L’ospite accanto a me è Sapo Matteucci. Giornalista e saggista.
Sapo (Saporoso) Matteucci è stato giornalista per "Il Globo" e "Bell'Italia", ha collaborato con "Traveller" e in seguito ha lavorato nella casa editrice Einaudi. Attualmente è direttore responsabile della rivista della Società Italiana Autori Editori "VivaVerdi" e collaboratore di "Nuovi Argomenti". Il suo Q.B. La cucina quanto basta per Laterza, più volte ristampato, è un libro cult per chi vuole un doppio piacere, leggere e cucinare.
Lo spunto per quest’incontro - avviene in quello che per il calendario terrestre è il marzo 2011 -, è dato dal suo più recente volume: C'era una vodka (Laterza, Pagine 288, Euro 16.00).
Un libro delizioso, una sorta di autobiografia alcolica scritto da un autore che riesce a unire informazioni su vini, abbinamenti con il cibo, superalcolici, birre, ricette per cocktail, a riflessioni colte ma lontane da ogni sussiego, il tutto attraversato da una verve umoristica che rende la lettura piacevolissima.
E poi, via, poteva mancare un autore così sulla più spaziale enoteca, cioè questa che gestisco sulla più famosa astronave del piccolo e grande schermo?
L’alcol è un pianeta esplorato alla perfezione da Matteucci, un pianeta che da secoli pone esclamativi e interrogativi all’umanità. Grandi accoglienze e brutali respinte. Chi avrà ragione?
Forse Humphrey Bogart che diceva “Il problema con il mondo è che tutti gli altri sono indietro di qualche drink”.
- Benvenuto a bordo, Sapo…
- Bentrovato Armando
- Il giovane astrale chef Gabriele Muro del ristorante Giuliana 59, mi ha consigliato d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Morellino di Scansano prodotto da Col di Bacche… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Sapo… secondo Sapo…
- Qualcuno a metà tra Amleto e Falstaff, con più capacità di recitare di Amleto e minor istinto trasgressivo di Falstaff. Sto spesso tra le cose più che prendere una direzione netta. Coltivo con determinazione una certa indecisione; ho più domande rispetto alle risposte. Il dubbio non mi logora, anzi mi nutre. Però da toscano, arrivo poi ad una certa istintiva decisione nel tratto del disegno, magari lasciando qualche colore per strada. Amo la prosa francese, ma mi piace la poesia tedesca e anglosassone. Nel gioco degli scacchi, m’identifico con un pezzo agile, ma di breve tratto, però unico perché può saltare chi gli sta dietro o davanti: il cavallo. Ho quasi 60 anni, ma non li sento. Quello che mi ha fatto annacquare un po’ il mio egocentrismo è stata la nascita dei miei due figli, un maschio e una femmina. A casa, ascolto spesso Brahms e Puccini; in auto Howlin Wolf, Coltrane, Sonny Rollins e, new entry, Adele. Da sempre fuggo, con un certo successo, la malinconia che m’insegue o mi precede, ma non mi trova. Regista preferito: Orson Welles.
- Quale la principale motivazione che ti ha spinto a scrivere “Q.B. La cucina quanto basta”?
- La principale motivazione, confesso, è stata autobiografica e, oso dire, artistica. Fin da piccolo ho sempre coltivato l’ambizione d’essere un poeta.
Come molti, scrivevo qualche verso, scarabocchiavo distici, appuntavo impressioni. Ma la continuità non c’era. Mio padre, per prendermi in giro, mutuando da Borges, mi chiamava “Carme presunto”: sono restato sempre tale. Poi per caso, un mio amico che veniva spesso a mangiare da me, mi ha detto: “Perché non scrivi un libro di cucina?”.
“Perché” - ho risposto – “di libri di cucina non ne posso più. Ne bastano due o tre per avere un ‘infarinatura e poi non sono un professionista”. “No” – ha replicato – “scrivi un libro con cucina. Una specie di punto di fuga sul quotidiano visto dalla cucina. Un manuale di sopravvivenza. Uno spicilegio di storie e storielle…
- Così hai scritto “Q.B. La cucina quanto basta”…
- … una specie di prontuario materialistico di fughe immobili e di micro vertigini, affacciato al bordo di piatti e ricette, andando alla guerra di tutti i giorni col mestolo e il coperchio in mano. L’avrei voluto intitolare “Il cuoco bollito. Don Chisciotte in cucina”, ma poi il mio editore mi ha richiamato all’ordine. Alla fine del libro mi sono accorto che era venuto fuori una specie di contrappunto intimo scritto su un pentagramma culinario: parlavo di ricette, vini, musica, ma anche di qualcos’altro. Di me e degli altri: suocere, figli, amici, amici dei figli, padri, cuochi famosi, ristoranti, paesaggi…
- E’ vero che il libro è piaciuto più a scrittori e letterati e meno a lettori specialisti?
- Sì. Però qualcuno lo usa anche come manualetto e non si trova, almeno così mi dicono, male.
- E arriviamo a “C’era una vodka”…
- Avendo bisogno sempre di una scusa reale per parlare di me, del mio mondo, di come vivo, non riuscendo a prendere di petto la finzione, mi sono inventato un altro muro contro cui tirare la palla (me stesso) e cioè il filo rosso dell’ alcool.
Se la cucina mi diverte, mi distrae e un po’ mi gonfia l’ego quando rovescio un sartù che resta saldo, l’alcool è invece una mia passione pura. E allora, mi sono detto, ora parlo veramente di qualcosa che mi sta a cuore, anzi a fegato. Incrociando passato e presente, ho messo in fila le bottiglie, i bar, gli amici, le poltrone, i bicchieri, i giorni dopo, gli slanci, le speranze e i tradimenti: dell’alcool e non solo. Ho visto cantine e alambicchi, assaggiato vini da bere 10 anni dopo (come i Borgogna) in cui non ho capito niente, scoperto distillerie in paesaggi magnifici (le Higlhands scozzesi), mi sono ricordato di avventure e disavventure dello spirito… Ed è venuto fuori questo libro, con un personaggio centrale, che è qualcuno a metà tra Amleto e Falstaff… come già ho detto al principio di questa conversazione… qualcuno a metà tra Amleto e Falstaff che oggi ambirebbe ad essere Prospero.
- Ricordi delle prime bevute?
- Ho cominciato a bere presto sotto le ali paterne, già nipote di nonni bevitori poderosi (le loro figure sono presenti nel libro). Fin da ragazzo, in ogni ristorante in cui mi portava mio padre, si beveva il vino del posto: al Diana di Bologna il Lambrusco (amatissimo e mai abbandonato); a Bossolasco nelle Langhe, il Nebbiolo e le sue versioni più nobili (Barbaresco e Barolo); in Toscana, dove sono nato, dei chiantini vivaci. Ho cominciato da rossista, legando sempre il vino alle persone e ai posti. Forse lo ho affrontato, come un ragazzo dotato apprende la musica: senza solfeggio, cioè senza scuole o diagrammi scientificheggianti. Poi sono arrivate le feste tra coetanei, le rodomontate adolescenziali, tutto quel girare in mano col Gin fizz, guardando le ragazze senza avere il coraggio di invitarle a ballare. Non ho mai fumato, mai messo una sigaretta tra le labbra, mai traguardato - attraverso le spire del fumo - un essere femminile .Questo ha aiutato i miei polmoni, ma non il mio fegato: mi atteggiavo con l’alcool non con le Marlboro. L’alcool è stato un Lucignolo esaltatore e un grande Patroclo consolatore.
Il bar che frequentavo da ragazzo, in Versilia, aveva un vero barman, con la giacca avorio, la camicia bianca, la cravatta e i pantaloni neri. Con lui stavamo nel caos estivo in tanti e con lui rimanevo da solo a metà settembre quando la stagione chiudeva i battenti, le giornate si accorciavano, la ragazza di cui ero innamorato tornava a casa e la scuola apriva le sue fauci. Con lui parlavo davanti a un Daiquiri.
- Che cos’è alcol lo troviamo scritto nei manuali di chimica.
A te posso chiedere di più: chi è l’alcol?
- La doppia lama alcolica è sempre stata questa: gioia, piacere, convivialità o solitudine, consolazione, intimità. Nella folla o al di là dai vetri; in pista o su una poltrona; tra i Rolling Stones e nelle braccia di Brahms. L’alcool è anche grande slancio a due: conversazioni infinite davanti a una partita di scacchi che non vede fine, sogni condivisi che spiccano il volo e non atterrano mai, il cuore che si apre sui ritmi di un liquido rosso o un profumo ambrato, il desiderio che monta illusorio d’essere condiviso. E’ il colpevole, spesso innocente, di tragici fiaschi sthendaliani: a lui si da la colpa d’ imbarazzanti atti mancati maschili, che molto probabilmente sarebbero sbocciati anche bevendo acqua pura.
L’alcool è anche una mitologia letteraria, almeno da Baudelaire in su, tralasciando gli archetipi (Alceo, eccetera). E’ il lato debole e dolce di grandi artisti, quindi grandi uomini: da Joyce a Dylan Thomas, da Faulkner a Hemingway a Lowell, Lowry. E anche grandi donne come Anne Sexston o Elizabeth Bishop, Anna Ackhmatova o Dorothy Parker
- … che diceva “Mi piace bere un Martini, due al massimo, con tre sono sotto al tavolo, con quattro sono sotto il mio ospite!
- Grande la Parker!... Ma soprattutto fra gli scrittori ricordo Fitzgerald, uno che non so smettere di amare, per la sua smagliante, ferrea fragilità, anche se Gatsby non tocca mai un goccio di Whiskey o di Gin e non lo uccide l’ebbrezza o la cirrosi, ma l’illusione dell‘amore eterno. Insomma lo spirito è un grande fiume che scorre all’aria aperta o carsicamente, sotto le rocce. E’ anche il compagno ideale dei malinconici d’azione: quelli che si trascinano con eroica fatica ad affrontare il giorno, senza farlo vedere e affrontano la sera con un certo piglio.
- L’alcol si beve meglio in compagnia o da soli?
- Mah! Io amo l’alcool intimo. In due o da soli, nel cuore delle stagioni: sui terrazzi o sprofondati in poltrona, anche sotto un ombrellone nell’ora canicolare, contando le righe delle onde. Poi mi piacciono i bar all’ antica, quelli dei grandi alberghi in cui c’è l’ossequio rituale per il bevitore, accucciato su un divano di cuoio o appollaiato al bancone. Mi piace molto guardare il mondo che circola davanti a me, nonostante me; ascoltare, come il protagonista dell “Inferno” di Barbusse, brandelli di conversazione altrui. Adoro le ragazze, le signore senza uomini, in tre quattro attorno a un tavolino: me le immagino in fuga dalla loro quotidianità; ne spio i sorrisi; penso ai loro mariti ancora in ufficio o peggio quando non le trovano a casa, ai bambini fiondati davanti alla playstation, mentre loro se ne stanno a tirar su con la cannuccia un Rhum cooler, o affrontano un Whiskey sour con gli occhi chiusi. In fondo questo e’ un bere in pubblico da soli.
- L’OMS inscrive l’alcol tra le droghe pesanti.
Assistiamo, pure in Italia, da una parte a campagne contro l’uso delle sostanze alcoliche e dall’altra a pubblicità (radiotelevisive, sui quotidiani e periodici, ma anche lungo le autostrade) che invitano al consumo. Questa contraddizione come la giudichi?
- Se fossi libertariamente polemico, dovrei rispondere: “anche l’aria che respiriamo dovrebbe essere considerata tra le droghe pesanti”.
Il mio meccanico mi ha fatto vedere il filtro da cui passa il flusso che entra nell’ abitacolo dell’auto dicendo: “Dopo 10 mila chilometri è nero e pieno di aghi di pino”. E ha aggiunto: “Le faccio vedere un filtro nuovo”. Era un cartoncino plissettato di color bianco. Ora cambio il filtro dell’ aria prima di quello del gasolio.
In fondo, il vino la birra, i distillati sono fra i nostri archetipi culturali: l’occidente ci ha convissuto a lungo. L’alcool poi non va mai accoppiato ad altre droghe e comunque confesso anch’io una contraddizione, che è presente nel libro, nei rapporti con una figlia adolescente, in vena di trasgressioni, che accompagno con ansia, pensando comunque: “Meglio una Tequila sunrise del motorino”.
Poi penso che bisogna imparare a bere, come bisognerebbe imparare a mangiare. Insomma d’imparare, non si finirebbe più. Si potrebbe dire che la misura è essenziale in tutto. Mi ricordo che da bambino, ogni tanto qualcuno dei miei compagni di scuola mi confessava che aveva fatto indigestione d’acqua.
- Giusto per non avere una denuncia dall’OMS dopo le tue parole, voglio ricordare un aforisma di Albert Willemetz: “Non pensate di annegare i vostri dispiaceri nell'alcol. Sanno nuotare”.
Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Su Star Trek non posso dire niente, l’ho visto pochissime volte. In fondo non mi piace: è una fantascienza, per me, troppo teatrale e coreografica. La fantascienza mi attira poco, preferisco le cose ai confini della realtà.
- Siamo quasi arrivati a Sapo-1, pianeta abitato da alieni grandi bevitori che raccontano le fiabe ai nipoti cominciando con: “C’era una vodka”… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Morellino di Scansano Col di Bacche consigliato da Gabriele Muro chef del ristorante Giuliana 59… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Puoi contarci.
- Bene. Ora ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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