L’ospite accanto a me è Emanuela Villagrossi. Attrice.
La ritengo – e non sono il solo – una protagonista della scena di ricerca in Italia, e non già perché non possa praticare con eguale bravura il teatro di tradizione, ma, come vi dirò fra poco, la sua scelta è stata quella di misurarsi con le più avanzate forme teatrali.
E’ dotata di una straordinaria presenza scenica, la grazia di quella misteriosa energia, da pochi posseduta, perciò come s’usa dire di loro “quando entra in scena guardi solo lì dove si trova”.
Unisce a questo una modulazione vocale capace di trascorrere da malizie a stupori, da aggressività a remissività (“Ella s’umilia per vincere”, direbbe Goldsmith) instaurando nel testo vertigini di senso.
Lontana, insomma, da ogni birignao avanguardoso… esiste pure un birignao dell’avanguardia… eccome se esiste! Volto intenso e molto particolare, in una mia nota di tempo fa in queste pagine, dissi – e lo confermo – che quando il cinema e la tv, se ne ricorderanno adeguatamente sarà sempre troppo tardi. Uno dei miei crucci professionali (non pochissimi, in verità), è quello di non aver lavorato con lei, e, visto che ad impresari sto messo maluccio, e per anagrafe mi trovo più vicino alla tomba che alla culla, tirate voi le conclusioni… sigh!
Cenni biografici. Nata a Mantova, inizia l'attività teatrale come socio fondatore della Cooperativa Teatro Ipadò partecipando a tutti gli spettacoli del gruppo fino al 1983.
Segue prestigiosi laboratori teatrali: Living Theatre, Carrozzone, Anatolij Vassil'ev, Carmelo Bene. Laurea in Filosofia presso l'Università Statale di Milano (e adesso iscritta a Medicina per laurearsi in Logopedia). Diploma del Corso di Formazione Superiore per Attori presso ERT di Modena diretto da Giancarlo Cobelli e Cesare Lievi. Conosce tecnicamente più mezzi.
E, infatti, la troviamo alla radio: “Pontormo” di Mario Luzi con musiche di Giacomo Manzoni; “Paradiso” da Dante su musiche di Salvatore Sciarrino; ha preso parte al progetto Ronconi “Teatri alla Radio” in “Nembo” di Massimo Bontempelli e “Santa Giovanna dei Macelli” di Brecht (regìe di Federico Tiezzi); "Romeo e Giulietta" di Sharman Macdonald (regia di Giancarlo Cauteruccio).
In televisione: “Senso di Colpa”, Rai Uno; “Giornalisti”, Canale 5, “Ricominciare”, Rai Due; “La Squadra”, Rai Tre; “La Lunga Notte”, Rai Uno. E siccome del tempo gliene avanzava, eccola fare pure l’assistente alla regìa con Nico Garrone per "Storia di una banda e di un paese" prodotto da Rai Tre.
Al cinema ha preso parte a parecchi corti e a “Il Mnemonista” di Paolo Rosa.
In teatro, a dire tutti i suoi lavori, corriamo il rischio di fare notte.
Per stringere i tempi, dirò che ha interpretato testi (e ne cito solo alcuni) di – e tratti da – Heiner Miller, Schwob, Artaud, Shakespeare, Maraini, Saramago, Ibsen, Brecht, Wilde, Genet, Pirandello, Flaubert, Beckett, Shaw.
Tanti i registi con i quali ha lavorato: da Andrea Taddei a Federico Tiezzi, da Hervé Ducroux ad Antonio Sixty, da Cesare Lievi ad Alessandro Berdini, da Massimo Luconi a Marco Baliani.
Il suo più recente impegno, nato nel 2004 e ancora in scena in quest’anno terrestre 2005, è uno spettacolo degli ottimi Motus: “L’Ospite” tratto da <Teorema> di Pasolini dove recita nel ruolo che al cinema fu di Silvana Mangano.
S’è permessa anche il lusso d’interrompere l’attività un paio di volte, dicendo di se stessa: “Zaratustra è uno che tramonta….io sono una che smette”. Mica male ‘sta ragazza! O no?
- Benvenuta a bordo, Emanuela …
- Grazie Armando ma dopo questa presentazione non ti sembra che i motori dovranno faticare di più a portarci nell’infinito, mi sento pesantissima! Cosa beviamo?
- Il patron del ‘Web and Wine’ di Volterra, Enrico Buselli, mi ha consigliato di assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo:’Redigaffi’ segnalandomi in Spacefax che, cito le sue parole: ”…è un I.G.T. Rosso di Toscana dell’Azienda ‘Tua Rita’; il luogo di produzione è Suvereto (Livorno). I vitigni: 100% Merlot. L’anno di produzione è il 2002”. … qua il bicchiere.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Emanuela secondo Emanuela…
- Sarò condizionata dalla Enterprise e dalle velocità interstellari ma mi sembra sempre più di poter definire Emanuela secondo Emanuela solo come un punto di vista variabile in veloce movimento. Totalmente relativista e temporanea. Sono stata una bambina reattiva e ipercinetica, una adolescente aggressiva e arrabbiata, una attrice mai pacificata, una ragazza un po’ invecchiata e malinconica, una donna con la valigia sempre fatta… La grande scoperta della maturità è che sono ancora tutto questo, contemporaneamente. E non mi preoccupano le molteplici e squilibrate sfaccettature dell’identità. Geneticamente sono manifestazione di caratteri somatici secondari, un omozigote di caratteri improbabili. Famiglia paterna attualmente stanziale ma sangue gitano spagnolo con emotività e impulsività ataviche, famiglia materna di origini austriache, alpeggi e formaggi, isolamento e vette. Improbabile è una parola che mi piace moltissimo!
- Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Tu come risponderesti a tali domande?
- Mi piacerebbe sottrarmi a queste spalle al muro, scivolare di lato e dire che un attore non è del tutto consapevole di ciò che è e delle funzioni che svolge: tramite o baratro tra parola, corpo, spettatore, rappresentazione, realtà e finzione. Mi piacerebbe dirti che è dato all’attore scatenare tali domande e non esaudirle mai, un mistero irrisolto perché mistero in sé… E invece mi limito e rispondo alle tre domande in modo affermativo, ma aggiungo anche che l’attore è un corpo ridotto a figura e non ci perde niente. Che è una maschera sfuggente e ingannevole che si solidifica in persona e non ci perde niente. Un sostituto perenne che si crede libero dall’obbligo di autenticità e proprio questa diventa la sua specifica originalità e ancora una volta non ci perde niente… forse solo il niente perde niente. Ma questo è l’aspetto speculativo, da attrice dico anche che la prassi è fondamentale perché la parola attore ha radice nell’atto: comporta di applicare un’ arte, di renderla attuale, di fare compromessi e di approssimarsi con un sacco di cifre decimali al risultato ideale, di sudare e faticare, con il peso del corpo e dei sentimenti, per entrare e uscire dalle vite di sconosciuti che ti stanno a guardare.
- In “Matrix Reloaded”, alcune scene che durano alquanti minuti hanno visto gli attori girare sul set solo pochi secondi perché la brevissima presenza in carne e ossa è stata poi rielaborata e realizzata in postproduzione. E’ solo il caso meglio riuscito, ma in tanti altri film accade lo stesso.
T’avverto: la domanda che segue non si propone d’ottenere risposte di tipo sindacale, ma estetico.
Le nuove tecnologie pongono nuovi problemi espressivi all’attore? Se sì, quali?
- Carina questa tua opposizione tra sindacale e estetico! Sarebbe da approfondire… Ho appena finito le riprese per un video con animazioni in 3D… sarà un cartone animato che prevede la realizzazione di un fumetto, con i disegni che diventano attori e l’attrice che diventa un fumetto. Non vedo l’ora di vederlo ma Andrea Balzola (sceneggiatore e regista) e Annamaria Monteverdi non mi hanno date molte speranze… i tempi terrestri su queste cose sono lenti! Quali problemi pongono queste nuove tecnologie? Dunque innanzitutto serve molto senso dello spazio…perché è uno spazio totalmente vuoto dipinto di blu, non inciampi in nulla non rovesci nulla, ma devi pensare che qualcosa ci sarà. Poi i tuoi interlocutori non sono ancora del tutto nati, giacciono nella matita del disegnatore e nelle migliaia di cifre binarie che li faranno muovere e respirare. Quindi devi fidarti moltissimo degli altri e delle loro capacità visionarie. E’ troppo sindacale se dico che per un attimo ho avuto un brivido quando sul set mi hanno chiesto sgomenti se avevo gli occhi azzurri? Sai spariscono con l’elaborazione elettronica. No, no - ho detto tremando - sono verdi, grigio verdi. Insomma in quel momento ho capito che bisogna non preoccuparsi del risultato, essere umili e affidarsi, come sempre. No, non credo che ci siano problemi espressivi specifici posti dalle nuove tecnologie, sono come sempre problemi di rapporto, di scambio, di comprensione tra le persone e di tecniche recitative adeguate. Si tratta di trovare una cifra tra le tante, un registro tra gli altri. In fondo il processore che simuli il comportamento dei neuroni e l’emergente consapevolezza della coscienza non è ancora stato realizzato, siamo ai primi balbettamenti. Quindi per l’attore sviluppo massimo della fantasia, del gioco proiettivo, della creazione di una presenza da un assenza, di quel vissuto umano che sarà sostrato al vissuto artificiale. Uno Stanislawskij a fin di elaboratore elettronico direi! Oddio ho paura che dal punto di vista estetico sono troppo iconoclasta!
Delle tecnologie trovo affascinante la totale mancanza di considerazione delle situazioni reali, di quel che sta accadendo e allo stesso tempo trovo stupida la loro impossibilità ad accettare l’errore. Infatti, sbagliamo sempre noi, potentissimi umani che accogliamo l’imperfetto, lo sconosciuto, il caso. Richiedono quindi molta precisione e molta concentrazione e questo è senz’altro un arricchimento per il lavoro dell’attore. Con i Motus ad esempio si lavora moltissimo sull’interiorità dei personaggi, sui loro pensieri, che poi magari viene messa in relazione all’immagine duplicata dagli schermi. Ma cosa c’è di più intimo e umano di un attore che dialoga con l’immagine di sé stesso sulla scena?
- In un tempo come il presente in cui anche in scena sono assai spesso protagoniste le tecnologie,
ha ancora un senso il teatro di parola?... No!... Rinfodera quegli artigli, agli occhi ci tengo!
- Ma no, ti stavo solo tendendo il bicchiere per avere ancora da bere!
- …rumble… rumble…
- Il teatro di parola ha un senso perché c’è e continua ad esserci uno che parla e tanti che seguono le tracce dei significati, andando lontano, spesso fin dentro a se stessi…
Tu credi davvero che le tecnologie siano protagoniste? Non credo affatto. Hanno un peso e un segno estetico molto deciso, questo si, ma sono mezzi attraverso i quali si dovrebbero esprimere dei contenuti che qualcuno percepisce. Può darsi che il marchingegno tecnologico a volte sia il solo elemento che trova espressione, ma non credo sia quello che si volesse ottenere. Del poeta è il fin la maraviglia? Se è questo allora abbiamo a disposizione delle strutture codificate e prevedibili dopo pochissimi istanti. Nel teatro kabuki non si applaude l’attore se suda, se la sua fatica è visibile all’esterno e lo stesso credo che non sia un buon risultato in teatro l’assommarsi evidente di effetti puramente tecnologici, annoiano subito. Le tecnologie sono un mezzo, fragilissimo e potentissimo, che può essere usato a seconda delle esigenze espressive dell’artista e che ne può indubbiamente influenzare la creatività. Dell’artista, appunto.
- Teatro d’avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per te “teatro di ricerca” oggi?
- Niente, non mi piace il termine, è burocratico, ministeriale, niente. C’è il teatro vivo e basta. Io cerco testardamente di farlo, insieme ad altri.
- Qual è la cosa che ti fa venire la scarlattina quando la vedi a teatro?
- Non esco mai dalla sala con la pelle arrossata, il mio sistema immunitario non reagisce, al massimo mi capita di sospendere il giudizio, di non avere reazioni od emozioni. Amo andare a teatro e rispetto sempre chi lo fa. Per il teatro mi irrito di più fuori dalla sala. Non sopporto il cicaleccio, il rigiro, la malafede, la vigliaccheria di chi applica ciecamente al teatro i metodi della politica o del marketing aziendale, senza peraltro rischiare soldi propri come fanno gli imprenditori reali. Detesto i decisionisti senza capacità progettuali e coraggio innovativo che impiegano in modo assurdo i fondi pubblici.
- Come spieghi che oggi – a differenza dei tempi di Carmelo Bene o Leo de Berardinis – negli spettacoli del nuovo teatro trovi pochissimo spazio la comicità?
- Perché, c’è qualcosa da ridere? E’ vero quella comica è spesso un’intenzione più dichiarata che realizzata, perché è difficile e poi ci deve essere un terreno comune tra chi parla e chi ascolta su cui il comico vada a corrodere. Ci vuole una tradizione insomma e una cultura popolare, tutte cose di cui attualmente facciamo difetto, come società credo, non come possibilità espressive del teatro. E poi spesso chi sa far ridere guadagna e va in televisione, fa benissimo invece di morir di fame… e pace all’anima sua. Ma a ben guardare ci sono dei bravissimi attori e registi, napoletani ma non solo, che proprio seguendo le tracce di Leo mettono in contatto la grande tradizione popolare con nuove forme di teatro o di drammaturgia. E si ride, si manda giù amaro ma si ride. E mi vengono in mente Moscato o il bellissimo lavoro di Punzo da Bertolt Brecht. Carmelo è un discorso a parte. Era un attore ma il teatro era lui, coincideva con la sua biografia, terminata secondo lui proprio nell’inizio degli anni sessanta, quando - mi disse - era morto. Carmelo era un uomo tragico, la sua comicità si alimentava dalla serietà con cui considerava ogni minimo particolare, naturalmente che lo riguardasse, fosse la recitazione di una riga di Laforgue o un bottone perso della sua camicia. Un principe consapevole delle sue sconfitte, quasi ridotto ad essere umano… troppo umano. E sorrideva, lui poteva, di se stesso.
- Oltre il teatro, in quale delle altre aree espressive credi che ci siano oggi i lavori più interessanti nella sperimentazione di nuovi linguaggi?
- Intendendo “nuovo linguaggio” come uso nuovo di un codice dato, direi le arti visive, ma è una risposta molto parziale perché non conosco, se non molto superficialmente, certi territori, ad esempio la musica contemporanea o la net art. Sicuramente in questi settori ci sono anche “nuovi codici” per ora scarsamente condivisi, quindi limitati… Mi sembra che il passaggio di informazioni e di elementi tra arti visive e teatro sia sempre piuttosto fertile anche se spesso a senso unico, dalle prime al secondo. Sarà una deformazione per i tanti spettacoli fatti con i Magazzini in cui il segno visivo era una componente fondamentale della scrittura scenica e i riferimenti pittorici erano molto accentuati… E poi mi sembra che alcuni artisti visivi siano dei veri drammaturghi dell’attenzione e dell’emozione dello spettatore. Inoltre le loro opere hanno spesso un reale peso sociologico e politico, intervengono sulla realtà. Creano un dialogo, che spesso scade a polemica ma che è utile ugualmente, all’interno della società, costringendola a guardare se stessa. Anche il teatro, se vivo, fa questo. La performance teatrale per me più significativa vista dai tempi del Living è stata l’esposizione dei bimbi impiccati ad un albero fatta da Maurizio Cattelan l’anno scorso in una piazza di Milano. Ha avuto due giorni di vita: era inaccettabile per una città in cui non c’è spazio per i bambini e per ciò che è vitale…era troppo vero quello che aveva da dire per non scatenare la censura.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Ha semplicemente operato l’imprinting del mio modo di vedere la dimensione galattica. A volte mi sorprendo leggendo un libro di Dick o di Addams a visualizzare immagini codificate in “startrekkiano”…
- Siamo quasi arrivati a Villagròssya, pianeta scenico abitato da alieni monoteisti che adorano una sola dea chiamata EV… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di “Redigaffi” consigliata da Enrico Buselli patron dell’Enoteca Web & Wine di Volterra … Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Tornerò, prometto…intanto grazie per questa passeggiata stellare…
- Vabbè, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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