L’ospite accanto a me è Gianluigi Rossini. Dottore di ricerca in Generi letterari all’Università dell’Aquila, dove si è occupato principalmente di serialità televisiva.
Proprio su questo tema, quanto mai d’attualità, ha scritto un libro imperdibile, edito da Il Mulino, intitolato Le serie Tv.
Un’indagine storica e semiologica delle serie tv per comprenderne genesi, sviluppi e derive.
Questo libro è una lettura tanto importante per chi lavora nello spettacolo (non solo tv) quanto per chi, per interesse di studio specialistico o per curiosità culturale, è interessato alla conoscenza di questo nuovo genere televisivo sia nei suoi meccanismi produttivi sia nei suoi approdi di comunicazione. Perché questo è un volume che ha il merito di fare storia e critica al tempo stesso con una scrittura lontana dal sussiego accademico e dalla genericità giornalistica.
- Benvenuto a bordo, Gianluigi…
- Grazie, è un piacere. Se lo vedi, fai i complimenti al capitano per l’autoironia nella sua apparizione in Extras, ma digli di mollare Blunt Talk perché il troppo è troppo.
- Lo farò. La stellare Irina Freguja che da patronne illumina lo storico Vecio Fritolin veneziano aperto nel 1700 ci ha consigliato di sorseggiare durante la nostra conversazione una bottiglia d’Orto di Venezia, cantina Michel Thouluze, fatto interamente nell’isola di S.Erasmo… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello Spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Gianluigi secondo Gianluigi…
- Gianluigi di me ha una pessima opinione: mi considera pigro, lento e dispersivo. Una volta mi ha detto che nel profondo sono un turista: voglio vedere tutto, ma non voglio vivere niente. Forse per questo mi sono appassionato alle serie Tv, che sono l’equivalente narrativo di un pranzo a buffet. Puoi abboffarti fino a scoppiare, ma cinquanta minuti alla volta.
- Quale la principale finalità che ti sei posto nello scrivere “Le serie tv”?
- Le idee di base erano principalmente due.
Innanzitutto, superare un certo presentismo della critica televisiva, che tende a prendere in considerazione solo le cose più recenti. Come ho scoperto io stesso, le serie Tv, invece, vanno inserite in una tradizione testuale che nasce con la televisione stessa, e ricostruire questa tradizione è fondamentale per capire il presente.
In secondo luogo, volevo raccontare l’evoluzione della forma serie Tv inserendola nel suo intreccio con le pratiche di ricezione e con il sistema produttivo, che è la regola d’oro dei television studies.
- Che cos’è un racconto seriale? Che cosa lo caratterizza?
- Per come lo intendiamo oggi, un racconto seriale non è semplicemente un racconto diviso in parti: la serialità è una modalità narrativa specifica che nasce con la modernità, il cui tratto distintivo è la pianificazione della suddivisione in unità discrete da pubblicare in intervalli di tempo regolari.
Più in profondità, ciò che caratterizza le forme seriali è il rapporto che esse creano con tra l’industria che le produce e i lettori/ascoltatori/spettatori che le consumano.
- In parecchi sostengono che le serie tv sono la nuova letteratura dei nostri anni.
Tu come la pensi?
- Di fronte a questo tipo di affermazioni (le serie Tv sono la nuova letteratura, le serie Tv hanno sostituito il cinema), la mia prima reazione è sempre: no! Poi magari parliamone. Ma intanto, no. Questo perché spesso, il paragone è un tentativo sbagliato di nobilitazione, o peggio ancora lo scopo è usare le serie Tv per parlare d’altro. Ho assistito di recente alla presentazione di un libro su una serie americana, e l’autore ha esordito dicendo: “uno dei grandi meriti delle serie Tv è di aver restituito una dimensione pubblica al cinema”. Poi ha iniziato raccontare della rinascita del cinema all’aperto. Io fremevo sulla sedia: ma non eravamo qui per parlare di serie Tv? Le serie Tv non sono letteratura, non sono cinema, e non hanno causato né causeranno la scomparsa di nessuno dei due.
Se poi invece vogliamo discutere di differenze e somiglianze tra due diversi modi di raccontare storie, di creare prodotti culturali, di fare arte, possiamo farlo, ma purché sia un genuino tentativo di capire meglio entrambi, ben consapevoli delle specificità di ciascuna forma.
- Perché le serie tv hanno la loro patria d’origine negli Stati Uniti?
- Ci sono due motivi molto precisi, credo: la natura commerciale della televisione statunitense, dove il servizio pubblico è nato tardi e ha sempre avuto bassi ascolti, e la presenza di Hollywood, un’industria cinematografica di dimensioni non comparabili a quelle europee. La serie Tv di lunga durata nasce, in sostanza, come integrazione tra due industrie: lo studio system in declino e i network in ascesa. In nessun altro paese sarebbe stato possibile possibile fare questo esperimento.
- Come dici tu stesso, ti occupi di serie drammatiche, mettendo in secondo piano quelle comiche.
Perché?
- E’ stata una scelta necessaria, per ridurre il campo e rendere maneggiabile un percorso che parte dagli anni ’40 e arriva fino a oggi. Estendere il discorso in maniera sistematica anche all’altra metà del cielo avrebbe richiesto il doppio del tempo e delle pagine. D’altra parte drama e comedy hanno storicamente seguito logiche testuali, produttive e di ricezione molto diverse, e non è insensato esaminarle separatamente. La mia scelta è caduta sulle serie drammatiche perché, in fondo, il punto d’arrivo del libro è la contemporanea “rivoluzione seriale”, al cui centro c’è il drama.
Non per questo credo che sitcom e comedy in generale abbiano minore importanza, tant’è che sono stato comunque costretto a parlarne diffusamente perché alcuni snodi fondamentali nella storia delle serie Tv hanno avuto la comedy come motore principale.
- In Italia, invece, si assiste ad una commistione di elementi comici con altri drammatici.
E’ dovuto alla nostra tradizione culturale oppure a ragioni d’oggi strettamente di mercato?
- In Italia esiste questa peculiare forma che Milly Buonanno e Fabrizio Lucherini hanno chiamato “poliziesco all’italiana”, per capirci quello di “Don Matteo”, “Il Maresciallo Rocca” o “Carabinieri”, ma in parte anche di “Montalbano”. Rispetto alla serie poliziesca statunitense, che da un certo momento in poi ha preso i toni cupi di “CSI”, sui nostri canali hanno avuto molto successo queste produzioni agrodolci, sempre venate di comico, in cui nessuno si fa mai male davvero. I fattori in gioco sono molti: sì, c’è sicuramente un richiamo alla commedia della nostra tradizione. In parte il problema è anche che non è facile ambientare “CSI”in Italia, e per questo “RIS”è stato un momento di svolta.
Una delle questioni fondamentali, però, riguarda l’industria più che il mercato: la lunga permanenza del duopolio Rai-Mediaset ha fatto sì che la produzione insistesse sul minimo comun denominatore, invece di creare prodotti targetizzati come si fa da tempo altrove.
- Come scrivi “… la testimonianza più stringente della contemporanea fioritura seriale è il fatto che già da più parti se ne dichiari la fine”.
L’età dell’oro della serialità è veramente vicino allla fine?
- Non credo affatto sia alla fine, mi sembra più che altro un tic della critica giornalistica. Quando dire che le serie Tv sono meglio del cinema non suona più provocatorio, si comincia a dire che le serie Tv sono finite.
Di cambiamenti in corso, sia chiaro, ce ne sono molti: uno dei principali, secondo me, è che adesso le serie più interessanti sono spesso piccole produzioni con episodi da 30 minuti, per lo più al confine tra drama e comedy. Fino a qualche tempo fa ci entusiasmavamo per “Mad Men”, adesso siamo tutti pazzi per “Atlanta”.
- Mai come questa volta l’ultima mia domanda, uguale per tutti gli ospiti, cade quanto mai acconcia incontrando uno studioso delle serie tv. Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, infatti, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… come spieghi il successo di questa serie in tutti i paesi del mondo in cui è stata conosciuta?
- Ti deluderò: non sono mai stato un grande fan di “Star Trek” e non la conosco neanche così bene. Per quel che ho visto (e letto), a fronte di qualche alto ha toccato molti bassi. Penso che una cosa come “Battlestar Galactica”sia a tutt’altro livello, come testo. Ma Star Trek non è solo un testo, è un mondo intero, che ha anticipato molte caratteristiche della Tv a venire. Solo per dirne una, la vita on air di “Star Trek” è un caso quasi unico. Come è noto la serie originale ebbe scarso successo e fu cancellata alla terza stagione, ma le repliche trasmesse sulle reti locali trovarono un pubblico così ampio e fedele che Gene Roddenberry riuscì a convincere la Paramount a farne la versione cinematografica, e poi a farla tornare in televisione, 20 anni dopo. Forse la storia produttiva di “Star Trek” mi appassiona più di “Star Trek” stessa: c’è la lotta tra autore, pubblico e industria, c’è la forza del racconto e la tragedia dell’accanimento, c’è tutto.
- Siamo quasi arrivati su di un pianeta abitato da alieni che hanno fin dalla scuola dell’obbligo il severo obbligo di conoscere il tuo testo “Le serie Tv”… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di “Orto di Venezia” consigliata da Irina Freguja patronne dello storico Vecio Fritolin veneziano… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Vabbè dilla tutta, di bottiglie ce ne siamo scolate due, più le grappe Klingon, non so tu ma io un po’ barcollo. Posso mica restare qui stasera, poi riparto domani con il Galactica?
- … ecco, sputtanato proprio nel finale! Non te lo meriteresti per questo colpo basso che hai tirato, ma oggi sono buono: resta pure, ma sappi che il Galactica fa ritardi superiori a quelli d’un bus romano e potresti passare con noi alquanti giorni.
Intanto ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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