L’ospite accanto a me è Filippo La Porta. Saggista, critico letterario e giornalista.
Ben fornito d’immaginazione sociologica è osservatore dei tortuosi tracciati della nostra società, riuscendo attraverso i suoi interventi a illuminare angoli di vizi, scatti di tic, piccoli e grandi tabù, non solo di scrittura, di cui in tanti si rendono schiavi.
Nato a Roma nel 1952, collabora a quotidiani e riviste, tra cui il ‘Domenicale’ del Sole24ore, ‘Il Messaggero’, l’’Espresso’, ‘XL’ di Repubblica, ‘Left’.
Tra i suoi libri: La nuova narrativa italiana, 1995; Dizionario della critica militante (con Giuseppe Leonelli), 2007; È un problema tuo (con vignette di Dario Frascoli) 2009; Manuale di scrittura creatina, 1999; Meno letteratura, per favore, 2010.
Di un altro eccellente libro, “Maestri irregolari” del 2007 me ne sono occupato, con un intervento dell'autore, in queste pagine web: QUI.
Da qualche mese è nelle librerie, edito da Nino Aragno, “Un’idea dell’Italia”. L’attualità nazionale nei libri (pagine 370, euro 18.00).
Un libro importante che dice molto sul nostro più recente decennio e perciò interessa non soltanto chi pratica o segue da lettore la letteratura, ma è consigliabile anche a chi opera nei campi della politica, della sociologia, dell’antropologia perché serve a capire meglio i nostri anni.
- Benvenuto a bordo, Filippo…
- Bentrovato, Armando
- In questo mese che per i Terrestri è l’ottobre 2012, i tre fratelli Arcioni dell’omonimo Centrovini, stellare enoteca romana in Via della Giuliana 13, hanno consigliato d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo “Luigi e Giovanna” di Barberani … cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Filippo secondo Filippo…
- E’ uno che quando era un piccolo “lupetto”(scout) lo prendevano in giro perché aveva sempre la bocca aperta (“Ti entrano le mosche!”). Un po’ distratto, intempestivo, dispersivo… Se dividete l’infanzia tra bambini svegli e bambini un po’ tonti e sognanti, lui era tra questi ultimi. Poi ci ha messo una vita per compensare la (penalizzante, in termini sociali) tontaggine, per darle almeno uno sbocco intellettuale, creativo, etc. , ma dubito assai che sia mai veramente diventato “sveglio” (comunque: qualcuno dice che tende a dare il meglio di sé nelle parentesi, nelle digressioni, insomma proprio quando si distrae un po’ dal tema principale…)
- Scrivi nella nota introduttiva di “Un’idea dell’Italia”: “Credo quasi religiosamente nella forma della recensione […] e anzi ho nei suoi confronti una vera devozione”.
Da dove deriva tanta fiducia?
- La recensione di media lunghezza (3.300 battute, quasi due cartelle) è quella che mi corrisponde di più. E’ lo spazio in cui riesco a dire le cose essenziali, e soprattutto con il ritmo giusto. In fondo la scrittura – critica o “creativa” - è tutta una questione di orecchio. Suonavo la batteria e suono da venticinque anni le percussioni (in vari gruppi, diciamo tra etno e jazz): per me il ritmo, la battuta – quello che i suonatori di flamenco chiamano il “compas” – è tutto. Le recensioni di Solmi, Pampaloni e quelle più atipiche di Pasolini sono attraversate da un ritmo inconfondibile del pensiero e della parola.
- Recensisci nel volume sia “fiction” sia “non fiction”; le tue preferenze prevalentemente vanno a queste ultime narrazioni. Perché?
- Se dico che oggi in Italia la non fiction (saggi, memoir, autobiografie, reportage, forme ibride) è in genere meglio della fiction, più motivata e più ispirata, ancora non del tutto slegata da una grande tradizione e capace di una lingua più espressiva (penso a Pascale, Arminio, Franchini, Voltolini, ai reportage di Leogrande, o ai “fratelli maggiori” Berardinelli e Piergiorgio Bellocchio - sublimi saggisti - …) mi accusano di essere autopromozionale. Ma le cose per me stanno esattamente così.
- Quale idea dell’Italia ti sei fatta recensendo quasi 140 volumi dell’ultimo decennio?
- ll titolo potrebbe sembrare paradossale, almeno considerando certe mie posizioni precedenti, ad esempio “La nuova narrativa italiana” da te citata prima. Ho spesso sostenuto infatti che i nostri scrittori contemporanei amano “travestirsi”, mettersi una maschera che li nobilita e li rende inafferrabili. Da cosa si travestono? Da scrittori radicali, mitteleuropei, sovversivi, pensosi, molto intensi, partecipi delle condizioni degli oppressi del pianeta, etc.(una volta ho usato polemicamente l’espressione “Kitsch dell’intensità”…). Tutte identità improbabili e assai spettacolari. Dunque la loro produzione letteraria non dovrebbe darci affatto una idea dell’Italia, della nostra società, di loro stessi come realmente sono dentro questa società. Eppure proprio questa attitudine alla maschera, alla dissimulazione, alla teatralizzazione dei conflitti, ad apparire migliori o più affascinanti, etc. li rende inequivocabilmente italiani. Alla fine i 130 libri che recensisco, tra fiction e non fiction (e come detto prima, la mia preferenza va a questi ultimi), offrono alcune informazioni decisive sulla nostra mentalità, sull’ethos collettivo, sulle mode e sui vizi endemici, sui linguaggi che adoperiamo e sugli stili culturali predominanti (e un qualche caso anche gli “anticorpi” preziosi per criticare mode e linguaggi). Angelo Guglielmi, commentando il titolo, mi rimproverava un eccesso di nazionalismo. Tutt’altro! Metto l’accento sulla nazione perché occorre anzitutto capire la “attualità nazionale”, di cui facciamo parte, in cui siamo tutti invischiati, prima ancora di provare a capire la condizione umana, il senso della vita, la questione della “scaturigine” (come direbbe Emanuele Severino), le “cose ultime” (come direbbe Cacciari), il mistero della nostra effimera comparsa sulla terra, il linguaggio dell’Essere…
- Che cosa significa essere oggi, come tu sei, un critico militante?
- Dialogare con i propri contemporanei a partire dalla narrativa del proprio paese soprattutto (ma non esclusivamente), narrativa che nel bene e nel male tenta di riformulare antiche questioni e antichi dilemmi legati alla condizione umana (la vita e la morte, la felicità, la sventura, l’amicizia, il fallimento, la preghiera, la solitudine). Potrei farlo interpretando il cinema o la musica o l’arte contemporanea, ma ho sempre avuto un amore per la parola scritta e le sue virtù evocative. E poi la critica letteraria è fatta della stessa “materia” del suo oggetto, al contrario di quella musicale o artistica.
- Due domande su due momenti che hanno animato polemiche letterarie.
Non sono un ammiratore della New Italian Epic (trovo, tra l’altro, imprudente che l’acronimo sia NIE: prime 3 lettere delle 6 di “Niente”). Se la memoria mi assiste, mi pare che tu hai riserve su quel manifesto. Puoi, in sintesi, esporne le ragioni?
- Più o meno ne parlai in questi termini sul “Corriere”. Con il manifesto di Wu Ming siamo alla proposta letteraria con genealogia incorporata (da Manzoni a Pratolini) e bibliografia annessa (l’incolpevole Benjamin usato come autore New Age), a indicare una famiglia di testi troppo eterogenea. Marketing & Sovversione, Empatia per i sofferenti & Glamour mediatico. D’accordo, le storie sono asce disseppellite per non subire la storia unica. Ma più che ad asce artigianali queste assomigliano a “bombe intelligenti” dell’editoria.
- Altro movimento: T/Q. che, ricordo ai più distratti, sta per Trenta/Quarantenni.
Il tuo pensiero?
- Diffido di movimenti e manifesti. Dal “recinto” non si esce con piattaforme di gruppo ma uno alla volta, come dalla caverna platonica. Penso anche all’enfasi sul conflitto posta dai T/Q: se non viene percepito il conflitto mica può costituire un obbligo! Ne parli soltanto chi lo sente (altrimenti l’antagonismo diventa un travestimento, una maschera molto cool, il Kitsch dell’Eroismo…). No, la letteratura non “incide” mai sulla realtà, o almeno nei tempi e modi che ci prefiguriamo. Può solo rivendicare un “impegno” nei confronti della verità. Sa che la realtà è mutevole ma non modificabile. Pensare il contrario significa elaborare strategie, costruire alleanze, fare politica (dunque anzitutto modificare - in peggio - noi stessi!). La verità delle opere letterarie è inutile, impolitica, e soprattutto radicata in una esperienza sempre molto personale e gelosa del mondo.
- E’ nella letteratura oppure in altre aree espressive (arti visive, tecnoteatro, musica, fumetti, eccetera) che credi ci siano i lavori più avanzati nella ricerca di nuove modalità espressive?
- Non saprei, so solo che è il linguaggio a me più congeniale e vicino. Adoro il fumetto, però.
- Laurie Anderson canta "Language is a virus" citando William Burroughs che diceva "Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio". Segue, quindi, una domanda acconcia in un viaggio spaziale come quello che stiamo compiendo. Sei d’accordo con quella definizione? Se no, perché? E, se si, qual è oggi la principale insidia di quel virus?
- Il linguaggio come virus? Ingmar Bergman diceva che il cervello umano (mostruosamente sovradimensionato rispetto a quello delle altre specie) è un enorme tumore… Di fronte all’immensità imperscrutabile del cosmo non so più cosa è “sano” e cosa è “malato”. Quanto al linguaggio: direi che è sia il virus che il rimedio.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Benché sia un ammiratore (e,credo, tra i massimi esperti) di alcune serie televisive americane, da Csi a South Park, ti confesso che non ho mai amato Star Trek, e insomma non lo conosco abbastanza….
- Siamo quasi arrivati a La Porta-F, pianeta abitato da alieni che non si recano nel nostro paese perché hanno una certa idea dell’Italia che li scoraggia dall’impresa… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Barberani consigliata dai Fratelli Arcioni dell’omonima enoteca romana
- Beh, in verità gli abitanti del pianeta La Porta-F, come li hai chiamati, non è che siano scoraggiati dal recarsi in Italia. Sognano però (parlavo prima dei bambini un po’ sognanti...), appena storditi dal Barberani, un paese dove la bellezza - unico nostro mito unificante - torni ad essere modo di vivere, di comportarsi, e insomma moralità e civiltà, e non ornamento, gingillo chic per esteti e stilisti…
- Speriamo che questo sogno s’avveri… ed ora non mi resta che salutarti com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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