L’ospite accanto a me è Tonino De Bernardi. Film-maker. Dizione che preferisce a quella di regista. Ammirato da Allen Ginsberg, è uno dei protagonisti del cinema sperimentale italiano ed entrò fra i primi, nel 1967, nella CCI (Cooperativa Cinema Indipendente), formatasi a Napoli sull’impulso originario dei tre cineasti fratelli Vergine. La cooperativa, poi, si trasferì a Roma. Qui i suoi film furono spesso proiettati dal 1968, in rassegne presso il Filmstudio '70, destinato a diventare uno dei centri cinematografici storici della cultura underground in Italia.
De Bernardi, in questo che per i terrestri è l’aprile 2017, compie cinquant’anni di attività artistica. Oltre a vedere il suo nome in festival internazionali del cinema indipendente, lo si legge anche accanto ad attori e registi del grande circuito: da Iaia Forte ad Anna Bonaiuto, ad altri ancora quali, ad esempio, Mimmo Calopresti, Filippo Timi, Isabelle Huppert, Lou Castel, Abel Ferrara.
Ha fondato la casa di produzione torinese Lontane Province Film.
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- Benvenuto a bordo, Tonino…
- Ciao. Eccomi finalmente qui! Possiamo cominciare.
- La stellare Irina Freguja che da patronne illumina lo storico Vecio Fritolin veneziano aperto nel 1700, ci ha consigliato di sorseggiare durante la nostra conversazione una bottiglia di Calvarino Soave di Pieropan… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Tonino… secondo Tonino…
- Il mio ritratto interiore non mi sembra che possa essere tanto diverso da quell'altro che appaio, ma devo fare la storia. Fin da piccolo ho cercato di essere amabile e piacevole, perché così, penso, è più facile essere accettati. Dunque, per timore del rifiuto. Ero il tipico bimbo buono e tranquillo, in contrapposizione a Carlo mio fratello minore, vivace e turbolento. Verso i 14 anni allora ho deciso di essere anche cattivo. Ricordo che fu proprio come una decisione, un certo giorno. Ero con compagni e compagne di classe, in terza media. Era una scampagnata in collina, da Chivasso sulla strada per San Genesio e Castagneto Po tra i boschi. Ho capito che dovevo essere anche cattivo. Da allora sono così. Così. E anche non così. Come? E chi lo sa!
- Qual era, nel 1967, in Italia, l’atmosfera sociale ed artistica in cui nacque la Cooperativa Cinema Indipendente cui aderisti? Da quali fonti espressive discendeva?
- Il '67, a mezzo secolo di distanza, è ormai qualcosa di storico.
Atmosfera sociale e artistica, mi chiedi. Circa il sociale non sono in grado di dire in modo così esauriente, se non ricordare gli scioperi e le lotte operaie qui a Torino alla Fiat (che oggi non esiste più). Un periodo di grandi trasformazioni e grandi movimenti, che erano stati preparati da tutti gli anni precedenti. Non abbiamo mai più vissuto un momento del genere, e soprattutto l'attesa di qualcosa che era già in atto e ci avrebbe trasformati tutti.
Circa l’area artistica, si trattava di rompere le barriere tra le arti, operare totali sconfinamenti da una zona all'altra, esplorare il nuovo. Io ero appassionato di cinema e anche di musica contemporanea, ma seguivo anche la scrittura (il Gruppo '63) e la pittura (pop-art, arte concettuale e qui a Torino l'arte povera).
Quanto alla Cooperativa Cinema Indipendente, vi aderimmo per quelle esperienze del Living Theatre e del New American Cinema che, in particolare, vi erano alla base.
- Oggi quell’esperienza è vista come un importante episodio della controcultura in Italia.
Perché non fu sostenuto allora? E oggi (a parte qualche meritorio intervento di Enrico Ghezzi costretto in notturna tv) è impossibile immaginare un circuito alternativo?
- Perché la Cooperativa Cinema Indipendente Italiano non fu sostenuta? Direi proprio per il suo intrinseco valore di controcultura, che la piazzava fuori dei circuiti più normali e più riconosciuti. Ogni nostra opera non era un oggetto d'uso e perciò era difficile per chi la vedeva riconoscersi in essa. Chi del resto avrebbe dovuto o potuto sostenerla se non noi stessi che l'avevamo creata?
A Torino c'era l'Unione Culturale, guidata da Fadini. A Milano ricordo Franco Quadri che all'inizio si interessava pure al cinema e anche Fernanda Pivano, proprio per quel nostro attraversare le varie arti. A Roma il FilmStudio. A Padova Gaetano Pesce.
Io debbo tutto a Enrico Ghezzi e a Fuori Orario; se ho potuto continuare il mio cinema lo devo al loro interesse e sostegno. Oggi io non conosco un circuito alternativo. Ma bisogna anche dire che tante cose si fanno e si muovono, magari in sordina; non bisogna però voler dare delle etichette.
- Che cosa ama di più riprendere la tua cinepresa?
- La mia cinepresa ed il mio occhio sono onnivori. Posso dire che sono interessato ad esplorare la realtà che mi circonda e da qui spingermi ad allargare lo sguardo sempre di più. Negli ultimi tempi devo addirittura frenarmi, perché ho filmato sempre tanto, finché è stato persino troppo. Ho sempre filmato chi e che cosa amo. E si tratta in primo luogo delle persone che mi son vicine o con cui vengo in contatto attraverso movimenti e sommovimenti della vita. Poi scrivo anche le sceneggiature, che dovrebbero diventare film, ma che per lo più non lo diventano se non per me che le ho scritte. E questa è una realtà.
- A chi e a che cosa, principalmente, il tuo cinema si oppone
- Opporsi. Forse io non ho mai realmente pensato all'azione di oppormi col mio cinema. Per me è sempre contato prima di tutto la realtà (che viene per prima) del farlo questo cinema. Ho fatto il mio cinema per se stesso, per espandermi e comunicare, prima ancora che oppormi. L'azione di opporsi viene dopo, se viene, ma non sono io che la compio o la dirigo. Non sta a me dire a chi o a cosa mi oppongo, perché potrei dire che mi oppongo “al cinema” che si fa coi capitali e che quindi non c'entra; ma lì io non c'entro proprio e non sogno nemmeno di poter oppormi, perché oggi più che mai viviamo in un mondo sempre più basato sul capitale e dal capitale schiacciato.
- Perché in un’intervista ti sei definito “un regista portoghese”?
- Perché conosco e amo il cinema portoghese più di quello italiano. Ho amici più stretti in quel cinema là che in questo qua. In questi giorni è qui con noi a casa nostra Teresa Villaverde, regista di Lisboa. Manoel Oliveira è stato per tanti anni il mio maestro (dopo che nell'underground sono stati miei compagni di viaggio Jonas Mekas e Warhol con Taylor Mead, Brackage e Markopoulos). Maria e Ines de Medeiros, le due sorelle, mie attrici. Ines è addirittura la Madonna delle Galline, dei dintorni di Napoli, in “Appassionate”. Isabel Ruth mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi ritornando periodicamente nel mio cinema, dalla trilogia dei “Sorrisi asmatici” ad “Appassionate” a “Ofelia lontana” dove è Gertrude (a Monte Mario a Roma) accanto ad Amleto-Filippo Timi, il quale Filippo viene conteso tra figlia Iaia (Forte) e madre, appunto nei vicoli napoletani. E poi ho anche scritto la sceneggiatura che avrebbe dovuto girarsi a Lisboa, come seguito di “Appassionate”. E successivamente ho scritto altra sceneggiatura per Isabel Ruth a Lisboa (ma anche per Verushka a Berlino).
- Il sociologo Derrick de Kerckhove ha definito la nostra epoca come “l'era delle psicotecnologie”. Quali sintonie (se le avverti) e quali distanze (se ce ne sono) senti verso quella definizione?
- Io non so delle psicotecnologie, ma ho cercato in internet e ho capito che mi interessa moltissimo, tra distonie e sintonie.
- Diceva John Cage: "Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio".
Secondo te, dove nasce quel panico che molti provano?
- Io ho amato e amo tantissimo Cage, lo ritengo fondamentale per noi tutti. Riguardo a quello che lui dice – “A me terrorizza il vecchio” - io non posso certo dire lo stesso, essendo giunto a quell'età che Ungaretti chiamava (ma non so se cito giusto... io non so citare...) “Quattro volte venti”.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… come sai, Roddenberry ideò il suo progetto avvalendosi non solo di scienziati ma anche di scrittori, e non soltanto di fantascienza, tanto che ST risulta ricca di rimandi letterari sotterranei, e talvolta non troppo sotterranei…che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Confesso che non conosco Star Trek. Io mi son fermato a “Solaris”, 1972. E prima ancora a “Odissea nello Spazio”, 1968. Sto ancora lì. Ma amo il nuovo e lo cerco sempre e non mi fermerò mai. D'altra parte Manoel Oliveira è nato nel 1908, un anno prima di mio papà Giovanni del 1909 mentre mia mamma, Olga, è dell'11, tre anni più vecchia di Marguerite Duras, che oltre a scrivere ha fatto un cinema che io ho sempre trovato straordinario. Gli ultimi film che mio papà ha visto al cinema sono stati quelli di Matarazzo (nato anche lui nel 1909), ma l'avevano fatto piangere troppo (i titoli: “Catene” e “I figli di nessuno” con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson) e allora non andò più al cinema.
- Siamo quasi arrivati a Debernardya, pianeta abitato da alieni dalla vita che tutto contiene eppure non ha trama… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Calvarino Soave di Pieropan consigliata da Irina Freguja patronne dello storico Vecio Fritolin veneziano… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Di sicuro
- Ed io ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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