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Segnalato su Webtrekitalia - Portale di cultura Trek

L’ospite accanto a me è Giovanna Marini. Musicista. Figura maiuscola dello scenario internazionale, il suo canto scandisce la storia artistica e sociale del nostro tempo.

La sua ispirazione, pur partendo dal paesaggio storico e sonoro italiano ha una valenza che esce dai nostri confini per diventare una voce che canta le fatiche, le lotte, le sconfitte, il dolore, le feste e la gioia così come riecheggiano in tante campagne del mondo.

E’ di formazione accademica, si è diplomata, infatti, al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma in chitarra classica, ha studiato musica medioevale e rinascimentale, imparando a suonare diversi strumenti antichi. Negli anni '60, anche grazie all'incontro con gli etnomusicologi Roberto Leydi, Gianni Bosio, Diego Carpitella e scrittori come Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, si è data alla riscoperta del canto popolare e della storia sociale cantata. “Da quel momento” – scrive Andrea Coralli – “la sua ricerca musicale presenterà sempre una stimolante dialettica fra elementi colti ed elementi popolari, secondo una dinamica presente in tanta grande musica novecentesca, da Janácek a Bartók, da Weill a Eisler a Cardew”.

E’ figlia d’arte, il padre, Giovanni Salviucci, è stato un compositore – scomparso a trent’anni nel 1937 – che molti musicologi invitano a riscoprire come un “caso musicale” fra i più importanti nella scena della prima metà del secolo scorso.

Per una biografia di Giovanna, per conoscere l’elenco completo delle sue opere, una dettagliata discografia, il calendario dei suoi concerti in corso, v’invito a cliccare sul sito: www.giovannamarini.it

Lo spunto per quest’incontro è dato da una sua recente pubblicazione: “Una mattina mi son svegliata” (con la collaborazione di Pino Casamassima), Rizzoli, 290 pagine, euro 15:50.

In questo libro racconta la sua vita, le sue lotte, le persone con cui ha lavorato, la collaborazione con Dario Fo, la fondazione della Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma, le sue ballate e le composizioni per voce e strumenti. Fino al successo del “Fischio del vapore”, il disco e il tour realizzati nel 2002 insieme con Francesco De Gregori, con un grandissimo successo di critica e di numero di copie vendute.

“Una mattina mi son svegliata” è un libro bello e necessario.

Bello, perché scritto in una lingua parlata (ci sono anche inserti tratti da alcuni spettacoli di Giovanna) che riflette in modo caldo e appassionato, Storia e Vita, in un susseguirsi di quadri vivacissimi che raccontano di viaggi, incontri, personaggi, ritratti con una penna partecipe che si fa sentimento della vita senza sentimentalismi.

Necessario, perché è la narrazione di un percorso attraverso “un’Italia dal cuore rosso” – come ha scritto Curzio Maltese – “un’Italia che da anni è stata negata da un’egemonia culturale piccolo borghese, mediocre e televisiva ma che rimane una delle identità più profondamente radicata nel nostro paese; dove l’elemento unificante non è l’adesione politica ma un appassionato amore per la libertà. Lo stesso che la Marini ha sempre messo nella sua arte”.

 

Benvenuta a bordo, Giovanna…
Grazie!
Il sommelier Giuseppe Palmieri de “ La Francescana” di Modena, diretta dal patron e chef Massimo Bottura, mi ha consigliato di assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo “Giarone” Chardonnay 1998, inviandomi una nota in spacefax che dice: “Un omaggio all’eleganza, allo stile, alla personalità dell'uva gialla più importante: Chardonnay; questo vino ha provenienza dalla regione Piemonte e, più precisamente, e meglio ancora, da Costigliole d'Asti e dalla famiglia Bertelli. Riflette autentiche le doti di Borgogna patria del vino bianco quindi mineralità, frutto, struttura, equilibrio”. Fin qui Palmieri. Bene… qua il bicchiere.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Giovanna secondo Giovanna…
Sono nata nel 1937 da una famiglia di intellettuali. Genitori compositori, nonni: uno filosofo, l'altra francesista, ci leggeva Lamartine quando eravamo a letto malati, piccoli e indifesi, ma accanto a questo per fortuna ci leggeva altri libri che ci appassionavano, Verne, Salgari, Daudet, dovevamo insomma diventare degli adulti o artisti o comunque dediti a belle cose. Invece io andai in Inghilterra a nove anni e mezzo da una zia, carissima, ma non è la mamma, nessuno in famiglia ricorda bene perché, ci stetti un bel po’ di tempo, quando tornai in Italia ero ignorantissima, avevo mangiato banane secche che venivano dall'India, mi ero riempita di latte e vitamine, ma a parte questo e la vita all'estero che insegna sempre tante cose, avevo solo una gran voglia di vivere di nuovo con la mia mamma e i miei fratelli e essere lasciata in pace. Finalmente hanno aperto al Conservatorio il corso di chitarra classica, diretto dal Maestro Di Ponio, che fu il mio insegnante fino al diploma, poi passai da Segovia e Diaz a Siena allontanandomi un'altra volta da casa, ma ormai ero grande e già ero ripartita da casa a quattordici anni per andare a stare un po’ in Svizzera, a Montreux. Poi di nuovo in Inghilterra a 17 anni, insomma, o io non riuscivo a stare ferma, o a casa erano agitati dal pensiero che si dovessero assolutamente imparare le lingue. Ora le lingue le so, ma i miei figli ho cercato di tenermeli vicino il più possibile, perché oltre a sapere le lingue, che è sempre una bella cosa, ho sempre un senso di qualcosa di mancante in me, la vecchia nostalgia di quando me ne stavo in Inghilterra mentre i miei fratelli stavano con la mamma a Roma.
La cosa di cui invece sono senz'altro grata alla mia famiglia è che abbiamo sempre tutti vissuto nella musica. Cantando, suonando, parlando, e questo ti porta a dimenticare tutto, concentrarti come un atleta su una cosa sola, e aiuta moltissimo.
E poi la musica è bella, dà delle emozioni uniche che riempiono la vita.
Quando è nata l’idea di scrivere “Una mattina mi son svegliata”, e quanto tempo hai impiegato per scriverlo?
L'ho scritto l'estate scorsa a incominciare da giugno.
Volevo capire cosa avevo fatto con tutti quei viaggi che organizzavo ogni anno in maniera quasi forsennata, aiutata da un gruppo di allievi che seguivano anzi mi incoraggiavano nelle pazzie più estreme. Andarsene in 60 a Castelsardo facendo riattivare un albergo chiuso, come tutti gli altri per l'inverno, dormendo nel gelo, andando a dormire in conventi non attrezzati, in giacigli di fortuna, e poi sempre più numerosi, in giro correndo con i pullman da un posto all'altro, passando intere notti svegli. Non so come ho fatto, ma è vero che restano dei viaggi mitici che ci hanno unito molto, passiamo poi il tempo a guardare le fotografie, a ricordare i momenti salienti, a cercare di trascrivere e ricantare quello che abbiamo ascoltato. Volevo capire perché ho fatto questi viaggi, che rapporto mi legava ai miei allievi, che rapporto si era creato fra loro, fra gruppi così diversi: i francesi, gli italiani, i belgi… non siamo tutti uguali, ci sono grosse differenze di cultura, e venivano a galla, se ne parlava, è stato molto interessante, ma mi chiedevo perché? Così ho scritto questa sorta di diario. Da qui sono andata all'indietro a ricordare tutto (o in parte) quello che erano le edizioni Bella Ciao, come mi hanno formato e portato a insegnare in quella folle maniera.
In apertura del libro, dici dei motivi che ti hanno spinto a scrivere. Per coloro che ancora non hanno acquistato il volume… ma lo faranno, lo faranno… ti prego di sintetizzarli qui.
In parte i motivi che ti dicevo prima e, inoltre, voler capire, io per prima, cosa avevo fatto con il mio insegnamento così fuori dalle regole e dalle righe, che cosa me ne era rimasto e cosa era rimasto ai miei allievi. Ricordarmi come ero arrivata a questo. Chi mi aveva formato in questo senso. E ho capito che mi avevano formato le riunioni di redazione con Gianni Bosio nel gruppo Bella Ciao, Nuovo Canzoniere Italiano. Lì ho imparato tutto quello che mi mancava… Oddio: tutto! Magari tutto! No, non tutto, ma, appunto, alcune cose che mi mancavano: la storia che ci precede, come si fa una registrazione su campo, cosa è il canto contadino, ora detto di tradizione orale, come è formato in musica, se uno lo trascrive che succede? Eccetera. Di tutto questo parlo nel libro-diario, proprio per capire.
In copertina campeggia una scritta che è qualcosa di più di un sottotitolo: “La musica e le storie di un’Italia perduta”.
Con la tua esperienza di viaggi, incontri, colloqui, quale idea ti sei fatta di quel doloroso smarrimento? Quali le principali cause che lo hanno prodotto?
Il doloroso smarrimento c'è, ma per fortuna c'è anche gente che invece nulla ha smarrito e continua a mantenere viva la tradizione, come le confraternite, che ogni Pasqua cantano i propri pezzi rituali. Certo, molti canti sono scomparsi, ma pazienza, non è la perdita di un canto che mi fa sentire male, è la perdita di uno stato mentale, e culturale.
Il canto può pure essere rimasto, ma quello che ha distrutto la mente, la memoria della gente è la sciatteria televisiva e radiofonica, dettata dalla ricerca dell'Auditel per poter guadagnare il massimo dalle pubblicità. Anche i giornali: sono tutti uguali, a parte piccole differenze nei giornali di partito, ma sono tutti fatti per colpire e poter quindi avere più pubblicità. Non c'è altro che sembri importare ormai. E questo ha distrutto la memoria, la voglia di vivere, la gioia della gente, non c'è più piacere, anche una festa popolare è poi in fine una immensa bancarella di mercato. Forse quello che ha attirato i miei allievi a venire in massa a questi folli viaggi è stato proprio l'occasione per divertirsi tutti insieme in un gruppo in cui nessuno giudicava gli altri, in cui l'unico scopo ben palese era quello di ascoltare cose belle e nuove, e divertirsi. Per otto giorni si perdeva la dimensione della competizione costante che è in ogni ambiente, di rampare verso posizioni di potere, si dimenticava tutto questo, non si doveva vendere né comprare, solo farci piacere l'uno con l'altro. E son diventate cose rare.
Le tue pagine, dense di scoperte (e riflessioni tecniche su quelle scoperte), pur pienamente riflettendo l’impatto da te avuto come musicista con quella realtà, spesso, contengono in poche righe microsaggi fulminanti da etnomusicologa. Eppure so che rifiuti quella definizione.
Perché non vuoi che sia usata per te anche quella dizione?
Perché non sono un'etnomusicologa. Non ho studiato questa materia all'Università né in altro luogo che non sia nei miei momenti di ricerca, da sola, a partire dal 1968. Tutto quello che ho appreso è partito dall'empirica esperienza. Non dallo studio. Dal semplice trascrivere le cose registrate e analizzarle musicalmente. Ad ogni ascolto mi chiedevo dei perché a cui cercavo di rispondere da sola. Da musicista. Il mio approccio a questa musica che è etnica io l'ho fatto non da antropologa o da sociologa, come si dovrebbe fare, ma solo da musicista. Per imparare un'altra lingua musicale, per imparare altri timbri altri suoni da usare nella mia musica come strumenti.
Il tuo libro, è attraversato da una costante emozione nell’accogliere epifanie poetiche sia che provengano dalle vaste conoscenze di uno come Mimmo Boninelli sia che ti raggiungano dalla voce della prefica Mariuccia Chiriacò. Vorrei conoscere il tuo pensiero su di una questione.
Ha scritto Roman Jakobson in ‘Poetica e Poesia’: “Il confine che divide l’opera poetica da ciò che non è tale, risulta più labile di quello dei territori amministrativi cinesi”.
Sei d’accordo con quell’enunciazione? Se no, o se sì, perché?
Sono d'accordo.
Perché non te lo so dire, ma nella pratica: mi sentivo improvvisamente emozionatissima a un gesto di un vecchio cantore, a una frase cantata improvvisamente in un altro tono da quello di partenza, a un'entrata del coro flebile e poi sempre più forte, ai gridi delle donne sui lamenti. E trovavo che questa emozione era la stessa di quando leggo le raccolte di Montale, Ossi di seppia, per esempio.
La poesia si annida dappertutto, per questo è così preziosa, così rara e bella, perché anche in una banalissima situazione puoi d'improvviso essere scosso dall'emozione, per un suono, per un gesto, un sorriso, una coppia che mi cammina davanti e che parla, gesticola, e improvvisamente si ferma e si abbraccia, la poesia è sempre in agguato. Non ha luoghi, non ha confini.
Laurie Anderson canta "Language is a virus" citando William Burroughs che diceva "Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio". Da qui una domanda acconcia in un viaggio spaziale: sei d’accordo con quella definizione? Se no, perché? E, se si, qual è oggi la principale insidia di quel virus?
Non lo so. Mi piacerebbe dire la contaminazione. Sentire un italiano dire Ok, o Trendy, ma non credo che sia solo questo. Penso che nel linguaggio stesso di un popolo sia annidato il virus dell'ansia. Guarda il popolo francese che ha spezzato tutte le parole per fare più in fretta a parlare. Non li posso ascoltare, mi viene un'angoscia…
In “Una mattina mi son svegliata”, è ben presente il ruolo dei tuoi allievi, sia quelli della Scuola Popolare di Musica di Testaccio, sia quelli dell’Università parigina di Saint-Denis, o di altri ancora, belgi, svizzeri, tedeschi.
Quale gioia e quale contributo ricevi dall’insegnamento?
Soprattutto la gioia di raccontare cose che loro non hanno mai udito e godere di come le amano e le imparano in fretta. Godere delle loro scoperte e, via via che procede il corso, dell'amicizia che si ferma tra loro e con me e che diventa, attraverso le tante vicende dei viaggi, un'amicizia vera. Il corso diventa un momento di cui nessuno di noi può più fare a meno .E questo mi piace molto, non so se sia giusto o sbagliato, ma è un modo per imparare cose, loro da me e io da loro.
Ci avviamo alla conclusione di quest’incontro. Quando parlo con chi, come in questo caso, ha una larga esperienza di composizione di colonne sonore per il cinema – ricordo ai più distratti che ne hai fatto decine lavorando per tanti nomi prestigiosi: da Folco Quilici a Citto Maselli a Nanni Loy – faccio una domanda che mi sta particolarmente a cuore.
Nel comporre una colonna sonora qual è la prima cosa da ricordare e quale la prima da dimenticare?
Da ricordare sempre che la musica deve vivere con l'immagine, mai entrare di botto, e mai uscirne di botto a meno che non si cerchi un effetto particolare. Dev'essere discreta come un inquilino temuto e non sempre desiderato.
Da dimenticare: che si debba per forza fare soldi a palate con quel film.
Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
Mi vergogno a dirlo, ma non l'ho visto. Ho comprato pupazzi, immagini, Vhs Ddv Ddx e non so quante altre diavolerie solo per accontentare il mio nipotino, pensando intimamente che fosse una gran scemenza, ma ora dovrò rivedere questo mio giudizio, purtroppo non ne ho il tempo.
Siamo quasi arrivati a Marìnya, pianeta musicale che risuona di antichi canti… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di “Giarone” Chardonnay 1998 consigliata dal sommelier Giuseppe Palmieri de “ La Francescana” di Modena… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
Ti saluto e ti ringrazio di essermi stato a sentire.
Vabbè, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise:lunga vita e prosperità!

 

È possibile l'utilizzazione di queste conversazioni citando il sito dal quale sono tratte e menzionando il nome dell'intervenuta.

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