Gli ospiti accanto a me sono i Kinkaleri. Gruppo teatrale.
Li stimo come uno dei più interessanti gruppi del nuovo teatro in Italia.
Ho già parlato di loro in una cronaca dal Festival di Sant’Arcangelo dei Teatri ’04, per leggerla cliccate con fiducia su Artaud non abita più su Cosmotaxi.
La Ditta – come si diceva un tempo – nasce nel 1995 con l’enigmatica dizione: “raggruppamento di formati e mezzi in bilico nel tentativo”.
Quel “tentativo” – se devo immaginarlo come espressività scenica - debbo dire che è riuscito.
I sei componenti sono: Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo. Per saperne di più sulla loro storia e le loro produzioni: www.kinkaleri.it.
Mi piace ospitare quassù i Kinkaleri perché propongono da tempo un lavoro a me caro, quello che punta sull’interlinguaggio, l’intercodice, praticando gli sconfinamenti, la contaminazione degli strumenti espressivi: dalla danza al video, dallo sketch allo slapstik, attraversando luoghi anche extrateatrali come, ad esempio, gallerie d’arte, musei, discoteche.
In questa conversazione, i sei parleranno con una voce sola: prodigi delle tecnologie dell’Enterprise! Useranno, quindi, giustamente il plurale, ma non in forma majestatis.
- Benvenuti a bordo …
- Grazie. Anche se è sempre notte ci viene da dire Buongiorno. C’è una bella luccicanza qui dentro.
- Il sommellier Giuseppe Palmieri de “La Francescana” di Modena, diretta dal patron e magico chef Massimo Bottura, mi ha consigliato di farvi assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo dolce Torcolato, inviandomi anche una nota in spacefax che dice “Buon viaggio spaziale con questo vicentino Torcolato di Firmino Miotti 2000, fatto di un incredibile carciofo e una succulenta marmellata di albicocche”. Bene…qua il bicchiere.
Adesso ascoltatemi: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che prima di scambiare quattro chiacchiere, chiariate ai miei avventori il significato e l’origine del vostro nome dal suono balcanico…
- Quincaillerie, kinkaleri, chincaglieria. Dal francese, all’albanese, all’italiano, un recipiente onnicomprensivo, una stanza di scaffali pieni, un emporio dalla vetrina indistinta e poco luminosa, dove per cercare qualche cosa ti deve spingere la curiosità ad entrare e rovistare senza ordine e metodo. I commessi poi sono sempre disponibili ad aiutarti anche se spesso non trovano quello che cerchi ma qualcos’altro che non si aspettavano nemmeno loro. La dizione inscindibile dal nome, che citavi sopra, è il rapporto di instabilità fra i proprietari dell’emporio. In fondo ognuno vorrebbe un negozio diverso e si continua a spostare mobili e scaffali in continuazione. Come vedi siamo molto sinceri.
- Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per voi “teatro di ricerca” oggi?
- Si cerca ciò che non si trova diceva Carmelo.
Chi fa non si chiede che cosa fa, si trova dentro le cose e fa ciò che può.
Chi non fa ma guarda, se lo chiede troppo spesso e a volte con un’insistenza così fastidiosa da irritarsi essi stessi con sé stessi e contro chi fa.
Insomma gente che può essere pericolosa se detiene qualche potere. Scusa non è una polemica con te, ma in Italia ci sono troppi tutori e anime belle che si battono per una purezza di ideali, su cosa sia o non sia il teatro di ricerca. A noi sembra che il termine ricerca significhi cercare, sparare nel buio senza la certezza di colpire qualche cosa, con l’unica certezza di farlo in totale onestà personale e intellettuale. E poi, noi che non esibiamo un autore unico non abbiamo altro modo che ospitare un conflitto che ci coinvolge e ci lacera ma che diventa estremamente proficuo nell’applicare una pratica che muta di oggetto in oggetto e davvero, cercare è non trovare.
- Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Voi come rispondereste a tali domande?
- Per noi l’attore è un segno. Un’oggettivazione necessaria variabile di volta in volta a seconda di ciò che deve dire nella sua interezza di presenza, movimento, dizione o apparizione. Il nostro attore è un oggetto tra gli altri, luce, suono, scenografia, e contemporaneamente un esecutore e un autore di sé stesso.
Il secondo studio de ‘I Cenci’ presentato a Santarcangelo l’anno scorso, nel 2003, proponeva esattamente questa condizione. Un attore non attore, cinese, che nella sua presenza performativa doveva evocare proprio la sua identità nazionale legata a filo doppio con gli eventi che in quell’anno avevano proposto la Cina come un enorme incubatore di malattia e di incubi globalizzati: ricordi la Sars?
- Sì. Per fortuna, come notizia e non come esperienza personale
- Meglio per te. Il pubblico veniva accolto nello stesso spazio della performance. Dopo una serie di azioni e variazioni luminose tutto si dichiarava in un “Besame mucho” finale cantato in cinese dall’attore illuminato da un cercapersone in mezzo al pubblico. In quel caso l’attore contemplava tutte le caratteristiche che ti citavamo sopra.
- Orson Welles in “Filming Othello” pone una domanda ai suoi commensali: “Perché l’attore che recita un personaggio sordo fa ridere appena appare e uno che fa il cieco invece no? Eppure sono entrambi afflitti da gravissimi handicap”.
La questione, posta volutamente in modo banale e provocatorio, mirava a tentare un approccio al confine drammaturgico che separa il comico dal tragico, i meccanismi del riso da quelli del pianto allorché sono affidati ad un interprete.
Per voi, in che cosa consiste quel confine?
- Ci sono delle cose che fanno ridere solo per la loro presenza e altre che fanno ridere per come vengono gestite. Per noi l’umorismo e non l’ironia, è come un resto, della segatura che ti resta in mano nel tagliare i pezzi. Non abbiamo obbiettivi nei generi, il comico o il tragico, perché, in quanto tali, essi si contengono uno sull’altro, è una vecchia lezione sempre valida. Prendi ad esempio <Otto>: un nostro spettacolo che nel suo dirsi dichiara una tragedia assoluta, un limite nelle cose, un’impraticabilità della scena, una impossibilità nel proseguire, una coscienza di essere arrivati al bordo di ogni possibilità e per questo azzuffarsi sul tutto il già detto, il già pronunciato, il già visto. In una negazione così totalizzante ci sono pochi momenti in cui il comico viene esplicitamente citato, e diciamo citato non a caso: nella maggioranza delle occasioni esso appare come resto, come quello che rimane per aver detto, o fatto, una cosa così terribile da essere senza speranza.
- In “Matrix Reloaded”, alcune scene che durano alquanti minuti hanno visto gli attori girare sul set solo pochi secondi perché la brevissima presenza in carne e ossa è stata poi rielaborata e realizzata in postproduzione. E’ solo il caso meglio riuscito, ma in tanti altri film accade lo stesso.
V’avverto: la domanda che segue non si propone d’ottenere risposte di tipo sindacale, ma estetico.
Le nuove tecnologie pongono nuovi problemi espressivi all’attore? Se sì, quali?
- Stai parlando comunque di cinema. Cioè di qualche cosa che prevede una esposizione differita dell’azione. Il Cinema nasce morto e prosegue in questo suo percorso: dalla pellicola al digitale, dalla rappresentazione dell’attore al suo fantasma. Nel cinema è tutto possibile, ma lo è sempre stato: l’artificiosità della ripresa, la possibilità per l’attore di ripetersi in continuazione, provarsi in continuazione, e per il regista di provare a riprendere in linea teorica infinite volte quel volto in infinite posizioni della macchina da presa perché raggiunga l’intensità richiesta, ma anche l’inquadratura più idonea al corpo del film. Nel cinema l’attore è un elemento di una macchina complessa. Per il film che hai citato poi, l’attore è solo un’icona, ne potrebbero tranquillamente fare a meno, hanno bisogno soltanto della sua fama come mezzo di attrazione; le star di Hollywood saranno sempre più dei polli d’allevamento: li facciamo diventare famosi per poi farli scomparire. E’ una tendenza che sembra già ben avviata. Per quanto riguarda il teatro questo non vuol dire altro che sarà sempre più percepito come un miracolo il trovarsi davanti a qualcuno che in scena, in quel momento respira nel tuo stesso tempo.
- Non solo performers quali Orlan e Stelarc usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità. Penso, ad esempio, a quanto accade alla Genetic Savings and Clone, la società nota per la clonazione del gattino Cc, che ha ispirato la nascita della BioArts Gallery alla quale si riferiscono gli artisti biopunk – come Dale Hoyt che n’è capofila - che considerano le biotecnologie una nuova forma estrema di Body Art.
Come interpretate quest’interesse delle arti per una sorta di neocorpo?
- Negli anni novanta c’è stato un ritorno prepotente dell’artista su sé, sul suo corpo con la necessità di sperimentare direttamente ciò che la scienza liberava dalle impossibilità delle epoche passate. In quegli anni si parlava di sostituzioni, modificazioni, protesi altamente sofisticate, alterazioni estetiche del corpo. Il pensiero si concentrava sulle identità, sulla perdita o acquisizione di parti del corpo, sugli innesti che provavano l’essere mediatico dell’individuo. Ora siamo alla possibilità della sostituzione completa della figura umana o animale: un taglio concluso e nello stesso tempo un lampo. Parliamo di sostituzione nel rapporto tra naturale e artificiale. Posso sostituire un gatto con la copia esatta di se stesso: saltano tutti i rapporti di identità fin nel profondo, fin nella considerazione di come pensare a quel gatto: è una copia? È vero quanto l’altro che gli sta accanto? E se è vero, io chi sono? Tutto questo è un ambito assolutamente sconvolgente nelle aperture che compie. Non conosciamo direttamente le opere di questi artisti; per quanto ci riguarda, tutto questo ci propone la morte come riflessione più intensa da considerare.
- Oltre il teatro, in quale delle altre aree espressive credete che ci siano oggi i lavori più interessanti nella sperimentazione di nuovi linguaggi?
- Ormai i nuovi linguaggi si sperimentano fuori dalle cosiddette aree estetiche dove è possibile sospendere il giudizio per l’emersione di nuove soggettività.
- Fuori dei denti: la prima, più grave accusa che rivolgete all’organizzazione produttiva e distributiva del teatro in Italia: niente mezze misure! Se non volete fare nomi, mi accontento anche soltanto dei cognomi…
- Il fatto è che in Italia si pensa sempre agli eventi eccezionali, a coniare tendenze, onde, ondine, terze misure, il tutto dura il tempo di farti credere che forse ce la puoi fare, ma in realtà per loro sei sempre giovane, sei sempre in prova, sempre sottoposto al giudizio sul singolo spettacolo, sulla singola confezione. Un habitat culturale sconvolto. Non si aprono discussioni su cosa è cambiato nella rappresentazione dal vivo dagli anni settanta ad oggi, su come accogliere certi oggetti, che appaiono spuri, indefiniti ma non per questo non necessari oppure inesistenti. Si fa prima a dire che il teatro è malato e che va salvato e questo all’infinito piuttosto che dichiararne la morte per potersi interrogare su ciò che si vede, su ciò che succede.
Nomi e cognomi?
In Italia non c’è ricambio generazionale nelle istituzioni grandi e piccole. In Italia sono state fatte morire tutte le possibilità di strutture alternative ai circuiti istituzionali. In Italia il teatro ufficiale, quello morto, continua ad essere l’unico referente a cui ambire, a cui elemosinare attenzioni e spazi, l’unico a cui affidarsi per essere legittimati ad esistere. In Italia gli stabili di innovazione, a parte qualche eccezione, hanno perso la loro potenzialità di raccogliere i mutamenti che si compiono. In Italia si pensa sempre prima alla pagnotta. In Italia nessuno fa il proprio mestiere. In Italia è pieno di idealisti che tengono in vita un malato terminale che oramai puzza così tanto che i dottori assomigliano a figure insanguinate di qualche horror di serie B.
Sono tutti servi di qualcuno o qualcosa, sempre di sé stessi.
Sono servi del pubblico, del ministero, delle ospitalità incrociate per far girare spettacoli inconsistenti, dei comuni, dei politici, della critica, della logica, sono servi della loro vecchiaia senza curiosità, sono servi dei musical, della loro poltrona sicura, sono servi della loro ignoranza.
Scusa lo sfogo ma quello che è in atto in Italia è un genocidio culturale.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel vostro immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Qui ti diamo risposte singole.
Massimo: Continuo ad essere ossessionato dal teletrasporto, mi chiedo ancora con vera rabbia perché una cosa così semplice non sia stata inventata prima della ruota.
Matteo: Perché Spak diventò Spok?
Marco: Oggi come allora continuo a sperare d’incontrare qualche alieno che mi porti a fare un giretto in qualche buco nero.
Gina: Che vita ragazzi su quell’astronave!!
Luca: Io sono cresciuto senza.
Cristina: Io ero pazzamente innamorata di quel fusto del comandante Kirk con quel busto abbondante e sexy, quella maglietta luccicante e aderente infilata nei pantaloni. Ho avuto difficoltà di relazione con gli uomini a causa sua, mi sembravano tutti cosi inutili.
- Siamo quasi arrivati a Kinkalèrya, pianeta scenico abitato da alieni i quali credono che il più grande evento teatrale sia la sua assenza… se dovete scendere, vi conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Torcolato Firmino Miotti 2000 consigliata dal sommelier Giuseppe Palmieri de “ La Francescana” di Modena… Però tornate a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Senti, perché non ci fai scendere in un posto più comodo?
- Perché sono un malvagio. Vi saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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