L'ospite accanto a me è Marco Dotti.
Saggista, redattore e consulente, per la letteratura francofona, di
Stampa Alternativa.
L'ho invitato qui perché m'interessa il suo lavoro sulle "scritture
del limite" nella letteratura di lingua francese, lavoro che lo
ha portato a confrontarsi con vari autori da Céline a Marcel
Jouhandeau. E, soprattutto, con Antonin Artaud (1896-1948), di cui ha
tradotto Lettere ai prepotenti, e Per farla finita col giudizio
di dio testo radiofonico del 1948 (al libro è allegato un
prezioso CD con la voce d'Artaud registrata negli studi della radio
francese), entrambi pubblicati nel 2000; poi con Jean Genet (1910-1986),
di cui ha curato nel 2002 l'antologia Palestinesi.
Ha pure recentemente tradotto una lettera d'Artaud a Pierre Bousquet
che considero molto significativa, visto il clima e gli eventi dei nostri
giorni; la si può leggere cliccando su: http://www.kainos.it
Ma mi piace ricordare anche un altro lavoro, Baffo osceno: una
raccolta di poesie licenziose di Giorgio Baffo; né mi meraviglia
l'interesse di Marco per quella malandrina penna settecentesca, chi
la impugnò fu un irregolare del suo tempo, lo testimoniano oltre
i suoi versi, anche le polemiche anticlericali e antigoldoniane che
animò.
Tutti i titoli che ho citato sono editi da Stampa Alternativa; sul sito
dell'editrice
www.stampalternativa.it troverete anche approfondimenti e altre
documentazioni utili per meglio orientarsi negli studi di ieri e di
oggi su Artaud e Genet.
- Benvenuto a bordo, Marco
- Ciao Armando!
- Voglio farti assaggiare questo Sagramoso, Soave Superiore DOC delle
Cantine Pasqua
qua il bicchiere
ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne
la guida, a Roma direbbero "è un bel manico", però
noi nello spazio stiamo, schizziamo "a manetta", prudenza
vuole che tu trasmetta sulla Terra - come sempre chiedo iniziando la
conversazione con i miei ospiti - il tuo ritratto
interiore
insomma,
chi è Marco secondo Marco
- Guarda, visto che sei stato così gentile ad invitarmi quassù,
ti ho portato un libro. È L'Ève future di Villiers
de l'Isle-Adam. Tra le pagine di Villiers prende forma uno strano presagio
che già era scolpito nella dedica in apertura. Villiers dedica
quanto scrive "aux rêveurs, aux railleurs". Io sono
così, un po' sognatore, un po' cialtrone. Di più non saprei
dire, non amo parlare di me. Anche se, qui più che altrove, mi
sembrano vere le parole del vecchio Brewster, secondo cui l'io
non sarebbe altro che un modesto avverbio di luogo
- Se è vero che il corpo parla, quello d'Artaud grida. Che cosa
trasmette quell'urlo?
- Quell'urlo è, al contempo, espulsione e ricostruzione.
I critici e gli interpreti insistono sul primo aspetto, quello dell'espulsione.
Io insisterei anche sull'altro aspetto, quello, per così dire,
"propositivo", che è altrettanto irragionevole - positivamente
irragionevole - e, per ciò stesso, eversivo.
Il grido di Artaud non è solo "espulsione di un male"
(un male che lui chiama, non senza riflessi simbolici, col nome di "dio"),
ma è anche il tentativo di presentarsi, scendendo tutti i gradini
dell'abiezione, nudi e sfrontati davanti al potere.
Definirei il grido di Artaud in questo modo: un corpo a corpo col potere
e le sue logiche.
Quando avrà "ucciso dio", ci comunica Artaud, l'uomo
"ritroverà il proprio diritto". Artaud gioca, qui,
su un'ambivalenza: usa il termine "endroit" (posizione, posto),
ma lo pronuncia quasi fosse "droit" (diritto). Come vedi,
quello in cui si muove è un contesto carico di significati, e
non l'insensato delirio di un folle (ammesso che esistano, i folli).
È la resistenza di un uomo che tiene ben saldi i piedi su questa
terra, un uomo che agisce per "il materialismo assoluto".
Il corpo senza organi di Artaud apre, infatti, ad una dimensione
materiale di potenza, nel senso di Spinoza.
- Ti parlavo prima di Villiers. Ne L' Ève future c'è
una prefigurazione chiarissima di quello che, per Artaud, è il
corpo senza organi…
- Benedetta Pasolini Ravasi, nel suo intervento nell'edizione da te
curata di Per farla finita col giudizio di dio, parla acutamente
di "scrittura vocale" di Artaud. Una scrittura, aggiunge,
"costretta suo malgrado sulla carta". La trovo una considerazione
giustissima. Eppure, Artaud anche sulla pagina riesce a trasmettere
brividi e folgorazioni. Insomma, pur consegnandosi all'oralità,
è ben lontano dall'unicità d'espressione che segna tanti
autori fonetici, emozionanti in voce e insignificanti spesso sul foglio
scritto.
- Che cosa rende possibile questa magìa comunicativa?
- Una sola cosa: il vissuto.
Artaud è un uomo che vive, non uno scribacchino qualunque.
Non ha merci da vendere. Scrive per necessità e per disperazione.
La sua è - per dirla con Cardoza y Aragon - una "disperazione
ontologica", e il suo linguaggio - è sempre Cardoza che
parla - è quello di un neolitico, che rifiuta di addomesticarsi,
e parla servendosi del fuoco. Nei suoi viaggi - reali o notturni - Artaud
ha capito che il corpo è il più grande strumento di comunicazione
che abbiamo. Noi agiamo e usiamo il corpo e la voce solo sul piano dialogico
e discorsivo, questo fanno gli scrittori di cui parli. Ma la voce (e
il corpo) è ben altro. Il corpo è un diapason, occorre
toccare le frequenze giuste, e farlo vibrare.
Questa è la magìa di Artaud.
Egli, inoltre, conosce le pratiche del potere, sa che chi comanda è
spesso simile ad un incantatore di serpenti (Hexenmeister, lo
chiamano Goethe e Marx: "manipolatore di spettri", "stregone"),
sa farsi amare - secondo meccanismi che la psicoanalisi, penso a Pierre
Legendre, ha da tempo messo in luce. Chi subisce questa malia è
preda di un "adorcismo". Artaud esorcizza, non fa altro.
Non a caso scriveva lettere di fuoco a due "incantatori" del
suo tempo: Hitler e Pio XII.
Non a caso, disegnava dei "sorts", dei sortilegi per proteggere
gli amici più cari
- La lezione teatrale di Artaud ha molto influenzato il teatro contemporaneo,
un esempio per tutti n'è il Living Theatre. Ai nostri giorni,
in quali movimenti o gruppi ti pare di cogliere i segni della rivoluzione
artaudiana?
- Certamente non nei beceri e ridicoli esperimenti della body art.
Orlan attiene più a Mengele ed al fascismo "geneticamente
corretto" che ad Artaud. Penso, invece, al teatro giapponese ed
a Carmelo Bene, ma in un modo - spero - non scontato. Ciò che
li accomuna, oltre ad una intensa ricerca sulla voce, è il gusto
per la parodia, che Bene esercita scomponendo, ad esempio, Sheakespeare,
o tormentandolo con i versi di Piave, di Gozzano, o con il sublime paternalismo
di un Verdi (penso a quello straordinario capolavoro berniniano che
è l'Homelette for Hamlet, e agli inserti sonori da I
Masnadieri). Artaud lo fa in altro modo, irrompendo fuori dalla
scena, con quel perfetto delirio che si è cucito nell'anima:
Artaud le mômo, Artaud l'imbecille (che non è solo
il fool, ma è anche il pazzo mediterraneo, l'invasato
di demoni a cui - persino nelle corti islamiche - si permette tutto,
perché è il solo ad essere in contatto con dio e col diavolo
al contempo).
- Dai nervi elettrici di Artaud alla pelle scorticata di Genet. Lo scorticai
anch'io molti anni fa con una mia malriuscita regìa di Sorveglianza
speciale.
Antonio Ferrari, recensendo sul "Corriere della Sera" il recente
Palestinesi che hai pubblicato, riporta una tua dichiarazione:
"Questo non vuole essere un libro per Genet, quanto, soprattutto,
un libro contro di lui. O meglio un oltraggio alla sua memoria".
Puoi spiegare in modo meno telegrafico?…Sei anche tu uno scorticatore
di Genet?
- Credo di sì, se scorticare significa risvegliare i morti. A
proposito di Haute surveillance, voglio dire che è un'opera
anomala nella produzione teatrale genetiana. Appartiene al periodo del
primo Genet. Se non ricordo male, Genet pretendeva che a recitarla fossero
dei carcerati…
- …già, e mancò poco che io e i miei compagni di
scena dopo il debutto non divetassimo, involontariamente, rigorosi interpreti
delle intenzioni di Genet…
- ah sì?…recitata da carcerati dicevo, secondo una logica
che, mediata da Frantz Fanon, in seguito, lo ha portato a scrivere I
Negri. In ogni caso, quelle parole - che "chiudono" ,
e non aprono, come si potrebbe credere, la mia modesta curatela del
volume Palestinesi - volevano solo ricordare agli uomini di mala
fede che occorre fottersene della pretesa correttezza filologica. Serve
rigore, certo, ma i testi andrebbero "traditi", più
che glossati. Anche se nelle glosse, come ha mostrato ancora Legendre,
un autore cui devo molto, spesso si nascondono grandi verità.
Come puoi vedere, ho infarcito il testo di note. Sono note che non servono
a nulla e a nessuno, e che potrebbero facilmente essere sostituite con
altre, di opposto tenore. Un apparato critico è sempre un "cancro"
del testo. Quelle note sono una provocazione, chiedono di essere ignorate,
come tutto l'apparato documentario che accompagna, e sovrasta, gli scritti
di Genet. È un invito al lettore, un invito a chiosare da sé,
non a "farsi" chiosare da altri...
- Il saggio di Sartre San Genet commediante e martire - che contribuì
in modo decisivo a fare conoscere al pubblico quello scrittore allora
noto prevalentemente nei circoli dell'avanguardia - fu accusato di avere
puntato su di un'ambiguità di Genet fra innocenza espressiva
e malizie di scrittura. Che cosa pensi di quell'interpretazione?
- Io ritengo il saggio di Sartre una sublime castroneria. Mi spiego.
È un testo straordinario, un libro che consiglierò ai
miei figli, se e quando ne avrò (per ora lo consiglio ai figli
degli altri). Ma glielo consiglierei indipendentemente dall'oggetto-Genet.
Su Genet, quel libro non dice ormai nulla. Ci parla di un giovane criminale
e scrittore, ma il vero fulcro del lavoro di Sartre trascende il proprio
oggetto. È una grande riflessione sul male, forse la migliore
nel '900, non una biografia! Fermarsi all'oggetto-Genet, significa fermarsi
agli anni '50, gli anni in cui venne scritto il testo di Sartre, e significa,
soprattutto, ignorare - cosa che conviene a molti - che c'è un
solo testo che getta luce su Jean Genet: Un Captif amoreux (un
libro "postumo", ritrovato accanto al cadavere di Genet, nel
1986). Bisogna fare un percorso a ritroso, perché, come ha scritto
Leila Shahid, una cara amica di Genet, quello è il testo in cui
lui si è messo a nudo, si è finalmente rivelato, presagendo
la morte. È un testo che getta luce, non che ne sottrae. Certo,
occorre leggere tra le righe, negli spazi bianchi, forzare l'interpretazione,
rovinare, come sempre, le sante verità della critica. Questa
era - d'altronde - l'intenzione di Genet, e di un altro suo chiosatore:
Jacques Derrida. E questo è uno dei significati della citazione
messa in esergo di Un Captif amoreux: "mettere al sicuro
tutte le immagini del linguaggio, e servirsene, perché si trovano
nel deserto in cui vanno cercate".
- Quando ho a tiro un francesista come mi accade ora con te, non perdo
l'occasione di rivolgere una domanda che m'interessa particolarmente.
Qual è il tuo pensiero sull'Oulipo, e quali tracce se ne rinvengono
in Francia oggi?
- Spero di non deluderti, ma francamente non so quali siano le opinioni
su l'Oulipo e le sue tracce. Io li ho sempre guardati con simpatia,
ma mai con grandissimo interesse. Come i patafisici (a parte l'immenso
Jarry) o i situazionisti, d'altronde. Sai, io sono un francesista anomalo
- e questa espressione mi imbarazza non poco - e le avanguardie non
mi hanno mai interessato, soprattutto quando si mettono a scrivere programmi.
Preferisco gli insorti, i solitari. Quelli che scrivono sul bordo di
un delirio, camminano a testa bassa e spesso inciampano, ma seguono
sempre quella che Ferruccio Masini chiamava, servendosi di Hölderlin,
"la via eccentrica".
- Per chi leggerà nei secoli futuri questa nostra conversazione,
preciso che siamo nel 2002.
Bene, assolto questo dovere cronachistico, ti chiedo: in questo periodo,
ti senti di fare dei nomi d'autori francesi oggi in Italia ignoti, o
poco noti, sui quali scommetti?
- Di "ignoti" non ne esistono più. Il mercato si è
fatto furbo, si è, per così dire, internazionalizzato.
Come ogni mercante nel proprio tempio, l'editore sa esporre molto bene
la propria merce. Sì, non c'è più niente da scoprire.
Al massimo si può "promuovere", che è cosa ben
diversa. Chi si ricorda più, in Italia, di Furio Jesi o di Roberto
Bazlen, gente che ha dato qualcosa alla cultura, "scoprendo",
non "promuovendo"?
È un discorso lungo, che non mi amareggia affatto, ma mi invita
a resistere.
Io ho la fortuna di navigare contro corrente, e mi concedo lunghe pause
di riflessione, cosa che gli "editor" (si chiamano così)
non possono permettersi di fare. E, durante queste pause, mi guardo
indietro, e vedo che c'è un mondo sommerso di grande, grandissima
letteratura che va riscoperto.
Ma tornando alla tua domanda, se dovessi consigliare delle letture,
cosa diversa dal consigliare la pubblicazione ad un editore, consiglierei
uno scrittore franco marocchino molto bravo: Abdelkebir Khatibi. Oppure
consiglierei di andarsene in Africa, o verso Oriente (magari in Corea)
per vedere se è rimasto qualcosa, dopo il disastro dell'american
way of life...
- A tutti gli ospiti di questa taverna spaziale, prima di lasciarci,
infliggo una riflessione su Star Trek
che cosa rappresenta quel
videomito nel nostro immaginario?
- Purtroppo, sul piano simbolico, credo non rappresenti più nulla,
almeno per chi non si è "nutrito" di Star Trek. L'universo
delle immagini scompare, appena queste scompaiono. Sul piano culturale
è stata, però, una grande impresa: raffinata, intelligente,
coraggiosa e - soprattutto - "meditata". Ora, tutto è
soffocato dalla velocità, dalle sequenze che si succedono a ritmi
sfrenati, dal rumore assordante e inutile delle colonne sonore. Sul
piano personale, Star Trek mi ricorda, e mi riconcilia, col silenzio,
con la dolcezza dei movimenti, col vuoto, con la libertà. Perché
non pensare al Funambolo di Genet? Come il funambolo quegli uomini camminavano
nel vuoto, oltre il peso della materia infinita…
- Siamo quasi arrivati a Dòttya, pianeta francofono e ribelle
abitato da alieni che parlano fra loro con rabelaisiane parole gelate…se
devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l'incontro,
anche perché è finita la bottiglia di Sagramoso, Soave
Superiore DOC, delle Cantine Pasqua…Però torna a trovarmi,
io qua sto…intesi eh?
- Intesi
- Vabbè, ti saluto com'è d'obbligo sull'Enterprise:
lunga vita e prosperità!
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