L’ospite accanto a me è Federico Sabatini. Critico letterario.
Nato nel 1973, è ricercatore di letteratura inglese presso l’Università di Torino. Ha pubblicato articoli e saggi su Joyce e altri autori moderni in diverse riviste accademiche e raccolte, sia in Italia sia all’estero.
Per una più estesa biobibliografia: Qui.
Lo spunto per un incontro con lui (si svolge in quello che per i Terrestri è il dicembre 2011) è dato dalla sua più recente pubblicazione: “Scrivere pericolosamente” dedicata a uno studio su Joyce.
Il 2011, infatti, è stato il settantesimo anniversario della morte di James Joyce, ma per i lettori e gli scrittori di tutto il mondo l’autore dell’Ulisse e di Gente di Dublino come letterato è più vivo che mai, come dimostra il successo del Bloomsday, la celebrazione che, da più di mezzo secolo a questa parte, vede realizzati eventi il 16 giugno, giorno che nel romanzo “Ulisse” è immaginata svolgersi l’avventura di Leopold Bloom a Dublino nel 1904.
Minimum fax ha reso omaggio a Joyce con questo lavoro di Sabatini: una preziosa raccolta di citazioni che, spaziando dalla narrativa ai saggi alle lettere, offrono per la prima volta una panoramica del pensiero dello scrittore irlandese sull’arte di scrivere: riflessioni sul processo creativo, sulle tecniche di narrazione, sul mercato editoriale, sul ruolo dello scrittore, nonché osservazioni critiche sulla propria opera e quella altrui.
“Scrivere pericolosamente” è molto più agile da consultare rispetto a un manuale accademico, ma altrettanto e più ricco nei contenuti essendo un’eccellente e ragionata selezione fra gli scritti di Joyce pubblicando, con una poderosa prefazione, un libro adatto sia al pubblico degli studiosi sia a quello degli appassionati di letteratura e scrittura.
- Benvenuto a bordo, Federico…
- Grazie, è un grande piacere essere qui: essendo un accanito viaggiatore nessun altro posto potrebbe essermi più congeniale!
- I tre fratelli, Massimiliano, Andrea, Jacopo Arcioni del Centrovini Arcioni, stellare enoteca romana in Via della Giuliana 13, hanno consigliato d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Docg Franciacorta Rosé millesimato 2007 dei Fratelli Berlucchi… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Federico secondo Federico …
- Sono un’amante dell’arte in tutte le sue forme, con una predilezione però per quella letteraria che pratico davvero dall’infanzia. Mi piacerebbe moltissimo, infatti, sapere l’età esatta in cui ho iniziato a leggere libri senza illustrazioni ma, nonostante i ripetuti tentativi non ne sono venuto a capo. Ricordo però bene che furono “Il giardino segreto” e “Tom Sawyer”, che lessi sicuramente prima dei 10 anni, a introdurmi alla bellezza e al mistero della parola scritta. Ora scrivo saggi, articoli, recensioni e racconti (e ho appena terminato il mio primo romanzo) e continuo a percorrere, ostinatamente, il doppio percorso di scrittura critica e narrativa. E sono ovviamente un appassionato di Joyce e del Modernismo.
- Perché – come afferma Richard Ellman – “dobbiamo ancora imparare ad essere contemporanei di Joyce”?
- Come ho cercato di sottolineare sia nell’introduzione del volume sia attraverso la selezione dei brani, Joyce è ormai da considerarsi come un “classico” della letteratura mondiale. Nonostante la problematica ancora attuale di un “canone di classicità”, l’opera di Joyce è ancora in grado di comunicare profondamente alle nostre coscienze e alle nostre vite con una scrittura che ancora oggi risulta “sperimentale”. Nel tentativo di “penetrare nel cuore di ogni cosa”, tale scrittura supera i confini storici del primo novecento e quelli geografico-culturali dell’Irlanda.
- E dove approda?
- Arriva alla “ricreazione” di temi universali quali i meccanismi coscienziali, i sentimenti più profondi e ineffabili, il funzionamento e le reazioni del corpo, le percezioni spazio-temporali, e la misteriosa configurazione del nostro inconscio. Un tema, quest’ultimo, che ancora necessita di spiegazioni e ricerche e che, a livello estetico, non trova facilmente un corrispettivo che ne riveli almeno le componenti essenziali. Con la rivoluzione linguistica operata in “Finnegans Wake”, Joyce è riuscito a ricreare le dimensioni più astratte e recondite della mente umana, costruendo “tunnel” linguistici (come afferma egli stesso) anche in quelle zone del cervello che non sono attraversate dal linguaggio ordinario. Una riflessione talmente profonda che non solo anticipa e influenza le moderne teorie psicanalitiche ma che invita continuamente il lettore ad una sfida nei confronti di se stesso e della sua vita interiore.
- Tra i personaggi joyciani, quello che più di tutti esprime giudizi sull’arte è Stephen Dedalus. La maggioranza dei critici, fino agli anni ’60 circa, ha ritenuto Stephen un alter ego del tutto coincidente con Joyce stesso. Poi le cose sono cambiate, puoi spiegarci in quale direzione?
- Stephen Dedalus è il personaggio dell’artista in via di formazione che troviamo in tre romanzi di Joyce (“Stephen Hero”, “A Portrait of the Artist as a Young Man” e “Ulysses”) ed è quello che più di tutti si abbandona a speculazioni in merito all’arte e alle sue funzioni. Specialmente nei primi due romanzi, le esperienze del personaggio ricalcano quasi esattamente la vicenda biografica di Joyce, e fu Joyce stesso ad utilizzare il nome ‘Stephen Dedalus’ come pseudonimo per la pubblicazione dei primi racconti. Tuttavia, il personaggio è un eroe ancora troppo decadente e attaccato ad un’idea di romanticismo che non appartiene al Joyce maturo. Come recita il titolo, si tratta di “un” ritratto di una fase ancora immatura dell’artista, il quale dovrà affrontare un lungo e tortuoso percorso prima di giungere alla realizzazione delle sue teorie astratte. La critica joyciana ha sottolineato il trattamento ironico e distaccato dell’autore verso il personaggio, il fatto che l’unico componimento poetico di quest’ultimo sia di scarso valore, e che la struttura altalenante tra il pathos con cui termina ogni capitolo e il bathos con cui inizia il successivo sia plausibilmente applicabile anche alla fine del romanzo, quando Stephen lascia l’Irlanda per assecondare le sue aspirazioni artistiche.
- Hai indicazioni particolari al proposito?
- Ad esempio in “Ulysses” il personaggio è molto meno idealista e più cinico e amareggiato. Infine, in “Finnegans Wake”, Joyce conia l’ironica espressione “a poor trait of the artless”, la quale, ricalcando il titolo del romanzo giovanile, ridimensiona ulteriormente le ambizioni di “quel” personaggio, descrivendolo come “un tratto misero di colui che è senza arte”. Il rapporto è senza dubbio complesso e sfaccettato ma anche la teoria letteraria sull’autobiografia, nei suoi sviluppi a partire dagli anni 60/70 (Philippe Lejeune, J.H. Buckley, Bruce Mazlish) ci informa del carattere arbitrario di qualsiasi ricostruzione autobiografica: occorre infatti considerare non tanto la veridicità degli eventi vissuti, quanto la veridicità degli eventi narrati, ricostruiti cioè attraverso il mezzo espressivo che risulta più congeniale per supplire alle deficienze del pensiero, e soprattutto a quelle del ricordo. Nel processo mnemonico che serve da input per l’ispirazione poetica (su cui Joyce si interroga a fondo, rifacendosi anche a Vico) e per la sua successiva trascrizione letteraria, l’esperienza è sempre e soggetta a ripetuti cambiamenti e alimentata dal processo immaginativo che subentra tra la realtà del presente e quella del passato in questione.
- Vedremo mai un’edizione in lingua italiana del “Finnegans Wake”?
- Come per tutti gli scrittori del Modernismo, i quali, con le ovvie differenze, miravano a ricreare non solo un contenuto ma una forma “significante”, la traduzione di Joyce risulta indubbiamente molto problematica, anche nel caso delle sue opere iniziali come “Dubliners”. Nonostante una struttura più tradizionale, sono già presenti elementi fortemente sperimentali nella forma, nel fonosimbolismo, nel ritmo della sintassi.
- Perché il caso di “Finnegans Wake” è più complesso?
- A causa del multilinguismo, delle “parole valigia” ottenute attraverso la fusione di più termini, dei continui giochi semantici che contengono innumerevoli riferimenti letterari, storici e culturali. In Italia, Luigi Schenoni ha tradotto parte del libro raggiungendo il pregevolissimo risultato di una ricreazione del ritmo e degli aspetti più ironici del testo. Diversi sono i critici eminenti che potrebbero ora accettare la sfida e continuare la sua opera, nella paradossale consapevolezza (una consapevolezza infatti “critica” e non solo linguistica) della impossibilità di una vera traduzione.
- Perché Joyce, grandissimo narratore, è un autore teatrale modesto? Un’avventura che ha segnato, mi pare, anche la scrittura di Svevo…
- L’unico dramma di Joyce, “Exiles”, è certamente sottovalutato e, al tempo stesso, non è paragonabile ai risultati che l’autore ha raggiunto nella narrativa. Il genere romanzo era senza dubbio più congeniale per l’esplorazione del flusso di coscienza e del monologo interiore, oltre che per la riconfigurazione (a)temporale dell’esperienza vissuta. Non è infatti un caso che la stesura del dramma sia avvenuta durante una pausa che l’autore si concesse durante l’estenuante scrittura di “Ulysses”. Ciononostante, il dramma (di chiara derivazione ibseniana) presenta una ragguardevole penetrazione psicologica e, nei suoi temi di amore, tradimento e libertà intellettuale, si collega fortemente a tutte le altre opere. Il tema del’esilio (va ricordato che Joyce suggerì la traduzione italiana “esuli” e non “esiliati”) riceve da questo dramma una luce ulteriore e aiuta a comprendere la complessità dei concetti di nostalgia e di ricordo, e della scelta di Joyce di “scrivere a distanza”.
Anche Svevo, condividendo in parte la necessità di una ricreazione dei meccanismi mentali e coscienziali, è celebrato più per i romanzi che per il teatro. Anche nel suo caso, tuttavia, le commedie (in special modo “La rigenerazione”, con la sua complessa ironia e la comicità iniziale che sfiora molteplici corde emotive) rivelano elementi imprescindibili per capire la poetica dell’autore e la sua personale visione del mondo.
- Specialmente in questi ultimi anni, più di una voce, pur stimando l’Ulisse, ha avanzato l’ipotesi che qualche taglio gli avrebbe giovato. Insomma, che l’irlandese sia andato “un po’ sul lungo”. Condividi oppure no?
- Non condivido: sicuramente “Ulysses” presenta capitoli più o meno “leggibili” e le critiche verso quelli più oscuri e prolissi non sono certo sorprendenti. Ma considerando la ricchezza che si racchiude in ogni frase e in ogni parola di Joyce (che il lettore dovrebbe audacemente cercare di dischiudere) credo fermamente che se anche fosse stato più lungo avremmo avuto solo di che guadagnarne. E infine, la lunghezza equivale anche al tempo “prolungato”, non misurabile, della coscienza di Bloom e degli altri personaggi, e al fatto che la mente possiede una durata diversa da quella cronologica. Quell’unico giorno nella coscienza di Bloom è infatti un giorno epico. E la lunghezza, o meglio la durata, è dunque funzionale e direi senza dubbio essenziale per ricreare i meccanismi coscienziali.
- Perché Beckett è ritenuto l’esempio letterario più vicino a Joyce?
- Specie nei primi scritti di Beckett (“Dream of Fair to Middling Women”) l’influenza di Joyce è chiaramente riconoscibile per il virtuosismo linguistico e la creazione di neologismi. Successivamente, Beckett si è allontanato da Joyce ed è risaputo, ma spesso banalizzato, che la sua poetica ha preso una strada opposta rispetto a quella del “maestro”: se in Joyce la scrittura è caratterizzata da una continua amplificazione, in Beckett c’è una "riduzione costante", un'ossessiva ricerca del minimo espressivo, che non va però confuso con il minimalismo. Al contrario, il minimo beckettiano ha paradossalmente la stessa valenza semantica dell’ “eccesso” joyciano, così come ho affermato nel mio primo libro e in un saggio pubblicato in “The Anachronist”. Tale equivalenza tra i due segni linguistici, a prima vista paradossale, va infatti fatta risalire all’influenza su entrambi di Giordano Bruno e della sua teoria della “coincidenza dei contrari”.
- In narrativa, esistono esempi italiani che possiamo considerare eredi di Joyce? Qualcuno ha parlato, ad esempio, di Antonio Pizzuto. Per quanto mi riguarda ho dei dubbi.
Tu che mi dici al proposito?
- Effettivamente Antonio Pizzuto è stato spesso avvicinato a Joyce ma anche lui ha ammesso di sentirsi distante, specie nel trattamento dell’elemento psicologico. È vero che Pizzuto ha creato vocaboli nuovi per “rinnovare” la lingua italiana ma non è lo stesso metodo del mot-valise di Joyce che racchiude vari significati simultanei e potenzialmente espandibili all’infinito. Credo che l’esempio più vicino a Joyce sia Gadda, specialmente per la creatività linguistica e per la commistione continua di generi e stili. Come ha scritto Calvino, l’opera di Gadda è un’opera “enciclopedica” nella quale (come avviene in Joyce) lo scrittore ricrea quell’inestricabile “groviglio” del mondo e della vita. Pur se molto diverso da Gadda, anche l’originalissimo Luigi Meneghello presenta dei punti di contatto (il “gusto” della parola, l’ironia, il trattamento dell’infanzia e dell’esperienza di sradicamento).
- Oggi, fuori d’Italia, ravvisi in qualche scrittore discendenze da Joyce?
- In un saggio di prossima pubblicazione ho avvicinato l’opera di William Trevor a quella di Joyce, anche se Trevor è uno scrittore talmente “tradizionale” da sembrare anacronistico,o da sembrare sperimentale proprio per questo. Non vi è nulla dello stile di Joyce ma, a livello tematico, anche Trevor ci fornisce lo stesso mondo paralizzato di “Dubliners” o personaggi che ricordano il Dedalus Joyciano o, come ho sostenuto, la Eveline del racconto omonimo. Tuttavia, direi che non esiste nessuno scrittore contemporaneo avvicinabile davvero a Joyce, né all’estero né in Italia. E l’aspetto più tragico è che, se anche esistesse, non verrebbe mai pubblicato. O comunque avrebbe seri problemi, di natura molto diversa e ancora più triviale rispetto a quelli avuti da Joyce. Ed è molto triste.
- Come avviene a conclusione di tutte le chiacchierate con i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Star Trek mi ricorda l’infanzia e gli anni ottanta. Ricordo di averlo guardato e di essere rimasto affascinato dal concetto di esplorazione del cosmo (non è infatti un caso che il mio primo libro su Joyce si intitoli “Immarginable”, un termine che Joyce conia in “Finnegans Wake” per riassumere le teorie cosmologiche di Giordano Bruno). Come molti, ero sedotto anche dall’universo tecnologico-futuribile che vi viene descritto. Col passare del tempo però, pur essendo rimasto sempre un grande fan della fantascienza, ammetto di aver perso interesse per Star Trek per rivolgermi a un tipo di fantascienza interstellare più pessimistica e distopica (come in “Blade Runner”, “Alien”, o ovviamente Kubrick). Ma pensando a Star Trek e all’Enterprise provo sempre molta tenerezza.
- Siamo quasi arrivati a Sabatini F1, pianeta abitato da alieni monoteisti che hanno per divinità una chiamata JJ… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Rosé millesimato 2007 dei Fratelli Berlucchi consigliata dal Centrovini Arcioni … però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Ne sarei felicissimo! A patto però che ci sia un’altra bottiglia di buon vino come questo
- Stanne certo.Ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise:lunga vita e prosperità!
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