L’ospite accanto a me è Daniela
Guardamagna. Anglista. Docente di Lingua e Letteratura inglese nella Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. Lo
spunto per quest’incontro è dato dall’uscita nell’Anno
Terrestre 2002 del volume Il teatro giacomiano e carolino, (più noto
come teatro elisabettiano) nella collana “Storia del teatro inglese” a
cura di Agostino Lombardo per la Casa Editrice Carocci www.carocci.it,
sito dove è possibile leggere anche un estratto dal saggio. Di questo
studio se n’era avuta nel 2001 un’anticipazione per i tipi
della MABeL con il titolo L’assenza del Cielo. Nel libro stampato
ora da Carocci, all’opera di Daniela s’accompagnano raffinate
pagine di Anna Anzi – insegna Storia del teatro inglese all’Università di
Milano - sul genere del masque, cioè lo spettacolo di corte, che
vide all’opera grandi autori e scenografi, due nomi per tutti:
Ben Jonson e Inigo Jones.
Conosco e stimo Daniela da molti anni, ebbi amicizia fatta di radi
ma intensi e divertiti incontri anche con suo padre, lo sceneggiatore
e regista Dante,
uomo di grande cultura e sensibilità artistica che molto ha dato
alle nostre scene e alla nostra Tv. Sono io tra i pochi a conoscere un
testo narrativo inedito, un immaginario epistolario fra padre e figlia
(è intitolato “Da e Da”, le iniziali dei loro due nomi)
che quando qualche editore si deciderà a pubblicarlo, gli farò una
statua.
Daniela, donna di grande fascino intellettuale – e non solo intellettuale – oltre
la scrittura saggistica, ha attraversato esperienze di teatro, doppiaggio
cinematografico, autrice radiofonica; detta così si può immaginare
una creatura frenetica, nulla di più lontano dal vero, perché oltre
ad una pigrizia che sfiora l’accidia, gode (o soffre, non saprei)
di una tale rigorosa scrupolosità da rallentarne le uscite editoriali.
I suoi libri, per capirci, sono di quelli (sempre più rari) che
posseggono bibliografie, indici dei nomi e delle opere, repertori critici
suddivisi per aree geografiche e tempi storici, di tale peso da sfiorare
un quarto del volume cui si accompagnano e da costituire quasi un libro
nel libro, fornendo ai lettori utilissimi percorsi di lettura. Questa cura
del paratesto, lodevolmente ossessiva, la si trova anche in Analisi
dell’incubo:
l’utopia negativa da Swift alla fantascienza, Bulzoni 1980, e
La narrativa di Aldous Huxley, Adriatica Editrice 1989.
Ho caro anche un suo saggio “Shakespeare e la televisione italiana” -
per i danielologi: si trova nella rivista “Studi inglesi” diretta
da Agostino Lombardo, n. 2 del 1975 – che, accanto ad interviste
con alcuni fra i maggiori registi tv d’allora, analizza i rapporti
fra linguaggio teatrale e televisivo, e, in particolare, il modo in cui
la tv in Italia ha affrontato il grande autore. Altri tempi, cara Daniela!
La problematica che valorosamente sollevavi in quegli anni è stata
risolta in maniera drastica. Gli Shylock, gli Otello, i Cimbelino, in Rai
sono stati sostituiti da commesse, preti e poliziotti, e così la
faccenda l’hanno sistemata.
Segnalo altri due saggi: “Forbidden Planet: una trascrizione
fantascientifica della Tempest shakespeariana” e "Fantasmi
a teatro: il
grottesco fantastico di Howard Brenton" (per i danielofili: il primo, Atti
del IX Congresso Associazione Italiana di Anglistica, Clua 1986; il
secondo,
Studi Urbinati, Urbino, Anno LXVII, 1996).
Sul web indico una postfazione a “E Jones cambiò il mondo” di
Philip Dick http://www.liberonweb.it/Fanucci/dick.htm ed un intervento
sui Viaggi di Gulliver: http://intercom.publinet.it/cs/3cs1.htm.
- Benvenuta
a bordo, Daniela…
- Grazie. Quanto tempo che non si vola insieme, Armando.
- Già, e ricordando i voli d’un tempo voglio farti assaggiare
questa Malvasia Secca Doc Colli Piacentini di Torre Fornello…qua
il bicchiere…ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne
la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi
nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole
che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione
con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Daniela
secondo Daniela…
- Difficile dire “tutta la verità”. Adesso sono quasi
esclusivamente un professore. Naturalmente rimangono l’amore e
la nostalgia per il teatro – come si dice? – anche militante,
che ho ereditato da mio padre e ho riscoperto da sola in Inghilterra
e in Irlanda, a vent’anni. La possibilità teorica di far
convivere le due passioni mi era stata confermata attraverso le lezioni
e le traduzioni shakespeariane di Agostino Lombardo, mio maestro. Ma
naturalmente fare proprio il teatro militante non si può più.
Tra le centinaia di allievi, le tesi da seguire e la Riforma universitaria
già quasi non si sopravvive così.
- Non è difficile immaginare che siano molti i motivi per i quali
si è affascinati dal periodo elisabettiano, ma, crudelmente, ti
chiedo qui di esprimerne soltanto uno. Cioè mi piacerebbe sapere
se n’esiste uno che su di te ha avuto più seduzione fra
tutti, tanto da spingerti ad impiegare anni di lavoro…
- Se parliamo di seduzione, direi che questa domanda si congiunge alla
prima: il teatro elisabettiano, Shakespeare in particolare ma anche
altri (Middleton, Webster, Ford), ha per me la splendida caratteristica
di
consentirmi di fondere i miei mondi: è letteratura, e Alta Letteratura,
che è entusiasmante insegnare ai ragazzi facendo sentire la bellezza
di una immagine barocca o la musicalità del blank verse; ma è appunto
soprattutto teatro, spettacolo, capacità di creare teatro ‘vivo’ (contro
quello ‘mortale’ di cui si parlava con Brook tanti anni fa);
teatro che si fa, non si scrive; che si costruisce sulle compagnie, sulle
capacità degli attori, perfino sui loro difetti. Un modello
esaltante, contro tanto piattume che ci circonda.
- “L’assenza del cielo” era il titolo che ha preceduto
e in parte anticipato nei contenuti “Il teatro giacomiano e carolino”.
Su chi o che cosa è assente il cielo nel teatro inglese nel
periodo da te osservato?
- E’ assente da quel mondo, e dai testi che ne parlano. Siamo sotto
il regno di Giacomo I, dopo il governo di una grande regina come Elisabetta.
Il nuovo re è colto, intelligente, ma è corrotto, in tutti
i sensi (politico, sessuale, economico); estraneo (in quanto scozzese)
alla mentalità dei suoi sudditi. L’Inghilterra ha da secoli
un Parlamento, è la prima monarchia moderna, mentre in Scozia
si credeva ancora al diritto divino. Con il regno di Giacomo si prepara
la rivoluzione repubblicana che porterà alla decapitazione di
re Carlo I (appunto il figlio di Giacomo). E’ l’unica sanguinosa
rivoluzione inglese, ed è anticipata di un secolo e mezzo rispetto
alle altre (francese, americana); forse per questo gli Inglesi si sono
spaventati e hanno ancora la monarchia.
Tornando al mio cielo, il respiro del Rinascimento inglese era prorompente,
vitale, e coniugava trascendenza e carne, intelletto e passioni, con
un equilibrio raramente eguagliato. I testi giacomiani perdono questo
respiro. Quel che si annusa nelle commedie di Middleton, di Ben Jonson,
che condannano il capitalismo nascente senza sapere ancora cosa sia, è l’angusto
odore dei soldi, dei maneggi, del basso machiavellismo. L’oro
diventa un Dio; si briga per sposare la ricca vedova e magari portarsi
a letto
la figlia. Il respiro delle brughiere shakespeariane si appiattisce
nella claustrofobia di un mondo chiuso, asfittico.
- Sei tra le più grandi fra studiose e studiosi di Huxley e
molto hai scritto su Orwell.
Due autori che hanno qualche paura in comune rispetto al futuro, paura
sia pure diversamente vissuta ed espressa, ma da te m’interessa
sapere qual è, invece, la cosa che più li differenzia…
- Be’, le differenze sono parecchie. Se ha ancora senso – e
speriamo che abbia senso – fare queste distinzioni, direi che Orwell è molto
più esplicitamente ‘di sinistra’. Tuttavia, si può dire
che il suo 1984 attacca soprattutto la Russia stalinista (il suo Grande
Fratello è modellato su Stalin), mentre Huxley nel 1932 costruisce
il suo inamabile Mondo nuovo sulla falsariga del consumismo americano.
Tutti e due, per l’opposizione al Regime antiutopico, scelgono
la strada della consapevolezza, o almeno la sua ricerca, da parte del
loro protagonista/intellettuale; Orwell, però, demanda la Ribellione
più efficace ai proles, i proletari del suo mondo; mentre Huxley
disegna la via, riservata a pochi, di lasciare la società che
rifiuta emigrando su un’isola. Non per niente il suo ultimo libro,
che ha scritto nel 1962 un anno prima di morire, si chiama appunto
Island.
- In “Viaggi in utopia”, pubblicato nel 1996 dall’editore
Angelo Longo, scrivi: “Sono ormai molti anni che mi occupo delle
problematiche dell’utopia…contrariamente a quanto si ipotizzava
anni addietro, c’è, nella nostra realtà e nella progettazione
politica, una qualche rinascita di pulsioni utopiche…”.
Tali pulsioni sono ancora presenti oggi? Verso dove vanno?
- Nella politica certamente no – anche se Haider, nel 2002, grazie
a Dio ha perso, ma certo non basta. Nel periodo che va grosso modo dai
primi anni Ottanta alla fine degli anni Novanta nascevano, anche nella
scrittura, certe modeste e guardinghe utopie che rispondevano a movimenti
esistenti nella realtà sociale. Come è compito di ogni
utopia, questi testi ‘avvertivano’ dei rischi insiti in progetti
contrari, o nella sventata assenza di progetto del mondo reale. Penso
soprattutto alle ecotopie, cioè le utopie ecologiche, che erano
già nate un paio di decenni prima con Callenbach ma che prendevano
nuovo vigore in quel periodo facendo propri gli avvertimenti concreti
dei Verdi e di analoghi movimenti ecologici; e certe utopie femministe
o almeno femminili, piuttosto belle letterariamente – penso in
particolare a Ursula LeGuin –, che continuavano nella scrittura
fantastica l’analisi di cosa sia propriamente maschile e propriamente
femminile nella nostra psiche.
- A proposito di utopia, voglio tornare su di un titolo al quale ho
già accennato
in apertura: “Analisi dell’incubo”.
Lì parli diffusamente di utopia negativa, o distopia, e ne crei
un vertiginoso percorso che va da Swift alla fantascienza.
L’utopia negativa contiene caratteri che le permettono di attraversare
secoli con lo stesso profilo? Oppure il suo aspetto si trasforma?
- Certi momenti tematici sono identici: gli Struldbruggs immortali
di Swift sono così simili agli orrendi vecchioni di “Tomorrow
and Tomorrow and Tomorrow” di Frederick Pohl, e c’è un
testo seicentesco dei miei amati giacomiani, The Old Law probabilmente
di Middleton e Rowley, che ricorda tanto “L’esame” del
fantascientifico Matheson, con i vecchi inabili eliminati per la comodità dei
giovani figli e nipoti. Il rischio, in chi analizza e si sorprende lietamente
delle analogie tematiche e del ricorrere delle angosce esistenziali, è dimenticare
le differenze di clima e di struttura narrativa, che rispondono a differenze
costitutive nella nostra ricezione dei racconti.
- Perché in Italia non abbiamo una letteratura di fantascienza?
Come, ad esempio, ce l’hanno Russia e Stati Uniti?
- Difficile dire. Mongai, autore di fs italiana, voleva fare un convegno
sul perché le donne non leggono fantascienza. Ce ne sono; ma io
temo che il problema sia sempre un fatto di industria culturale, come
per il teatro. Perché nel teatro inglese ci sono centinaia di
testi nuovi ogni anno, e almeno una decina di testi importanti? Perché – almeno
dagli anni ’50 in poi – c’era spazio per la sperimentazione;
c’era il desiderio e l’abitudine nel pubblico di andare a
vedere commedie di autori viventi, contemporanei, magari giovani; mica
sempre Shakespeare Gogol o Pirandello, che vanno benissimo ma che non
devono essere l’unica risorsa per la rappresentazione. Così,
nella fucina di 100 testi nuovi, premiati e rappresentati prima al
Royal Court, poi magari al National Theatre, tre o quattro buoni escono,
per
forza. Fuori dal parallelo: quanti di noi hanno voglia di leggere fs italiana, piuttosto che un altro libro di Bradbury, di Dick, o della
mia amata LeGuin? E questo nonostante gli sforzi di alcuni editori
coraggiosi.
- A tutti gli ospiti di questa taverna spaziale, prima di lasciarci,
infliggo una riflessione su Star Trek ideata da Roddenberry avvalendosi
di scienziati
ma anche di scrittori lontani dalla fantascienza…che cosa rappresenta
quel videomito nel nostro immaginario da fargli ottenere tanto successo?
- Forse proprio la ricchezza di mondi diversi, la presenza di tante
eredità non
ovvie…Sai che un mio allievo voleva fare una tesi sugli echi
shakespeariani in Star Trek? Ne aveva trovati moltissimi. Poi ha scelto,
invece, di
concentrarsi sul Maledetto di Providence, H.P. Lovecraft. Ma sarebbe
stato interessante.
- Siamo quasi arrivati a Danyelya, pianeta che a causa dell’assenza
del cielo gira solo nella Galassia dell’Utopia…se devi scendere,
ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche
perché è finita la bottiglia di Malvasia Secca Doc Colli
Piacentini di Torre Fornello…Però torna a trovarmi, io qua
sto…intesi eh?
- Grazie, Armando, se tu e il Capitano Picard non mi trovate troppo
libresca tornerò volentieri. L’ospitalità, nella vineria dell’Enterprise, è davvero
squisita. A presto.
- Vabbè, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga
vita e prosperità!
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