L’ospite accanto a me è Rossella Battisti. Critica di teatro e danza per il quotidiano “l’Unità”.
E’ il mio primo incontro in questa taverna spaziale nell’anno che per i terrestri è il 2007, di un mese che chiamano Gennaio.
Giornalista professionista, dal 1986. Aria da bambinaccia, ha un imponente cursus honoris.
Lo riassumo sennò facciamo notte.
Si è laureata in Lingua e Letteratura Tedesca, ed è una tipa che, correlatore Paolo Chiarini, becca un 110 e lode.
La Melandri la volle al Ministero membro del Comitato per la Danza, e lo è ancora oggi.
Tra le sue tante pubblicazioni, è stata editor del libro di John Martin "La Modern Dance", tradotto da Nicoletta Giavotto, e con la stessa tradurrà poi "L'arte della coreografia" di Doris Humphrey. Numerosi i suoi incarichi didattici di ieri e di oggi all’Università e li salto atleticamente.
Ha collaborato alla realizzazione di una rassegna di videodanza inglese per il British Council, e a due speciali sulla Biennale Danza per Raisat.
Una delle più recenti imprese di Rossella, sono sei Dvd (in abbinamento vendite con L’Unità), sei spettacoli scelti, in collaborazione con Mario Perrotta, per un inedito ritratto d’Italia, attraversando realtà, paesaggi e tensioni tra passato e presente.
Dagli operai “mitologici” di Ascanio Celestini (“Fabbrica”) allo stesso Mario Perrotta postino-testimone delle vicende dei minatori italiani in Belgio (“Italiani, cìncali!”), dal profondo sud visionario di Emma Dante (“mPalermu”) a quello della memoria raccontato da Davide Enia (“Maggio ’43”), alle atmosfere nebbiose dell’est dove si muovono le levatrici di un tempo evocate da Giuliana Musso (“Nati in casa”) fino ai detenuti-attori della Compagnia della Fortezza – diretta da Armando Punzo – in uno sfrenato Kabarett: “I Pescecani, ovvero quel che resta di Bertolt Brecht”.
- Benvenuta a bordo, Rossella …
- Se chiedo una Coca Cola mi lanciate nello spazio, vero?
- Di solito, sì. Ma nel tuo caso, no. Pensi che ci perdiamo per così poco Rossella?...
Sia come sia, Sabrina Iasillo, luminosa sommellier dell’EnotecaBistrot Uve e Forme mi ha consigliato d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Cannonau ‘Mamuthone’ 2004 di Gianpietro Puggioni, da Mamoiada, segnalandomi in Spacefax … leggo le sue parole… “Viene dal cuore della Barbagia in Provincia di Nuoro. Vince ogni resistenza, conquista per la sua essenza descrittiva, misterioso come la maschera da cui prende il nome, ma generoso rammenta la Sardegna più sincera dove l’elicriso, puntuale, si stacca come il solista di un coro”.
Fin qui Sabrina Iasillo… qua il bicchiere.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Rossella secondo Rossella…
- … Mmh, potrei essere la controfigura di Emily Dickinson: lei, una vita poetica in una stanza immaginando il mondo, io un’esistenza prosaica fuori casa sognando un hortus conclusus tra rose e felini. Emily ha scritto versi immortali su pagine segrete, io vergo prose impermanenti su fogli pubblici sui quali puoi incartare le uova il giorno dopo. Però, c’è in me anche della Giovanna d’Arco. Sento le voci: la Nutella fa bene, dormi fino a tardi, rimanda a domani quello che puoi fare oggi… e io, alla garibaldina, obbedisco!
- Nelle tue carte, siamo in molti a non incartare le uova. Circa le voci che ascolti… mi sembrano sagge, quelle che ascoltò un tempo la signorina D’Arco, invece, un po’ meno.
Partiamo dalla tua esperienza di germanista combinata al lavoro di critica teatrale.
Nell’area scenica del nuovo teatro, in molti sostengono che ci sia stato uno scambio d’influenze tra le Germania e l’Italia. Se sì, in che cosa lo ravvisi? Che cosa abbiamo importato e che cosa i tedeschi hanno preso da noi?
- L’influenza più decisiva sui nostri artisti credo venga dal teatrodanza di Pina Bausch. Pina ha fatto epoca, moda e tendenza da noi. E noi abbiamo contagiato lei: gli spettacoli creati in Italia, vedi soprattutto il romano O Dido, si sono lentamente imbevuti di sole, di colori, di piacere. Senza contare che molti nostri danzatori vanno a studiare a Essen e poi restano a lavorare in Germania. Invece, se parliamo di autori è ancora molto limitato quello che in Italia si “pesca” dall’imponente mole di testi tedeschi. Un’insostenibile (ormai) presenza del Woyzeck di Büchner, l’inevitabile faustismo di Goethe, parecchio Kleist anche se viene letto in chiave insopportabilmente romantica mentre in lui c’è ancora tanto Settecento. Altro “innesto” interessante dalla Germania è Peter Stein, regista colto e raffinato che si è stabilito in Italia e si è tanto appassionato alle sorti del nostro teatro da averne sposato un’esponente: Maddalena Crippa.
- Sul piano gestionale, invece, in che cosa si differenzia oggi il teatro tedesco di tradizione dal nostro? E nel nuovo teatro ci sono impostazioni diverse nella gestione rispetto all’Italia?
- La differenza fondamentale è che i tedeschi (non solo loro in Europa, per la verità) investono sui giovani anche nei quadri dirigenti come quando alla prestigiosa Schaubühne di Berlino nel ‘99 hanno chiamato Thomas Ostermeier e Sasha Waltz al comando (nemmeno quarantenni e udite udite: lei è una coreografa!). In Italia non siamo riusciti a trovare una direzione artistica degna di questo nome per Giorgio Barberio Corsetti, che oramai veleggia oltre i 50, mentre Martone nel suo periodo di reggenza dell’Argentina (a cui ha dato un notevole graffio innovativo) ha avuto contro quasi tutto il teatro italiano. Segno che l’anima gattoparda ce l’hanno anche parecchi artisti… Quanto al nuovo teatro, mi piace il loro rischiare allestimenti azzardati come ha fatto Michael Thalheimer con una superba rivisitazione dell’Emilia Galotti di Lessino. E’ stato come se avesse preso un’opera di Alfieri e l’avesse riversata in chiave pop-wilsoniana. Fantastica! Noi abbiamo, certo, la visionarietà di Luca Ronconi, epperò mi piacerebbe vedere alla prova sul palcoscenico di un grande stabile uno come Fabrizio Arcuri e che questo fosse considerato normale e non un’apertura all’avanguardia!
- Ed ora passiamo ad un tema centrale dell’arte teatrale, che riguarda ogni paese.
Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Tu come risponderesti a tali domande?
- Direi che oggi all’attore viene affidato il compito di esibire un corpo mutante e le sue nuove relazioni con il mondo. Se tradisce la maschera sottostante non è un buon attore, dunque deve essere un clone. Unico nel suo significato e universale nel suo significante.
- In un tempo come il presente in cui anche in scena sono assai spesso protagoniste le tecnologie,
quale ruolo ritieni che abbia il teatro di parola da me amato quanto una colica renale?
- Non sarei così drastica. Le parole di Shakespeare, per dire, forniscono tuttora un solido scheletro per apprezzabili riletture. O quando ti trovi di fronte a una scrittura corposa e sanguigna come Ugo Chiti, per esempio, perché fare gli schizzinosi? Se è buon teatro, lo è anche se di parola. Piuttosto, bisognerebbe riflettere sul significato sociale del cosiddetto teatro civile che è partito da esempi teatralmente consistenti come il Vajont di Paolini o Fabbrica di Celestini e oggi slitta velocemente verso la denuncia tout court, dove la parola teatrale viene ingoiata e talvolta sopraffatta dal documento, dalla testimonianza. C’è di tutto: dall’uranio impoverito alle tute blu di Melfi, da Ustica alla mafia. Insomma, una cruda realtà contemporanea, che, evidentemente, non viene più esposta e raccontata nelle sedi previste: giornali, radio, televisioni… Mi pare più un segno dei tempi che una crisi del teatro.
- Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per te “teatro di ricerca” oggi?
- Cercare il non detto. E dargli forma. Bisogna crederci, o meglio avere fede perché ha ragione Jerome Bel quando dice che solo l’un per cento di quel che viene tentato sarà folgorante. L’ultima volta che mi è capitato è stato con una Crescita (dedicata a Bruxelles) dei Raffaello Sanzio: un quarto d’ora senza una parola e per metà al buio. Un’immersione nel teatro totale. Tragicamente geniale.
- Come spieghi che oggi – a differenza dei tempi di Carmelo Bene o Leo de Berardinis - negli spettacoli del nuovo teatro trovi poco spazio la comicità?
- Forse perché c’è una forte immissione in scena di comici a tutto tondo. Una tracimazione di parodie, imitazioni, versetti e versacci che in qualche modo “obbliga” per compensazione l’”altro” teatro a una serietà da fratello maggiore. Ma dove li collochi gli “irregolari”? Uno stralunato borderline come Antonio Rezza, il parolibero nonsensista Bergonzoni, la pasoliniana Eleonora Danco?
- Sei anche una grande specialista del teatro di danza. Fra i meriti di questa espressione scenica, oggi, nelle aree più avanzate, mi pare ci sia il tentativo di creare un intercodice attirando nella propria area linguaggi che vanno da gestualità orientali fino ai videogiochi…è identificabile oppure no un territorio da dove sono arrivati i contributi maggiori per numero e peso? Dalle arti visive, dalla letteratura, dal cinema…
- Le nuove generazioni sono imbevute di un immaginario fatto di manga, breviari di comunicazione internettesca, spazialità da playstation e impaginazione da spot. Più tutto quello che è venuto prima (qualcosa filtra sempre dai maestri…). A volte possono apparire formati banali rispetto all’altro ieri, dove i contenuti concettuali sembravano più forti e graffianti (la memoria diluisce il senso della noia e anche quello del bruttino). Ma va bene così. Sono i codici della nostra attualità, sta alla sensibilità dell’artista metterli insieme e incrociarli con quelli del passato per regalarci cortocircuiti inaspettati. Per quel che mi riguarda, cerco di non essere a-spettatrice a teatro, ma di restare impressionata. Comunque, nella generale tendenza alla de-costruzione del linguaggio di danza (penso a Forsythe ma anche a Marie Chouinard) in cerca di altre grafie, mi appassiona il capitolo “meticciati di ritorno”, ovvero gli immigrati di terza generazione che si rifanno alle radici culturali di patrie lontane e le parlano con la lingua appresa nel paese d’approdo. Uno per tutti: Mavin Khoo, anglo-bengalese che mette passi di bharathanatyam su musica house, suggestioni d’oriente in discoteche londinesi. Bella ebbrezza.
- Non solo performers quali Orlan, Stelarc, Stelios Arcadiou, Yann Marussich, usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità. Penso, ad esempio, a quanto accade alla Genetic Savings and Clone, la società nota per la clonazione del gattino Cc, che ha ispirato la nascita della BioArts Gallery alla quale si riferiscono gli artisti biopunk – come Dale Hoyt che n’è capofila - che considerano le biotecnologie una nuova forma estrema di Body Art.
Come interpreti quest’interesse delle arti sceniche, presente anche nella danza, per una sorta di neocorpo?
- Diciamo pure per una sorta di corpo di Neo, il protagonista di Matrix. Ovvero, un corpo mutante, onirico. Corpo immaginato, reversibile e, allo stesso tempo, terribilmente estremo. E’ la tecnologia di oggi che ci spacca in due: sollecita la mente di continuo (in modo elettronico, direbbe McLuhan) e dall’altro atrofizza il corpo. Stiamo diventando un’immensa, abnorme videocamera che registra il mondo senza sudare, un magma di sensazioni virtuali. Ci incarniamo (si fa per dire) in una second life immaginaria fantasmagorica che prende il posto di quella reale, banalotta e faticosa. E allora in quel sonno sospeso che sogni possono venire? Che forme prende la materia dell’attore? Carne d’artista, grondante umori che riporta alla fisicità, teatro sensoriale alla Vargas o alla trilogia del Lemming. Oppure, tecnologia come nuova machinerie teatrale che rimanda alla virtualità. Vedi Robert Lepage, tra i pionieri appaganti di questo teatro di Neo…
- Ho ricordato in apertura un tua ricognizione sul videoteatro attraverso sei spettacoli.
Anni fa, con varie cifre stilistiche, si ebbero le prime esperienze del genere (da Remondi-Caporossi a Solari-Vanzi, ai Magazzini Criminali, ad altri ancora).
Mi pare che allora si tentasse di produrre qualcosa di lontano dalla semplice videoregistrazione dello spettacolo, si cercasse cioè un nuovo linguaggio autonomo dalla scena pur derivando da essa.
Oggi, forse, solo il teatro di danza produce qualcosa che confina con la videoart o mi sbaglio?
E, nel remoto caso che io non sbagliassi, perché le cose vanno in questo modo?
- Occorre una distinzione: la facilità di accesso alla videoregistrazione (chiunque può oggi imbracciare una telecamerina e filmarsi) ha sedotto molti artisti a sottrarre alla provvisorietà del palcoscenico il loro lavoro. Non è sempre un bene, siamo d’accordo. Ma il peggio verrà sepolto dalla polvere o dalle risate. Quanto al videoteatro come forma d’arte credo che l’aspetto più interessante stia nell’inglobare la videotecnologia nell’impasto teatrale (e ti rimando a Lepage) oppure saperla trasformare in materia da cinema (e qui vedi quel carnalone di Pippo Delbono, gli esperimenti underground di Teatrino Clandestino, o ancora il teatro da interni cinematografici dei Motus).
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Ricordi d’infanzia. Meriggi tardi d’estate io e il mio huckleberry friend Maurizio, inseparabili al mare di mattina, in bici il giorno e davanti alla tv per Star Trek. La passione per la fantascienza mi spinse ai miei primi vagiti giornalistici: giravo con un registratorino a intervistare persone che credevano di aver avvistato degli Ufo. Il bello è che mi prendevano sul serio. Mi sa più di adesso…
- Siamo quasi arrivati a Battìstya, pianeta scenico abitato da alieni che comunicano solo attraverso battute estratte da copioni… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Cannonau ‘Mamuthone’ 2004 consigliata da Sabrina Iasillo dell’Enoteca Uve e Forme… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesieh?
- … beh, s’è fatta una certa… e sento la voce del cotechino che mi radiocomanda in cucina. Strano, sembra una richiesta d’aiuto…oddio i gatti! (passi affannati, tramestio di pentole, miagolii, molla il cotechino, soffi e tonfi. Sipario)
- Che casino!... Speriamo che il cotechino sia salvo… Saluti com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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