L’ospite accanto a me è Matteo Bittanti. Esperto e teorico di new media e videogames.
Ha coordinato il primo Master in Video Game Design presso l'Istituto Europeo di Design di Milano http://www.isc.it. Svolge attività di insegnamento e ricerca presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) di Milano. Tra il 2002 e il 2005, ha tenuto lezioni presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la Nuova Accademia Nazionale di Belle Arti e l'Università Statale di Milano-Bicocca.
E’ consulente di aziende. Ha scritto diversi libri sui videogiochi – il più recente è un’antologia intitolata SimCity. Mappando le città virtuali, il settimo volume della collana Ludologica. Videogames d'Autore www.ludologica.com
Ha curato la prima antologia di game studies italiana, Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare (Edizioni Unicopli, 2002, 2004); è autore de L’Innovazione tecnoludica. I videogiochi nell’era simbolica (1958-1984) (Jackson Libri, 1999).
Tra le pubblicazioni con le quali collabora, segnalo: Duellanti, Cineforum, Rolling Stone, Videogiochi, Giochi per il Mio Computer.
Ho conosciuto quest’anno – per i terrestri è il 2005 – Matteo al Future Film Festival di Bologna, dove presentava ‘Killzone’ uno sparatutto in soggettiva di Guerrilla Games. E ho apprezzato la grande capacità che possiede nel trattare i videogiochi inquadrandoli nella più vasta tematica dei new media, cogliendone le intersezioni di linguaggio con tutto quanto scorre nella nuova espressività elettronica e non. Mi auguro – e questo ho consigliato a Oscar Cosulich, direttore con Giulietta Fara del FFF, entrambi bravissimi e poco bisognosi di miei consigli – di trovare nella prossima edizione di quel prezioso Festival una sezione tutta dedicata ai videogames e, ovviamente, diretta da MB.
Il suo sito web: www.mattscape.com; per leggere il suo blog , cliccare http://mbf.blogs.com/mbf.
- Benvenuto a bordo, Matteo…
- Greetings, Starfighter. You have been recruited by the Star League to defend the frontier against Xur and the Ko-Dan armada.
- Sottotitoli per chi non ha completato la scuola dell’obbligo in videogames
Saluti Starfighter. Sei stato arruolato dalla Lega delle stelle per difendere la frontiera contro l'armata degli Xdur e dei Ko-Dan.
Il sommelier Giuseppe Palmieri de “La Francescana” di Modena, diretta dal patron e magico chef Massimo Bottura, ci consiglia d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Sacrisassi bianco 2000 dell' Azienda ‘Le due terre’: Tocai Ribolla e Sauvignon; mi ha anche inviata una nota in Spacefax che dice: “Regione di provenienza Friuli Venezia Giulia; è un vino interessante perché appartiene alla cultura del biodinamico, niente chimica, niente fisica, non è chiarificato e filtrato”… qua il bicchiere.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Matteo secondo Matteo…
- Un giocatore.
- Ma prima di giocare e parlare di videogames, mi piace con te partire da una riflessione più ampia che riguarda il Gioco: il grande Gioco aldilà dei Giochi.
Einstein dice: "Dio non gioca a dadi", Ilya Prigogine sostiene il contrario. Tu da che parte stai?
- Il mio agnosticismo protagoreo mi impedisce di produrre risposte sensate. D’altra parte, devo confessarti che mi diletto con i God games, un genere videoludico che ti eleva al rango di semi-divinità. Esempi: SimCity, The Sims, Populous... Se la montagna non va da eccetera. Intendo dire. L’essenza del game – grande e piccolo – è quello di farti dimenticare l’assenza del Master. Il ruolo del rito ludico è occultare una tragica verità: sei uno stolido mortale, non c’è alcun secondo livello, al game over non sfuggi nemmeno con un power-up. Dato che il pensiero è vagamente deprimente, l’uomo ha inventato la religione, la droga, i videogames. Per farla breve. Non so se Dio giochi a dadi. Però Aldo Nove una volta ha detto che noi siamo la PlayStation di Dio.
- In molte locuzioni popolari… a che gioco giochiamo…non sta alle regole del gioco…non facciamo il suo gioco…temo che faccia il doppio gioco…ed altre ancora, mi pare che il gioco sia evocato come possibile trappola, vi circoli intorno un senso d'inquietudine.
Il gioco provoca per prima cosa allarme? Contiene una carica eversiva?
- Il vero gioco è, per sua natura, rivoluzionario. Simula lo status quo per sovvertirlo e abbatterlo. La Kultura teme il gioco, altrimenti non si spiega perché tenda ad ostracizzarlo, emarginarlo dai discorsi che contano.
- Mano allo joystick. Mo’ si parla di videogames e di game studies. E la migliore maniera per iniziare a farlo, credo sia che tu mi dica di “Ludologica”: che cos’è, da quali premesse parte, di quali ambizioni si nutre…
- Ludologica è la prima collana editoriale dedicata ai videogiochi. E’ nata nel 2003 da una scommessa: che sia possibile parlare di videogiochi in modo diverso da come hanno fatto, da trent’anni a questa parte, i cosiddetti ‘critici di professione’ che continuano placidamente a considerare il game sulla base di un’innocua quanto anacronistica criteriologia tecnico-estetica (“grafica”, “sonoro” etc.). La critica videoludica tradizionale – supportata da un’industria ostile a una riflessione in grado di trascendere le più crasse banalizzazioni – è rigorosamente autoreferenziale. Nel suo anacronismo positivista, ignora la lezione cruciale di McLuhan, per cui il videogioco, al pari di ogni altro medium “crea un ambiente. Un ambiente è un processo, non un dato di fatto. È un’azione che modifica il nostro sistema nervoso e le nostre capacità percettive, alterandoli completamente”. Barricandosi dietro il pretesto del disimpegno, del videogame inteso come ludus tecnologico, la cosiddetta critica videoludica rinuncia a ingaggiare un dialogo con la “Cultura” tout court. Va da sé che il termine “critica” è inappropriato: è piuttosto infotainment, informazione promozionale, “consigli per gli acquisti” con la benedizione dei produttori di videogiochi. Nella recensione del testo ludico, la critica trascura il fatto che il videogioco nasce e si sviluppa all’interno di complesse reti sociali, culturali ed economiche. Comprendere il testo videoludico significa anche tenere conto del contesto nel quale emerge delle dinamiche sociali che innesca. Prestare attenzione alle componenti culturali e politiche, senza feticizzare la techné e ridurre l’analisi a un ‘punteggio’. Ludologica cerca di ingaggiare un discorso a trecento sessanta gradi con la cultura, usando il videogioco come punto di partenza e punto di arrivo.
- I videogiochi, hanno compiuto nel 2002 quarant’anni.
Dai lontani “Spacewar” e “Pong” ad oggi qual è stato, a tuo avviso, il principale elemento (ammesso che si possa restringere il campo ad uno solo) che ha connotato l’evoluzione del loro linguaggio?
- Il videogioco consente di manipolare immagini in tempo reale (volontà di onnipotenza simulsacrale), di abitare in mondi virtuali (perché quelli reali sono sporchi e inquinati), di imporsi in competizioni rigidamente strutturate (meritocrazia perfetta del game vs. disuguaglianza sociale analogica), di persistere. L’essenza del videogame non è tanto l’interattività – nozione ambigua e abusata – ma l’iteratività, la ripetizione con sperimentazione. Il gioco ti consente di riprovare, di tentare nuovamente. Detto altrimenti: il videogioco è un dispositivo didattico, una macchina per imparare. Mentre la società sanziona l’errore, il videogame lo incoraggia. Sbagliare fa parte del gioco. Il videogame è un esercizio buddista. Ti insegna a morire dieci, cento, mille volte. Ad accettare la tua inevitabile estinzione. La piccola morte del gioco prefigura ed esorcizza la grande morte. Il che spiega, per esempio, perché il medium elettronico glorifichi la distruzione, l’annichilimento, la violenza.
- L’approdo dei videogiochi su Internet che cosa ha cambiato in senso relazionale nel rapporto giocatore-macchina? Mi riferisco particolarmente ai giochi pensati per la Rete dove possono partecipare più giocatori…
- I giochi pensati per la rete sono in realtà esperimenti sociali collettivi. MMOG e MMORPG ( massively multiplayer online game e massively multiplayer role playinggame rispettivamente) come EverQuest II, World of Warcraft e City of Heroes hanno determinato un vero e proprio cambio di paradigma, una trasformazione radicale che ha investito ogni possibile aspetto del videogame: dalla produzione al consumo, dalla distribuzione alla promozione. L’aspetto più importante, tuttavia, è che gli MMOG hanno introdotto un nuovo modo di produrre narrativa online. Le storie tradizionali – raccontate dal cinema, dalla letteratura, dai fumetti – hanno un inizio, una parte centrale e una fine, anche se non necessariamente in questo ordine, come direbbe Jean-Luc Godard. Le ‘storie’ che nascono e si sviluppano nei mondi virtuali hanno un inizio, ma non una fine convenzionalmente intesa. Sono un ‘mezzo’ interminabile. I giochi stessi sono degli spazi e non mere sequenze temporali di eventi. Sono, in altre parole, terre sconfinate in cui i giocatori “fanno cose, vedono gente”. Ogni punto di arrivo è una nuova partenza, ogni chiusura, un’apertura. Negli MMOG/MMORPG la ‘storia’ è costruita direttamente dai fruitori. Non è prefissata, ma sempre in fieri. Gli utenti si servono del gioco per creare molteplici racconti, ognuno con i suoi obiettivi. Storie senza fine, che si sviluppano continuamente, grazie all’intervento diretto di una comunità di migliaia di giocatori-scrittori. Mentre la narrazione tradizionale presuppone un lettore-osservatore, quella digitale è fortemente partecipatoria: il creatore fornisce al giocatore gli strumenti per diventare, a sua volta, narratore. Un loop virtuoso e virtuale.
- Durante una conversazione in questa taverna spaziale, Jaime D’Alessandro mi disse che un tempo i personaggi dell’immaginario collettivo giovanile uscivano dai romanzi. Poi dal cinema. Infine dalla tv. Oggi, ventunesimo secolo – concluse – escono dai videogiochi.
In virtù di quale meccanismo psicosociale i personaggi dei videogiochi, da SuperMario a Lara Croft ad altri, hanno conquistato uno spazio in quell’immaginario collettivo ponendosi alla pari di personaggi dei fumetti e della letteratura?
- In realtà, le vere icone dei videogiochi sono gli avatar dei giocatori stessi, il loro doppio virtuale, customizzato, personalizzato, texturizzato. Il videogame è un medium solipsistico, onanistico e narcisistico. Non mi identifico tanto in Super Mario: è Super Mario a diventare un veicolo di transfer della mia personalità. Negli sparatutto in soggettiva, il “protagonista” è invisibile, trasparente. L’eroe sono io. Nei giochi di simulazione come SimCity, non c’è alcun personaggio. Io mi identifico in un sistema – in questo caso, quello capitalistico moderno che informa l’urbanistica dell’era industriale.
- Il sociologo Alberto Marinelli sostiene che nei videogames “non ci s’identifica con il personaggio, ma con quello che fa il giocatore attraverso il personaggio”. Insomma, a differenza di quanto avviene sullo schermo cinematografico o tv, il processo sarebbe di attaccamento piuttosto che di identificazione. Tu sei d’accordo con questa affermazione oppure no?
- Sono perfettamente d’accordo. E aggiungo: i videogiochi prossimi venturi finiranno per accelerare l’implosione tra io reale e virtuale, tra realtà e simulazione, generando una confusione epistemologica tra finzione e funzione, come hanno raccontato Mamoru Oshii in Avalon, David Cronenberg con eXistenZ, Sun-Woo Jang in The Resurrection. I reality TV show saranno resi obsoleti da una nuova generazione di reality games che si svolgono parallelamente. Le storie che ‘racconteranno’, tuttavia, non saranno lineari, ma rizomatiche. Imprevedibili, interminabili, iterative. Il passato è off(line). Il futuro on(line). Il presente, per definizione, non esiste, se non sullo schermo.
- I mondi descritti nei videogames spesso s’ispirano, per usare tue parole, ad un “futuro distopico”. La distopia – lo dico a beneficio di chi non la conoscesse – è l’utopia negativa, presente in classici come Swift, Bellamy, Huxley, Orwell, Zamjatin, fino ad autori a noi più vicini quali Vonnegut, Gibson, Cardigan.
Mondi disperati e desertici, usciti da tragedie atomiche o alla vigilia di tragedie batteriologiche, percorsi da malintenzionati che agiscono – cito ancora tue parole – in “un futuro che sembra già obsoleto”. Qual è la ragione per cui chi idea e realizza i videogames ha una tanto pessimistica visione del futuro? Perché mai, proprio una macchina del nostro evo moderno, pensa così male del prossimo futuro? Elio Cadelo, molto tempo fa, definì i videogames “macchine senza lieto fine”. E’ proprio così?
- Il mondo è grigio, il mondo è blu. In realtà, c’è anche del rosa, ogni tanto (Animal Crossing, le cose zuccherose di Nintendo). Il punto è che il videogioco non è che la variante interattiva del genere sci-fi e della corrente cyberpunk in particolare, dominata da versioni cupe del futuro. Del resto, da sempre la fantascienza rilegge il presente in modo critico e criptico insieme. Esempio: la serie di Deus Ex di Warren Spector.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Potrei dirti che Star Trek ha descritto, in modo profetico, il videogioco del prossimo futuro. Mi riferisco, ovviamente, all’holodeck, che, come ha scritto Janet Murray nel lontano nove sette, rappresenta il punto di arrivo dell’esperienza videoludica. Ma questa risposta è fin troppo prevedibile. La cosa che più mi affascina di Star Trek non è tanto la serie in sé, quanto la comunità dei fans, i trekkies. Chi l’ha descritta meglio è Robert Meyer Purnett con l’esilarante Free Enterprise (1998).
- Siamo quasi arrivati a Bittàntya, pianeta ludico e pensoso abitato da alieni che hanno tutti l’aspetto di joysticks … se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Sacrisassi bianco 2000 dell' Azienda ‘Le due terre’ consigliata dal sommelier Giuseppe Palmieri de “ La Francescana” di Modena… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- “I want to put the game on pause. The game can be paused, can't it? I mean, all games can be paused, right?” (Ted Pikul).
- Sottotitoli per chi non ha visto eXistenZ di Cronenberg:
Voglio mettere in pausa il gioco. Il gioco può essere messo in pausa, non è vero? Intendo dire, tutti i giochi possono essere messi in pausa, giusto?
Ted Pikul, interpretato da Jude Law, pronuncia questa frase nel film.
Metto in pausa la conversazione fino alla tua prossima venuta quassù e ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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