progresso femminile. Lei non vede disparità e lo dice chiaramente. Si marcia tutti insieme. Perché la Destra, specie in questi tempi più recenti, ce l’ha tanto contro l’uso della parola “patriarcato”? Perché non vuole riconoscere che esista una forma di violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome del possesso, per perpetuare la subordinazione di genere e annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale, fino alla schiavitù o alla morte. A tuo avviso qual è la spiegazione di un sondaggio (marzo 2023) condotto da Ipsos UK e dal Global Institute for Women's Leadership fra oltre 22.000 persone di età compresa tra i 16 ei 74 anni provenienti da 32 paesi diversi che per allarmante risultato ha dato che ad esprimere sentimenti antifemministi sono stati soprattutto i più giovani: il 52% della generazione Z e il 53% dei millennial hanno, infatti, sostenuto che la parità di genere è stata ormai raggiunta che ora il problema riguarda casomai la "discriminazione degli uomini"? Credo che sia un modo per la cultura patriarcale di negare l’evidenza dei fatti che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni in cui le donne guadagnano meno, hanno minori opportunità di lavoro e raggiungono difficilmente le vette del potere. Patriarcato non vuol dire vecchio o antico ma può essere un connotato anche dei giovani maschi che non vogliono perdere il potere acquisito. …………………………………… Mirella Serri Uomini contro 240 Pagine * 19.60 Euro Longanesi
venerdì, 12 gennaio 2024
I media siamo noi (1)
Il libro che presento oggi è una nuova edizione di un testo divenuto un classico degli studi sulla comunicazione, propone una riflessione su come agiscono i nuovi media e sui loro principali effetti nella società. È pubblicato dalla casa editrice FrancoAngeli, titolo: I media siamo noi La società trasformata dai mezzi di comunicazione L’autore è Vanni Codeluppi. Insegna Sociologia dei media all'Università Iulm di Milano. Negli anni più recenti, per FrancoAngeli, ha pubblicato Dizionario dei media (2020) e Umberto Eco e i media (2021) e ha curato i volumi Fellini e la pubblicità (2020), Chanel (2021) e Pasolini e i media (2022). Recentemente ha pubblicato anche Jean Baudrillard (2020), Leggere la pubblicità (2021), Vetrinizzazione (2021) e Mondo digitale (2022).
Dalla Premessa alla nuova edizione. «Il volume intende ripercorrere le trasformazioni che i media, intesi come mezzi di comunicazione, hanno positivamente o negativamente provocato nella società e soprattutto nell'individuo, che ora si trova immerso in una società ipermoderna in cui i media sono ubiqui, coprono (o invadono) cioè tutti gli spazi della vita quotidiana. I media hanno dato vita negli ultimi anni ad un vasto spazio immateriale che affianca quello fisico e nel quale le persone passano una quantità crescente del loro tempo; hanno cioè invaso tutti gli ambiti della vita quotidiana e immerso gli individui in un ambiente fortemente "mediatizzato". Essi stanno trasformando profondamente la nostra cultura sociale e il nostro modo di pensare e vivere la realtà: portano vicino a noi qualcosa che accade lontano; modificano le nostre dimensioni spazio-temporali; ci promettono di moltiplicare e potenziare le nostre relazioni sociali, che tuttavia tendono progressivamente a indebolirsi. Stanno smettendo di svolgere la loro tradizionale funzione di mediazione tra gli individui per diventare protagonisti della società: attori potenti con cui occorre confrontarsi». Segue ora un incontro con Vanni Codeluppi
I media siamo noi (2)
A Vanni Codeluppi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Questa nuova edizione, rispetto alla precedente, quali nuove riflessioni propongono al lettore? La seconda edizione presenta poche variazioni rispetto a quella precedentemente uscita. Contiene fondamentalmente una nuova “Premessa” e un aggiornamento bibliografico. Ho ritenuto, insieme all’editore, che questo libro meritasse una nuova edizione perché alla sua uscita era stato accolto favorevolmente, ma soprattutto perché è ancora estremamente attuale. Il sistema dei media si è certamente modificato e ha visto comparire nuove tecnologie, ma a mio avviso quello che soprattutto è successo negli ultimi anni sul piano culturale e sociale è che si sono intensificati dei fenomeni che erano già attivi. Si tratta proprio di quei fenomeni che il mio libro prendeva in considerazione I media siamo noi. Che cosa ti ha portato a questa conclusione fino a dargli il titolo di questo saggio? Nel libro sostengo che è possibile affermare che “i media siamo noi” perché uno degli aspetti più interessanti dei media contemporanei è che diventano sempre più simili agli esseri umani. Le distanze tra gli umani e gli strumenti di comunicazione si sono infatti progressivamente ridotte. Marshall McLuhan affermava negli anni Sessanta che tutte le tecnologie mediatiche operano non come dei neutri canali di comunicazione, ma come delle vere e proprie protesi del corpo umano. E, considerate tutte insieme, sempre secondo McLuhan, le tecnologie mediatiche rappresentano un’estensione del sistema nervoso centrale. Un’estensione che tende verso la dimensione della globalità e del superamento del tempo e dello spazio, verso la nuova condizione del “villaggio globale”. Negli ultimi decenni, però, tutto ciò si è ulteriormente sviluppato e intensificato. I media sono diventati sempre più utilizzabili, leggeri, e facilmente trasportabili. Si sta creando insomma una progressiva “fusione” tra gli strumenti di comunicazione e i corpi umani. Non è un caso perciò che oggi le persone siano immerse in un ambiente fortemente “mediatizzato” e passino più della metà del loro tempo di vita collegate a un apparecchio mediatico. Il moltiplicarsi dei media ha comportato una specializzazione della comunicazione o una banalizzazione dei contenuti dovuta alla necessità di semplificarne la trasmissione? Mi sembra si possa dire che i due fenomeni sono oggi entrambi presenti nelle società avanzate. Vale a dire che ci troviamo di fronte sia alla specializzazione della comunicazione che alla banalizzazione dei contenuti. Il primo fenomeno è la conseguenza di quell’intenso processo di frammentazione culturale che interessa tutte le società contemporanee da alcuni decenni. Il secondo, invece, deriva dalla forte necessità odierna d’intensificare i flussi che caratterizzano i processi di comunicazione. D’altronde, gli individui si trovano sempre più a vivere in una condizione di connessione costante e si aspettano di trovarsi continuamente di fronte a nuovi contenuti. Si pensi soltanto al fatto che in passato si leggevano le notizie giornalistiche solo al mattino, mentre ora ci si aspetta di poter leggere sempre nuovi articoli, ventiquattrore su ventiquattro e sette giorni su sette. Sembra cioè che si sia sviluppata una insaziabile fame di notizie e questo richiede dei flussi costanti di messaggi in grado di saziarli. Inevitabilmente, però, si genera anche una semplificazione di tutti i messaggi che vengono trasmessi. La quantità, insomma, tende progressivamente a sostituire la qualità. Sostieni che la realtà viene oggi conosciuta soprattutto attraverso le rappresentazioni che ne danno i media. Quali conseguenze ne derivano? Come ho precedentemente affermato, mettersi in relazione con i media è diventata una delle attività più rilevanti e di conseguenza oggi si attribuiscono al mondo in cui si vive dei significati che sono decisamente influenzati dalle attività svolte attraverso gli strumenti elettronici di comunicazione. La realtà viene cioè conosciuta soprattutto attraverso le rappresentazioni che ne forniscono i media. In passato, gli individui facevano per lo più un’esperienza diretta della realtà, mentre oggi si fanno un’idea del mondo soprattutto attraverso quello che vedono sui loro schermi digitali. Pertanto, come sosteneva Jean Baudrillard, il mondo si presenta ai nostri occhi come un enorme simulacro di realtà. Ciò ovviamente apre delle notevoli possibilità di attivare dei processi di manipolazione. Nel mondo mediatico e digitale, infatti, è estremamente facile modificare i messaggi. Non a caso siamo circondati da forme di comunicazione ingannevoli come le fakenews e i deepfakes. E credo che in futuro avremo sempre più il problema di riuscire a capire se quello che continuamente ci arriva è vero oppure falso. Può sembrare un problema di scarso rilievo, ma rischia di mettere in discussione quei meccanismi di base sui quali si basa da sempre il funzionamento dei sistemi democratici. Come sarà possibile sviluppare un libero confronto tra opinioni differenti se non si potranno ritenere valide le fonti dalle quali provengono i messaggi con i quali ci confronteremo? Ogni giorno va sempre più intensificandosi il dibattito intorno all’Intelligenza Artificiale. Che cosa rappresenta questo nuovo strumento nello scenario dei media? Credo che il problema dell’Intelligenza Artificiale esista, ma sia anche attualmente sopravvalutato. Infatti, sono già alcuni anni che in parecchi momenti della loro vita quotidiana le persone hanno a che fare con degli “chatbot”, cioè dei programmi informatici che possono efficacemente simulare i comportamenti degli esseri umani, dando vita a soggetti artificiali, eppure capaci di dialogare in un modo estremamente realistico e credibile con qualsiasi individuo. Sono inoltre in grado di fornire dei servizi utili nella vita quotidiana: fare venire un taxi sotto casa, acquistare dei biglietti per andare a vedere uno spettacolo, aiutare a capire come effettuare un’operazione bancaria, ecc. Più spesso, però, tali programmi agiscono senza farsi vedere e gli utenti faticano pertanto a individuare la loro presenza. Insomma, l’intelligenza artificiale è da tempo parecchio presente nell’esistenza delle persone, anche se queste se ne sono poco accorte. Ciò non significa però che il problema non esista. È in atto invece la trasformazione in proprietà privata di un patrimonio collettivo faticosamente costruito nel corso dei secoli come quello culturale. Un patrimonio che le aziende tecnologiche della Silicon Valley stanno rapidamente saccheggiando, perché i programmi di Intelligenza Artificiale si nutrono avidamente dei dati relativi alla vita delle persone, ma anche del patrimonio intellettuale ed artistico della società. Naomi Klein ha sostenuto che tutti quei benefici che ci vengono promessi dalle grandi imprese tecnologiche fanno parte di una precisa strategia finalizzata a creare dei diversivi il cui obiettivo primario è distogliere l’attenzione dal vero problema: il processo di appropriazione che i programmi di Intelligenza Artificiale attivano sistematicamente sulla cultura umana. Un processo che riguarda un vasto patrimonio culturale prodotto dalle società nel corso del loro processo di evoluzione storica. ……………………….. Vanni Codeluppi I media siamo noi Nuova edizione 96 Pagine * 15.00 Euro FrancoAngeli
domenica, 7 gennaio 2024
Il corpo artificiale (1)
Nella collana Scienze e Idee, fondata da Giulio Giorello, la casa editrice Raffaello Cortina ha pubblicato: Il corpo artificiale Neuroscienze e robot da indossare. Autori: Simone Rossi – Domenico Prattichizzo Rossi è neurofisiologo clinico, insegna Neurofisiologia presso l'Università degli Studi di Siena. Dirige il Brain Investigation & Neuromodulation Lab e la sezione clinica per la Diagnosi e la terapia della malattia di Parkinson e dei disturbi del movimento. Nel catalogo Cortina già figura “Il cervello elettrico” (2020). Prattichizzo è professore di Robotica e Automatica all'Università di Siena, dove è Delegato del rettore per il trasferimento tecnologico. È direttore del SIRSLab (Siena Robotics and Systems Lab). Dalla presentazione editoriale. «La robotica indossabile può migliorare la qualità della nostra vita, ma soprattutto la salute di chi ha subito danni cerebrali e soffre di deficit neurologici. Il sesto dito, per esempio, può potenziare la presa dei pazienti con paresi della mano, le cavigliere vibranti possono aiutare il cammino nei malati di Parkinson e un dispositivo vibrante comandato da smartphone può giovare nella terapia degli acufeni. La sfida di questa linea di ricerca è legata alle neuroscienze, fondamentali per capire come il cervello sia in grado di riadattarsi plasticamente a componenti del corpo del tutto nuove. È quindi imprescindibile che neuroscienze e ingegneria lavorino e crescano insieme, in una sana contaminazione, sforzandosi di trovare un linguaggio sempre più comune per facilitare lo scambio di conoscenze. Due protagonisti della ricerca di frontiera raccontano le conquiste e le sfide di questa sinergia: a che punto siamo, dove stiamo andando, cosa cambierà per le nostre vite nel prossimo futuro». Segue ora un incontro con i due autori.
Il corpo artificiale (2)
Ai due autori Simone Rossi e Domenico Prattichizzo (in foto, a destra Rossi) ) ho rivolto alcune domande.
Come nasce questo libro? Simone e Domenico – il libro nasce sulla scia del successo del volume “Il cervello elettrico. Le sfide della neuromodulazione”, anch’esso edito da Raffaello Cortina nel 2020, opera prima di Simone Rossi. E per celebrare non solo una collaborazione scientifica ventennale, ma anche un’amicizia. Infatti, le storie scientifiche delle idee si intersecano con quelle che sono, le storie di vita dei due autori, fondamentalmente, Nello scrivere questo saggio che cosa è stato deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare? Simone – Da parte mia, ho una sorta di regola per cercare di evitare la noiosità del saggio scientifico fine a se stesso, che raggiunge solo gli addetti ai lavori. Credo che la divulgazione scientifica debba essere fatta con maggior leggerezza possibile, e il mix autobiografico/scientifico mi sembra la chiave adatta. Domenico – Il corpo artificiale rappresenta il mio debutto nella divulgazione scientifica. Nel presentare le nostre innovazioni a un pubblico non specializzato volevo evitare eccessivi dettagli tecnico scientifici senza sacrificarne il significato più profondo, focalizzandomi piuttosto nel trasmettere le emozioni e la passione che caratterizzano il nostro lavoro di scienziati. Che cosa praticare per rendere al meglio l’incontro fra robotica e neuroscienze, un impatto positivo dall’unione di quelle due discipline? Simone – Credo sia fondamentale capire sempre meglio come il nostro cervello si adatti (o no…) all’utilizzo dei dispositivi robotici e quale sia la strategia migliore per ottenere un’interazione uomo-macchina il più fisiologica possibile. Per fare questo, è necessario prima di tutto “parlare la stessa lingua”, cosa non scontata quando si affronta un argomento da punti di partenza differenti. Nel libro cerchiamo proprio di fornire alcune di queste soluzioni. Domenico – Sogno una robotica che abbia un impatto positivo sulla qualità della vita. Le neuroscienze svolgono un ruolo cruciale nel guidare le nostre ricerche nel campo della robotica, orientandoci verso soluzioni che possano efficacemente contribuire alla cura di alcune malattie del sistema sensorimotorio. Il libro è tanto ricco da non consentire spericolate domande sui singoli punti trattati, ma suggerisce ai lettori, e a chi come me non è un addetto ai lavori, plurali curiosità e interessi sulla materia del pensiero che presiede ai vostri lavori in laboratorio. Mi sembra vedere in voi un tracciato filosofico postumanista (Nick Bostrom, Max More, Ray Kurzweil) per citare alcuni nomi… Simone e Domenico – È molto intrigante scoprire che quello che raccontiamo nel libro possa essere in parte interpretato all’interno di una corrente filosofica. Del resto, la divulgazione serve proprio a creare una specie di “brain storming” continuo attraverso il quale comunità o singoli individui che si incontrano possano vicendevolmente arricchirsi. Non solo performers quali Stelarc oppure Marcel.li, ma anche gruppi del teatro tecnosensoriale usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della propria fisicità tendendo verso un “neocorpo”. Immagino sia un campo di vostro interesse… Simone e Domenico – In effetti i nostri dispositivi robotici indossabili potrebbero costituire un’ottima base per costruire nuovi tipi di interazione fra esseri umani e l’ambiente (penso per esempio al sesto dito robotico oppure al trasferimento del tatto a distanza), e quale migliore palcoscenico del teatro per verificarne gli effetti? Nel libro, raccontiamo ad esempio di come sia possibile, trasferendo il tatto a distanza, ascoltare il concerto di un pianista e sentire contemporaneamente sulle proprie dita le sensazioni esperite dal pianista stesso mentre suona, in una sorta di amplificazione “cross-modale” delle nostre emozioni. Dice John Cage "Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio” In tanti oggi attaccano le scienze e arretrano dinanzi all’avanzare scientifico e tecnologico. Da dove viene quel panico che spinge fino alla tecnofobia? Simone – Credo sia una reazione probabilmente dovuta a ignoranza, nel senso latino del termine. Un libro come il nostro può contribuire a invogliare le persone a sapere qualcosa in più su argomenti tecnologicamente avanzati e su come questo approccio possa portare anche benefici per l’essere umano che è colpito da una determinata patologia. Chi legge il libro si renderà conto che con la tecnologia si può arrivare dove le medicine tradizionali non arrivano, e senza effetti collaterali… Domenico – La novità suscita timore poiché rappresenta qualcosa di sconosciuto, rendendo difficile valutarne gli effetti. Questa reazione è del tutto naturale. Dobbiamo investire tempo per comprendere e formarsi un'opinione su tutto ciò che è nuovo. “Il corpo artificiale” agisce come una guida per i lettori, incoraggiandoli a superare la paura delle nuove tecnologie, specialmente quando queste contribuiscono al recupero di funzionalità perse a causa di patologie del sistema motorio. ………………………………... Simone Rossi Domenico Prattichizzo Il corpo artificiale 160 pagine * 19.00 euro Ebook (formato Epub) 12.99 Raffaello Cortina
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