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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Patologie (1)

Nel 2006 lessi un libro bellissimo pubblicato da Nottetempo, poi lo stesso testo fu ripubblicato da Quodlibet nel 2022: Una quasi eternità.
Ora la stessa casa editrice Quodlibet ha mandato nelle librerie un nuovo volume intitolato Patologie di quella stessa autrice: Antonella Moscati.
Nata a Napoli e vive a Ostuni. Ha scritto su Kant, Schelling, Freud, Benjamin, Arendt, Nancy e tradotto dal tedesco e dal francese testi di filosofia contemporanea.
Fra i suoi libri: Deliri (nottetempo, 2009), Una casa (nottetempo, 2015), Pathologies (Arléa, 2020). Per Quodlibet ha pubblicato “Il canale di Otranto” (2007), “Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta” (2022), “Una quasi eternità” (2022) e quest’anno “Patologie”.

Dalla presentazione editoriale

«Crescere tra discorsi medici, nomi e sintomi di malattie improbabili e desuete o ancora quasi sconosciute, con il costante timore della loro potenziale incurabilità tranne che in un caso: la bella angina dalle placche bianche curata con gli ancora giovani antibiotici. Nasce così il racconto autobiografico e umoristico della più giovane delle quattro figlie di una famiglia napoletana su cui aleggia la figura di un lontano prozio medico e santo. Sotto lo sguardo di un padre ipocondriaco, che ha compiuto i suoi studi di medicina fra le due guerre, e di una madre vitale, ottimista e molto ansiosa, le esperienze e le nozioni mediche e terapeutiche, le diagnosi improvvisate e le disquisizioni sui vaccini diventano parte essenziale del vissuto infantile e del lessico famigliare, tessendo una fitta rete alla quale è impossibile sfuggire, e che una scrittura eccessiva e dissacrante riesce a cogliere in tutta la sua teatrale comicità».

“Patologie” si compone di due parti a specchio. Entrambe hanno in comune la voce narrante che è l’autrice protagonista di se stessa e la memoria.
La prima parte è recupero della memoria di un’infanzia e un’adolescenza narrate con accenti comici che in alcuni momenti sfiorano lo slapstick.
La seconda parte è racconto della perdita della memoria subita a causa di un episodio di Agt (Amnesia Globale Tansitoria) narrata con lo spessore e l’andatura di un saggio filosofico.

Incipit della prima parte: «Da noi, cioè nella nostra famiglia, qualunque malattia era mortale. Non perché avessimo una tara genetica, che so un’emofilia congenita, un’anemia mediterranea o un disturbo del sistema immunitario, che ci avrebbe messo a rischio nel caso di qualunque malattia. Ma perché, secondo noi, che una tara in verità ce l’avevamo, ma nel sistema nervoso e nei pensieri piuttosto che nel corpo, qualunque malattia poteva nascondere una malattia mortale».
Explicit della prima parte: Insomma reinventarci finalmente liberi da noi stessi per dirigerci chi verso dio, chi verso il piacere, chi verso i ricordi e le immagini, chi verso le stelle e i firmamenti.

Incipit della seconda parte: Agt è l’acronimo di Amnesia globale transitoria, dove globale sta per retrograda e anterograda, oblio cioè di quanto è accaduto prima e di tutto quanto accade o sta accadendo durante l’episodio di amnesia.
Explicit della seconda parte: Probabilmente arriverà un momento in cui, avendo dimenticato il niente di quella mattina, mi sembrerà di ricordarla perfettamente.

Un libro splendido. Leggetelo e mi ringrazierete.

Segue un incontro con Antonella Moscati.


Patologie (2)

A Antonella Moscati (in foto) ho rivolto alcune domande.

Che cos’è per te la memoria?

Per prima cosa distinguerei fra la memoria e il ricordo/i ricordi. La memoria è la capacità di ricordare, di fissare l’esperienza vissuta, le sensazioni, i pensieri. E dopo averla persa, anche se solo per qualche ora, mi appare non solo come ciò che maggiormente caratterizza quegli animali umani che siamo, ma soprattutto come ciò da cui nasce ogni forma di soggettività. Senza la memoria nessun io sarebbe possibile, nessuna percezione di sé, nessuna coscienza, nessuna autocoscienza. E in fondo non sarebbero possibili neanche le percezioni, se è vero che per noi umani la percezione è inseparabile dalla memoria che ne abbiamo, nel momento stesso in cui la percepiamo. Come se ogni percezione fosse accompagnata da un alone di ricordo che l’avvolge e fa tutt’uno con essa. Ovviamente anche gli altri animali hanno una memoria, ma diversa e meno sviluppata: meno sviluppata non quanto a intensità, ma perché, mancando del linguaggio, la memoria non può fissare e rievocare il vissuto anche quando quel vissuto non è più presente. Gli altri animali hanno una memoria per così dire “in presenza”, cioè una memoria che si attiva e riconosce qualcosa quando quel qualcosa riappare o se ne percepiscono le tracce.
Il ricordo o i ricordi sono invece l’oggetto, mi verrebbe da dire il regalo, della memoria, sia quelli che ricordiamo coscientemente sia quelli che abbiamo apparentemente dimenticato, ma che possono riaffiorare, magari all’improvviso, magari trasformati. Mi piace molto quando ciò che io ricordo, e che sono convinta di ricordare perfettamente, viene messo alla prova del ricordo degli altri, che ricordano la stessa cosa ma con sfumature completamente diverse, per non parlare di quando i ricordi proprio non coincidono. Ogni volta che scrivo qualcosa sulla mia infanzia, per esempio, le mie sorelle mi propongono sempre altre versioni, tanto che non le interrogo mai prima di aver finito di scrivere quei ricordi, di aver dato loro una qualche forma definitiva perché, se scrivo dei miei ricordi, mi piace accentuare il fatto che siano i miei.

Nello scrivere della tua infanzia e adolescenza qual è la cosa che ti è parsa necessaria evidenziare per prima e quale la cosa per prima da evitare?

Beh, penso che i testi spesso si scrivano un po’ da soli. E più vai nel profondo, più ti rendi conto di avere pochi margini d’intervento. I margini di intervento sono solo nelle correzioni che puoi fare, ma non toccano lo stile iniziale con cui qualcosa si è scritto. “Patologie” si è scritto fin da subito in maniera ironica, per non dire dichiaratamente comica. Direi che ne avevo bisogno per toccare temi per me un po’ incandescenti, brucianti e anche dolorosi, anche se “dolore” in questo caso non è la parola giusta. Temi paurosi o impaurenti, piuttosto, non dolorosi. Avevano bisogno di quella forma comica per poter essere detti, trattati. All’inizio non credo di aver pensato a che cosa bisognasse evitare. Dopo invece sì, mentre correggevo: andavano evitati l’indulgenza e il compiacimento.

L’AGT, cui dedichi, da protagonista di quell’esperienza, la seconda parte del libro, ha modificato, o non lo ha tatto, il rapporto con te stessa?

Non direi che l’episodio di Amnesia Globale Tansitoria abbia modificato il rapporto con me stessa. Sono stata molto angosciata i primi giorni dopo l’episodio, prima delle varie risonanze magnetiche. Quando ho capito che l’amnesia poteva sempre ritornare, ma anche no, ho smesso di preoccuparmi. Ho ricominciato a guidare, anche se sono comunque una che guida maluccio e non tanto volentieri, e uso la macchina solo per brevi e tranquilli tragitti. L’amnesia ha modificato invece il mio rapporto con le cose, con la vita, con il mondo. Perché mi sono resa conto che, senza la memoria, è come non vivere, anzi non essere. Sarei anche potuta morire in quelle quattro ore, non me ne sarei accorta, perché quelle quattro ore – anzi di più perché l’amnesia era non solo anterograda, ma anche retrograda, e ha cioè inghiottito anche i ricordi delle tre o quattro ore che hanno preceduto l’episodio – semplicemente non c’erano, non erano. E pare che non ci saranno mai. Quelle quattro ore sono un po’ come un pensiero che non hai mai avuto, ma un pensiero che non hai mai avuto non è un pensiero, perché non puoi neanche immaginarlo, semplicemente non c’è. Ecco, in un certo modo, è su questo “non c’è” che continuo a interrogarmi: chi ero quando non ricordavo niente? C’ero in qualche modo, o non c’ero affatto? C’ero per gli altri, ma non per me. E che cosa significa non esserci per me, ma esserci per gli altri? Qualche volta mi pare che l’amnesia mi abbia insegnato qualcosa sulla morte, forse sul modo giusto per pensare alla propria morte. In genere noi pensiamo alla morte come al “non c’è più”, e in quel “più” c’è tutto il dolore che il pensiero della morte comporta. Ed è naturale, perché fare esperienza della morte di un altro significa fare esperienza del “non c’è più”, non del “non c’è”. Ma pensare alla propria morte è in fondo un non pensiero, un pensiero che non c’è e non può esserci.

Dei motori che fanno agire la memoria ritieni sia il dolore quello principale o altre sensazioni?

Il dolore certo, ma anche il piacere e la gioia. Soprattutto i bambini sanno essere felici, così come sono capaci di terribili disperazioni. Proprio di quella gioia infantile, che si espande e si apre larga e fiduciosa verso la scoperta e le scoperte, sento la mancanza, e la mancanza è sempre anche dolore. “Patologie” è comico perché, pur vivendo in una certa angoscia perenne, la mia famiglia era felice, e la mia infanzia è stata felice. Forse ogni infanzia ci appare felice, ma après coup, non nel momento in cui la viviamo.

Pensi che cambia attraverso le varie epoche storiche il modo di concepire la memoria?
Se sì oppure se no, in quale maniera
?

Beh, qui il termine memoria è usato ancora in un altro senso, il terzo. Né come ricordo o ricordi, né come facoltà umana e animale, perché quella, se cambia, cambia nei secoli dei secoli, nei millenni dei millenni. Ciò che cambia continuamente non è la memoria, ma il modo di considerare il passato, il modo di rammemorarlo e di commemorarlo, il modo di averne e serbarne memoria, il modo di dimenticarlo. Ogni periodo storico ricorda e dimentica a modo suo. Mi pare che i ragazzi di oggi abbiano un rapporto con il passato molto diverso da quello che aveva la mia generazione. Da ragazzina leggevo romanzi ottocenteschi come “Piccole donne”, “Orgoglio e pregiudizio”, “David Copperfield” e non sentivo la distanza storica. Non avevo, o meglio non avevamo, nessuna difficoltà a immaginarci in un altro tempo che, per certi aspetti, non sentivamo neanche come un altro tempo. Lo stesso valeva per il cinema. I ragazzi di oggi mi sembrano molto più contemporanei di se stessi, forse perché alcune invenzioni tecnologiche hanno significato una tale rottura nella vita quotidiana ¬– e probabilmente anche nelle forme cognitive – da non permettere più di immaginare il passato. Direi che oggi il passato, anche il passato prossimo, viene percepito come molto lontano, tanto lontano da non avere più fascino.

Il neuroscienziato Joseph Ledoux lavora su farmaci che agendo sulla amigdala siano in grado di cancellare i cattivi ricordi. Ti unisci a me nel tifo che faccio per lui o te ne tieni lontana?

Beh, proprio il tifo non lo farei, perché penso che i brutti ricordi servano, anche se forse non sempre. Così come talvolta anche i traumi possono servire. Alcuni brutti ricordi sono molto utili, come quelli dei bambini che sperimentano per la prima volta un’ustione, una caduta. Anche se probabilmente esiste un senso innato del pericolo, negli animali e negli esseri umani, l’esperienza vissuta insegna nel male come nel bene. E qualunque esperienza è impossibile senza il ricordo. Forse non è bene soffermarsi troppo a lungo e rimuginare sui brutti ricordi, ma neanche di questo sono sicura, e comunque credo che sia alquanto inevitabile.

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Antonella Moscati
Patologie
pagine 104 * 12.00 euro
Quodlibet


Salve di Christian Holstad


Con quali mateiali si può fare arte?
Oltre ai colori, il bronzo, il marmo, la cera esistono tante altre possibilità.
Alcune alquanto singolari. Valentina Papaccioli ricorda, ad esempio, Vincent Richel e Heather Jansch che utilizzano i legni spiaggiati, l’artista brasiliana Nele Azevedo posiziona migliaia di statuine di ghiaccio sotto il sole per allarmare sui cambiamenti climatici, Nele Azevedo lavora con tappi delle penne Bic. Ma il più strano materiale lo notai molti anni fa in Federico Paris il cui lavoro aveva una caratteristica materica, assai rara: la figura che creava era fatta con le ceneri di un personaggio cremato; stava ricercando persone che volessero affidargli le ceneri dei loro cari. Chissà se le ha trovate, io non ne ho notizie. Se per caso legge queste righe, m’informi.
Esistono però altri materiali meno bizzarri, anzi recepiti a pieno titolo nei palinsesti delle arti visive come la cartapesta.
Questo sito ne ricorda alquanti.
A proposito, si è appena concluso il Salon du Dessin 2024, una delle fiere più importanti del mondo dedicata all’arte su carta. Una 32esima edizione (20-25 marzo 2024) che ha visto 15mila visitatori.

In Italia una figura di primo piano è quella di Luigi Varoli non solo artista ma uomo di riconosciute virtù civili come si apprende dalla sua biografia.
Nato a Cotignola lì c’è oggi il Museo Civico Varoli dove è in corso la mostra Salve dell’artista statunitense Christian Holstad (Anaheim, California, 1972).
L’esposizione è nata all’interno di un più ampio progetto di indagine e valorizzazione della cartapesta nell’arte contemporanea sviluppato dal curatore Gioele Melandri.
In un’intervista rilasciata tempo fa così disse: “Penso che la video-arte, quella legata alle intelligenze artificiali o al rapporto con la robotica e con la musica digitale siano potenzialmente fascinose, ma ci sono artisti che sentono la necessità di rapportarsi con la materia in una maniera diretta. L’utilizzo della terra, della cartapesta, del colore, della materia e della gravitas non possono passare in secondo piano. C’è quindi il ritorno di un’idea di homo faber, di artista demiurgo che crea dalla sostanza e dalla materia informe”.

Estratto dal comunicato stampa

«All’interno del museo dedicato all’artista della cartapesta Luigi Varoli, la mostra “Salve” si focalizza sulla spiccata sensibilità di Christian Holstad per diverse tematiche che riguardano l’utilizzo di questa tecnica nella sua dimensione profonda e che sfociano naturalmente nella pratica dell’artista, come ad esempio il rifiuto, lo scarto e la trasformazione di questi ultimi in una possibile risorsa, mettendo così in risalto molte delle contraddizioni interne che caratterizzano lo sviluppo dell’attuale società dei consumi.
In mostra, la cartapesta è intesa dunque come un “innesco”, una suggestione che orienta la nascita e lo sviluppo di un evento espositivo.
Lesposizione occuperà anche gli spazi della Chiesa del Pio Suffragio, a pochi metri dal Museo Varoli, dove saranno installati alcuni lavori scultorei di Holstad.
Promossa dal Comune di Cotignola con un contributo di Gruppo Hera, “Salve” è la prima personale di Christian Holstad localizzata in Romagna, terra in cui l’artista trascorre la maggior parte del suo tempo da ormai diversi anni.
Accompagna la mostra un catalogo e un programma di visite guidate e laboratori didattici ispirati al lavoro di Holstad».

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Ufficio Stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956
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Christian Holstad
Salve
A cura di Gioele Melandri
Museo Civico Luigi Varoli,
Corso Sforza 21
Cotignola (Ravenna)
Info: 0545 908810 – 320 4364316
museovaroli@comune.cotignola.ra.it
Fino al 30 giugno 2024


Essere o non essere umani

La più diffusa definizione classica dell'uomo che troviamo nei dizionari di filosofia è quella di Aristotele per cui l’uomo è «animale razionale». Un animale, vincolato alla corporeità e dunque soggetto alla malattia e alla morte. Tuttavia, egli si distingue dagli altri animali per il possesso del logos, che è ragione e linguaggio.
Che poi il “logos” sia faccenda divina oppure no qui le teorie si dividono e contrappongono.
Accertata, però, la razionalità che distingue (o dovrebbe) l’animale uomo dagli altri animali non umani, restano altre domande.
La casa editrice Raffaello Cortina ha pubblicato un denso saggio intitolato Essere o non essere umani Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi che propone un incontro fra Natura e Cultura con gli strumenti intervenuti nel corso dei milioni d’anni di esistenza di noi tutti.

L’autore è Björn Larsson
Docente di Letteratura francese all'Università di Lund, filologo e traduttore.
È un romanziere noto in Italia dopo il successo internazionale di “La vera storia del pirata Long John Silver”.
Nelle edizioni Cortina “Essere o non essere umani” è del 2024.

Libro complesso che parte da due domande tanto brevi quanto scivolose: che cosa rende noi umani unici come specie?
Da quella prima domanda ne discende una seconda: umani si nasce o si diventa?
Se chiedete all'autore qual è lo strumento che ci ha permesso, e ci permette, di essere unici, vi risponderà che è l’immaginazione. La capacità di usare la rappresentazione simbolica, l’idea cioè che tutto – un suono, un gesto, un oggetto – possa essere usato per rappresentarne qualunque altra.
Alla seconda domanda, risponderebbe: si diventa. Si diventa umani.
Come? Proprio attraverso l’esercizio dell’immaginazione.
Pur senza negare l’importanza di biologia, chimica e fisica, l’autore si sottrae a una visione riduzionistica dell’essere umano auspicando l’incontro fra Natura e Cultura attraverso un agire interdisciplinare dei saperi inverando così la fondazione di una “scienza nuova” che trasformi la frase “noi contro gli altri” del presente in un “noi e gli altri” del futuro.
E qui, francamente, mi pare che pecchi di colpevole candore perché centrare quell’obiettivo mi pare più difficile di uscire oggi a fare quattro passi fuori della nostra galassia.
Questo, però, nulla toglie al fascino del libro perché leggendone le pagine ci coglie più di un’illuminazione sul come siamo diventati quel che oggi siamo nel bene e nel meglio come nel male e nel peggio.

Dalla presentazione editoriale.

«Cosa ci rende umani? Cosa distingue Homo sapiens sapiens dagli altri primati? Nel plasmare la nostra esistenza individuale e collettiva, noi esseri umani abbiamo un margine di scelta o siamo pedine sulla scala dell’evoluzione, del tutto subordinati alle leggi fisiche che governano micro e macrocosmi?
È dalla rappresentazione simbolica che dipendono le qualità più specificamente umane: l’immaginazione, il linguaggio, la coscienza, il dubbio, un certo grado di libertà, il sentimento del futuro, la comprensione di sé e degli altri, credenze, miti e fedi religiose.
Se la natura dell’uomo non è riducibile deterministicamente alla biologia, alla chimica e alla fisica, come possiamo concepire una scienza nuova, che descriva e spieghi accuratamente cosa vuol dire essere umani? È fattibile? E, se sì, a cosa dovrebbe servire? Potrebbe davvero contribuire a rendere il mondo un posto migliore, più umano, più giusto, più libero per tutti».

L’autore parla benissimo l’italiano eccolo in questo video

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Björn Larsson
Essere o non essere umani
Traduzione di Francesco Peri
448 pagine * 26 euro
Raffaello Cortina


In ascolto del silenzio


“Esiste un silenzio prudente e un silenzio artificioso, Un silenzio compiacente e un silenzio canzonatorio. Un silenzio spirituale e un silenzio stupido. Un silenzio di plauso e un silenzio sprezzante. Un silenzio politico e un silenzio assoluto. Un silenzio dell’umore e un silenzio del capriccio…” e qui l’abate Dinouart si tacque di colpo chiedendosi: come parlare del silenzio se non interrompendolo? E fu forse allora che pose mano al trattato “L’arte di tacere” (1771).

Si dice che la nostra sia l’epoca dell’immagine e forse è vero, ma è altrettanto vero che è l’epoca del suono, o meglio, del frastuono. Ci assediano radio, tv, clacson, pubblicità sparata da negozi, moto che rombano, macchine che aspirano, frullano, fischiano… esiste però anche una giornata contro il rumore, la propone, manco a dirlo, la serissima Accademia del Silenzio.
Curiosamente i congegni più recenti sono i meno rumorosi, volete mettere l’interno di un aereo e quello di una carrozza trainata da cavalli? La tastiera crepitante di una macchina per scrivere e quella silente di un computer? Già, ma quell’interno d’aereo è invaso da annunci, musichine e quelle tastiere del pc sono sopraffatte da ambienti chiassosi provenienti dalla strada o da vicini con volumi d’ascolto a palla.
Tutto congiura contro il silenzio temuto come il buio, suo gemello inquietante e paventato.
Il silenzio è stato tema in poesia e racconti, lavori in teatro e al cinema, ricorre in studi di sociologia, psicologia, psicanalisi, teologia. scarsamente appare, invece in filosofia, come scrive la filosofa Francesca Rigotti “… pochi i filosofi che hanno parlato del silenzio: Pascal, Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, che con l’ultima frase del ‘Trattato’ dice: ciò di cui non si può parlare si deve tacere’ ponendo un segno incompreso ai più”.
Il silenzio è impossibile? Lo dimostrerebbe la camera anecoica dove dopo alcuni minuti si sente il rumore dello scorrere del sangue nel nostro corpo e finanche la chiusura delle palpebre. Del resto, perfino nella musica c’è stato chi ha dimostrato l’inesistenza di un silenzio assoluto: il grande John Cage con il brano 4’33” (1952); in totale 273 secondi, un riferimento allo zero assoluto posizionato a -273.15 °C, temperatura irraggiungibile, come il silenzio assoluto.
QUI un’esecuzione.
E mi piace ricordare anche il saggio di Emanuele Ferrari (“Ascoltare il silenzio”, 2013) dove è dato spazio anche alla componente creativa del silenzio.

Sul silenzio, materia immateriale come lo sono i sogni, la casa editrice Einaudi ha pubblicato un libro imperdibile:
In ascolto del silenzio.
L’autore è Eugenio Borgna, un grande psichiatra, un grande saggista.
Cliccare QUI per leggere la sua biografia.
Ebbi già anni fa il piacere su questo sito di pubblicare una nota su di un altro suo importante lavoro Che cos'è la follia?
Ora con "In ascolto del silenzio" Borgna investiga la silenziosità attraversando territori scientifici e artistici con una scrittura semplice come sanno fare soltanto quelli che padroneggiano l’argomento di cui si occupano. Esemplifica i passaggi del suo pensiero citando con abbondanza nomi che provengono dalla letteratura, dalle arti visive, dalla musica.
Sulla copertina si legge: «ll silenzio è un elemento che cura e ristora. Non è quindi solo un'assenza di emozioni ma è un momento di pausa e di profondità per poter liberamente scandagliare il proprio stato d'animo. Il silenzio è denso di significato ed è prezioso provare ad ascoltarlo».

Dalla presentazione editoriale

«Il silenzio lascia intravedere in sé tracce di oscurità e di mistero, di fascinazione e di speranza.
Sono molti i modi con cui la parola e il silenzio si intrecciano l’una all’altro: c’è il silenzio che rende palpitante e viva la parola, dilatandone i significati; c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire l’angoscia; c’è il silenzio che si nutre di attese e di speranze. Ogni silenzio ha un suo proprio linguaggio che, non solo in psichiatria, ma nella vita di ogni giorno, non può non essere decifrato. Quante volte una paziente, o un paziente, si chiude in un silenzio, che è necessario interpretare nei suoi orizzonti di senso. Come è importante distinguere il silenzio, che nasce dal desiderio di solitudine, da quello che nasce dalla timidezza, o dalla depressione, nella quale la vita si oscura, risucchiata dal richiamo della morte volontaria. Eugenio Borgna ci mostra quanto è importante riconoscere il silenzio, che rinasce a causa della nostra incapacità di ascoltare, e di creare una relazione dialogica».

Per leggere un estratto: CLIC.

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Eugenio Borgna
In ascolto del silenzio
112 pagine * 12.00 euro
Einaudi


obic allo specchio

Che cos’è la sinestesia?
Dal Dizionario: “La sinestesia (dal gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme»).
In italiano, come in tutte le altre lingue europee, sono comuni espressioni o sintagmi basati sul procedimento di associare parole derivate da due sensi: voce ruvida, profumo dolce, colore caldo, termini che rinviano a sensazioni riguardanti rispettivamente l’udito e il tatto, l’olfatto e il gusto, la vista e il tatto”
Anche in arte, oltre che in letteratura sia in prosa sia in poesia, abbiamo esempi di procedimenti sinestetici e una bella mostra a Roma evoca questa singolare percezione sensoriale. Mi ricorda le performances di Lamberto Pignotti nella prima settimana della performance a Bologna (1977) con “Arte da mangiare”, e poesia da masticare in “Chewing Room” (citate da Francesca Alinovi in “I quaderni della sperimentazione”, Lerici) come ancora quella di cui non ricordo il titolo presentata a Villa Medici dal semiologo Paolo Fabbri anni fa.
Ora, a Roma, grazie a Anna Paola Lo Presti e Gialuca Marziani è possibile vedere un’esposizione imperniata sulla plurisensorialità dal titolo a specchio come spiegano le righe che seguono.

Estratto dal comunicato stampa

«È in corso da oggi a Roma alla Galleria Micro Arti Visive la mostra Alfabeto OBIC Mangiare l’arte, contemplare il cibo.a cura di Anna Paola Lo Presti e Gianluca Marziani.
Presenta opere di Roberto Giacomucci, Giulio Marchetti, Mario Ricci, oltre a una serie di opere fotografiche della OBIC photo collection di cui tre inedite realizzate appositamente per la mostra di Roma.
L’esposizione è stata preceduta da una Live Performance con visione delle opere ora esposte in Galleria e delle immagini della OBIC photo Collection. Presenti oltre agli artisti nominati prima, Giorgia Proia eccellente pastry chef di Casa Manfredi e Luciano Monosilio, chef insignito della Stella Michelin.
La performance: un grande tavolo di 15 metri posto al centro della sala allestito dalla curatrice come un vero e proprio spazio scultoreo, una “mise en place” che ha dato come riverbero le peculiarità sensoriali delle opere al pubblico che ha preso parte alla performance e che, dopo aver osservato le opere, ha sentito il loro sapore e verificato come il Codice OBIC sia davvero insito in ognuna di esse.

OBIC è un rivoluzionario progetto culturale, editoriale ed espositivo. Un alfabeto che nasce per creare una nuova dimensione dell’opera d’arte, una nuova lettura, una nuova codifica, qualcosa di non ancora interpretato, ma che esiste e, soprattutto, che può regalare allo spettatore uno strumento inatteso con cui osservare e leggere l’arte.
OBIC, un progetto che nel suo specchio riflette la parola CIBO, è lo spazio creativo dove è nato il processo di contaminazione e sperimentazione tra arte e cibo, dove la relazione tra chef e artisti, ricette e opere, si posa su una piattaforma inusuale dove il cibo si può contemplare e l’arte si può mangiare.

Dice Anna Paola Lo Presti Quando osserviamo un’opera d’arte non dobbiamo fermarci esclusivamente all’aspetto visivo, alla lettura poetica o storica o alla mera superficie della stessa. L’opera d’arte penetra lo spettatore attraverso molti codici sensoriali, e lo fa anche attraverso il gusto e l’impronta olfattiva che la compongono. Ciò significa che si può mangiare un’opera d’arte? In un certo senso sì, se ne può mangiare l’anima se attraverso la sua composizione si può leggere il codice gustativo e da questo trarne una ricetta che, eseguita, ci consente di sentire letteralmente il gusto dell’opera, sia di un’opera specifica sia dell’opera universale di un artista».
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Ufficio Stampa: Rosi Fontana
info@rosifontana.it +39 335 5623246

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Alfabeto Obic
A cura di
Anna Paola Lo Presti
Gianluca Marziani
Galleria Micro Arti Visive
Roma – Viale Mazzini 1
Info: 347 090 06 25
Fino al 24 aprile 2024


Errata corrige


Giorni fa ho scritto sull’artista cinese Lu Bolin noto come uomo invisibile.
Ho trascurato, però, colpevolmente, di citare chi lo ha preceduto nell’arte del camouflage: la modella Veruschka con il libro fotografico "Trans-figuration".
QUI alcune immagini di Veruschka in performance.

Mi ha segnalato la mia mancata citazione l’amico scrittore e webperformer Mauro Pedretti (per un mio incontro con lui di molti anni fa: CLIC) famoso per il suo Parole in ritirata oltre 100.000 copie vendute.
Qui scuse a Veruschka e ringraziamenti a Mauro per l’opportuno ricordo.


Sul naso

Lo senti l'odore ?... napalm figliuolo, non c'è nient’altro al mondo che odori così… mi piace l’odore del napalm di mattina… ”.

- Il Colonnello Kilgor (Robert Duvall) al Capitano Willard (Martin Sheen).
da “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, 1979.

Per fortuna, non tutti sono come il Colonnello Kilgor.che così diceva da uno schermo lontano 45 anni fa.
Ancora più lontani i tempi in cui il tronfio assessore collegiale Kovalev di Gogol, s’accorge una mattina, specchiandosi, di aver perso il naso, ora il naso pur con le sue evoluzioni tecnologiche (come, ad esempio quello elettronico) sembra destinato soprattutto agli studi di chirurghi estetici che, però, aspettano invano l’arrivo dei pur bisognosi Cyrano e Pinocchio.
Nei meandri degli odori s’aggira sospettoso Ceronetti, impareggiabile annusatore notturno di miasmi, forse mèmore di ciò che afferma Émile Cioran: “L'uomo emana un odore particolare: fra tutti gli animali soltanto lui sa di cadavere”.
“Siamo i soli animali capaci di creare un profumo” – scrive in un suo saggio Rosalia Cavalieri – di apprezzarne le qualità estetiche e di descrivere a parole gli aromi di un vino o di una pietanza. Eppure, distratti da una mentalità visivo-acustica, abbiamo relegato l’olfatto tra i sensi minori”.

Importante e necessario, quindi, uno studio sul naso come quello pubblicato dalla ,casa editrice il Saggiatore è intitolato Sul naso Una storia culturale.
L’autrice è Caro Verbeek, (Amsterdam, 1980).
Curatrice, storica dell’arte e ricercatrice specializzata in Storia culturale dei sensi.
Insegna alla Vrije Universiteit di Amsterdam e dal 2010 progetta tour olfattivi e laboratori sensoriali per musei e altre istituzioni.
Collabora con il Rijksmuseum di Amsterdam e con il Kunstmuseum dell'Aia.

Il volume indaga i rapporti fra scrittura e sensazioni olfattive, intendendo queste ultime come indici significanti delle culture del mondo e delle diverse sensibilità con cui ciascuna ne esprime le sfumature. Per stile, contenuto e approccio al tema, il volume mostra il caleidoscopico quadro di un universo olfattivo-letterario che si estende dall’antichità alla cultura rinascimentale, dal simbolismo e dal decadentismo della fin de siècle a fenomeni letterari di grande risonanza mediatica.

Dala presentazione editoriale.

«Esistono tante varietà di nasi quanti sono gli esseri umani: grandi o piccoli, dritti o sghembi, grotteschi o discreti, greci o romani, dipinti o scolpiti. Ma tanti più modi esistono di contemplarli: con ribrezzo o sospetto, con ammirazione o invidia, con stupore o malizia, con rispetto o terrore. La cosa alla quale non siamo soliti pensare è che in ognuno di questi sguardi, in ognuno di questi nasi, è nascosto un frammento della nostra cultura e della nostra storia.
Caro Verbeek racconta il nostro rapporto millenario con la parte che più di ogni altra sta – letteralmente – sotto ai nostri occhi, e le molteplici maniere che abbiamo inventato per raffigurarla, connotarla, esaltarla o metterla in ridicolo: dal naso aquilino di Cleopatra, esagerato nelle rappresentazioni per emulare quello dei potenti sovrani maschi, a quello storto di Michelangelo, conseguenza di un pugno ben assestato e causa della sua ossessione estetica per i nasi fini; dall’asportazione del ponte nasale di Federico da Montefeltro alla gobba di Napoleone, fino al naso “impossibile” di Barbie, ancora oggi un ideale raggiungibile solo ricorrendo alla chirurgia plastica.
Sul naso è un viaggio alla scoperta dell'elemento più imbarazzante, prominente ma soprattutto rivelatore dei nostri volti: un percorso tra storia, letteratura, arte e scienza che ci spinge a confrontarci con i nostri pregiudizi più incresciosi e le nostre più intime insicurezze. Perché, come ci insegna Pinocchio, il naso non mente mai».

Ho aperto questa nota con una citazione cinematografica su opinabili odori, la chiudo con una citazione letteraria su sgradevoli certezze: “Macchiffastapuzza”, si chiede Gabriel uno dei personaggi di Raymond Queneau in Zazie nel metro.
La prima parola del libro, la lunga e preoccupante “Doukipudonktan” – tradotta in italiano da Fortini con "Macchiffastapuzza" – è una trascrizione fonetica della frase francese D'où qu'ils puent donc tant ? ("Da dove viene così tanta puzza?").
Gabriel: segua il mio consiglio, vada in libreria e si consoli acquistando “Sul naso” di Caro Verbeeck. Mi ringrazierà a una voce con la sua incontenibile nipote Zazie.

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Caro Verbeek
Sul naso
Traduzione di Marco Cavallo
232 pagine * 24 euro
Il Saggiatore


Una Rete in viaggio


Credo che la fotografia sia la sola arte (insieme con parte del cinema documentaristico) a riflettere su tutte le altre arti – dall’architettura ai set cinematografici, dal teatro alla pittura dal circo alla musica, dalla scultura alla danza, dal fumetto alle arti plastiche, non solo ritraendo ma facendo a sua volta arte.
“Immagini” – come scrive Gianni Tessari – “che esaltano in sé contenuti estetici ed emozionali che trascendono le opere stesse: vivono di vita propria”.
È questo un aspetto che insieme con tanti altri fa della fotografia con la sua versatilità di genere uno strumento espressivo di grande forza.
Va, infatti, dal ritratto al fotogiornalismo, dalla foto di moda a quella pubblicitaria, dalla paesaggistica a quella industriale fino a fare arte sull’arte come scrivevo righe prima.

Ben rappresenta tali plurali aspetti Rete Fotografia di cui qui segnalo Una Rete in Viaggio.

Storie, idee, progetti, appuntamenti che vedono i soci di Rete Fotografia in dialogo tra loro e con altre istituzioni alla scoperta di connessioni inedite con altre forme proponendo tre incontri di approfondimento sul rapporto tra Fotografia e altri linguaggi.

Per il programma: CLIC!

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio stampa | Alessandra Pozzi Tel. +39 338.5965789, press@alessandrapozzi.com

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Rete Fotografia
Una Rete in viaggio
III Edizione 2024
18 marzo – 7 maggio 2024


Eco guerrieri (1)

Il filosofo Telmo Pievani tempo fa in un’intervista rilasciata a Elisabetta Curzel disse: «Se la vita sul pianeta è un grande sistema che si autoregola per trovare il proprio equilibrio e, da sempre, evolve assieme al pianeta, c’è da aspettarsi che una specie fastidiosa e disturbatrice come la nostra prima o poi venga eliminata. Ciò che molti scienziati temono è la cosiddetta tempesta perfetta, un modello che noi umani stiamo seguendo mettendo assieme i peggiori parametri di impatto sul pianeta: il collasso della diversità biologica e i cambiamenti climatici provocati dalle attività umane».
Cosmotaxi, come sanno quei generosi visitatori di questo sito, ha tra i suoi temi l’ambientalismo e l’animalismo che ne fa parte. Come dimostra anche la recente intervista a Luca Lo Sapio (libro del mese di febbraio, come il volume che mi accingo a presentare è il nostro libro del mese di marzo).

La casa editrice Mursia ha pubblicato un denso saggio intitolato Eco guerrieri Storie di battaglie ecologiste.
La copertina è opera dell'artista Cristina Donati Meyer.
L’autore del libro è Stefano Apuzzo (Napoli, 1966). Un grande personaggio delle lotte per l’ambiente.
L’editore informa: “Già parlamentare e attivista ambientalista, educatore e insegnante, giornalista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sugli animali, l’ambiente, la cooperazione internazionale e la sicurezza alimentare.
È presidente di ProAfrica e portavoce di “Gaia Animali & Ambiente”.

Scrive Edgar Meyer in Prefazione: "Fantasia, faccia tosta, dinamismo, improvvisazione, situazionismo: questi alcuni tratti caratteristici – nel bene e nel male – di Stefano Apuzzo e delle sue, nostre, azioni verdi spericolate. Azioni e iniziative talvolta velleitarie e dal fiato corto. Ma necessarie per scuotere un poco un’opinione pubblica spesso dormiente e istituzioni ancor più spesso affondate nelle sabbie mobili della burocrazia e dell’immobilismo.
Con questo libro, agile come le sue iniziative, Stefano ci porta nel ventre della Repubblica. Dalla Prima Repubblica al vuoto della Politica. Raccontandone retroscena e curiosità”.

L’importanza di Apuzzo nello scenario dell’ambientalismo si caratterizza anche per una singolare rappresentazione dei temi da lui portati alla ribalta nazionale e straniera.
Fra due righe spiego che cosa intendo.
Ho perplessità sugli ecologisti dei nostril giorni che fanno blocchi stradali o imbrattamenti nei musei (è bene ripetere che mai hanno distrutto opere ma solo sporcato i vetri che le proteggevano) perché alienano simpatie invece di favorirle. Mi ricordano gli scioperi improvvisi (… ricordate?... chiamati “gatto selvaggio”… perfino nei reparti ospedalieri) quanti danni hanno provocato all’immagine della Sinistra!.
Apuzzo, invece, ha realizzato – se ne trova ampia documentazione fotografica nel volume – delle performances artistiche che, per luoghi scelti e forme espressive, ricordano (e, a mio aviso, ne fanno parte) il movimento Fluxus e, inoltre la loro inedita comunicazione costringeva i media ad occuparsene rendendo ben visibili I temi ambientalisti.

Dalla presentazione editoriale di “Eco guerrieri”.

«Il racconto di un’avventura collettiva e d’avanguardia nelle lotte degli anni Ottanta, Novanta e Duemila, per il pianeta, il clima, l’ambiente e la giustizia sociale. Pagine di azioni e blitz di forte impatto simbolico, “illegali”, di autodifesa. Un manuale utile per le lotte di oggi e delle nuove generazioni per conquistare un futuro che sia vivibile. È ancora possibile salvare il pianeta, ma abbiamo poco tempo e le azioni, dal basso, devono essere sempre più incisive e radicali, per smuovere i gerontocrati e i fossili che stanno in alto e ci governano.
Un’avventura nella Politica, quella vera e d’azione, alla conquista delle città e per abbattere muri e confini».

Segue un incontro con Stefano Apuzzo.


Eco guerrieri (2)


A Stefano Apuzzo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Chi è l’eco guerriero? Tracciane un ritratto

L’eco guerriera/o è una persona altruista, una combattente che ha a cuore le sorti del pianeta e della collettività e che non guarda al proprio interesse né alla propria convenienza. L’eco guerriero/a sente dentro di sé il sacro fuoco della giustizia sociale e ambientale e non riesce a voltarsi dall’altra parte, anche a costo di subire un arresto, un procedimento penale o di rimetterci personalmente. Il libro “Eco guerrieri” contiene anche consigli pratici (dati dall’esperienza di un attivismo ultra decennale) su come condurre al meglio blitz e assalti forti e “illegali” alle sedi dell’economia fossile.

Perché i temi dell’ambientalismo non sono sentiti dalla maggioranza degli italiani a differenza di quanto avviene in altri paesi?

Perché gli italiani sono fondamentalmente un popolo egoista, storicamente facile preda dei populismi demagogici (ci siamo tenuti 20 anni il regime fascista, prima di prendere le armi) e maggiormente portati al quotidiano e all’individualismo, piuttosto che alla prospettiva collettiva e alla difesa dei beni comuni. Tuttavia, tra i giovani si è risvegliato lo spirito guerriero per salvare il pianeta. Penso ai giovani e alle giovani per il clima e ai movimenti femministi e studenteschi

Se esistono responsabilità della Sinistra in una mancata sensibilizzazione sui temi dell’ambiente mossi dai movimenti giovanili – come la tua esperienza personale è raccontata nel volume – in quali principali punti le ravvisi?

La Sinistra nella quale militavo io in gioventù (il PCI) era, fondamentalmente, industrialista e molto più propensa alla garanzia del lavoro, piuttosto che alla salute e alla salvaguardia ambientale. Il conflitto ambiente-occupazione non è mai stato governato dalla Sinistra, bensì subìto. Inoltre, aspetto non secondario, quando la Sinistra, con una identità ideale liquida, liscia, scontornata, direi ormai blairiana, ha saggiato il potere e il governo ha inteso essere più realista del re di Prussia, adottando la filosofia del liberismo, del mercato onnisciente e deregolamentato, della precarizzazione del lavoro, non di rado con commistioni inquietanti con i poteri economici e finanziari, con le industrie di armi e fossili (da Chicco Testa all’ENI, passando per Marco Minniti, Luciano Violante e Alessandro Profumo ai vertici di Leonardo e Fondazioni annesse, ma anche Nicola La Torre all’associazione industrie difesa). Scimmiottare le destre ultra liberiste ha modificato il DNA della Sinistra (o ex tale) italiana

Scrivi: “Negli anni Settanta, nel Regno Unito, viene messa a punto una teoria affascinante, la teoria di Gaia”. Puoi in sintesi illustrarne le finalità?

James Lovelock; un chimico, teorizzò che la Terra fosse un unico organismo vivente, Gaia appunto, con le proprie capacità di autoregolamentazione. La Terra vive, respira e si ammala, a causa di patologie globali e parassiti (noi umani), ma è anche in grado di reagire e di auto tutelarsi, estinguendo le specie dannose

Nel primo capitolo è citata la parola “apolidia”. Per chi ancora non ha letto il tuo libro, puoi dirne qui il significato e quali sono i suoi effetti?

Burocraticamente l’apolide è una persona senza nessuna cittadinanza, ad esempio una cittadina/o palestinese profuga in Egitto. La Palestina non esiste e quindi non offre status di cittadinanza e i Paesi arabi non concedono la cittadinanza ai profughi palestinesi, altrimenti la questione del ritorno, per Israele che occupa militarmente West Bank e Gaza, sarebbe risolta senza onere alcuno (le e i palestinesi sarebbero tutte/i cittadini di altri Stati). Dal punto di vista romantico gli apolidi, come definisco la mia famiglia originaria, sono dei giramondo, senza patria né confini. Abbiamo girato l’Italia e il mondo, abbiamo conosciuto popoli, culture e tradizioni. La nostra patria è il mondo intero, come urlano gli anarchici. Chi ha conosciuto molti popoli non sarà mai vittima del razzismo, della chiusura mentale o di orizzonti che si fermano allo zerbino di casa propria

Quanto resta a noi umani?
Secondo alcuni il tempo è scaduto, secondo altri siamo ancora in tempo.
Il tuo pensiero
?

Molto poco, forse una decina di anni, per invertire nettamente la rotta. Poi i processi di riscaldamento globale e di follia climatica saranno irreversibili e si attiveranno effetti a catena, già oggi visibili, con i loro effetti devastanti, in tutto il mondo. Al momento, a noi ricchi europei, tocca “solo” un po’ di caldo e qualche allagamento in più rispetto al passato. Poveri noi, in effetti…sotto i mille e 200 metri non possiamo più sciare, perché non nevica più! Per i milanesi addio settimane bianche, per i bengalesi, i pakistani e molti africani, addio raccolti e cibo e inondazioni continue

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Stefano Apuzzo
Eco guerrieri
Prefazione di Edgar Meyer
Con corredo foto b/n e colore
Pagine 246 * 17.00 euro
Mursia


Lenin a pezzi (1)


ll 21 gennaio 1924 moriva Vladimir Lenin, una delle figure più influenti del XX secolo.
Era nato a Simbirsk il 22 aprile 1870. Per una sua biografia: CLIC.

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un imponente saggio dal titolo Lenin a pezzi Distruggere e trasformare il passato. L’autrice è: Antonella Salomoni.
Una grande storica. Nota a livello internazionale per i suoi studi.
Insegna Storia contemporanea nell’Università di Bologna.
Con il Mulino ha pubblicato «Il pane quotidiano. Ideologia e congiuntura nella Russia sovietica» (2001), «L’Unione Sovietica e la shoah» (2007; traduzione in francese e spagnolo), «Le ceneri di Babij Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev» (2019); «Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia» (2022).

Dalla presentazione editoriale.

«Vladimir Lenin, fondatore dell’Urss, per volontà di Stalin è stato esposto alla venerazione dei cittadini nel mausoleo della Piazza Rossa, e ha vegliato sui popoli del blocco sovietico attraverso migliaia di occhi di pietra o bronzo di altrettanti monumenti. Ma cosa è accaduto dopo il 1989? Il corpo, perduta l’aura della reliquia, è rimasto in mostra a Mosca, davanti al Cremlino, e le statue sono state in gran parte cancellate. Una vicenda esemplare per comprendere la complessità dei fenomeni iconoclastici.
La pratica di tirare giù Lenin dal suo piedistallo ha riguardato tutto lo spazio post sovietico e, in Ucraina, ha assunto contorni talmente importanti da essere indicata con il termine Leninopad: il più grande movimento d’iconoclastia del Novecento, esploso prima ancora delle proteste che, più di recente, abbiamo visto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. A un secolo dalla morte di Lenin, Antonella Salomoni ne racconta ascesa e declino attraverso la storia del suo corpo e delle sue immagini: innalzate, rispettate e poi rimosse, distrutte, vandalizzate, reinterpretate come simbolo di sottrazione al colonialismo russo, e persino ricollocate sui piedistalli dagli occupanti durante la guerra in Ucraina. Un libro sulla memoria imposta e poi sovvertita, che va al cuore delle inquietudini del mondo contemporaneo».

Segue un incontro con Antonella Salomoni.


Lenin a pezzi (2)

A Antonella Salomoni (in foto). ho rivolto alcune domande.

Nello scrivere questo saggio quale cosa ha ritenuto necessaria evidenziare assolutamente per prima e quale cosa assolutamente per prima da evitare?

Obiettivo essenziale della ricerca è stato rispondere alla suggestione di uno dei maggiori studiosi del “potere delle immagini”, David Freedberg, riguardo alla “paura del corpo nell’immagine, del corpo in qualche modo annidato nella rappresentazione”, una paura che contraddistingue – pur nella varietà delle azioni e nella disparità delle motivazioni – tutta la storia dell’iconoclastia. In tutte le culture le immagini producono “ansietà” e il coinvolgimento emotivo originato dalla vista è un fenomeno secolare. Nel caso dell’abbattimento delle statue di Lenin, si tratta di un’azione che, a partire dal 1989, ha coinvolto un numero sempre più ampio di paesi post-comunisti o post-sovietici in cui, attraverso l’azione iconoclastica s’intendeva mettere in discussione il simbolo di un potere percepito come illegittimo dalla società. Il caso più radicale è stato il “Leninopad” in Ucraina, un’azione collettiva sviluppatasi nel quadro della crisi politica di Euromaidan (2013-2014), con una coerente e consistente disposizione a liberarsi del patrimonio memoriale sovietico, la cui principale incarnazione o concretizzazione si è avuta proprio con la demolizione dei monumenti eretti in onore di Lenin.

A suo giudizio qual è stato di Lenin il maggiore merito (se c’è stato) e quale (se c’è stato) il maggiore demerito?

Per quanto paradossale possa apparire, mi pare che il maggiore merito di Lenin sia stato quello di avversare il culto della personalità, di cui pure fu oggetto, dopo la morte, in modo insistente, per non dire esasperato. È un tratto già sottolineato dal giornalista inglese Arthur Ransome, che ebbe modo di conoscerlo personalmente e di frequentarlo. Anche uno dei maggiori biografi occidentali, Louis Fischer, nel mettere in evidenza la totale assenza di vanità in Lenin, riconduceva tale “qualità” al suo diniego del valore della personalità. Riguardo al demerito, sicuramente Lenin porta con sé grandi responsabilità per un modello di governo segnato da massimalismo e schematismo, ricorso alle misure estreme, propensione a privilegiare il risultato finale rispetto alla complessità delle soluzioni nella lotta politica. È una lezione che ho appreso dal grande scrittore umanista Vladimir Korolenko il quale, già nel 1920, imputava alla dirigenza bolscevica di considerare il popolo come un mero “ambiente” per lo svolgimento di esperimenti politici, economici o sociali, cogliendo alcuni vizi in una certa misura “originari”: la violenza eretta a sistema, la pratica del prendere “ostaggi”, il disprezzo per la vita umana, che riportavano il paese all’esperienza zarista della pena capitale, di cui lo stesso Korolenko era stato il più fiero avversario. Restava convinto, riassumendo così la storia della vecchia intelligencija progressista, che principi come la libertà (di pensiero, di riunione, di voto, di parola e di stampa), così disqualificati nel pensiero e nell’azione leniniana in quanto “borghesi”, fossero strumenti indispensabili ad assicurare il passaggio dal presente al futuro. La Russia mostrava in proposito tutta la sua vulnerabilità e immaturità, perché non aveva mai conosciuto, sotto lo zarismo, le libertà e non aveva pertanto ancora imparato a servirsene. A riconsiderarle oggi mi sembrano quasi parole profetiche.

Quando e perché nasce l’abbattimento di Lenin nelle idee e nei monumenti?

L’impulso a distruggere dei manufatti pubblici, in primo luogo i monumenti in ricordo di Lenin, come sintomo di una più generale forma di commiato da un regime oppressivo, ha segnato in modo profondo la dissoluzione, nel 1989, delle democrazie popolari nell’Europa orientale così come la nascita di nuove entità statali scaturite dal disfacimento dell’Urss nel 1991. La “folla”, come già era avvenuto di frequente in passato, ha trattato statue e sculture come se fossero persone in carne ed ossa, rivolgendovisi contro a colpi di mazza o con l’impiego di bulldozer. È l’effetto di una lotta contro l’invasività dell’icona-Lenin. Basti pensare che, secondo le stime più diffuse, nel 1990-1991 si contavano circa 7.000 monumenti a Lenin nella repubblica russa e circa 5.500 in Ucraina, grandi o piccoli, a figura intera o a mezzo busto, in bronzo o in pietra, in bella vista al centro di una rinomata piazza, oppure nascosti nel cortile di una fabbrica o di una scuola. Il culmine delle demolizioni lo abbiamo – come si è detto – con le proteste di Euromaidan del 2013-2014, che non solo hanno aperto la strada all’iconoclastia di massa (nel gennaio 2021, risultavano ancora in piedi circa 350 monumenti Ucraina, oggi il dato è di molto inferiore), ma hanno anche reso possibile una rilettura di Lenin come reliquia del colonialismo russo. In Russia, Lenin è stato estromesso dalla memoria e dalla storia nazionale più lentamente che altrove. Fu Boris El’cyn a promuovere il processo di de-leninizzazione del paese, pur di fronte a molte difficoltà e contraddizioni. In ogni caso le spoglie del laeder bolscevico, imbalsamate ed esposte nel Mausoleo sulla piazza Rossa, non sono state toccate e sono ancora meta di pellegrinaggio.

Qual è la posizione di Putin riguardo alla “leninizzazione”?

È un atteggiamento di rifiuto netto, con sfumature di ambiguità. Putin sostiene, e lo ha ribadito a più riprese (la prima volta nel 1991), che Lenin avesse posto “una mina a scoppio ritardato sotto l’edificio della statualità russa”, innescata nel 1922 con il trattato di fondazione dell’Unione Sovietica. Vi prevalse la tesi leniniana del diritto delle repubbliche federate alla secessione dallo Stato unitario, un “errore”, a detta di Putin, confermato nelle Costituzioni sovietiche successive, che aveva favorito le “ambizioni nazionaliste”, in particolare in Ucraina. In sostanza, Putin attribuisce a Lenin la responsabilità della dissoluzione dell’Unione delle repubbliche costituenti lo Stato sovietico. Al tempo stesso, è contrario al trasferimento e alla ritumulazione del corpo di Lenin dal Mausoleo, perché ritiene che ci siano ancora troppi cittadini russi i quali associano la propria vita alla figura del leader bolscevico. Pertanto, la sepoltura del corpo significherebbe che hanno venerato dei falsi valori e si sono proposti dei falsi obiettivi. Ancora oggi, Putin vede una simile azione come prematura o intempestiva, raccogliendo su questo anche il consenso della chiesa ortodossa.

Trascorsi oggi cent’anni dalla morte di Lenin è rimasto qualcosa di lui nei partiti e movimenti di sinistra in Occidente?

Non mi pare che il centenario della morte di Lenin abbia suscitato grandi reazioni in Occidente, così come in Russia sono mancate mostre, parate o convegni significativi. È vero che i partiti comunisti al potere, compreso quello cinese, si richiamano ancora alla sua eredità (facendo riferimento soprattutto al marxismo-leninismo), ma in modo più pletorico che vitale.

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Antonella Salomoni
Lenin a pezzi
216 pagine * 22.00 euro
Il Mulino


Carne coltivata (1)

Cosmotaxi ha tra i suoi temi preferiti l’ambientalismo e l’animalismo che di quell’area di studi – e di problemi – ne fa grande parte.
Perciò oggi presento un libro che risponde in modo maiuscolo su di un argomento che non è solo morale, ma riguarda la salute di noi tutti: la carne coltivata.
A tale proposito c’è anche una notizia recente che proviene dall’Associazione Luca Coscioni alla quale molto dobbiamo per le tante battaglie civili che combatte.

Basterebbe pensare che il ministro Lollobrigida si è espresso contro quel tipo di carne per pensare e praticare l’opposto di quello che lui dice per stare nel giusto, ma c’è di più, molto di più, lo si apprende proprio da quel saggio pubblicato dalla casa editrice Carocci intitolato Carne coltivata Etica dell’agricoltura cellulare.
L’autore è Luca Lo Sapio, uno dei massimi esperti della materia.
Insegna Bioetica e Filosofia morale nell’Università di Torino. È stato visiting researcher presso la Technische Universität di Darmstadt ed è coordinatore del Gruppo di ricerca internazionale feat (Future Eating) e fellow dell’Institute for Ethics and Emerging Technologies di Boston. I suoi interessi di ricerca sono rivolti alla bioetica, all’etica animale e ambientale e alla filosofia della medicina. Tra le sue pubblicazioni: Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di papa Francesco (UTET, 2017), SARS-CoV-2. Questioni bioetiche (tabedizioni, 2021) e Cambia la tua vita o affronta l’estinzione (tabedizioni, 2022).

Dall’Introduzione.
“L’agricoltura cellulare promette di aprire le porte a una vera e propria rivoluzione, i cui effetti, sull’ambiente, sul benessere animale e sulla salute umana, potrebbero essere enormi, consentendo altresì a milioni di consumatori, incapaci di eliminare dalle proprie diete i prodotti di origine animale, di avere un’alternativa che eviti il ricorso a cibi derivanti dalla sofferenza e dalla morte di miliardi di esseri senzienti. Se non riusciamo a cambiare il nostro desiderio di carne, forse possiamo cambiare il modo in cui lo soddisfiamo”.


Dalla presentazione editoriale

«La carne coltivata non è più fantascienza, ma una realtà alle porte: costituisce una delle nuove frontiere dell'industria alimentare post-animale, in cui l'interesse per il benessere degli animali non umani si coniuga a una rinnovata attenzione per l'ambiente e la salute dell'uomo. Il volume svela il potenziale di una tecnologia che potrebbe ridefinire il nostro rapporto con il cibo, la salute e l'etica ambientale. Con una prospettiva tesa a guardare oltre convenzioni e pregiudizi – dal disgusto al cannibalismo, fino alle critiche morali che fanno leva sulle categorie di natura, diritti e virtù –, il libro non è solo un'esplorazione delle controversie etiche, ma una bussola che indica una possibile via d'uscita dalla crisi umanitaria e ambientale che ci opprime. È un invito a prepararsi all'impatto di un cambiamento epocale: come sarà accolto, come potrà essere integrato nella nostra società e come e in che misura potrebbe aiutarci a vivere in armonia con gli animali non umani e il nostro pianeta.».

Segue ora un incontro con Luca Lo Sapio.


Carne coltivata (2)


A Luca Lo Sapio (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nello scrivere questo saggio, qual è stato il punto di partenza, la prima cosa che hai ritenuto assolutamente necessaria evidenziare e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Il punto di partenza di “Carne coltivata”. è la messa a fuoco di alcune criticità che, nonostante molti provino a dire che siano ormai in fase di risoluzione, sono in realtà tutt’altro che risolte.
Si tratta dell’impatto dell’agricoltura animale industriale sulla salute umana, il benessere degli animali non umani e l’equilibrio degli ecosistemi marini e terrestri. Non ho qui lo spazio sufficiente per fornire tutti i dati necessari a supportare ciò che sto affermando. Basti tuttavia ricordare che ogni anno vengono macellati circa 70 miliardi di animali - e in questo numero non rientrano gli animali marini che vengono calcolati in tonnellate; che il fenomeno dell’antibiotico resistenza – tra i maggiori allarmi sanitari secondo l’OMS – è associato anche al consumo di carne di animali che sono stati trattati con antibiotici per prevenire o curare infezioni batteriche, molto frequenti negli ambienti sovraffollati degli allevamenti intensivi; che una percentuale significativa – intorno al 12% secondo alcune stime (si confronti “Global Livestock Environmental Assessment Model”) - di emissioni di gas a effetto serra (in particolare anidride carbonica e metano) sono associate all’industria animale (senza considerare il consumo di acqua e l’inquinamento delle falde acquifere, nonché l’enorme quantità di cibo necessaria ad alimentare gli animali che potrebbe essere, almeno in parte, destinata ad uso umano). Dunque, affrontare, in qualche modo, questi problemi è necessario sia per rispondere ad un’esigenza “egoistica” – creare un ambiente più sano per le generazioni umane presenti – sia per rispondere a un’esigenza etica – la preoccupazione per il benessere delle generazioni umane future e degli animali non umani presenti e futuri. Trascurare i problemi summenzionati rappresenta una forma di negazionismo…

… espresso in quali dinieghi?

… principalmente in tre dinieghi: si nega quella che Charles Patterson ha definito…

… scusa l’interruzione, a beneficio di chi non conoscesse Patterson voglio indicare questo link dove può informarsi

… ecco dicevo un primo diniego è quello che Charles Patterson ha definito un’eterna Treblinka, cioè il massacro degli animali non umani; si nega che gli allevamenti intensivi abbiano un elevato impatto ambientale; e si nega che i sistemi di produzione industriale della carne siano associati a ricadute negative sulla salute umana.
Riprendendo le tue domande iniziali, la cosa che ho ritenuto da evitare –– direi che è la demonizzazione di qualcosa che non conosciamo ancora a sufficienza. Tutte le forme di tecnofobia, d’altro canto, mi fanno sorridere, dal momento che la nostra specie acquisisce le sue chance di sopravvivenza proprio attraverso il medium tecnico. Pertanto, non è in questione se usare o meno la tecnologia per risolvere problemi presenti e futuri, ma quale tecnologia usare e come usarla. Porre veti allo sviluppo di tecnologie che potrebbero darci nuovi strumenti per gestire meglio alcuni dei problemi che, per altro, noi stessi abbiamo creato, in altri termini, mi sembra senza dubbio l’atteggiamento che, più di ogni altro, andrebbe evitato.
Tale posizione ho tenuto, per usare le tue parole, assolutamente necessaria evidenziarla fin dalle prime battute del saggio.

Che cosa promette l’agricoltura cellulare?

L’agricoltura cellulare promette di fornire un set di tecnologie che una volta implementate e rese scalabili (cioè capaci di supportare una produzione industriale a prezzi competitivi) potrebbero aiutarci a mitigare parte dei problemi associati all’agricoltura animale industriale. Dai dati del Good Food Institute, tra le principali organizzazioni al mondo ad occuparsi di proteine alternative e agricoltura cellulare, apprendiamo che la carne coltivata - per circoscrivere l’analisi a uno dei prodotti dell’agricoltura cellulare oggi al centro dei riflettori – nel settore della bovinicoltura consentirebbe di consumare il 95% in meno di terreni, il 78% in meno di acqua, di immettere in atmosfera il 92% in meno di gas a effetto serra (in particolare CO2) e il 92% in meno di sostanze chimiche tossiche. Si tratta di proiezioni. Questo è chiaro.

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di proiezioni ottimistiche, evidenziando che esistono studi che forniscono dati di segno opposto

Già, ma vanno sottolineati almeno due aspetti importanti.
Il primo è che il numero di studi che forniscono dati incoraggianti sul minore impatto ambientale della carne coltivata rispetto alla carne realizzata nel settore dell’agricoltura animale industriale, è maggiore di quelli che forniscono dati pessimistici sulla nuova tecnologia.
Il secondo è che vietando la produzione di carne coltivata si colpisce indirettamente la ricerca, scoraggiando di fatto gli investitori privati e pubblici. In tal modo si impedisce a monte – ponendo di fatto le basi per una profezia che si autoavvera – la realizzazione di un prodotto sicuro e più vantaggioso (in termini di impatto ambientale, benessere degli animali non umani e salute umana) della carne realizzata nel settore dell’industria animale.

Che cosa rispondere a chi si appella alla Natura e al Naturale per avversare la produzione cellulare?

L’argomento della natura è da un lato fuorviante, dall’altro mal indirizzato.
Non basta dire che un oggetto, un evento, un processo siano naturali per affermare che sono buoni. Specularmente, non basta dire che un oggetto, un evento, un processo siano artificiali per affermare che sono cattivi.
Esistono oggetti, eventi, processi naturali che sono cattivi per gli esseri umani, ad esempio le malattie, i terremoti, gli tsunami, le tempeste solari, così come oggetti, eventi, processi artificiali che sono benefici per gli esseri umani, ad esempio la penicillina, i sismografi, le dighe e la meteorologia spaziale. Per altro, se così non fosse, dovremmo dubitare anche dell’esistenza di un fenomeno che invece pochi negherebbero, ossia l’esistenza del progresso morale. In una fase della nostra storia evolutiva abbiamo ritenuto legittimo praticare i matrimoni endogamici (tra fratelli e sorelle ad esempio) o il cannibalismo, ora no. In Occidente, in una fase della nostra evoluzione sociale abbiamo ritenuto legittimo praticare la schiavitù o condannare i rapporti omosessuali, ora no. Che qualcosa sia in un certo modo o che ci appaia naturale in una certa fase storico-evolutiva non ci dice che quel qualcosa sia buono.
Inoltre, permettimi di dire che se riteniamo corretto scoraggiare la produzione e il consumo di carne coltivata sulla base dell’appello alla natura, allora dovremmo, per le stesse ragioni, scoraggiare l’agricoltura animale industriale e il consumo di carne così ottenuta, dal momento che quella carne, checché ne pensiamo, è l’esito di un processo estremamente complesso, in cui di naturale c’è ben poco, a partire dal modo in cui gli animali sono alloggiati, interagiscono con i propri conspecifici e vengono foraggiati e trattati con antibiotici e ormoni (quest’ultimo caso soprattutto in contesto extra-europeo).
E lasciami concludere con un’ultima considerazione…

Certamente, dilla

Di fatto – e questo potremmo definirlo “il paradosso della cosiddetta carne artificiale” – una volta a regime la carne coltivata potrebbe consentire di restituire agli animali impiegati in questo genere di produzione uno stile di vita e un repertorio comportamentale più vicino a quello che avrebbero naturalmente, arrivando al paradosso per cui un prodotto apparentemente più artificiale di quello al quale siamo abituati consentirebbe di recuperare, tutto sommato, una dimensione di maggiore naturalità (per gli animali coinvolti, per i consumatori, e anche per gli ecosistemi terrestri e marini che verrebbero, così, maggiormente tutelati).

Perché è necessario chiamare e scrivere “carne coltivata” o “cellulare” e non “artificiale” ?

Usare una specifica etichetta non è un atto privo di conseguenze. Dal momento che la retorica della naturalità spesso è associata alla promozione di valori positivi e quella dell’artificialità a disvalori, è probabilmente più prudente utilizzare un termine che sia meno compromesso e, di fatto, più descrittivo.
Sia carne coltivata sia carne cellulare rispondono a questa esigenza.

Perché è più sana la carne coltivata di quella che acquistiamo in macelleria o nei supermercati?

La carne coltivata potrebbe essere più sana per varie ragioni. Le principali sono che il processo di produzione sarebbe più controllato e monitorato e potenzialmente consentirebbe di evitare l’uso di antibiotici; potremmo intervenire, inoltre, durante le fasi di produzione, per diminuire la percentuale di acidi grassi saturi e aumentare la percentuale di acidi gradi polinsaturi come gli omega-3.

Chi sono i più interessati a combattere la carne coltivata?

In realtà dovrebbero essere le multinazionali che controllano la filiera della carne e/o, in ogni caso, le grandi aziende produttrici. La ragione è che il progetto della carne coltivata, fin dai suoi esordi, nasce per fornire una possibile risposta allo sfruttamento degli animali non umani, ai problemi ambientali e sanitari posti dall’agricoltura animale industriale. Dunque, il bersaglio della carne coltivata è la grande industria della carne. Ciononostante, a levare voci di protesta, fino ad ora, sono stati soprattutto i piccoli allevatori e questo rappresenta un paradosso perché in realtà la carne coltivata potrebbe essere un’alleata dei produttori minori. Infatti, introdurrebbe uno strumento per diminuire l’appeal della grande industria e potrebbe, di converso, aumentare l’appeal delle piccole produzioni locali che operano al di fuori di un’ottica industriale e potrebbero, ancor più, presentare i loro prodotti come esclusivi e di qualità superiore.

Puoi illustrare in sintesi quanto nel libro definisci “invisibilizzazione” e “miti strutturali” associati alla carne?

Si tratta delle strategie messe in atto per occultare i processi alla base della produzione di carne (e i loro particolari più scabrosi). Ad esempio, i mattatoi sono costruiti in genere lontani dalle città per sottrarli alla vista. Rendere questi processi invisibili consente di perpetrare una narrazione pubblica in cui mangiare carne ottenuta mediante sofisticati procedure industriali è naturale, normale e necessario e non il frutto di specifiche scelte economiche. Questo genera l’interiorizzazione di una serie di credenze relative al consumo di carne che agevolano la conservazione dei sistemi di produzione basati sullo sfruttamento e il profitto e incuranti del benessere degli animali non umani e dell’ambiente.

Quali obblighi morali abbiamo noi umani verso gli animali non umani?

Molti animali non umani presentano caratteristiche che noi consideriamo degne di apprezzamento dal punto di vista morale, ad esempio la capacità di sentire dolore e quindi la possibilità di essere danneggiati da specifiche azioni, il possesso di stati mentali complessi, e, in alcuni casi, forme di autocoscienza. I suini, ad esempio, sono animali dalla complessa vita relazionale, dotati di un repertorio comportamentale estremamente articolato. Dunque, considerare queste caratteristiche degne di apprezzamento se presenti negli esseri umani o in taluni animali da compagnia ma non negli animali da reddito come i suini, gli ovini o i bovini è una forma di specismo ingiustificabile. Se tuteliamo alcuni animali non umani perché sono in possesso di specifiche caratteristiche allora dobbiamo tutelarli tutti

Il nostro governo è l’unico in occidente ad avere proibito la carne coltivata?

Per quanto siano in discussione progetti di legge anche in altre nazioni – in Romania ad esempio, è stata approvata, per ora solo da uno dei rami del Parlamento, un ddl che introduce multe severe per chi produce carne coltivata e a gennaio è stata sottoscritta una nota congiunta da 12 paesi, tra cui Italia, Austria, Francia, Lussemburgo, Ungheria, Repubblica Ceca e altri, per una moratoria sulla produzione di carne coltivata (questo per sottolineare come la difficoltà di promuovere il nuovo prodotto non riguardi soltanto l’Italia) – l’Italia al momento è l’unico paese in cui l’iter sia approdato alla emanazione di una legge pubblicata in gazzetta ufficiale.

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Luca Lo Sapio
Carne coltivata
Etica dell’agricoltura cellulare
112 pagine * 13 euro
Carocci


Pietro Ghizzardi in Francia

Chi finora non conosce le opere di Pietro Ghizzardi (in foto) si è perso qualcosa non da poco.
Lo testimoniano i tanti critici che ne hanno elogiato il lavoro.
Qualche nome: da Renato Barilli ad Angelo Guglielmi, da Franco Solmi a Giancarlo Vigorelli a Cesare Zavattini che ne fu uno dei più accesi sostenitori.
Qualche tempo fa dedicai a Ghizzardi uno special su questo sito realizzato nella Casa Museo Ghizzardi a Boretto.
Chi vuole può trovarlo QUI.

Ora gli è dedicata una grande mostra in Francia: Un bestiaire réinventé realizzata dal Manas - Musée d'Art Naif et d'Arts Singuliers di Laval in collaborazione con la Casa Museo Pietro Ghizzardi.
Il Manas è il primo museo di arte “fuori dalle norme” d’Europa, istituito nel 1972, che già custodisce nella propria collezione un autoritratto ghizzardiano del 1965.
L’esposizione presenta una selezione di oltre 65 opere, per la maggior parte inedite, appartenenti alla collezione della Casa Museo Ghizzardi, che illustrano oltre trent’anni (anni ’50 – anni ’80) di produzione dell’artista irregolare.
A vent’anni dalla retrospettiva dedicatogli dal Musée International d’Art Naïf Anatole Jakowsky di Nizza, la Francia, paese da sempre su posizioni avanzatissime nella ricezione e valorizzazione dell’arte irregolare e “hors-norme” in generale, alla produzione di Ghizzardi, nello specifico, torna ad ospitare un’ampia rassegna personale all’artista.

“Siamo molto felici di poter aprire il 2024 con un evento espositivo così rilevante”. – dice Lucia Ghizzardi, presidente della Casa Museo – “La sensibilità istituzionale con cui la Francia storicamente accoglie e valorizza le parabole creative “fuori dagli schemi”, come quella ghizzardiana, ha reso molto stimolante il complesso processo di co-progettazione e co-curatela della mostra, che si è protratto per quasi due anni, e che è approdato ad un esito davvero sorprendente”.
L’esposizione ha infatti l’obiettivo di investigare la pittura di Ghizzardi analizzandone in particolare la rappresentazione del mondo animale e naturale, legata a doppio filo alla sua ritrattistica, presentando per la prima volta al pubblico francese non solo opere pittoriche ma anche plastiche (quattro sculture in bronzo) e manoscritte (il manoscritto dell’inedito il mio libro mondiale solare e lunare, 1986).
Oltre alle opere d’arte, sono presenti in mostra documenti fotografici e audiovisivi che inquadrano e approfondiscono aspetti della biografia e della produzione artistica dell’autore.

“Di concerto con la curatrice della mostra e direttrice del Manas Antoinette Le Falher, abbiamo stabilito di valorizzare al massimo gli aspetti più innovativi della produzione del pittore” – ancora Lucia Ghizzardi – “riservando ampia attenzione alle opere inedite ma anche presentando aspetti meno visti della sua produzione, come quello plastico, per fornire un quadro completo ed esaustivo della ricchezza del suo operato artistico”.

“Ci auguriamo, a questo proposito, che la riapertura, che speriamo ormai prossima, del Museo nazionale delle arti naïves di Luzzara possa contribuire ad accelerare questo percorso, in cui l’Italia, nel passato, ha giocato un ruolo importante” dice Giulia Morelli curatrice della Casa Museo.

La mostra è curata da Antoinette Le Falher ed è accompagnata da un catalogo di 121 pagine in francese e italiano, con il testo critico di Valter Rosa.
Resterà aperta fino al 19 maggio 2024.


Vincenzo Marsiglia: Stars and Stones

Fra le tante belle località italiane figura Certaldo, dove forse nacque ma certamente lì morì Giovanni Boccaccio.
É un posto delizioso che ricordo con particolare piacere perché molto tempo fa… fine anni ’70?... non ricordo con precisione, vi svolsi una mia audioperformance sostando a lungo in una vineria che tentai, con l’epico aiuto dei miei tecnici, di prosciugare.
Insomma è consigliabile trascorrere là qualche giorno e oltre a visitare chiese, palazzi storici, la casa di Boccaccio, si può godere delle eccellenti mostre ed eventi (dureranno fino al gennaio 2025) del cartellone di CertaldoArte24.
In quel programma figura Vincenzo Marsiglia un artista multimediale che apprezzo molto.
Il titolo di questo suo lavoro a Certaldo è Stars and Stones

Estratto dal comunicato stampa.

«Installazioni luminose, origami e ologrammi, esperienze immersive e mappature in realtà mista nella nuova mostra di Vincenzo Marsiglia sulle orme di Boccaccio.
Dopo aver inaugurato l'Art Fair di Parigi lungo gli Champs Elisées e la fiera Roma Arte in Nuvola, Vincenzo Marsiglia torna con un nuovo progetto d'arte contemporanea dedicato al borgo toscano, tra linguaggi digitali e consistenze materiche ispirate all'importante patrimonio storico, artistico e letterario del luogo. Tra opere in marmo e tessuti, ardesie e alabastri, disegni e fotografie, ma anche installazioni luminose, ologrammi e mappe in realtà aumentata, il borgo diventa così il protagonista di una narrazione contemporanea, in cui nuovi linguaggi artistici incontrano antiche bellezze, tra letteratura e architettura, affreschi e storia, offrendo al visitatore uno sguardo trasversale sul patrimonio culturale.
“Stars and Stones” è un viaggio poetico e visivo che si articola tra alcuni dei luoghi più importanti e iconici di quel luogo medievale, tra la Casa del Boccaccio con la sua torre panoramica e il suggestivo Palazzo Pretorio, sede principale della mostra.
Proprio nella loggia di Palazzo Pretorio è collocata un'installazione (in foto) a neon di luce azzurra a forma di stella. Una seconda stella più grande irradia di nuova luce la Casa di Boccaccio che incontra visivamente quella della loggia del Palazzo Pretorio.

“Mi piace pensare a Vincenzo Marsiglia come un re Mida che nobilita tutto ciò che tocca mediante il suo segno distintivo” – dichiara il curatore Davide Sarchioni – “La sua stella è un segno estetico e razionale, ma anche poetico, simbolico e carico di rimandi, la cui formulazione amplifica e dischiude intenti e significati sempre nuovi che cambiano al variare della tecnica e dei materiali impiegati, così come dei contesti in cui agisce. Riflettendo sulle peculiarità del luogo in cui la mostra è allestita, le pietre pregiate incise con la forma o la sagoma di una stella a quattro punte rimandano anche a significati ancestrali, legati all'origine dell'umanità, mentre le mappature stellate digitali che rivestono oggetti e architetture, coinvolgendo anche paesaggi e contesti di rilevanza storica e culturale, trasformano la percezione del reale sollecitando riflessioni futuribili. In entrambi i casi le opere di Marsiglia connettono il passato con il futuro collocandosi in un tempo cristallizzato fatto di stelle e di pietre”».

Ho già detto in apertura che mi piace il lavoro di Vincenzo Marsiglia e anche questo più recente lo trovo molto interessante, ma devo altresì dire che quel modo diffuso d’intitolare implacabilmente in inglese ogni manifestazione artistica – mostre, festival, rassegne, spettacoli, e forse anche incontri intimi – francamente lo trovo un tic da periferia dell’Impero. “Stars and Stones”… Stelle e Pietre no? Pare brutto? Sia ben chiaro non sono fra quei talebani che sostengono l’uso dell’italiano ad ogni costo. Ben vengano termini inglesi (o di altre lingue) laddove siano più espressivi dell’equivalente nella nostra lingua (si provi a dire flashback in italiano, chi lo tenta merita un ricovero psichiatrico), ma perché “light designer” invece di “disegno luci”, per non dire di altre tragiche amenità: “train manager” invece di “capotreno”, “ticket” invece di “biglietto” e così via.
Da Vincenzo Marsiglia mi aspetto nei titoli più fantasia di cui è ben ricco.

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Ufficio stampa HF4 www.hf4.it
Marta Volterra
marta.volterra@hf4.it
Valentina Pettinelli
valentina.pettinelli@hf4.it --- 347.449.91.74

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Vittorio Marsiglia
Stars and Stones
Palazzo Pretorio
Certaldo
Fino al 12 maggio ‘24


Gli amori malvagi


"Siamo state amate e odiate,
adorate e rinnegate,
baciate e uccise,
solo perché donne
"
(Alda Merini)

Forse una parte dei miei 26 lettori… sì, ne ho uno in più di quell’altro… saranno delusi della mia nota odierna perché non contiene inni alle donne come il calendario l’8 marzo detta sia festa in loro onore.
Il fatto è che a troppe donne chissà quanti fidanzati, compagni, mariti, le hanno festeggiate, offerte mimose, cene e poi giorni, mesi o anni dopo a quelle stesse donne hanno letteralmente fatto la festa.
43 femminicidi nel 2023, 9 dall’1 gennaio di quest’anno fino a ieri.
E allora? Non sono il primo a dirlo, né sarò l’ultimo: non è meglio forse che festeggiamenti floreali o gastronomici siano messi da parte e si pratichi rispetto tutti i 366 giorni dell’anno?... sì, 366, ci ho messo pure il bisestile tanto per andare sul sicuro.
Rispetto.
Verso chi abbiamo amato. Anche se lei più non ci ama, può succedere e succede. Del resto, accade anche a noi maschi verso le donne che, però, vattelappesca perché, molto meno di noi ricorrono a veleni, coltelli o armi da fuoco.
Vattelappesca perché? Da organicista, e ateo, quale sono, credo che qualche causa biochimica possa esistere a dividere i due sessi all’origine di noi umani. Motivo di più, a mio avviso, e non solo a mio parere, affinché le donne non trascurino sia pure lievi segni, se ripetuti, di sopraffazione psicologica perché “le donne – scrivono su Soccorso rosa” – spesso non si rendono conto della gravità delle violenze che subiscono, in alcune case le peggiori situazioni diventano la normalità” fino a possibili esiti fatali.
Il Ministero della Salute, oltre a ridurre competentemente i posti letto della sanità pubblica e a peggiorare i servizi per noi tutti ha un link (messo sul suo sito web da anni) dove ci sono numeri utili se necessità occorressero.
Ancora una cosa, a scanso di equivoci, non ritengo noi maschi tutti votati alla violenza.
É esistito un certo Darwin. L’evoluzione non è un interruttore che tac! porta tutte e tutti allo stesso livello di coscienza e pratica sociale. Si evidenziano marcate differenze. Senza andare lontano, a dimostrare le lampanti diversità basta pensare ad esempio a quelle che intercorrono fra Gino Strada e Matteo Salvini oppure fra Liliana Segre e Daniela Santanchè.

Oggi su Cosmotaxi, quindi, nessun inno alle donne, compagne, madri, sorelle, colleghe o spose che siano, ma una riflessione su quanto succede nel nostro paese.
Fra le tante – tutte benvenute – pubblicazioni sul tema violenza sulle donne, ho scelto un libro della casa editrice Bibliotheka intitolato Gli amori malvagi Dieci storie di ordinaria violenza.
L’autrice è Anna Macrì
L’editore informa: “Attrice versatile, ha ricoperto ruoli drammatici e brillanti, tragedia e commedia dell’arte, teatro danza e dell’assurdo. In nomination al David di Donatello per il cortometraggio “Onora la Madre”, vincitore Best Short 2018 di Matera; è stata nel cast del film di Volfango De Biasi “Nessuno come noi”. Per il teatro ha scritto e rappresentato Cria da Marè su Marielle Franco, politica, sociologa e a ttivista brasiliana assassinata nel 2018”.

Dalla presentazione editoriale.

«Frutto di una ricerca sul campo durata tre anni in vari centri antiviolenza, il libro raccoglie dieci testimonianze (sulle oltre cento ascoltate) di donne violate da fidanzati, mariti, presunti amici.
Le protagoniste si raccontano con onestà e crudezza, dopo percorsi spesso segnati da rassegnazione, istinto protettivo nei confronti dei figli, denuncia dei carnefici, sensi di colpa, timore del giudizio altrui e depressione.
Cristallizzato in un istante infinito di dolore, il racconto della violenza subita puntando il dito sull'incapacità manifestata da molti uomini, e spesso in situazioni considerate normali e ordinarie, di costruire con le loro compagne rapporti maturi e di reciproco rispetto. Dieci racconti nudi e crudi, feroci e drammatici, scritti con iperreale narrazione da Anna Macrì, attrice, scrittrice e poetessa».

Scrive Francesca Rennis in Prefazione “Immergendoci nella lettura ci chiediamo se davvero possa esistere una tale vergogna, oggi che questo termine è stato stralciato dal vocabolario dei sentimenti. Vergogna da parte del carnefice che freddamente bracca la sua preda, divenuta oggetto di desiderio, vittima di inganni. Isolata dal mondo intero, che si staglia come sfondo di indifferenza e impassibilità. Una tragedia nella tragedia quotidiana, quella di dover affrontare il mostro da sola (…) Rosina, Cristina, Rita, Marta, Francesca, Sabrina, Manuela, Rossella, Federica, Giovanna non sono più donne, sono grida. Ognuna di loro è come una candela che arde di dolore. Quelli di Anna Macrì non sono racconti e neppure auto narrazioni. È carne sanguinante di spasimi che si fa inchiostro per testimoniare abusi di mariti, amanti, padri (…) Quella di Anna è una denuncia ferrea, che non lascia adito a scusanti, perché c’interroga sul tipo di società in cui viviamo. C’interroga su quelle eterne domande che sorgono di fronte al dolore dell’innocente. Da dove proviene il male? Come si diventa carnefice?“.

Ho aperto questa nota con i versi di Alda Merini e la concludo con la voce solista di Tracy Chapman in una celebre canzone del suo repertorio; un brano dedicato alla violenza subita da una donna al di là di un muro che non è solo una parete fatta di mattoni ma d’indifferenza.
Per ascoltare: CLIC!
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Anna Macrì
Gli amori malvagi
Prefazione di Francesca Rennis
96 pagine * 16.00 euro
ePub con social DRM: 6.99 euro
Edizioni Bibliotheka


L'uomo invisibile

No, non si tratta del tenebroso Griffin ideato da Hebert G. Wells nel 1897, ma di un artista cinese famoso in tutto il mondo per la particolare tecnica con cui si esprime.
Il suo nome è Liu Bolin.
Nato a Shandong nel 1973 si è diplomato a Pechino, presso il dipartimento di Scultura dell'Accademia Centrale d'Arte Applicata,.
La notorietà gli deriva dalle performances e mostre con suoi autoritratti fotografici, caratterizzati dalla fusione di se stesso con l'area circostante, attraverso un’accuratissima pitturazione del proprio corpo grazie alla quale si mimetizza con quanto lo circonda..
“Liu” – scrive Albert Hofer – “appartiene alla generazione dei primi anni '90, tempi in cui la Cina rinacque dalle macerie della Rivoluzione Culturale e godette di un rapido sviluppo economico e di una relativa stabilità politica”.

Dice l’artista: Il mio è un gesto di denuncia. Cos’'è oggi lo sviluppo dell’essere umano, e dove porta? L’uomo sta scomparendo nel suo ambiente. La tecnologia ha portato molto sviluppo materiale, ma per restare umani cosa si deve fare? Io non voglio perdermi in questo labirinto, perciò scelgo questa forma di difesa. Io sono per un’arte di impegno civile.

Che sia lontano dalla tecnologia lo dimostra anche il fatto che nelle sue performances non usa Quantum Stealth ma i più antichi strumenti delle arti visive: pennelli, matite, vernici come si può notare in questo video.
Liu Bolin artista di fama internazionale nell’arte del camouflage, sarà a Milano e Rovereto per due nuovi progetti, presentati dalla Galleria Gaburro.
“La nostra collaborazione con Liu Bolin” – spiega Giorgio Gaburro fondatore della Galleria – “nasce nel 2008 rappresentando un importante traguardo nel panorama culturale italiano, che fino ad allora non aveva mai ospitato l’artista cinese. Questo sodalizio di respiro internazionale è cresciuto negli anni, confermando uno degli obiettivi della Galleria: quello di rappresentare e proporre artisti che dialoghino con una ricerca incentrata su temi sociali e attuali, nella società contemporanea. Ringraziamo la Libreria Hoepli e la Fondazione Museo Civico di Rovereto per aver contribuito a questo importante progetto”.

Estratto dal comunicato stampa.

«Liu Bolin è conosciuto in tutto il mondo come “l’uomo invisibile”, per la sua straordinaria capacità di fondersi e confondersi nell’ambiente circostante grazie a un accurato body painting, per poi essere immortalato dalla macchina fotografica. Liu Bolin torna in Italia dopo il grande successo della mostra “Hiding in Florence”, lo scorso settembre a Palazzo Vecchio, con due nuovi progetti presentati da Galleria Gaburro, project gallery che rappresenta l’artista cinese dal 2008.
A Milano si esibirà alla Libreria Hoepli, nei giorni 11 e 12 Marzo 2024, dalle 10.30 alle 19
La collaborazione tra Galleria Gaburro e Libreria Hoepli vedrà Liu Bolin protagonista di una performance in cui l’artista dialogherà, tramite il suo corpo, con gli spazi della storica libreria, tra le più grandi in Italia e in Europa con oltre 200.000 libri disponibili. La presenza di Bolin in Libreria Hoepli - storico polo culturale della città di Milano con i suoi cinque piani siti nell’edificio progettato da Luigi Figini e Gino Pollini, e commissionato dagli editori Gianni e Ulrico Hoepli - promette di offrire ai visitatori un’esperienza coinvolgente, che unisce in questa straordinaria occasione il mondo dell'arte e quello dell'editoria.
Sarà possibile assistere alla performance al terzo piano, nel settore dedicato all’arte

A Rovereto, inoltre, dal 16 Marzo al 30 Giugno di quest’anno, al Museo di Scienze e Archeologia di Rovereto, (Borgo Santa Caterina 41): “Mimetismi in natura e nell’arte di Liu Bolin” una mostra che racconta il fenomeno biologico del mimetismo attraverso cui gli organismi assumono forme e colori similia a quelli dell’ambiente circostante o di altri esseri viventi. Un'evoluzione biologica mirata alla sopravvivenza, che Liu Bolin trasforma in un potente strumento di espressione artistica presentando 7 grandi opere provenienti dalla Galleria Gaburro di Milano che si intrecciano con la narrazione delle sale della mostra. I lavori fanno parte della serie Target, che indaga il soggetto dei migranti, e di Hiding in the city. Le opere di Bolin si armonizzano in un’esposizione che propone esempi di mimetismo naturale attraverso immagini, video, campioni dalle collezioni di botanica e zoologia, ed esemplari vivi di animali e piante che attuano strategie mimetiche particolarmente efficaci, come il camaleonte o i Lithops, le cosiddette piante sasso.
La mostra, in collaborazione con la Galleria Gaburro di Milano, è curata dagli esperti del museo Gionata Stancher, Giulia Tomasi, Tiziano Straffelini».

Accertata la presenza di un uomo invisibile, qualcuno si chiederà: esiste una donna invisibile? Sì, esiste. È un‘artista peruviana, si chiama Cecilia Paredes. Si sono mai incontrati l’uomo invisibile con la donna invisibile?
No, certo. È impossibile. L’uno non si accorgerebbe dell’altra e l’altra dell’uno.
Chissà a quante e a quanti di noi sarà capitata la stessa cosa. essere simili e mai incontrarsi o non accorgersi dell’altra presenza. Eppure, un vantaggio ce l’avrebbe quest’immaginaria coppia: di sicuro non scoppia.

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Liu Bolin
Milano
Libreria Hoepli
via Ulrico Hoepli 5
Info: 02 - 86 48 72 15
11 e 12 Marzo 2024
Dalle 10.30 alle 19.00

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Per I redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa Hoepli
Letizia Di Girolamo > 340 – 67 28 792

Ufficio Stampa Galleria Gaburro
Alessia Fattori Franchini – aff@affcomunicazione.it


Leopardi e la cultura inglese (1)


Un vigoroso saggio è stato pubblicato da CN, il nuovo marchio tascabile di Oligo Editore.
CN prende in prestito le iniziali da Casa Nuvolari, la residenza del corridore automobilistico Tazio, il “Mantovano Volante”, entro le cui mura si trova la redazione della casa editrice.

Il saggio cui prima accennavo è intitolato Giacomo Leopardi e la cultura inglese.
L’autrice è Silvia Girometti
Dalla quarta di copertina: "Silvia Girometti ha conseguito due lauree presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, dove da anni lavora come bibliotecaria: dalla prima, in Lingue e letterature straniere moderne, sono scaturiti un contributo nel volume “Saggi leopardiani” (Napoli, Regina 2005) e questa monografia, mentre dalla tesi della laurea magistrale in Arti visive è nato “Scimmie nell’arte” (Mantova, Il Rio 2019) a cui sono seguiti “Partita d’artista” (2021) e “Bambini, arte e società” (2024), entrambi per Il Rio. Parallelamente ha pubblicato una serie di articoli su riviste specializzate in ambito biblioteconomico e ha conseguito un master su Diritto e fiscalità dei mercati internazionali dell’arte. La passione per l’arte le deriva forse dall’essere figlia del pittore William Girometti, del quale nel 2024 si è celebrato il centenario della nascita. In quest’occasione l’autrice ha curato la mostra “Rigore e metamorfosi. William Girometti. Una vita dedicata all’arte” presso il Museo Francesco Gonzaga di Mantova, e pubblicato il volume omonimo (Mantova, Il Rio 2024)".

Dalla presentazione editoriale.

«Il volume ha lo scopo di evidenziare il contrasto fra l’isolamento recanatese e la spaziatura degli interessi di Leopardi verso il mondo intero, a dispetto delle difficoltà che un intellettuale italiano di provincia nell’Ottocento doveva affrontare per tenersi aggiornato. In particolare, l’attenzione si concentra sull’effetto più o meno consapevole della cultura inglese sulla meditazione leopardiana, in cui il confronto con il pensiero di filosofi, estetologi o letterati anglosassoni restituisce un’accezione nuova e una trattazione originale. Offrendo stimoli per un aggiornamento sull’influenza di Leopardi alla produzione letteraria inglese successiva, lo studio si concentra sulla risposta del poeta recanatese agli autori inglesi precedenti o a lui contemporanei, in una sorta d’intervista ideale».

Segue un incontro con Silvia Girometti.


Leopardi e la cultura inglese (2)


A Silvia Girometti (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come e quando nasce questo libro?

La pubblicazione celebra casualmente il trentennale della mia prima laurea in lingue e letterature straniere moderne. Infatti, come indicato nella premessa, il volume è il risultato della rielaborazione della tesi discussa appunto trent’anni fa, il 21 marzo 1994: una rielaborazione, devo dire, piuttosto contenuta, in quanto l’apparato critico di supporto resta tuttora autorevole nella sua attualità. La ricerca comparata costituisce inoltre una mia passione costante, manifestatasi fin dai tempi del liceo, quando cioè ho avuto per la prima volta l’opportunità di rendermene conto. L’occasione, all’epoca, derivava da un componimento sul confronto fra Manzoni e Scott, fonte per me di grande stimolo. Tale entusiasmo ha trovato poi terreno fertile attraverso le ricerche effettuate dalla seconda laurea in poi, su motivi artistici che si ripresentano nel tempo con accezioni differenti. Proprio qualche aggiunta sull’arte ha costituito buona parte della rielaborazione della tesi su Leopardi.

Il suo saggio capovolge la consueta dizione che si sofferma sull’influenza della cultura inglese su Leopardi. Lei, infatti, indaga e illustra l’influenza che ebbe lo scrittore sulla cultura inglese.
Quali elementi le hanno suggerito quell’indirizzo critico
?

La scelta iniziale è stata in un certo senso obbligata, avendo optato per un relatore che insegnava letteratura italiana: alla mia proposta dell’argomento su Leopardi e la cultura inglese per la tesi interdisciplinare, il docente disse che il punto di vista doveva essere la posizione assunta da Leopardi nei confronti della letteratura inglese e non viceversa. Per l’opzione contraria la prassi prevedeva che mi rivolgessi al titolare della cattedra di letteratura inglese.
La ricerca, portata avanti per circa un anno e condotta con lo spirito di un’intervista ideale basata su documenti reali, si è subito dimostrata ricca di stimoli interessanti. La direzione intrapresa, inoltre, prometteva ulteriori sviluppi che, nelle intenzioni iniziali, avrebbero dovuto comportare una prosecuzione della ricerca stessa dal punto di vista opposto, ossia in relazione all’influenza leopardiana sulla cultura inglese. Il percorso costituiva una logica sequenza cronologica, suggerendo fruttuosi confronti anche con altre culture europee, cui Leopardi medesimo aveva dimostrato interesse e conoscenza. Tanti spunti rimangono tuttora potenziali, in quanto ho poi rivolto maggiore attenzione alle ricerche in ambito artistico, stimolata dalla seconda laurea in arti visive e, a monte, forse in quanto figlia di un artista.

Come giudicava Leopardi il mondo letterario inglese?

È utile anzitutto una breve premessa: in generale, Leopardi è molto attento e interessato alle letterature di altri Paesi, e quando gli è possibile legge in lingua originale. Conosce infatti vari idiomi, ma non sempre ha a disposizione le fonti dirette. In particolare, l’isolamento recanatese e la biblioteca di Monaldo offrono spesso traduzioni italiane o francesi di opere inglesi, e all’epoca la fedeltà delle traduzioni è molto discutibile. Tuttavia, il giovane Giacomo dimostra già di apprezzare gli scrittori britannici, prima ancora di poter fruire di alcuni originali. Nello Zibaldone cita e glossa vari autori inglesi dimostrando talvolta affinità di pensiero, come nel caso di Addison, oppure criticando inizialmente gli eccessi romantici per poi rivalutarne la potenza, specie in riferimento a Byron, il poeta di cui forse tratta maggiormente. Loda la grandezza di Milton e subisce il fascino di Ossian, che considera autentico perché non conosce Macpherson. Subisce inoltre l’influenza di Young, e manifesta analogie con Wordsworth; apprezza i poemi epici di Pope, mentre ne contesta l’ottimismo filosofico settecentesco. Presenta invece affinità filosofiche con Sterne, poiché entrambi giudicano positivamente il pensiero di Locke. Non mancano citazioni in inglese o commenti relativi allo stile: la conoscenza della lingua consente a Leopardi di apprezzare caratteristiche, come il “blank verse” (che chiama “verso bianco”), che richiedono a suo stesso parere una dimestichezza profonda e una vera e propria assuefazione alle modalità espressive e letterarie britanniche.
In sintesi, si può affermare che il giudizio leopardiano sul mondo letterario inglese sia nel complesso favorevole: lo testimonia apertamente una annotazione sullo Zibaldone del 1823, in cui Giacomo loda la libertà non solo della lingua, ma anche della letteratura inglese, «la letteratura forse più libera d’Europa, e il gusto letterario» (Zib. 1046). Libertà che permette a uno Shakespeare, “scrittore veramente nazionale” (Zib. 2098), di creare personaggi unici.

Dal suo libro: “È molto dibattuto dai critici la questione se Leopardi fosse o meno un filosofo”.
Il suo parere
?

Rispondo prima citando quanto ho scritto nel libro, e di cui continuo ad essere convinta, poi lasciando la parola alla fonte più attendibile, ossia Leopardi stesso.
«Chi ricerca in lui la definizione precisa e coerente di un sistema risponde negativamente. La verità sembra essere stata messa in luce da quegli studiosi che hanno saputo analizzarne meglio il pensiero globale, evitando schematizzazioni e riduzioni: in Leopardi la speculazione filosofica è parte integrante della meditazione in senso lato, sostrato cognitivo alla creazione poetica e norma stessa di vita»…

… e Leopardi ?

Leopardi considera il vero poeta «sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo più perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere», poiché per lui filosofia e poesia vanno di pari passo e costituiscono entrambe la «sommità dell’umano spirito, le più nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano» (Zib. 3383, 8 settembre 1823).

Questo sito dedica largo spazio oltre che alla saggistica letteraria anche al cinema e al teatro. Da qui la domanda che segue a lei che tanto profondamente conosce l’universo leopardiano. Come giudica “Il giovane favoloso” ?

Non sono purtroppo molto esperta di cinema, se pure appassionata fruitrice.
Ho rivisto in questi giorni “Il giovane favoloso” dopo alcuni anni e continuo a considerarlo una vera sfida. Il racconto della vita di Leopardi, infatti, non offre materiale per chi ami l’avventura; le lunghe pause e la quasi immobilità di molte inquadrature sembrano ammiccare a chi conosce bene il poeta, ed è in grado di riconoscere la genesi dei suoi più noti componimenti. Emerge il profilo di un uomo solo, anche oltre l’isolamento recanatese, e incompreso sia dalle persone comuni che dalla cerchia familiare, ad eccezione del fratello Carlo e soprattutto della sorella Paolina.
L’evidenziare tale incomprensione nella quotidianità rende omaggio, per contrasto, alla genialità dello spirito, che si esprime non solo nella poesia, ma anche nella prosa e attraverso le pagine attualissime dello Zibaldone. Forse questi aspetti affiorano solo parzialmente, ma dubito sia possibile concentrare in una pellicola e trasmettervi per intero la grandezza di Leopardi. Più semplice, probabilmente, l’utilizzo dei documentari a fini didattici che analizzano separatamente le molteplici sfaccettature della sua personalità e del suo pensiero.

………………………………………......

Silvia Girometti
Giacomo Leopardi e la cultura inglese
342 pagine * 25.00 euro
CN Oligo


Burke e l'Ignoranza

Pericle: “L’ignoranza produce baldanza”.
Herman Melville: ““L’ignoranza è madre della paura.”
Elias Canetti: “Per l’ignorante tutto suona convincente”.
Non sono solo questi tre a dire male dell’ignoranza, ce ne sono tanti.

Se pensate che nessuno sia, invece, a favore dell’ignoranza, vi sbagliate.
Nomi illustri. Che si sono in tal modo pronunciati senza intenzioni ironiche.
Ad esempio, de Montaigne. Pensava che “l’ignoranza fosse una ricetta per la felicità migliore di quella della conoscenza”.
Il filosofo naturalista Thoreau voleva formare una Società per la Diffusione dell’Ignoranza”.
Bernardin de Saint Perre lodava l’ignoranza perché a suo parere “favoriva l’immaginazione”.
Gente di tempi andati? Macché! Troviamo ragionamenti perfino tra managers. Non pochi. Un nome per tutti: Henry Ford che non faceva mistero di cercare persone che venivano assunti senza sapere che cosa fare stimolati così ad apprendere
Oggi tutti questi, però, sono stati superati, informano le cronache odierne, da una raffica di assunzioni di questi ultimi mesi in posti chiave del Paese – ad esempio alla Rai oppure nominati in altre istituzioni – stavolta però pare che all’ignoranza quei beneficiati accoppino anche una totale mancanza d’immaginazione e nessuna voglia di apprendere.
Sere fa in un programma tv si affannava verso la telecamera un uomo politico dicendo castronerie ai confini della realtà e mi faceva pensare che oggi l’ignoranza è diventata un punto di vista, considerato quanto può esserne un altro che discende da studi scientifici.

Ignoranza – Conoscenza. È il tema sul quale s’impernia un affascinante libro pubblicato dalla casa editrice Raffaello Cortina intitolato Ignoranza Una storia globale.
L’autore è Peter Burke
Uno dei più autorevoli storici europei, professore emerito di Cultural History all'Università di Cambridge. Ha dato un contributo fondamentale alla disciplina con il volume “Storia dell'umanità” commissionato dall'Unesco nel 1999.
Il volume è in due parti: ”L’ignoranza della società” e “Le conseguenze dell’ignoranza”.
L’autore esplora l’ignoranza attraverso i secoli e ragionando sui nostri giorni nota che con l’affermarsi delle nuove tecnologie a una maggiore diffusione della conoscenza, si è avuta anche una perniciosa diffusione dell’ignoranza. Altrimenti come spiegare, ad esempio, i No Vax?
Scrive Burke: “Con questo libro intendiamo sostenere che abbiamo bisogno di pensare alle conoscenze e alle ignoranze al plurale anziché al singolare, prendendo atto che quella che viene considerata conoscenza o saggezza convenzionale varia da un luogo all’altro e da un periodo all’altro. La nuova conoscenza rende possibili nuovi tipi di ignoranza.”
Ogni nuovo apprendimento lascia lo spazio per creare una nuova ignoranza. Dovremmo pensarci due volte prima di definire ignorante qualunque individuo, cultura o periodo, poiché semplicemente c’è troppo da sapere – una lamentela antica ma che diventa sempre più giustificata nel nostro tempo.
Per dirla con Mark Twain, “Siamo tutti ignoranti solo di cose differenti”. Il guaio è che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno, mentre coloro che possiedono quelle conoscenze non hanno il potere”.

Dalla presentazione editoriale.

«Nel corso della storia, ogni età ha creduto di disporre di maggiore conoscenza rispetto alla precedente. Gli umanisti rinascimentali vedevano il Medioevo come un periodo di oscurità; gli illuministi cercarono di spazzare via la superstizione con la ragione; e, nel mondo contemporaneo interconnesso, sembra che su richiesta si possa accedere a un numero illimitato di informazioni.
Ma cosa ne è stato della conoscenza perduta nel corso dei secoli? Come possiamo spiegare i negazionisti del cambiamento climatico? Siamo davvero meno ignoranti dei nostri antenati?
In questo testo di grande leggibilità, Peter Burke esamina la lunga storia dell'ignoranza dell'umanità attraverso religione e scienza, guerre e catastrofi, affari e politica, e ci rivela storie straordinarie dei promotori e degli avversari dell'ignoranza, dai politici che arbitrariamente ridisegnarono i confini dell'Europa nel 1919 a quanti oggi segnalano illeciti nell'interesse generale.
Il risultato è una vivida esplorazione della conoscenza umana attraverso le epoche e dell'importanza di riconoscerne i limiti».

……………………………………

Peter Bruke
Ignoranza
Traduzione di Riccardo Mazzeo
384 pagine * 25.00 euro
Raffaello Cortina


Giuliano Mauri

Venerdì scorso, 1° marzo, L'Associazione Giuliano Mauri, all'interno delle Scuderie del seicentesco Palazzo Barni a Lodi in corso Vittorio Emanuele, ha tenuta la conferenza stampa di presentazione – con visita in anteprima – dello spazio permanente dedicato alle opere di Giuliano Mauri.
Il luogo è destinato alla diffusione della conoscenza dell’opera dell’artista, definito dalla critica “Poeta della Natura”, sarà luogo di studio, didattica, restauro e laboratorio, legati alla relazione uomo-natura attraverso l'operatività artistica di Mauri che è nota per le installazioni ambientali, definite «architetture naturali», eseguite con rami e tronchi di legno.

In foto Il Ponte Vigilio (lo attraverseremo in un video fra poco), lavoro che ho scelto quale esemplificazione del suo stile e sul quale così disse.
- A Padernello, nel Bresciano, mi hanno dato il compito di far riemergere una strada romana, una centuria, che nell’antichità aveva collegato il castello al paese. La strada era stata fagocitata e sepolta da un bosco grandioso: recuperarla cancellando ciò che aveva seminato il tempo sarebbe stato un delitto. Così abbiamo scelto di costruire una passerella sopraelevata in corrispondenza del tracciato dell’antica centuria, lasciando il bosco intatto. Questo è il mio concetto di attenzione storica.

Un intervistatore gli chiese:
- Le sue opere vanno mai al di là di quel che aveva pensato?

- “Sempre. Per esempio, ora si e scoperto che dove c’è la cattedrale vegetale c’è un’acustica stupenda, come nelle cattedrali vere: ci fanno i concerti. Nessuno è più in grado di dire quanto fosse una predisposizione naturale del posto, di cui comunque non c’eravamo accorti, e quanto invece dipende dalle linee di forza create dalla cattedrale stessa. in fondo il mio lavoro consiste proprio in questo: fare qualcosa che potrebbe esserci sempre stata”.

- Qual è il suo rapporto con il sacro?

> “Sono ateo, ma ho un grande rispetto per la spiritualità. Mettermi continuamente in relazione con la natura è la mia liturgia. Ci sono luoghi creati da me che sono scomparsi, spariti, marciti: ma la memoria rimane, magari in un albero cresciuto storto per fare spazio al mio lavoro. Questo concetto di eternità mi affascina”.

Voci sull’opera di Mauri in questo video.

Chiudo questo profilo di Giuliano Mauri con dei versi di Emily Dickinson che mi sembrano riecheggiare nell’opera di quell’artista.

Natura è ciò che conosciamo –
Ma non possiamo esprimere –
La nostra saggezza è impotente
Di fronte alla sua semplicità.

……………………………………..……………………

Spazio Giuliano Mauri
Palazzo Barni
Corso Vittorio Emanuele 17, Lodi
info@giulianomauri.com

……………………………………..……………………

Contatti Associazione Giuliano Mauri
Francesca Regorda,
Vicepresidente e Responsabile Progetto
Mob. +39 3386428497,
regordafrancesca@gmail.com

……………………………………..……………………

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio stampa | Alessandra Pozzi Tel. +39 338.5965789, press@alessandrapozzi.com


Oltre Auschwitz (1)

Prima di presentare il libro di oggi vorrei che ascoltaste le parole della scrittrice Edith Bruck in questo video.

La casa editrice Marsilio ha pubblicato Oltre Auschwitz Europa orientale, l'Olocausto rimosso.
L’autore è Frediano Sessi. Un grande storico della Shoah.
Scrittore e saggista, vive a Mantova. Tra le sue pubblicazioni: Nome di battaglia: Diavolo (2000), Prigionieri della memoria (2006), Foibe rosse (2007, ed. tascabile 2022), Il segreto di Barbiana (2008), Il lungo viaggio di Primo Levi (2013), Mano nera (2014); con Carlo Saletti, Visitare Auschwitz (2011); Elio, l’ultimo dei giusti (2017), L’angelo di Auschwitz. Mala Zimetbaum, l’ebrea che sfidò i nazisti (2019, ed. tascabile 2023); Auschwitz. Storia e memorie (2020); tutti editi da Marsilio.
Per i tipi di Einaudi Ragazzi ha scritto Ultima fermata: Auschwitz (1996), Il mio nome è Anne Frank (2010), Primo Levi: l’uomo, il testimone, lo scrittore (2013), Ero una bambina ad Auschwitz (2015), Auschwitz Sonderkommando (2018), Prof, che cos’è la Shoah? (2020), Sotto falso nome (2022) e per Einaudi ha curato il Diario di Anne Frank (1993) e il Dizionario della Resistenza (con Enzo Collotti e Renato Sandri, 2000).
Con Rizzoli ha pubblicato Auschwitz 1940-1945 (1999).

Su questo sito, in occasione di sue precedenti pubblicazioni: ho auto il piacere d’incontrarlo nel 2016 quando uscì Aushwitz, nel 2022 quando pubblicò Il bambino scomparso e ancora per il volume diretto ai ragazzi Sotto falso nome.

Dalla presentazione editoriale di “Oltre Aushwitz”.

«Bełżec, Sobibór e Treblinka, insieme a Chełmno sul Ner, furono le località prescelte per portare a termine in Europa l’eliminazione degli ebrei dell’Est. Luoghi progettati e costruiti per funzionare solo come strutture omicide, molto diversi dai Lager, perché non prevedevano nessuna possibilità di sopravvivenza. In questi campi, in cui si è compiuta la strage di oltre un milione e mezzo di ebrei, è oggi la quasi totale assenza di tracce di quanto accaduto, voluta e messa in atto dagli assassini, a parlare per i morti e a esigere giustizia. Se Chełmno, dove per la prima volta si sperimentò il disegno di un’eliminazione di massa rapida e funzionale per mezzo del gas, può essere considerato il prototipo dei centri di sterminio nazisti, perché è così difficile ricostruire cosa avvenne lì e negli altri luoghi dell’Aktion Reinhardt, il nome in codice dell’operazione di annientamento sistematico? Vi fu forse una volontà politica che preferì la rimozione e l’oblio alla memoria? Attraverso la ricostruzione delle vicende di chi incontrò la morte nei campi della Polonia orientale, dei processi che decenni dopo coinvolsero i responsabili e delle decisioni che condussero verso il baratro, Frediano Sessi restituisce un racconto esaustivo e dettagliato, ricco di documenti inediti, nell’intento di riempire questo «vuoto di parole» e di consegnarci l’enormità di quanto successo: «se si ascolta l’inquietante solitudine di questi boschi, isolati e deserti, si comprende che il monumento agli ebrei assassinati nei centri di sterminio dell’Aktion Reinhardt, a Chełmno o nelle fosse del margine nord di Majdanek, sono proprio il suolo nudo, la foresta, l’acquitrino da cui a volte spunta qualche fiore, sorto da quella terra sacra».

Segue un incontro con Frediano Sessi.


Oltre Auschwitz (2)

A Frediano Sessi ho rivolto alcune domande.

Perché hai puntato questo saggio proprio sul genocidio avvenuto in Europa Orientale?

Come si legge nel titolo, lo sterminio degli ebrei dell’Europa Orientale è stato rimosso e dimenticato da tempo, sia perché i luoghi dello sterminio sono stati cancellati dagli stessi nazisti, ma anche perché gli ebrei di quelle terre dell’Est non sono mai stati considerati pienamente europei e civilizzati, come i loro fratelli dell’Europa centrale e occidentale. Nei centri di sterminio dell’Est ci troviamo nel «cuore dell’Olocausto» e per questo la loro storia andava ricostruita e proposta al pubblico.

Bełżec, Sobibór, Treblinka… ma dai primaria importanza al campo di Chelmno.
Il motivo
?

Uccidere centinaia di migliaia di uomini donne e bambini con il gas non era semplice e soprattutto non c’era un precedente che potesse garantire la riuscita di un simile progetto titanico: sterminare più di 1.600.000 ebrei. Chelmno è il primo centro di sterminio che funziona con i camion a gas e dove si sperimenta l’assassinio sistematico di migliaia di ebrei ogni giorno, provenienti dal ghetto di Lodz; e si sperimenta il metodo di fare scomparire i loro corpi. Dapprima con le sepolture comuni, poi con la cremazione.

Ad eccezione di Auschwitz, perché di grandi centri di sterminio, nominati nel tuo volume, non se ne parla?

Prima di tutto perché nei centri di sterminio dell’est ci sono pochissimi testimoni e libri di memorie. 47 sopravvissuti di cui conosciamo il nome e soltanto 15 racconti, alcuni dei quali scritti in lingua Yiddish. In secondo luogo, è assai difficile trovare documenti, perché i nazisti hanno cercato di distruggere ogni prova. Inoltre, fin dall’inizio i governo polacco non ha favorito la diffusione della conoscenza di questo eccidio, cui hanno collaborato anche buona parte delle comunità polacche.

Il personale impiegato nei campi erano anonimi automi assassini oppure uomini convinti dell’ideologia nazista e della giustezza dell’antisemitismo?

Coloro che vennero utilizzati per fare funzionare i centri di sterminio, provenivano quasi tutti dagli organici del Progetto Eutanasia (T4) dove avevano ucciso, per conto dello stato nazista i soggetti incurabili, disabili, malati di mente. Erano uomini che avevano scelto di servire la comunità di popolo tedesca ariana, eliminando fisicamente i non ariani, i non adatti. Uomini formati a uccidere per la protezione della razza pura del popolo tedesco. Consideravano il loro lavoro un atto di alta moralità, perché compiuto in difesa del popolo germanico e della futura Europa.

Tu credi oppure no nella “banalità” del Male?

In Italia questo concetto viene spesso utilizzato, quando si parla dei criminali nazisti e di Eichmann. Dal punto di vista storico è un concetto errato. Nessuno degli uomini che erano gli esecutori materiali dello sterminio erano banali o agivano senza prevedere o conoscere le conseguenze delle loro azioni. Tutti erano criminali responsabili che avevano scelto la strada dello sterminio degli ebrei e degli estranei alla razza ariana, consapevolmente e sapendo bene che al di fuori dei confini del Reich il loro operato era considerato un crimine assoluto. La loro utopia di un mondo nuovo ariano che escludeva qualsiasi soggetto diverso, li spingeva a queste azioni considerate giuste e nobili. Non si può dunque parlare di banalità del male.

Come apprendo dal tuo libro, il lassismo dei tribunali tedeschi nei confronti dei criminali di guerra fu maggiore nell’immediato dopoguerra che non in anni successivi.
Qual è la spiegazione
?

Nell’immediato dopoguerra, la fede nell’utopia hitleriana di una nuova Germania e di una nuova Europa ariana ha fatto in modo che la maggior parte della popolazione, che aveva aderito a questa utopia, proteggesse tutti coloro che erano stati il braccio armato del regime e della comunità di popolo. Con il passare degli anni e l’affermarsi dei principi democratici, la generazione di tedeschi nata nel dopo guerra ha considerato padri e nonni, implicati nelle azioni omicide, nelle stragi e nei massacri, criminali.
Oggi sappiamo anche che il razzismo, la paura dello straniero e la tutela della propria autenticità nazionale sono pericoli seri che possono portare a convinzioni simili a quelle che sostenevano gli intellettuali nazisti e, successivamente, il loro governo nazionale.
Pensare al benessere di una nazione e di una comunità, escludendo gli stranieri, trasformati in nemici, ci può portare a ripetere i crimini del nazismo.

…………………….....

Frediano Sessi
Oltre Auschwitz
400 pagine * 30 euro
Marsilio


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