Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 27 settembre 2024
Omero. Delle armi del vero amore (1)
Sull’Iliade è stato versato un fiume o più opportuno dire uno Scamandro d’inchiostro tanto da poter affermare che sia un campo critico ben arato per estensione e profondità, roba insomma da scoraggiare altre imprese di scrittura. Erore, direbbe Petrolini. Escludere nuovi traguardi possibili degli studi letterari è cosa imprudente. Ad esempio, lo dimostra un bellissimo libro pubblicato dalla casa editrice il Mulino intitolato: Omero. Delle armi del vero amore. L’autrice di questo piccolo gioiello di cellulosa è Silvia Romani. Insegna Mitologia e Religioni del mondo classico all’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi libri più recenti: «Il mito di Arianna» (2015)), «Saffo, la ragazza di Lesbo» (2022), pubblicati da Einaudi, e «La Sicilia degli dei» (con Giulio Guidorizzi, Cortina, 2022) Libro bellissimo dicevo, perché accanto al merito di esercitare sul testo omerico acute investigazioni stilistiche, ne sfoggia un altro: condurre quelle indagini sul mito e le sue epifanie con una scrittura di lucente spessore poetico. Terreno pericoloso, foresta dove s’aggira l’insidiosa presenza del lupo rappresentato dalla cattiva letteratura, ma qui è la bambinaccia Romani a divorare quel lupo ammaliando chi legge. Solo applausi dunque? No, una cosa che non mi piace in quel libro c’è: il titolo. Quel testo meritava decisamente di meglio. Prendere un’altra via, un altro vento. Forse l’autrice a sentire questa critica potrebbe rispondere come Clark Gable a Vivien Leigh: “Francamente, me ne infischio”. Ok. Ma io resto della mia opinione. Per sfogliare alcune pagine: CLIC! Dalla presentazione editoriale. «Il sesto dell’Iliade è il canto di Glauco e Diomede, nemici pronti a incrociare le armi ma anche poi a deporle in nome dell’antico vincolo dell’ospitalità; è il canto di Ettore e Andromaca, due figure avvinte per sempre dalla sincerità del sentimento coniugale. Ma è anche il canto delle prime volte. Per la prima volta nella tradizione occidentale la fragilità della vita umana è accostata alle foglie che cadono. Per la prima volta la malinconia imprigiona l’anima di un uomo, Bellerofonte, un eroe senza macchia, a cui gli dèi diedero bellezza, virilità e fascino. Per la prima volta un grande guerriero, Ettore, abbraccia il figlio Astianatte sapendo di andare forse a morire. Ed è ancora in questo canto che Andromaca pronuncia la prima e più bella dichiarazione d’amore di sempre. Valori, gesti, parole e passioni tuttora capaci di suscitare il felice stupore delle lettrici e dei lettori di oggi». Segue ora un incontro con Silvia Romani.
Omero. Delle armi del vero amore (2)
A Silvia Romani (in foto) ho rivolto alcune domande. Che cosa ti ha tanto appassionato e fatto scegliere l’argomento di questo tuo saggio ?
Ho sempre voluto trovare il tempo di immergermi senza distrazioni nella musica di un canto dell’Iliade. Confesso di aver sempre preferito l’Iliade all’Odissea: è una questione di ritmo, di respiro quasi. E il canto VI è di gran lunga il più amato. Non foss’altro per la meraviglia delle foglie che cadono, a rappresentare il destino umano o per quella dichiarazione bellissima, quasi sfrontata, di Andromaca che al suo sposo Ettore dice: tu per me sei padre, madre, fratello, sposo fiorente. Tutto, insomma. Anche nell’Odissea ci sono armi e amori. In che cosa è diversa la loro presenza nell’Iliade? Nell’Odissea, salvo rare eccezioni, è tutto come attutito, rispetto all’Iliade: forse c’è più amore in verità, di certo si parla molto di più dei rapporti fra uomini e donne o meglio fra Ulisse e tutte le figure femminili incontrate nel suo lungo nostos verso casa. Eppure, nell’Iliade l’amore ha la stessa potenza di fuoco della guerra: è tempesta e rovina come accade a Elena. È desiderio, mancanza come per Achille e Patroclo. Dall’Iliade impariamo quanta dolcezza struggente possa rivelare l’amore di un padre, Priamo, per un figlio, Ettore che ormai non è più nulla se non cadavere. Impariamo anche quante sfumature possa avere quest’emozione complicata ed eterna che fin da Omero non ha nulla di luminoso e facile: è Eros, vento fra le montagne, come cantava Saffo. Perché definisci il VI canto dell’Iliade “il canto delle prime volte”? È il canto in cui, per la prima volta, due nemici, Glauco e Diomede, scelgono il dialogo anziché combattersi e alla fine si scoprono amici; in cui una donna dichiara al proprio uomo un amore eterno e totale; in cui un bambino piange spaventato quando il padre, Ettore, coperto dall’armatura prova ad abbracciarlo. È la prima volta, nella letteratura occidentale, in cui fa la sua comparsa la figura di un malinconico, l’eroe Bellerofonte. Nei versi di questo canto, ora e non prima, la miriade di foglie che il vento d’autunno disperde a terra e poi la primavera fa rinascere è paragonata alla vita umana. Qual è l’importanza delle donne in questo poema omerico ? Un’importanza assoluta: al di là del fatto che una donna, o meglio la sua bellezza, è la causa della guerra, alle donne è affidato il compito grande di ricamare la geometria degli affetti in tutto il poema. Quando, al termine dell’Iliade, il vecchio Priamo riporta a casa il cadavere di Ettore, dopo aver supplicato a lungo Achille perché gli venisse restituito, tocca alle donne ricordare attraverso il lamento funebre chi sia stato Ettore in vita, raccontarne la storia. Elena se la passa maluccio anche al tuo sguardo. Perché? Chi sarebbe stata senza Omero? È lei stessa a chiederselo quando comprende fino in fondo di essere una marionetta nelle mani della divinità. Rachel Bespaloff definiva il suo trascorrere in tutto il poema il moto di una penitente. In verità Elena non è, soltanto, una figura dolente: prova a sottrarsi, a sfuggire al controllo di Afrodite, ma la dea le consente solo di restare a Troia, a fianco di un uomo, Paride, che forse ha amato per un attimo, ma che di certo ha preso presto a disprezzare, per la sua mancanza di eroismo, per la sua indolenza. Sa di essere bella, bellissima, eppure è come se fosse attraversata dal brivido della storia che la trasformerà nella causa della prima delle grandi guerre d’Occidente. ……………………………………... Silvia Romani Omero. Delle armi del vero amore 144 pagine, 14,00 euro e-book euro 9,99 Formato: ePub il Mulino
mercoledì, 25 settembre 2024
Breve storia umoristica del libro
“I libri sono gli amici più tranquilli e costanti, e gli insegnanti più pazienti” (Charles W. Eliot)
Tutti i libri? No, non così per Giorgio Manganelli che amava molto i libri ma non i romanzi, gli apparivano “loschi, come i berretti dei ladruncoli, i molli feltri dei killers, gli impermeabili delle spie” Concordo con lui. Quando Marcello Baraghini impresse sulla copertina di un mio libro la parola “romanzo’ sfiorò la morte da parte di una mano omicida: la mia. Il libro esiste e ha vita lunga o breve grazie ai lettori. Creature di cui è buona abitudine lagnarne l’esiguo numero (meno si parla dei troppi scrittori), più raro ma presente l’elogio ai cosiddetti “lettori forti”… forti?... ho sempre immaginato che meritassero quell’aggettivo persone uscite ancora in buona salute dalle pagine di Susanna Tamaro, Federico Moccia, Bruno Vespa… Siete lettori che proprio mo’ vi accingete a leggere romanzieri e pseudosagisti? Che la Forza sia con voi! La casa editrice Graphe.it tanto ama i libri che a volte verrebbe da dire che quasi non sono libri per l’elegante singolarità che hanno (come Papiroflessia) oppure pubblica storie su oggetti fatti diventare addirittura quasi parte del paratesto: Breve storia del segnalibro. Su questa linea colta e birichina si pone anche Breve storia umoristica del libro. L’autore è Enrique Gallud Jardiel nato a Valencia nel 1958. Figlio d'arte, nipote del grande umorista spagnolo Enrique Jardiel Poncela, ha conseguito un dottorato di ricerca in filologia ispanica e pubblicato più di duecento libri; secondo alcuni addirittura oltre trecento! Sia come sia ecco un tipo grazie al quale i tipografi non devono temere la disoccupazione. “Breve storia umoristica del libro” in ogni pagina suscita divertenti rivelazioni su curiosi episodi, nulla inventando perché l’autore segue un metodo di ricerca rigorosamente scientifico. In questa intervista delinea e chiarisce il profilo del volume edito da graphe.it Dalla presentazione editoriale. «Il libro è un oggetto amato ma ambivalente: il risultato che produce è soggetto talvolta al caso, spesso alla stoltezza dell’uomo che lo maneggia. Sapienti di tutte le epoche si sono (insospettabilmente) espressi contro il libro e contro il lettore e hanno manifestato la propria frustrazione per l’eventuale e irrimediabile fraintendimento dei contenuti (per non parlare dell’affidabilità degli storici!). Questo volume, dissacrante e francamente spassoso, ripercorre con leggerezza la storia della trasmissione scritta della conoscenza, affiancando nozioni filologicamente impeccabili a riflessioni facete e curiosità poco note. Per esempio, sapevate che gli scribi egizi («quel popolo dal girovita così sottile») usavano un inchiostro apposito per le parolacce? Il testo, accompagnato dalle illustrazioni di Marco De Angelis, piacerà senz’altro a tutti i bibliofili, gli scrittori per professione e per diletto, gli insegnanti e i comuni lettori forti». ……………………………........... Enrique Gallud Jardiel Breve storia umoristica del libro Traduzione di Fabiana Enrico Ill. di Marco De Angelis 106 pagine * 9.50 euro Graphe.it
lunedì, 23 settembre 2024
Si è tifosi perché...
«Sono un tifoso di calcio. Secondo il Devoto-Oli, in questa accezione del termine il tifo è “l’appassionata ed entusiastica dimostrazione di favore per uno sport o per una squadra”. La definizione non mi persuade del tutto (perché mettere l’accento sulla “dimostrazione”? si può essere tifosi in incognito, tifosi repressi, tifosi che non si rivelano al nemico…), ma, prendendola per buona, osservo che essa ha, per così dire, due corni, due impugnature. Si è tifosi di uno sport o di una squadra – il che non esclude, ovviamente, che si possa essere tifosi di entrambi. Per quanto mi riguarda, sono tifoso di entrambi. Come tifoso dello sport che si chiama calcio, mi appassiono a tutte le partite possibili e immaginabili (…) Come tifoso di una squadra (ed eccomi al punto), sono tifoso dell’Inter». Questo l’incipit di Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita Scritti sul calcio 1979-2004 di Giovanni Raboni (Milano, 22 gennaio 1932 – Fontanellato, 16 settembre 2004) pubblicato, a cura di Rodolfo Zucco, dalla casa editrice Mimesis. So bene della passione calcistica di Raboni perché ho avuto il piacere di conoscerlo quando da Roma collaboravo alla trasmissione tv della Rai “Tuttilibri”, trasmissione da lui curata a Milano affiancato da Inisero Cremaschi. Ogni lunedì ci sentivamo al telefono per concordare le interviste da fare. Lo facevamo brevemente, mentre lungamente ci trattenevamo sulle partite giocate il giorno prima; allora gli incontri si svolgevano tutti di domenica. Io tifavo per gli azzurri del Napoli e lui per i neroazzurri, ne venivano fuori animate discussioni che mi vedevano travolto e perdente. Questi scritti sul calcio sono godibilissimi anche per chi è lontano dal tifo calcistico perché contengono riflessioni che prendendo spunto sempre dal calcio approdano poi, con sapiente leggerezza, a conclusioni che investono complessi comportamenti sociali. Oppure domande. Per esempio, quando si chiede perché uno sport “che ha tanta importanza nella vita sociale e più ancora in quella onirico-simbolica degli italiani, abbia dato sinora così scarsi risultati nel campo dell’arte e della letteratura” Scrive l'ottimo curatore Rodolfo Zucco “Patrizia Valduga ha messo a disposizione, con la consueta liberalità, l’archivio di Giovanni Raboni. Il mio primo ringraziamento, di cuore, va dunque a lei. (…) Questo volume raccoglie gli scritti di tema o di pretesto calcistico dati alle stampe da Giovanni Raboni: cinque poesie, dodici interventi giornalistici e due interviste. L’intento della ricerca, naturalmente, è stato quello della completezza, che però ho il cruccio di non aver conseguito, almeno sul piano dell’informazione bibliografica. Mi spiace molto, infatti, dovermi congedare da questo libro senza aver rintracciato la fonte del passo da cui è stato tratto il titolo, e più mi spiace ipotizzare che esso possa appartenere a uno scritto più ampio. Il pensiero di un sua emersione a libro pubblicato, se da un lato mi rallegra, dall’altro mi turba”. Dalla presentazione editoriale «“Perché mi piace il calcio? Ogni tanto me lo chiedo. Quella per lo sport è una passione veramente gratuita, non ha senso.” Giovanni Raboni iniziò a frequentare lo stadio giovanissimo, con il padre e il fratello, per seguire le partite casalinghe dell’Inter. Per tanti anni presente sugli spalti di San Siro insieme all’amico Vittorio Sereni, suo compagno di tifo a partire dai primi anni Sessanta, Raboni ha dedicato al calcio una piccola ma preziosa parte della sua produzione poetica e giornalistica. La compongono i testi raccolti in questo volume: dai versi della Canzoncina della mezzala sinistra (1979) all’intervista ‘Inter, non ti perdono di aver mollato Baggio’, pubblicata dal “Giorno” il 26 gennaio 2004». ……………………………………... Giovanni Raboni Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita a cura di Rodolfo Zucco 144 pagine * euro 14.00 Ebook - ePub/Mobi euro 9,99 Mimesis
venerdì, 20 settembre 2024
Geni e scienziati perseguitati
Il persecutore nell’esercitare il suo cupo mestiere (da lui definito spesso "missione") è una figura universale: attraversa epoche, genere (esistono anche furibonde persecutrici), bersagli, appartenendo a quel popolo che abita le sconfinate terre dell’Intolleranza. Può, inoltre, fare parte di una feroce maggioranza al governo oppure di una minoranza che si arroga il diritto di parlare a nome dell’umanità che mai ovviamente gliene ha dato mandato. I bersagli della persecuzione sono sempre gli stessi: gruppi etnici, religiosi, politici, sessuali, scientifici. Sì, anche scientifici. Ne abbiamo uno sciagurato esempio recente con i No-Vax. Quando li sento è forte assai la voglia di sottoporli a una dura punizione (ad esempio fargli ascoltare un intero discorso del ministro Lollobrigida oppure uno della ministra Roccella… sì, lo so, la tortura è vietata dall’articolo 4 della ‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea’). La casa editrice Castelvecchi ha pubblicato un libro che illustra e interpreta una parte della storia che vede persecutori tristemente all’opera. Titolo: Perseguitati Geni e scienziati emarginati, da Giordano Bruno a Alan Turing. L’autore è Thomas Bührke. Ha conseguito un dottorato in Fisica e astronomia al Max-Planck-Institut für Astronomie di Heidelberg nel 1986. Giornalista scientifico, ha scritto per «Süddeutsche Zeitung», «Die Welt» e «Berliner Zeitung». Dal 1990 al 2020 è stato redattore della rivista «Physik in unserer Zeit». “Perseguitati” è il suo primo libro tradotto in italiano. Bührke traccia i guai occorsi a tanti ricercatori scientifici, lo fa scegliendo 8 nomi: Giordano Bruno (1548-1600) - Jean-Sylvain Bailly (1736-1793) - Antoine Laurent de Lavoisier (1743-1794) - Lev Landau (1908-1968) - Lise Meitner (1878-1968) - Emmy Noether (1882-1935) - Albert Einstein (1879-1955) - Alan Turing (1912-1954). La lista parte dal Nolano. Caso esemplare. Mentre si trovava nel 1591 a Venezia, lì invitato dal nobile… nobile si fa per dire… Giovanni Mocenigo, fu denunciato dal Mocenigo stesso all’Inquisizione... accidenti che ospitalità!... direbbe Buster Keaton sporgendosi dal titolo di uno dei suoi film. L’8 febbraio 1600 fu condannato al rogo e, ascoltata la sentenza, rivolse ai giudici la storica frase: ”Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla”. Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua serrata da una morsa per impedirgli di parlare a chi assisteva al falò, condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo, fu arso vivo. Le sue ceneri le gettarono nel Tevere… perché?… per andare sul sicuro, hai visto mai? Dalla presentazione editoriale di “Perseguitati”. «La Storia è costellata di brillanti menti scientifiche che hanno dovuto subire persecuzioni a causa delle loro idee. Da Giordano Bruno, condannato al rogo per eresia dall’Inquisizione, ad Alan Turing, suicidatosi dopo l’arresto per omosessualità e la condanna alla castrazione chimica. Thomas Bührke narra le vicende straordinarie di otto scienziati ingiustamente emarginati, processati o addirittura assassinati. Il padre della chimica moderna Antoine-Laurent de Lavoisier e l’astronomo Jean-Sylvain Bailly morirono sotto la ghigliottina durante il Terrore giacobino. Lise Meitner, fisica nucleare austriaca, ed Emmy Noether, matematica tedesca, furono costrette ad abbandonare l’insegnamento a causa del regime nazista. Lev Landau, Premio Nobel per la Fisica nel 1962, fu incarcerato durante le purghe staliniane. Persino Albert Einstein, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti, fu spiato dall’FBI e sospettato di attività sovversive. Attraverso otto biografie strazianti ma illuminanti, Bührke lancia un appello per la libertà di ricerca e la protezione incondizionata degli scienziati, oggi sempre più minacciati». …………………………..... Thomas Bührke Perseguitati Traduzione di Andrea Varriale 230 pagine * 20.00 euro Castelvecchi
giovedì, 19 settembre 2024
Domani festa grande
Alla metà degli anni ’80 i Righeira conobbero uno dei loro maggiori successi con la hit L'estate sta finendo e adesso, nell’immediato arrivo dell’autunno (per i più distratti: il 21 settembre) quella stagione sta proprio finendo. Oggi 19 settembre, però, finisce con una festa grande ricordando il 20 – 9 – 1870: la Breccia di Porta Pia. Un tempo era festa nazionale. Dal 1930, per decisione del governo fascista, più non lo fu. Né è stata ripristinata dai governanti che vennero dopo la Liberazione. Evidentemente è una ricorrenza ancora sgradita ad alcuni. E non solo Oltretevere. Mai ho voluto partecipare alle dispute estetiche intorno alla bellezza o bruttezza della statua di Publio Morbiducci (1889 – 1963) dedicata al Bersagliere, m’è cara per quel che celebra e mi basta così. Quando a Roma passo per Porta Pia gioisco al pensiero di quel giorno che sancì la fine definitiva del potere temporale dei pontefici romani… definitiva?... mah… sorge qualche dubbio. Quasi quasi esco di casa e vado a vedere se l’hanno tolta quella statua a Porta Pia. Vuoi vedere che trovo un’iscrizione in frames che celebra Porta a Porta di Bruno Vespa? In fondo, quel bersagliere – diciamo la verità – è un autentico terrorista, uno che ha sparato sul serio, mica a parole, e ha fatto secchi anche alquanti mercenari delle truppe papaline, o no? Ma via, non esageriamo, la statua sta ancora lì, è inutile che io vada a controllare. Al più, potrà essere successo che il bersagliere non stia con il volto verso Roma, ma che le volti le spalle (come tempo fa immaginò un umorista), per fare capire a tutti che, sconfitto, è stato messo in fuga; oggi, le cose, infatti, stanno suppergiù così. Perciò è importante che domani, martedì 20 settembre alle ore 11.00, ci si ritrovi a Porta Pia per il tradizionale omaggio alla Breccia organizzato dall’Associazione Libero Pensiero che così ricorda l’avvenimento: Era l'alba del 20 settembre del 1870, quando l'artiglieria dell'esercito italiano entrava in azione per aprire un varco nella cinta muraria vaticana. Dopo 5 ore di cannoneggiamenti il muro cedeva nel tratto tra Porta Pia e Porta Salaria. Alle 9.45 i bersaglieri della XII e XIV divisione entravano in Roma. Era la fine della teocrazia vaticana. Roma diventava capitale d’Italia. Roma era restituita all’Italia, e l’Italia all’Europa.
Che poi l’Italia di oggi e l'Europ… devo continuare?... no, lo sapete già come la penso.
La rivoluzione del segno
Se chiedete al Vocabolario che cos’è l’arte grafica, vi sentirete rispondere È un termine che abbraccia una vasta gamma di tecniche utilizzate per la produzione e la riproduzione di immagini e personaggi. Queste tecniche includono la xilografia, l'incisione, la litografia e numerosi altri processi di stampa.
Tali tecniche si sono arricchite di nuove forme espressive con l’avvento delle tecnologie informatiche ed oggi l’Intelligenza Artificiale prospetta ancora nuovi orizzonti creativi. Un particolare sguardo su quest’area delle arti visive, le loro origini, lo propone a Bagnacavallo la mostra La rivoluzione del segno La grafica delle avanguardie da Manet a Picasso a cura di Davide Caroli e Martina Elisa Piacente con la collaborazione di Marco Fagioli. Estratto dal comunicato stampa. «La rivoluzione dell’arte tra Ottocento e Novecento ha modificato irreversibilmente i linguaggi artistici, contemporaneamente sintomo e conseguenza della ricerca di un nuovo senso dell’io e della costruzione di una nuova concezione del mondo. La mostra intende ripercorrere questo viaggio di profonda revisione del sé e della rappresentazione della realtà attraverso le mutazioni dei segni nell’arte dell’incisione, partendo da alcune grafiche di Goya, primo artista dalla sensibilità moderna, e da una rarissima matrice xilografica di Doré, uno dei più noti incisori dell’800, passando attraverso l’iconico e ironico tratto di Daumier e arrivando alle poco conosciute grafiche impressioniste, con fogli di Manet, Renoir e Degas, e ai così detti post-impressionisti da Toulouse-Lautrec, Matisse, Wlaminck a Gauguin, Cezanne e Bonnard. In un momento di tale fervore artistico moltissimi furono i movimenti che nacquero e nei quali gli artisti si raggrupparono per sostenersi a vicenda in questi tentativi di affermare le novità espressive di cui erano portatori: dall’espressionismo tedesco con Ensor, Grosz, Kirchner, Kokoschka, Kollwitz, Masereel, Nolde, Pechstein, Schiele, al Simbolismo di Redon e Alberto Martini; dall’astrattismo di Kandinskij e Klee al Surrealismo di Ernst, Man Ray, Magritte, Dalì, Picabia». Durante l’esposizione saranno organizzati incontri e workshop. Per saperne di più sui temi trattati e date, scrivere al centroculturale@comune.bagnacavallo.ra.it ……………………………………………..... Per i redattori della stampa, radio-tv, web: Ufficio stampa, Sara Zolla 346 845 79 82 – press@sarazolla.com * Remo Emiliani: tel. 0545 28 08 16 ufficiostampa@comune.bagnacavallo.ra.it …………………………………………………….... La rivoluzione del segno a cura di Davide Caroli e Martina Elisa Piacente collaborazione di Marco Fagioli Comune di Bagnacavallo Via Vittorio Veneto 1/a Info: 0545 – 28 09 11/3 Dal 21.9 fino al 12.1.2025
lunedì, 16 settembre 2024
La calcolatrice meccanica
- Il tossicomane può passare otto ore ad osservare un muro. Ha coscienza di ciò che lo circonda, ma l'ambiente è per lui privo di caratteristiche emotive e di conseguenza anche di interesse. - Dopo un'occhiata a questo pianeta qualsiasi visitatore dallo spazio esterno direbbe: "Voglio vedere il direttore!". - Uno stato poliziesco efficiente non ha bisogno di polizia - Un paranoico è qualcuno che sa un po' di quello che sta succedendo. - Forse tutto il piacere è solo sollievo dal dolore. Sono frasi tratte da varie opere dello scrittore statunitense William S. Burroughs (1914 – 1997) del quale la casa editrice Adelphi ha pubblicato una raccolta di saggi intitolata La calcolatrice meccanica. Come si può dedurre dall’Indice (troverete per accedervi un link alla fine di questo pezzo), Burroughs spazia fra temi diversissimi fra loro. Quello che li tiene insieme è la cifra stilistica; febbrile, vertiginosa, spesso rabbiosa. Godibile nella sua elettrica corsa verbale. Così Jack Kerouac parla dell'amico William Burroughs nel suo capolavoro Sulla strada. “Ci vorrebbe una notte intera per raccontarlo; per adesso diciamo solo che faceva l'insegnante, e a buon diritto, si può dire, perché passava tutto il tempo a imparare; le cose che imparava erano quelle che considerava e chiamava “i fatti della vita”; le imparava non solo per necessità, ma per scelta. Aveva trascinato quel suo corpo lungo e sottile in giro per tutti gli Stati Uniti, e in gran parte dell'Europa e del Nord-Africa, ai suoi tempi, solo per vedere cosa succedeva; negli anni Trenta aveva sposato una contessa russa in esilio solo per strapparla ai nazisti. [...] Faceva tutte queste cose solo per sperimentarle. Ora si dedicava allo studio della tossicodipendenza. [...] Passava lunghe ore coi libri di Shakespeare in grembo; il “Bardo Immortale”, lo chiamava. A New Orleans aveva cominciato a passare lunghe ore in compagnia dei codici Maya, e anche quando parlava con gli amici teneva il libro aperto in grembo. Una volta avevo detto: “Cosa ci succederà quando moriremo?”, e lui aveva risposto: “Quando si muore si muore, ecco tutto”. [...] Bull aveva un debole sentimentale per l'America dei vecchi tempi, soprattutto degli anni Dieci, quando [...] il Paese era selvaggio, rissoso e libero, libertà di ogni genere in abbondanza per tutti. La cosa che odiava di più era la burocrazia di Washington; subito dopo venivano i progressisti; poi i poliziotti. Passava il tempo a parlare e a insegnare agli altri. Jane sedeva ai suoi piedi; io anche; e anche Dean (Neal Cassady, ndr); e in passato anche Carlo Marx (Allen Ginsberg, ndr). Avevamo tutti imparato da lui.” A uno studioso di Burroughs qual è Riccardo Gramantieri (prossimamente mi occuperò su queste pagine del suo “Presagi di postumanesimo“ in uscita da Mimesis), ho chiesto quali intonazioni contenutistiche e stilistiche la cultura cyberpunk deve a Burroughs? Il modello principale del cyberpunk è stato il film “Blade runner” di Scott, che con le sue strade al neon ha fornito le scenografie di molti romanzi del genere. Ma sicuramente da William Burroughs proviene l’idea sia della città multietnica e post-coloniale, sia l’idea dei giovani ribelli contro il sistema. Se pensiamo alla città di Chiba City inventata da William Gibson in “Neuromante”, non possiamo non pensare all’Interzona del Pasto nudo. I guerrieri informatici alla “Johnny Mnemonic”, sempre di Gibson sono una variante tanto dei ragazzi selvaggi, quanto delle bande di “Blade Runner” di Burroughs. Proprio la virtualità dei cyberpunk, con l'invenzione di un corpo elettronico senza sesso, può ben dirsi una evoluzione informatica della mutazione sessuale descritta da Burroughs. – Da William S. Burroughs a Laurie Anderson. Language Is A Virus Dalla presentazione editoriale. «Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma». Nessun altro, eccetto Burroughs, avrebbe osato proclamarlo, ed è soltanto una delle affermazioni paradossali e dissacranti che costellano i saggi qui raccolti, estratti dallo sciame meteorico che, durante una mitica stagione, investì le pagine delle riviste internazionali, letterarie e non. Burroughs porta il lettore oltre i cordoni della polizia militare fino al cancello di aree classificate «top secret», e gli fa intravedere cose insospettate, di bruciante attualità, quali il controllo della mente – con ogni mezzo legale o illegale – da parte di politici, scienziati, giornalisti, medici, santoni e altri spacciatori, la parola come virus, la scrittura come tecnica e magia, all’occorrenza nera. Con il suo humour vitreo composto in egual misura di lucidità e follia, rude buonsenso e visionarietà, e oltraggi a ripetizione, ci porge scampoli fulgenti di «atroce presunzione». Insegna la lettura creativa. Libera la mente dalla sudditanza e dall’assuefazione a ogni conformismo. Condisce invettive, dissezioni e profezie con raccontini ad hoc, sconci e spassosi. E intanto disegna una singolare, illuminante galleria di autori letti, incontrati, amati, detestati: da Kerouac a Beckett, da Graham Greene a Conrad, da Fitzgerald a Hemingway, da Maugham a Proust. Leggerlo è fare un corso accelerato di disintossicazione dall’acquiescenza agli zelanti manipolatori del Potere. Burroughs ha scritto la sceneggiatura del film che chiamiamo realtà. Peccato sia la nostra. Per leggere l’Indice e le prime pagine: CLIC! ……………………………………... William S. Burroughs La calcolatrice meccanica Introduzione di James Grauerholz Traduzione di Andrew Tanzi 305 pagine * 24.00 euro Adelphi
venerdì, 13 settembre 2024
Burma a Lucca
La Fondazione Ragghianti, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e la partnership del Kunsthistorisches Institut di Firenze, presenta l’opera di un grande artista birmano. Il suo nome, Sawangwongse Yawnghwe (in foto), a pronunciarlo è francamente impegnativo, sicché molti dei suoi sostenitori, per togliersi d’impaccio e farla corta lo chiamano Sawang. Via, Vanno capiti.
Titolo della mostra: Burma. L’arte di Sawangwongse Yawnghwe fra Birmania ed Europa. L’esposizione, curata da Max Seidel e Serena Calamai, (un tandem che, lo ricordiamo ai più distratti, ha pubblicato nel 2022 per Giunti un gran bel saggio su Ambrogio Lorenzetti) consiste in una selezione di oltre sessanta opere dell’artista, alcune di grandi dimensioni, dedicate al conflitto fra tirannide e democrazia che vede la Birmania teatro di quello scontro da oltre mezzo secolo. Non un semplice resoconto delle tragedie che caratterizzano la storia recente del Paese, perché Sawang rappresenta i disastri della guerra attraverso immagini simboliche, ispirandosi a Goya. Un articolato comunicato stampa così informa. «La stessa biografia dell’artista, nato nell’area controllata dai ribelli nello stto birmano di Shan, si intreccia con i drammi racchiusi nelle sue opere. Suo nonno fu il primo presidente della Birmania dopo la fine del colonialismo inglese, e fu ucciso in un colpo di stato militare. In seguito all’attentato, suo padre e sua nonna fondarono un movimento di resistenza. Lui ha trascorso tutta la sua vita in esilio politico, dalla Thailandia, al Canada, ai Paesi Bassi, dove attualmente risiede. Attivo sulla scena internazionale con esposizioni a Taiwan, in Germania, negli Stati Uniti, in Israele e in Olanda, diventa pertanto testimone delle sofferenze dei popoli oppressi, e questa mostra ne raccoglie alcuni esempi di straordinaria potenza, in cui l’autore riesce a plasmare in linguaggio figurativo la profonda essenza storica del dramma burmese: da una parte la battaglia pacifica dei monaci buddhisti, che protestano contro la dittatura solamente levando le mani in preghiera, e dall’altra la violenza della giunta militare. Oltre ai lavori ispirati dalla storia politica del suo Paese di origine, l’esposizione a Lucca dedica ampio spazio a un ciclo di opere in cui l’artista riflette su importanti temi della pittura europea moderna. Difatti, una parte della mostra ospita una selezione di lavori che esplorano il passaggio dalla figurazione all’astrattismo, traendo ispirazione da “Le Chef-d’œuvre inconnu” di Honoré de Balzac, o raccontando l’impossibile ricerca del capolavoro assoluto, analizzando il rapporto tra rappresentazione e realtà. Infine, l’esposizione accoglie alcuni lavori che riflettono il grande conflitto tra arte e vita, che fu descritto da Émile Zola ne “L’Œuvre” nel 1886». Max Seidel, co-curatore della mostra insieme con Serena Calamai, dice che il suo incontro con Sawang “… ebbe luogo in Toscana poco dopo la Saffron Revolution del 2007, e a seguito di quei colloqui l’artista creò una serie di disegni riferiti alla repressione dei monaci buddhisti da parte della brutale forza armata dei soldati della giunta militare. Già nelle prime opere grafiche scelse di rappresentare la guerra in Birmania attraverso immagini simboliche, sottraendosi a una mera raffigurazione cronachistica degli eventi”. Paolo Bolpagni, direttore della Fondazione Ragghianti: Siamo lieti di annunciare l’apertura di una nuova mostra a settembre, la terza di quest’anno alla Fondazione Ragghianti, dedicata a un artista la cui produzione assume contorni universali alla luce dell’attuale contesto storico. Lucca, città-simbolo di una secolare lotta per la propria libertà, appare un luogo ideale per accogliere questa mostra, che conferma un impegno continuo nel promuovere artisti e temi meritevoli di approfondimento, offrendo al pubblico un’esperienza culturale stimolante e significativa. …………………………………….
Ufficio Stampa istituzionale Elena Fiori elena.fiori@fondazioneragghianti.it ; Tel. 0583 467205 Ufficio Stampa Image Building Cristina Fossati, Federica Corbeddu, Alessia Zanotti fondazioneragghianti@imagebuilding.it; Tel. 02 89011300 …………………………………… Fondazione Ragghianti Via S. Micheletto 3, Lucca dal 21 settembre al 3 novembre 2024
lunedì, 9 settembre 2024
Musica per videogiochi (1)
A Roma fu il bar Pontisso sotto via Asiago ad offrire agli avventori la possibilità di conoscere e giocare con il primo più diffuso videogame: “Pong”, il gioco riproduceva grossomodo le meccaniche del ping pong. Essendo il bar Pontisso vicinissimo al centro di produzione di Radiorai, molte registrazioni vedevano affannose rincorse per colmare ritardi nella lavorazione dei programmi d’alquanti di noi che ci trattenevamo troppo dinanzi a quello che sarà tra i capostipiti dell’industria del trattenimento. Videogames: tra consensi e allarmi hanno ispirato tante riflessioni economiche, sociologiche, psicologiche. Spesso in Cosmotaxi mi sono occupato di videogames, sarà perché m’intriga quel loro modo di proporre un intercodice tecnologico fra immagine, letteratura, arti visive, cinema, sia quando sono umoristici sia quando sono distopici, sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, con i suoi pixel che lèvati, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago Come definire un videogioco? Il mio amico Matteo Bittanti in una conversazione che ebbi con lui su questo sito così mi disse: E’ una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea. I videogiochi producono endorfine. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. Quello che mi affascina di questo medium è che contiene tutti i linguaggi e i codici degli altri, ma non è per questo una forma espressiva inferiore o minore. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari. Per Paola Carbone, da me intervistata tempo fa: Il videogioco può essere inteso come un dispositivo tecnosociale, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia. Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione… un luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio.
Il videogame, insomma, è stato indagato in molti suoi aspetti tecnici, sociali, linguistici, c’è solo un campo dove, pur non essendo assenti, minori attenzioni sono state dedicate e cioè la presenza, l’essenza, la funzione del linguaggio musicale nel videogioco. In Italia un’affascinante occasione per conoscere questo campo d’indagine è dato dalla casa editrice Dedalo che ha pubblicato un ottimo saggio: Musica per videogiochi La nascita della ludomusicologia e il mito di Kōji Kondō. L’autrice è Licia Missori QUI il suo sito web. Dalla presentazione editoriale. «Cos’è esattamente la game music? Che impatto ha sulla società in cui viviamo? La musica per videogiochi è stata a lungo considerata poco più di un contorno sonoro di un prodotto d’intrattenimento. Questo libro, per la prima volta in Italia, mette in luce gli elementi che distinguono la game music, raccontando le sue sfide tecniche e creative, il suo legame con le tecnologie e il suo incredibile impatto sulla psiche, sulla società e sul mercato. Interviste a figure di spicco internazionali dell’industria del gaming offrono al lettore uno sguardo diretto sugli orizzonti culturali e professionali connessi alla musica per videogiochi, una vera forma d’arte, la cui analisi necessita di una nuova musicologia, appositamente chiamata ludomusicologia. Attraverso una lente rigorosa vengono osservate due delle più famose musiche per videogiochi, Super Mario Bros. e The Legend of Zelda, opere del geniale compositore giapponese Kōji Kondō» Segue ora un incontro con Licia Missori.
Musica per videogiochi (2)
A Licia Missori, in foto, ho rivolto alcune domande. Nello scrivere questo saggio qual è la cosa che assolutamente per prima hai tenuto ad evidenziare e quale per prima assolutamente da evitare? La mia priorità è stata fin da subito evidenziare la necessità di trattare questo argomento, e spiegare le motivazioni di tale necessità in ambito musicologico. Il libro racconta cos’è che rende speciale, e diversa dalle altre, la musica per videogiochi. Dunque, non si tratta di una storia della musica dei videogiochi, né di un manuale su come si diventa compositori di musica per videogiochi. Qual è la specificità di linguaggio della musica per videogiochi? La musica per videogiochi non è lineare: ogni volta che giochiamo è diversa, a seconda di come ci comportiamo nel mondo di gioco. Potrebbe variare ogni volta che ci spostiamo in un ambiente diverso, o quando incontriamo il nemico. Potrebbe accelerare per segnalarci che il tempo a nostra disposizione sta terminando, oppure modificarsi in modo sottile e quasi impercettibile in funzione di un parametro interno al videogioco. Spesso è costituita da una serie di loop che si alternano in base a cosa accade durante il gameplay. Per studiare e analizzare una musica così costruita, è necessario adottare metodologie specifiche. Per questo si parla di una branca specifica della musicologia, detta ludomusicologia. Qual è la differenza – pur trattandosi di musica con immagini – fra quella per il cinema e quella per videogames? La musica per videogiochi è legata ad un medium interattivo: dunque alle azioni compiute dal giocatore, e non semplicemente alle immagini, come nel caso del film. Ciò implica un coinvolgimento più diretto da parte del fruitore, che vive i vari momenti del gioco come azioni compiute in prima persona a tutti gli effetti, alle quali la musica “risponde”. Queste azioni compiute in prima persona diventeranno ricordi che andranno a far parte dell’identità del giocatore, insieme alla musica che le ha accompagnate. Da qui il fenomeno della nostalgia, un fenomeno così potente da riempire le più importanti sale da concerto del mondo in occasione degli ormai numerosi concerti videoludici tenuti da grandi orchestre sinfoniche. La musica per videogiochi diventa, a tutti gli effetti, una parte di noi. Uno dei tanti passaggi interessanti del tuo libro parla di “musica adattiva” e “musica interattiva”. Puoi qui sintetizzare una spiegazione? Adattiva è la musica che si adegua a ciò che accade nel gioco, quindi sostanzialmente tutta la musica per videogiochi: anche nel caso più semplice, ovvero in presenza di un singolo loop lineare, la durata della musica dipenderà dalla durata della partita. Si parla di musica interattiva quando è prevista invece un’interazione specificamente musicale tra il giocatore e il videogioco, come nel caso di giochi musicali quali Guitar Hero o Dance Dance Revolution. La musica per videogiochi ha avuto un’influenza sulla musica popolare? Nelle prime fasi della sua storia, la musica dei videogiochi veniva programmata direttamente come codice di software, ed era suonata dai chip presenti nelle console dell’epoca. Le possibilità timbriche (e la durata) erano estremamente ridotte, a causa dei limiti tecnologici. Con i pochi mezzi a disposizione, bisognava creare musiche che valorizzassero l’azione di gioco, che non risultassero noiose o troppo ripetitive, e che invogliassero i giocatori a proseguire le partite. Tutte queste difficoltà richiedevano soluzioni innovative e hanno spronato la creatività dei compositori, che hanno così prodotto musiche mai sentite prima. Alcuni suoni sono diventati iconici: veri e propri marchi sonori che rappresentano un’epoca, un immaginario, un brand di video game. Tutto ciò non poteva non influenzare la musica al di fuori del gaming: molti artisti pop hanno inserito nei loro brani rimandi a celebri videogiochi. Charli XCX ha usato il suono della moneta di Super Mario Bros. nella sua “Boys”, contribuendo al sound futuristico del brano. Un intero modo di fare musica, la cosiddetta chiptune, è nato nell’ambito della game music e tuttora numerosissimi artisti fanno musica con il Game Boy. Largo spazio nel tuo libro è dedicato a Kðji Kondō… Kondō è un compositore emblematico, non solo perché ha composto le più famose musiche per videogiochi, ma perché ha usato i limiti tecnici come materiale creativo. Analizzare in profondità le colonne sonore di titoli come Super Mario Bros. e The Legend of Zelda ci permette di osservare da vicino il processo creativo che ha portato a risultati così innovativi e a musiche ancora così amate a distanza di quasi quarant’anni. Studiare il lavoro pionieristico di Kondō permette inoltre di cogliere le caratteristiche uniche della game music, il contesto in cui si è sviluppata, il ruolo del team di sviluppo, e le varie possibili riflessioni sulla valorizzazione dell’interattività e sulle altre funzioni della musica per videogiochi. Penso che Kondō sia geniale, e che le sue opere meritino senz’altro uno spazio nella storia della musica del Novecento. …………………………… Licia Missori Musica per videogiochi 167 pagine * 17.00 euro Dedalo
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